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2/2 – Per una storia dei movimenti giovanili a Grosseto tra gli anni Sessanta e Settanta (*)

* La prima parte di questo articolo è pubblicata alla pagina QUI

A metà decennio irruppe il femminismo a sconvolgere mentalità, prassi, perfino modalità dei rapporti personali, che sembravano consolidati tra i militanti. Un gruppo forte, a livello nazionale, come Lotta continua ne fu colpito in profondità, tanto da mettere in discussione la propria stessa continuità organizzativa. Sicuramente il femminismo fu uno dei motivi, insieme ad altri ovviamente, che la condusse infine a proclamare a maggioranza l’auto-scioglimento. La storia del femminismo a Grosseto è stata in parte già scritta: ci fu una fase all’interno dell’UDI, quindi la costituzione di un collettivo autonomo che condusse agitazioni e esperienze che derivavano da una cultura antica, ma completamente rinnovata dall’attivismo delle nuove generazioni. Tutte le compagne delle organizzazioni della nuova sinistra, qualcuna anche del PCI [1], fecero parte del collettivo femminista, senza tuttavia lasciare, generalmente, la precedente militanza, che pure generava non di rado opposizione e contrasto.

Più avanti, si diffuse inoltre una nuova consapevolezza ambientalista, che ebbe modo di manifestarsi in occasione delle proteste contro la centrale nucleare di Montalto di Castro (1977/1978), rispetto alle quali la Federazione Giovanile Comunista (FGCI) rimase ancora una volta spiazzata, ma anche la cosiddetta “nuova sinistra” fu costretta a un faticoso inseguimento.

Grosseto, manifestazione nazionale del 17 dicembre 1977 in solidarietà a una donna licenziata per tentato aborto

Grosseto, manifestazione nazionale del 17 dicembre 1977 in solidarietà a una donna licenziata per tentato aborto

Si trattava pur sempre di organizzazioni giovanili, che si trovarono tuttavia a affrontare impegni e problematiche che solo qualche anno prima sarebbero state per loro inimmaginabili. Mi riferisco anche alle scadenze elettorali. Non tanto i referendum, che richiesero comunque campagne elettorali defatiganti, quanto piuttosto le elezioni amministrative del 1975 e le politiche del 1976, per le quali fu necessario stabilire alleanze, operare mediazioni, individuare strategie. In particolare, nel 1976 fu costituito un cartello tra le forze esterne al PCI, con la denominazione Democrazia proletaria, che ottenne scarso successo. Subito dopo si avviò un processo di unificazione che localmente coinvolse PDUP e Lega dei comunisti (a livello nazionale anche Avanguardia operaia) e mantenne il nome di Democrazia proletaria, da cui si tenne fuori la componente PDUP proveniente dal Manifesto. Questi processi comportarono spostamenti delle sedi: fenomeno di una certa importanza se si considera che in tutti questi anni le sedi dei gruppi a sinistra del PCI vennero a trovarsi casualmente tutte entro una zona tutto sommato ristretta del centro storico cittadino. Altrettanto casualmente uno dei principali punti di ritrovo in questa zona era un bar (in seguito rilevato da alcuni militanti dell’ex Manifesto) frequentato da vecchi comunisti, talvolta nostalgici stalinisti, in ogni caso poco propensi a seguire il loro partito sulla linea del “compromesso” con la Democrazia cristiana. Il quartiere ne ricevette inevitabilmente per qualche anno una ben definita caratterizzazione. Infine Democrazia proletaria mantenne un’unica sede in via dell’Unione.

Non possono rimanere fuori da questa carrellata, necessariamente sommaria e volutamente soltanto indicativa, due questioni che sopra ho associato a narrazioni semplificatorie e fuorvianti: la presunta fascinazione della lotta armata e l’uso crescente di droghe tra i giovani.

Maratona del Collettivo femminista grossetano per la riapertura del consultorio, 1977

Maratona del Collettivo femminista grossetano per la riapertura del consultorio, 1977

