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Le sirene della grande fabbrica nell’Alta Maremma

Ancora negli anni Settanta, andare a Suvereto, era considerato dagli abitanti della vicina città industriale: Piombino, un viaggio quasi a ritroso nel tempo, dentro una zona povera contrassegnata paesaggisticamente da un’abbondanza di macchia mediterranea. Per i giovani che vi abitavano il desiderio più forte era quello di sfuggire da quei luoghi, da quei boschi ricchi di cinghiali e di istrici ma poco, anzi pochissimo, di prospettive di vita allettanti.

E vicino a quel comune rurale c’era la presenza di una realtà industriale forte e consolidata che attirava con le sue sirene, sia quelle vere e proprie, sia quelle più metaforiche, ma anche forse più avvincenti, che raccontavano un inserimento diverso dentro la “modernità”: la casa in città, la centralità nel dibattito politico e culturale del tema dei “metalmeccanici”, il lavoro nella grande industria a capitale pubblico, la sicurezza del salario mese dopo mese, anno dopo anno. Non erano certo quelli i decenni del lavoro interinale, a termine o a progetto. Il lavoro alle Acciaierie, così come alla Dalmine o alla Magona, sembrava senza fine, senza scosse, dava inquadramento alla propria vita e permetteva la costituzione di un nucleo familiare appoggiato su solide premesse.

Occorre però ricordare che quell’attrazione verso i grandi stabilimenti della costa si esercitava già da molti decenni e si realizzava soprattutto tramite le donne presenti nella casa contadina mezzadrile che, quando si profilava loro la possibilità, cercavano di scappare dalla fatica dei lavori in campagna, sposando un lavoratore dell’industria. Una scelta di vita che diventava anche un vero e proprio strumento di emancipazione dalla vecchia famiglia patriarcale.

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Fonte: L. De Nigris, “Suberetum, Sughereto, Suvereto”, Comitato di Valorizzazione e Comune di Suvereto.

Questa tradizioni di “partenza verso la città industriale” che talvolta oltre ad essere quella vicina di Piombino, poteva essere anche quella un po’ più distante di Rosignano con il polo chimico della Solvay, si erano mantenute e consolidate ma erano in qualche modo soprattutto partenza di donne. Gli uomini rimanevano in casa magari aggiungevano mogli provenienti talvolta da fuori e mandavano avanti il podere.

Ma la maggiore scolarizzazione seguita alla riforma della media, l’istituto professionale legato alla siderurgia pubblica, comportò per tutto il decennio Sessanta il richiamo e la partenza anche di elementi maschili dalle campagne vicine verso un destino urbano e industriale. E questo processo si sviluppa più o meno senza fratture fino alla seconda metà degli anni Settanta.

Ma verso la fine di quel decennio, qualcosa cominciò a scricchiolare. Da una parte il tema del “rifiuto del lavoro” e del movimento degli “indiani metropolitani”, dall’altra una maggiore coscienza ecologista si irrobustì, la magia del richiamo per il lavoro senza scadenza, a tempo indeterminato, cominciò ad essere percepita come una gabbia, una gabbia dalla quale uscire. Si cominciarono a cercare soluzioni fuori dal perimetro industriale, talvolta guardando ad un turismo improbabile come quello raccontato anni dopo da Paolo Virzì nel film La bella vita, talvolta provando a fare un viaggio a ritroso, un ritorno alla campagna e da lì reinventarsi una vita, un lavoro, un’attività.

Cominciarono i primi autolicenziamenti dalla grande fabbrica (i primi casi datano 1978-79), che lasciavano soprattutto senza parole l’allora addetto all’Ufficio personale delle Acciaierie. Non c’era memoria di una tale impudenza in nessuno dei decenni precedenti.

Eppure in qualche modo, anche se sicuramente non tutti, furono percorsi a lieto fine, quei giovani che scappavano dalla siderurgia, dal mondo industriale, fecero la scelta giusta. Il tempo gli avrebbe dato ragione. Oggi, abitare a Suvereto, magari all’interno di una azienda agricola proiettata nel mondo col suo sito internet, con il suo pacchetto di relazioni, significa prima di tutto stare dentro un contesto che privilegia la qualità della vita, ma dà anche la possibilità di ricavare reddito da questa.

