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Al tempo di Pistoia capitale della cultura: quale ruolo per la Public History?

25000 turisti nel 2017, il 20% in più rispetto al 2016, 7 milioni circa di ricavi dalle attività turistiche e culturali. E il risultato non si è disperso nel tempo, non è diventato, come direbbero i grecisti, un hapax legomena: anche nel 2018, questo trend si è rafforzato, lasciando la ragionevole speranza che Pistoia possa affermarsi nel panorama turistico-culturale italiano come una delle città d’arte di provincia dove cultura, arte, natura e buon cibo si uniscono e si fondano. Non male per una piccola città di provincia, da sempre poco visibile perché vicinissima a grandi città d’arte come Firenze, Pisa e Lucca. Questi infatti sono stati alcuni dei risultati ottenuti da Pistoia nell’anno della nomina di “Capitale Italiana della cultura” nel 2017.

Che ruolo hanno avuto, in questo successo, la Public History e le numerose mostre storiche organizzate in quest’anno? È un’esperienza di cui, proprio per le sue ricadute, diventa necessario parlare per capire come il connubio tra iniziative culturali, risorse economiche e coinvolgimento istituzionale possa suscitare non solo nuove sinergie tra tessuto sociale, urbano e culturale, ma possa essere la base da cui instaurare un fruttuoso circolo virtuoso tra impegno culturale, esigenze economiche e ricadute sociali. Un impegno che non si esaurisca nell’anno di capitale per la cultura, ma che sia radicato nelle iniziative passate e protenda verso quelle future, dimostrandosi capace di utilizzare tutte le potenzialità di cui dispone una disciplina – quella della Public History – relativamente giovane in Italia e in Europa, ma dotata di un più ampio e riconosciuto pedigree in America e in Gran Bretagna, dove già dalla metà degli anni Settanta si sentiva l’urgenza di rispondere a una domanda di passato con strumenti rigorosi e metodi scientifici.

Una genuina Public History, infatti, è quella che promuove pratiche di cittadinanza attiva e di consapevolezza civica: stimolare una conoscenza del passato non mnemonica ed episodica, ma organica e problematica, che consideri i suoi processi e le sue ricadute sui problemi del tempo presente, permette al visitatore e al cittadino di riappropriarsi in maniera attiva di tutti quegli strumenti critici ed epistemologici che gli consentiranno, quando sarà messo di fronte all’attualità, di analizzare criticamente le posizioni in gioco e di scegliere razionalmente il proprio punto di vista. E questo fine non è in contraddizione con il coinvolgimento emotivo che la scoperta e il racconto di esperienze personali e familiari può indurre; che anzi, proprio il conflitto socio-cognitivo che può scaturire dalla curiosità per le proprie radici può stimolare una maggiore attenzione per quegli accadimenti storici che alle vicende personali hanno fatto da cornice.

Senza andare troppo lontano nel tempo e nello spazio, possiamo ricordare come esempio di Public History la mostra che il nostro Istituto, nell’autunno 2013, allestì per ricostruire i bombardamenti alleati che nella notte del 24 ottobre 1943 devastarono il centro storico della città di Pistoia. Quell’iniziativa, che si avvalse degli strumenti e delle pratiche della mostra diffusa, fu riproposta con successo quando, il 31 luglio 2016, il disinnesco di una bomba inesplosa condusse all’evacuazione per otto ore di più di metà dei residenti nel centro cittadino: l’operazione fu seguita da una diretta TV locale che per l’occasione si avvalse della consulenza di uno storico del nostro Istituto (Stefano Bartolini), mentre la Mostra, allestita nuovamente nei locali della San Giorgio, contribuì ad accrescere la consapevolezza della cittadinanza verso eventi bellici che improvvisamente non apparivano più tanto lontani. E del resto gli Istituti Storici della Resistenza, come ha giustamente sottolineato Claudio Silingardi nel 2017 a Ravenna, non sono nuovi a pratiche di Public History; attività di divulgazione, mostre e iniziative progettate per un pubblico non iniziato agli studi storici esistevano già decenni prima che gli accademici “scoprissero” la storia pubblica come disciplina e pongono i nostri Istituti come gli antesignani della Public History “prima” della Public History.

Quello che però è nuovo e inedito è la consapevolezza epistemologica sottesa all’impegno di ricerca, sistematizzazione e condivisione delle proprie scoperte, nella stringente consapevolezza che la conoscenza di queste ultime non può più limitarsi agli angusti limiti del ristretto esoterico dibattito tra studiosi, ma che deve pervenire anche a chi accademico non è. E inoltre, ma, sarebbe forse meglio dire, e soprattutto: la condivisione non deve, non può riguardare soltanto i risultati della ricerca, ma deve investire anche il processo stesso che ha portato a quei risultati e a quelle conclusioni. Comprendere quali fonti il ricercatore ha vagliato, quali ha deciso di usare e come ha prospettato di analizzarle rende visitatori e cittadini partecipi del processo storico, essi stessi capaci, quando posti di fronte alle sfide dell’attualità, di cercare i documenti più appropriati e di esaminarli per formarsi con cura e coscienza una propria ponderata opinione. Ma l’arricchimento è tutto fuorché unilaterale; è stato messo talvolta in luce come la collaborazione con le comunità conduca a un processo di mutuo arricchimento e crescita, sia personale sia professionale. Apprendistato di cittadinanza attiva, pratica di indipendenza mentale e critica; «uscita dallo stato di minorità»; questo è dunque il fine a cui deve puntare, in misura costante e sistematica, l’insieme delle pratiche di Public History.

Questo è stato lo scopo del nostro panel Fare storia a Pistoia capitale della cultura: esperienze e progetti: raccontare esperienze, mostrare che tutto sono state tranne che chiuse e impermeabili alla cittadinanza. Mostrarne le ricadute, culturali mentali e sociali prima che economiche. Coesione sociale, partecipazione, consapevole appropriazione della propria identità procedono, per una volta, in parallelo con la valorizzazione di un patrimonio artistico e culturale poco considerato e con un aumento dei ricavi economici, a dimostrazione che con la cultura non solo ci si mangia, ma ci si mangia proprio bene. Questo fu il caso di Mantova, capitale italiana della cultura nel 2016, e tale è stato anche il caso di Pistoia, che dalla città lombarda ha ereditato il titolo nel 2017.

Chiara Martinelli ha ottenuto all’Università di Firenze nel 2015 il dottorato in storia contemporanea. Nel 2015 ha lavorato al Council for the European Union come redattrice e bibliotecaria. Dal 2017 è membro del Consiglio direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, istituto ai cui corsi di formazione docenti collabora.  E’ membro della redazione della rivista “Farestoria”. Nel 2019 ha pubblicato il volume “Fare i lavoratori? Le scuole industriali e artistico-industriali italiane in età liberale” nella collana scientifica del Cirse (Centro Italiano per la ricerca storico-educativa).