Riguardo alla prima, si può affermare che essa non ebbe a Grosseto alcuno spazio. La presenza rimasta comunque maggioritaria del PCI e l’influenza che il partito mantenne anche tra i giovani tramite la FGCI contribuirono sicuramente, nonostante i dissensi che continuarono a attraversare la base del partito circa la strategia del “compromesso storico”, a tenere lontana ogni influenza dei gruppi terroristici, ribadendo l’irrinunciabilità dell’opzione democratica e costituzionale.  Non si deve tuttavia trascurare il contributo che dette in questo la Lega dei comunisti, che fin dall’inizio della sua attività fece muro contro ogni possibile simpatia verso gruppi del tipo Potere operaio (di Roma, Padova, Firenze: tutt’altra cosa dal Potere operaio pisano ormai da tempo disciolto), che teorizzavano la maturità dell’opzione rivoluzionaria, rimanendo tuttavia sostanzialmente isolati rispetto alle organizzazioni maggiori. L’idea che la “rivoluzione” dovesse avere per protagoniste le masse popolari escludeva, per la parte largamente maggioria del movimento,  ogni scorciatoia terroristica e faceva dei gruppi armati nient’altro che avversari da sconfiggere; così come avversari politici furono, dopo il 1977 (non certo a Grosseto dove non furono presenti se non per qualche isolata simpatia), i gruppi di Autonomia operaia, i quali, pur limitandosi per lo più a inneggiare alla lotta armata senza praticarla, costituirono certamente un terreno di reclutamento per il terrorismo. Se qualche sbandamento può esservi stato negli altri gruppi della sinistra grossetana, non vi furono ripercussioni nelle aree giovanili. Così come non ebbe alcuna ripercussione il fatto che uno degli avvocati nei primi processi contro le B.R. fosse un insegnante di un istituto superiore grossetano e neppure il fatto che uno dei membri del “nucleo storico” delle B.R. avesse vissuto fino al 1968, a Nomadelfia, a due passi dalla città (ovviamente la sua conversione terroristica fu successiva). È la dimostrazione, sia pure nella limitatezza di un’esperienza marginale, che la logica del movimento politico di massa, qual era quello che derivava dal Sessantotto, niente aveva a che fare con la logica delle “avanguardie armate”, autoproclamatesi tali in virtù di elucubrazioni teoriche da esse sole condivise. Non c’è dubbio che la vicenda di Aldo Moro, la stessa tragica discussione tra la “linea della fermezza” e la “linea della trattativa”, costituì per tutti i militanti, sia della sinistra tradizionale che della nuova sinistra, un motivo di riflessione sul valore e, insieme, sulla fragilità dell’ordinamento democratico.

Primavera 1979. Donne del "collettivo": una festa

Primavera 1979. Donne del “collettivo”: una festa

La questione “droga” fu più complessa. C’era stata fin dall’inizio, da parte di tutta la sinistra, un’ampia disponibilità nei confronti dei nuovi modi di vita che si diffondevano tra i giovani, trasmessi in gran parte tramite la musica e lo spettacolo. In seguito alcuni militanti furono coinvolti nell’organizzazione di eventi artistici (Dario Fo, molti cantautori e gruppi rock), fino a fare di questo più tardi la propria professione. Fu aperta anche una radio “libera”, che fu un’iniziativa di rilievo promossa da Lotta continua. Tutti sintomi di un’attenzione e non di rado di una condivisione delle istanze “libertarie” che, come si è visto, erano state all’origine del movimento e che pertanto erano presenti, in diversa misura, in tutte le sue componenti. Non era un mistero che questi nuovi modi di vivere, improntati al superamento di restrizioni e tabù che avevano invece dominato le generazioni precedenti, facilitassero e talvolta perfino implicassero il consumo di droghe; consumo che intanto andava sempre più estendendosi. Si sapeva d’altra parte che la diffusione di ogni genere di droga era stato uno dei fattori decisivi che aveva portato alla dissoluzione, già alla fine degli anni sessanta, del movimento giovanile americano, che pure era stato tanto potente da innescare su scala planetaria la protesta contro la guerra del Vietnam. La FGCI seguì l’azione parlamentare del partito, orientata verso una moderata depenalizzazione. Altri gruppi, nel nome della spontaneità più spinta, accettarono i primi morti per overdose come una fatalità inevitabile. Altri, di fronte a una situazione ogni giorno più grave, posero una netta distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, finendo a volte per attribuire il passaggio dalle une alle altre, che qualcuno, al contrario, dava per ineluttabile, a complotti orditi dal “nemico di classe”, o, meno irrealisticamente, da qualche organizzazione criminale. La Lega dei comunisti, che sempre ebbe una posizione anti-proibizionista, mantenne invece all’interno, nei confronti dei propri militanti, una forte rigidità, prevedendo -e in qualche caso- mettendo in atto, l’espulsione dall’organizzazione.

La differenza tra questi modi diversi di affrontare la questione si manifestò nel corso di una conferenza del sociologo Blumir, tenuta nella sede del PDUP e promossa da alcuni elementi di quel gruppo (ex Manifesto). Da una parte ci fu chi indicò nel consumo di droghe leggere un tratto, se non il tratto, caratterizzante del processo rivoluzionario in atto, in grado di coinvolgere e convincere a uno stile di vita “libertario”, pacificato e pacificante perfino quanti si dichiaravano fascisti. Dall’altra parte c’era chi riproponeva la visione classica della rivoluzione, che avrebbe dovuto risolversi non tanto in un mutamento degli stili di vita, riguardo a cui le preferenze potevano essere oltre tutto le più varie, ma in un rovesciamento dei rapporti economici e politici tra le classi sociali, rispetto a cui qualsiasi “oppiacea” distrazione, perpetrata per di più a vantaggio di un mercato internazionale della merce-droga gestito secondo logiche capitalistiche e imperialistiche, non poteva che fare il gioco dell’avversario. Senza contare che si stava imponendo a livello giovanile un antifascismo militante che era l’opposto di qualsiasi fumosa pacificazione e consisteva piuttosto in scontri aspri, talvolta in violenti tafferugli, davanti alle scuole e nelle vie della città (da ricordare un intervento piuttosto clamoroso al comizio di un esponente di estrema destra durante la campagna elettorale del 1975).