Non ci fu però, come talvolta si cerca di far passare, una sostituzione di un’attività con un’altra. I numeri che l’agricoltura, anche quella di qualità, mettono in gioco come possibilità di lavoro, sono assolutamente irrisori rispetto all’occupazione offerta dalle attività industriali. E questo resta il problema aperto per tutti noi.

 

 




Le agitazioni mezzadrili “bianche” del 1919 in Val di Pesa e il “Patto di S. Casciano”

Tornati dalla guerra, avevamo domandato per noi e per le nostre famiglie, alcune modificazioni al vigente contratto di Mezzadria, che senza alterarlo nelle sue linee fondamentali, erano richieste per togliere alcune ingiustizie e per riconoscere un po’ le nostre maggiori fatiche. Era sperabile che i proprietari accettassero. Invece, (…) hanno dimostrato, con indugi, con negative, con ostruzionismi, di non volere accontentarci (…). Di fronte a questo contegno, i contadini hanno dovuto prendere delle decisioni radicali per ottenere il loro intento. [«La Libertà», 14 settembre 1919]

Così, in un manifesto del 12 settembre 1919, il consiglio direttivo dell’Unione Mezzadri di San Casciano Val di Pesa proclamava l’agitazione fra i coloni dell’omonimo mandamento in segno di protesta per la mancata risposta dei proprietari alle richieste di modifica del patto colonico loro avanzate. Al pari di quanto stava accadendo a partire dall’estate del 1919 nel resto della provincia fiorentina, anche i mezzadri della Val di Pesa, scossi dalle profonde trasformazioni che sul piano sociale, economico e mentale l’esperienza bellica aveva loro suscitato, avevano iniziato una serrata mobilitazione sindacale allo scopo di migliorare le proprie condizioni contrattuali di lavoro e di vita che la guerra aveva sicuramente peggiorato.

All’uscita dal primo conflitto mondiale, infatti, il mondo mezzadrile toscano, oltre che colpito dalle rilevanti perdite umane conseguenti alla chiamata alle armi dei contadini, era stato seriamente affetto dalle ripercussioni negative dell’economia di guerra. Se l’aumento generale dei prezzi sul mercato agricolo era sembrato portare alcuni vantaggi nei redditi dei mezzadri, questo miglioramento in realtà era parso più nominale che reale: al termine della guerra l’aumento del prezzo delle derrate prodotte dai contadini si mantenne infatti inferiore a quello dei beni che essi erano costretti ad acquistare (carne, filati, carburanti ecc), mentre gli effetti dell’aumento del prezzo del bestiame e del vino andarono a vantaggio esclusivo della classe padronale e proprietaria, già beneficiata dal buon andamento generale del mercato e dall’aumento del valore fondiario. Dopo la guerra, a rendere ancor più negative le condizioni economiche dei contadini toscani e più profondo lo squilibrio esistente tra capitale e lavoro contribuì anche il carattere capestro degli stessi contratti mezzadrili, dovuto in particolare alla sopravvivenza di clausole angariche (i cosiddetti “patti accessori” che addossavano alla manodopera contadina il costo e l’esecuzione di alcuni lavori nei campi) nonché dai non rari abusi compiuti dalla proprietà nella ripartizione delle percentuali di prodotto spettanti al mezzadro; abusi e vincoli spesso inaspritisi negli anni del conflitto e che adesso divenivano oggetto critico delle rivendicazioni contadine. E in effetti, almeno in una prima fase, anziché verso una radicale revisione del contratto colonico tout court, il movimento contadino puntò più alla modifica di alcune clausole coloniche in direzione dell’attenuazione o dell’abolizione integrale dei patti accessori e a favore di una più equa ripartizione delle spese di gestione dei fondi tra capitale e lavoro.

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L’aratura (Archivio “La Porticciola – S. Casciano)

Protagoniste di questa prima fase di agitazione in tutta la provincia di Firenze furono le organizzazioni cattoliche che si mobilitarono persino con qualche margine di anticipo sulla loro controparte socialista delle leghe rosse. Nell’alveo di una tendenza a federarsi in organismi sovralocali, anche le unioni e le leghe contadine cattoliche del fiorentino diedero vita ad un organo unitario: il 1° giugno 1919 a termine di un’assemblea tenutasi a Sesto Fiorentino si costituì infatti la Federazione Mezzadri e Piccoli Affittuari di Firenze, di ispirazione cattolica. Presieduta dal colono Felice Bacci, la Federazione risultò strettamente legata al Partito Popolare Italiano e alle sue strutture fiorentine, come segnala in particolare l’attività che vi svolse in qualità di consulente legale l’avvocato, poi deputato, Mario Augusto Martini, già presidente della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, tra i fondatori e primo presidente della sezione fiorentina del partito, nonché referente della questione mezzadrile per l’intero movimento. Nell’estate del 1919, dopo che agitazioni di contadini si erano sollevate in alcuni comuni della provincia, fu appunto la Federazione Mezzadri che per prima cercò di porsi alla guida del movimento. Falliti i primi tentativi di interessare alle richieste di riforma del patto mezzadrile i singoli proprietari, la Federazione si rivolse alla neocostituita Associazione Agraria Toscana, organo di categoria degli agrari, intavolando con questa a partire dal 22 luglio 1919 una serie di colloqui attorno alla discussione di un memoriale contenente le principali richieste di parte colonica. I colloqui tra le due rappresentanze si protrassero sino al 7 agosto 1919, giorno nel quale fu raggiunto un accordo anche sugli ultimi due articoli maggiormente discussi, riguardanti l’indennità sulla solforazione e la frangitura delle olive. Il concordato così siglato, detto “Concordato di Firenze” composto di 19 articoli stabiliva tra l’altro: l’abolizione dei tanto invisi patti accessori (“e in genere di ogni prestazione di opera gratuita a favore del proprietario”, art. 8), la divisione a metà tra padrone e contadino delle spese per gli anticrittogamici e le solforazioni eseguite, il carico totale spettante al proprietario delle spese di frangitura e di trebbiatura a macchina e la definizione di un prezzo per tutte le opere prestate dal colono al proprietario “sia fuori del podere, sia, per scopi non derivanti dall’obbligo del contratto, nel podere” (art.12). Infine, all’articolo 1, si sanciva da parte padronale il “riconoscimento della Federazione Provinciale Mezzadri e Piccoli Affittuari e Unioni aggregate come rappresentanti della classe colonica da esse organizzata e riconosciuta”. Salutato con soddisfazione da parte della Federazione Mezzadri, il concordato di Firenze fu però presto disatteso dalla stessa Agraria che, poco dopo la ratifica, cominciò ad avanzare alla controparte nuove richieste e obiezioni, in modo tale che l’accordo fu di fatto inapplicato.

Venuto meno questo tentativo di contrattazione collettiva, la vertenza contadina ridiscese sul piano locale, nel tentativo di raggiungere con gli agrari accordi validi a livello municipale o mandamentale. Fu in questa fase che l’agitazione mezzadrile in Val di Pesa si distinse per portata e organizzazione. Si trattava di un’area a tradizionale vocazione rurale caratterizzata dalla generale preponderanza della manodopera mezzadrile ma anche dalla diffusa presenza di una grande possidenza terriera: a titolo d’esempio, nell’immediato primo dopoguerra nel comune di S. Casciano si potevano contare 971 famiglie contadine, delle quali 839 erano famiglie di mezzadri, a fronte di 117 famiglie di camporaioli e di 15 coltivatori diretti. Per di più, la gran parte di queste famiglie mezzadrili dipendevano dai grandi sistemi di fattoria locali: basti pensare che i 20 principali proprietari terrieri del comune (tra i quali le grandi famiglie nobiliari dei Corsini, Antinori, Mazzei, Ganucci Cancellieri, Serristori ecc) avevano alle loro dipendenze 512 famiglie mezzadrili delle 839 esistenti nel comune negli stessi anni. Una sensibile presenza mezzadrile, dunque, ma anche un significativo peso della classe padronale caratterizzavano queste campagne.