Non ha senso probabilmente stabilire oggi chi avesse ragione, ma forse ha senso capire meglio le ragioni degli uni e degli altri, in un periodo in cui le morti per overdose (in seguito si sarebbe aggiunta la diffusione del virus HIV) stavano decimando una generazione. Credo che sia consentito a chi allora sostenne la seconda delle due posizioni rilevare come l’impegno politico collettivo richiesto a giovani militanti, il confronto quotidiano con i problemi degli studenti, dei lavoratori, delle donne, degli abitanti dei quartieri periferici, lo stesso antifascismo militante, possano aver contrastato la possibilità, purtroppo incombente, di essere risucchiati nel gorgo della tossicodipendenza. Come anche ricordare che alcuni di quei giovani iniziarono proprio in quegli anni un impegno anche professionale nei servizi psichiatrici, acquisendo una diversa responsabilità personale, oltre che una più ampia competenza, nei confronti della malattia e del disagio mentale, che condusse anche a una più profonda comprensione e com-passione verso chi si trovò coinvolto in quel tragico fenomeno sociale.

Mi accorgo di aver perso nella narrazione un filo che invece sarebbe stato da seguire: quello dei giovani fascisti. Non so indicare una documentazione significativa al riguardo, a parte la cronaca locale sulla stampa. L’impressione che ho è che il MSI locale abbia sempre avuto uno stretto controllo sulla sua organizzazione giovanile e abbia quindi tenuto lontane eventuali influenze da parte di organizzazioni apertamente eversive che pure operarono largamente in Italia, godendo, come si sa, di garanzie e protezioni. Lo confermerebbe la presenza documentata di picchiatori grossetani a fianco di Almirante a Roma in un momento in cui il MSI si trovò in forte tensione non solo con il movimento studentesco di sinistra, ma anche con l’organizzazione neo-fascista Avanguardia nazionale [2]. D’altra parte, sembra che non vi sia stato alcun coinvolgimento di organizzazioni grossetane nella vicenda del “golpe Borghese”, benché vi abbiano preso parte, con ruoli di rilievo, alcuni repubblichini locali [3]. Meriterebbe piuttosto indagare le ripercussioni che sicuramente vi furono in quegli ambienti in seguito alla tragica e un po’ misteriosa scomparsa, all’inizio degli anni settanta, di un dirigente che contava qualcosa anche a livello nazionale.

Il fatto è che quei giovani fascisti arrivarono anni dopo, quando ormai non erano più tanto giovani, a conquistare l’amministrazione comunale, governando per anni la vita cittadina insieme a Forza Italia. Quando invece i gruppi della sinistra esterni al PCI non lasciarono tracce, neppure individuali, nella politica e nell’amministrazione locali [4]. Come è potuto accadere? Questa è una delle domande a cui varrebbe la pena tentare di rispondere; forse anche da qui potrebbe aprirsi qualche spiraglio di comprensione sugli anni più recenti, fino a quelli che stiamo ora vivendo.

NOTE:

[1] Fra queste deve essere ricordata Miranda Salvadori, che rappresentò un riferimento importante per le prime femministe.

[2] Mi riferisco agli avvenimenti (16 marzo 1968) successivi alla “Battaglia di Valle Giulia” (1° marzo 1968). Giulio Caradonna, che era presente, riferì dell’intervento di “minatori di Grosseto” (https://forum.termometropolitico.it/564095-il-68-nero-almirante-guido-gli-scontri-all-universita.html). Devono avergli fatto credere che Giovanni Ciaramella, noto repubblichino già condannato nel “processone” del 1946 contro i gerarchi e militi della RSI, riconoscibile nelle foto accanto a Almirante, fosse un minatore in pensione. Anche se non si può escludere che due o tre autentici minatori di Gavorrano o Niccioleta ci siano davvero stati, reclutati magari da qualche caposervizio della Montecatini che non sarebbe difficile identificare.

[3] Se ne trova qualche eco in un libro recente che ha avuto notevole successo: Teresa Ciabatti, La più amata, Mondadori, Milano 2017

[4] Un’analisi diversa dovrebbe essere fatta per i comuni diversi dal capoluogo.