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Giovanni Chiostri rappresentante dei possidenti agrari della Val di Pesa (da “Il Giornale d’Italia” 12 novembre 1919)

Come nel resto della provincia, anche nella Val di Pesa e nel mandamento di San Casciano, la mobilitazione dei mezzadri a partire dall’estate del 1919 era stata portata avanti dal movimento delle leghe bianche legate al neonato Partito Popolare Italiano. Anche qui, in verità, in un primo tempo era stata percorsa la strada dell’accordo individuale tra contadini e padroni, senza successo. Il 16 luglio, ad esempio, intervenendo ad un’adunanza di un centinaio di mezzadri a Montagnana Val di Pesa, Enrico Frascatani, segretario della Federazione dei Mezzadri fiorentina, aveva spiegato che se sin lì l’agitazione nell’area era “abortita” lo si doveva appunto al fatto che le richieste ai padronati erano state presentate “dai singoli contadini disorganizzati e…disorientati”. Adesso, beneficiando delle nuove strutture del movimento cattolico, l’agitazione era in grado di darsi un’organizzazione più formale. A San Casciano, non a caso, la locale Unione Mezzadri nacque per iniziativa diretta della neonata sezione locale del Partito Popolare Italiano e in particolare grazie all’attività svolta in essa da Primo Calamandrei, un negoziante di “fantasie floreali” già consigliere comunale. Il 27 luglio la direzione del partito organizzò una prima riunione tra tutti i mezzadri del comune nella quale presero parola il colono Antonio Bazzani e il segretario della Federazione Mazzadri, Frascatani. All’occasione, fu letto, discusso e approvato il memoriale che in quei giorni la Federazione stava discutendo con l’Agraria; dopodiché allo scopo di costituire la locale Unione Mezzadri fu nominata una commissione composta da 15 coloni rappresentanti le principali frazioni del comune. L’Unione Comunale Mezzadri di San Casciano si costituì formalmente nell’adunanza successiva del 3 agosto, eleggendo i propri organismi nelle persone di Antonio Bazzani (Presidente), Corti Leopoldo (Vice Presidente), Secci Sestilio (Segretario), Alessandro Crociani (Cassiere). Dopo la mancata applicazione del Concordato di Firenze siglato il 7 agosto tra Federazione e Agraria, come detto la battaglia per l’accettazione del nuovo patto in tutta la provincia passò sul piano municipale. L’Unione Mezzadrile di San Casciano, preso contatto con alcuni proprietari del comune, convocò un’adunanza generale dei mezzadri per il 31 agosto alla quale intervennero Mario Augusto Martini e di nuovo Enrico Frascatani. Constatata però l’assenza dei proprietari del comune precedentemente invitati, fu approvato un ordine del giorno col quale si fissava al 5 settembre il termine ultimo perché questi facessero pervenire per iscritto la loro adesione alle richieste. Da parte padronale non vi furono però risposte, tanto che una successiva adunanza dei mezzadri sancascianesi fu convocata il 7 settembre, con la partecipazione dei soliti Martini e Frascatani e del deputato cattolico Tommaso Brunelli. Constatata ancora una volta l’assenza dei rappresentanti della controparte padronale, si decise a decorrere dall’11 settembre di iniziare l’agitazione fra i coloni come protesta per la mancata risposta dei proprietari.

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Primo Calamandrei, leader del PPI a San Casciano e promotore dell’agitazione mezzadrile nell’estate del 1919 (Archivio “La Porticciola” – S. Casciano)

Il 12 settembre, a sciopero iniziato, tutti i coloni del comune si riunirono presso il teatro Niccolini di San Casciano dove ancora Martini e Frascatani presero la parola. Considerata la tensione di quella seduta, dovuta in parte all’elevato numero degli intervenuti (circa 3.000) in parte ai reiterati silenzi degli agrari, non sorprende che venisse votato dall’assemblea un ordine del giorno piuttosto radicale col quale, rilevato che “il contegno del ceto proprietario offende e conduce a rendere impossibili nel frattempo i rapporti sociali del contratto di mezzadria”, si decideva di sospendere provvisoriamente la validità del contratto mezzadrile finché non fosse stato raggiunto un accordo. Quindi si stabiliva che a partire dal 14 settembre le famiglie coloniche avrebbero prestato la loro opera nei rispettivi poderi “a salario”, pagabile in contanti settimanalmente (15 lire al giorno per gli uomini, 10 per le donne) e secondo un orario di lavoro giornaliero di 8 ore (dalle 8 alle 12 e dalle 14 alle 18). A fronte di simili richieste e con il proseguire nei giorni seguenti di altre manifestazioni coloniche, i proprietari acconsentirono a una trattativa con l’Unione Mezzadri di S. Casciano.

Tra il 17 e il 18 settembre alla presenza del Prefetto di Firenze De Fabritiis e con la partecipazione dell’avvocato Giovanni Chiostri, consigliere provinciale per il mandamento di San Casciano e anch’esso grande possidente, si incontrarono così la Commissione dei proprietari sancascianesi (composta dal commerciante Guido Ciappi, dal conte Lorenzo Guicciardini, dal marchese Emanuele Corsini, dall’avvocato Ganucci Cancellieri, dal dottor Gino Ciofi, dai signori Zanobini e Squilloni e dal dottor Burroni) e quella dei contadini (composta da Felice Bacci, Enrico Frascani, Mario Augusto Martini per la Federazione Mezzadri, da Antonio Bazzani Presidente dell’Unione Mezzadri di San Casciano e dai coloni Vittorio Camiciotti, Liberato Giachi, Olinto Galanti, Raffaello Nardini, Luigi Callaioli, Fortunato Pecciolini, Matteuzzi). Dall’incontro uscì un concordato di 17 punti noto col nome di “Patto di San Casciano” (vedi in “documenti dalle fonti”). Si trattava di un testo che riprendeva espressamente il contenuto del concordato di Firenze al quale si richiamava negli articoli riguardanti l’abolizione dei patti accessori, la divisione a metà delle spese per gli anticrittogamici e il carico di quelle di frangitura e di trebbiatura sul proprietario. Unica differenza sostanziale risultava l’omissione del contenuto dell’articolo primo del concordato di Firenze che sanciva da parte padronale il formale riconoscimento della Federazione dei Mezzadri come rappresentante della classe colonica. Era questo il punto attorno al quale si erano concentrate le principali resistenze dei proprietari e a causa del quale forse lo stesso concordato di Firenze non era stato applicato da parte padronale. Al principio della contrattazione collettiva sostenuto dalla Federazione Mezzadri, i proprietari e l’Agraria contrapponevano infatti il diritto alla contrattazione individuale con ciascun colono. In effetti, anche durante l’agitazione dei mezzadri sancascianesi, i proprietari del comune avevano ripetutamente cercato di aggirare i propositi di risoluzione collettiva dello sciopero tentando di accordarsi con i propri coloni. Ciononostante, alla fine, il 20 settembre 1919 l’avvocato Giovanni Chiostri in rappresentanza dei proprietari del mandamento di San Casciano ed Enrico Frascatani per la Federazione Mezzadri firmarono il testo del Patto di San Casciano. L’avvenimento venne festeggiato nuovamente con una grande manifestazione pubblica al Teatro Niccolini di San Casciano nel corso della quale parlarono Felice Bacci, Mario Augusto Martini ed Enrico Frascatani.

Benché poi di fatto disatteso, anche a seguito dell’ulteriore evoluzione che l’agitazione mezzadrile assunse in tutta la provincia nel corso dell’anno successivo, il Patto di San Casciano avrebbe avuto ciononostante sensibili ripercussioni. Sul piano municipale anzitutto, esso rilanciò il peso del nascente movimento cattolico e del PPI, il quale a San Casciano, in occasione delle elezioni amministrative del 1920, ottenne la maggioranza ed espresse a sindaco del comune Primo Calamandrei, l’iniziatore dell’organizzazione cattolica contadina locale. In secondo luogo, sul piano delle rivendicazioni coloniche, il patto di San Casciano, benché in sostanza riproponesse il contenuto del concordato fiorentino del precedente agosto, in quanto scaturito da uno sciopero assunse una valenza di portata provinciale nella prima fase del movimento di riforma dei contratti colonici. Di fatto, come più tardi avrebbe ricordato lo stesso Mario Augusto Martini nel suo Le agitazioni dei mezzadri in provincia di Firenze (1921), il testo del patto di San Casciano formò la base di tutti gli altri concordati locali che in molti comuni della provincia fiorentina furono conclusi dall’organizzazione bianca nell’autunno del 1919, i quali, salvo poche eccezioni, ad esso si rifecero sostanzialmente.




La federazione lucchese del PCI e la Cantoni

Le proteste che avevano avuto luogo alla Cucirini Cantoni Coats verso la metà degli anni Cinquanta si erano fondamentalmente risolte in un nulla di fatto. La repressione, decisamente dura, aveva invece recato conseguenze spesso pesanti, riscontrabili tanto nei licenziamenti degli attivisti sindacali quanto nel trasferimento degli stessi nei reparti più duri, come la battitura e la filatura. A. G., ex impiegato della Cantoni, ha raccontato esemplificamene che, durante gli anni Cinquanta, la madre – operaia dello stabilimento – «aveva un collega malato gravemente ai polmoni, che la Direzione costringeva però a lavorare fuori, spesso al freddo, cercando di isolarlo perché tesserato alla Camera del Lavoro».

Strettamente connessa alle distorsioni introdotte dal sistema delle “gabbie salariali”, era comunque la questione salariale – tra le più esigue nella già bassa graduatoria delle retribuzioni industriali – ad occupare una posizione predominante nelle rivendicazioni sindacali. Condizione che “l’Unità” non aveva tardato a denunciare, puntando il dito contro un misero compenso quindicinale – oscillante tra le 11 e le 13mila lire – che impallidiva dinnanzi a profitti aziendali capaci di raggiungere – nel 1958, sempre secondo le stime riportate dal quotidiano comunista – quota 2 miliari e 220 milioni. I dipendenti oltretutto erano scesi approssimativamente da 4.600 a 3.000, nel mentre che di straordinaria attualità restava la battaglia condotta in prima linea dalla Filta-Cgil per garantire la parità retributiva di genere. A gravare sui lavoratori – nella lettura di Antonio Perria – persistevano soprattutto condizioni deficitarie, segnalate al giornalista da alcune maestranze in un’intervista (comunque politicizzata) effettuata pochi giorni dopo lo sciopero generale del 12 marzo 1959: «Vuol sapere come ci trattano? […] è una vergogna. Cinque anni fa dovevo badare a 25 rocchetti e oggi me ne sono stati assegnati cinquanta. Quando lascio lo stabilimento non ho più voglia di muovermi, di pensare, di leggere, di andare al cinema. A volte mi sveglio durante la notte e ripeto istintivamente lo stesso gesto che compio dinnanzi alla macchina, per otto ore e tre quarti, tutti i giorni»; «almeno ci pagassero con salari decenti», riferiva una lavoratrice più anziana: «una donna che lavora a giornata prende ogni quindicina dalle undici alle tredici mila lire. Chi si sottopone al cottimo riesce a guadagnare qualcosa di più, mai però più di mille lire al giorno».

Nell’interpretazione sindacale, la Direzione aveva risposto a questa impennata di malcontento con disinteresse, operando ulteriori tentativi di divisione che si andavano a riflettere sia nell’introduzione di premi di “buon servizio” (legati a criteri disciplinari), sia nel tentativo del proprietario Henderson di distogliere l’attenzione dai problemi di fabbrica, legando il proprio nome ad associazioni sportive e sociali sul modello dello Sporting Club scozzese. In questa dimensione, ancora sulle pagine de “l’Unità” trovava progressivamente spazio lo sguardo acuto e competente del sociologo Aris Accornero: egli vi definiva Henderson «un riformista in casa ed un reazionario in colonia», segnalando la presenza di un paternalismo ancora diffuso nel sistema di fabbrica italiano, capace di resistere sottoforma di “riverenza al padrone”; a conferma di ciò, si legga quanto testimoniatomi da due ex-delegati Cgil alla Cantoni. Il primo, parlando del padre, ha raccontato:

“Mio padre tornava a casa e piangeva per quel che gli facevano in fabbrica. Poi lui era un intagliatore molto bravo, un giorno fece un cofano, tutto scolpito, con tutti i simboli di Lucca e glielo regalò (a Henderson). Ma lui, veramente io l’ho visto più di una volta piangere perché lavorava in battitura, aveva il mal di stomaco. Era una situazione strana: da una parte queste condizioni frustravano i lavoratori, ma dall’altra con il paternalismo tenevano tutto sotto controllo”.

Così invece il secondo, sulla stessa linea:

“Quando arrivava Henderson, con gli altri capi, gli operai si mettevano in riga lungo il viale, lui passava con la macchina o a piedi e noi si applaudiva. C’era un paternalismo profondo. Avevano inserito un ragionamento che era questo, di sudditanza. Le donne, ad esempio, si sentivano così responsabili della loro macchina considerandola quasi qualcosa che loro portavano anche a casa. Non c’era l’idea di quello accanto: la fabbrica era divisa in reparti, ogni reparto in sezione, ogni sezione in piccoli gruppi e c’era un caporeparto che agiva sulla testa delle persone, dando l’idea che quella era la famiglia, era il mondo”.

Nel volere rendere un’immagine ancora più chiara, ecco come nel 1955 Oreste Marcelli introduceva un suo pezzo su “l’Unità”:

“La visita del signor Henderson al suo stabilimento […] veniva sempre annunciata molto tempo prima, e tutti si mobilitavano per riceverlo: i dirigenti della fabbrica, le autorità, i parroci. Il suo ingresso nello stabilimento era trionfale: fiori e tappeti in tutti i reparti, discorsi e regali, come per il matrimonio di un principe ereditario. Molte lavoratrici gli si gettavano ai piedi e gli baciavano le mani.[…]. Così gli era stato sempre insegnato, e loro gli manifestavano riconoscenza. Sullo avvenimento si stampava persino una rivista che raccontava la cronaca minuta di ogni passo fatto dal padrone e riportava ogni frase ch’egli si degnava di pronunciare”.

cucirini cantoni 1930-1940Alla metà degli anni Cinquanta, emergeva così un quadro ancora fortemente limitato in prospettiva rivendicativa: «nessuno – ricorda ancora A. G. – voleva perdere il posto di lavoro; la vita di fabbrica non era facile, ma il pane bisognava pur portarlo a casa». Era dunque in questa cornice che la Cgil si trovava a cercare la sua dimensione di rilancio, tra persistenti dissidi organizzativi e programmi operativi ambiziosi ma difficilmente attuabili. Non a caso Sergio Gigli (secondo quanto appuntato da Merano Bernacchi nella sua agenda), futuro leader della Camera del Lavoro lucchese, in occasione del V Congresso provinciale del Pci, aveva posto al centro della questione il fatto che «la burocrazia della Federazione» non avesse consentito «di fare nulla verso le fabbriche. La perdita di voti alla Cantoni – continuava – è il segno della mancanza di dirigenti sul posto e del sindacato» (Documento 1). Alla base di una simile riflessione si collocava principalmente un’eccessiva politicizzazione dei conflitti sindacali che troppo spesso era andata incentrandosi sul verticismo contrattuale piuttosto che sulle condizioni di fabbrica; pesava oltretutto la mancanza di unità settoriale, condizione messa in risalto già nel corso di una riunione del Comitato Federale della Federazione comunista della Versilia (Documento 2):

In alcuni settori, come a Viareggio, dove è presente un forte e combattivo nucleo di classe operaia, pesa ancora in modo assai negativo nello sviluppo delle lotte una visione ristretta, di tipo economicistico e sindacalista. Le lotte operaie sono concepite, nei fatti, come staccate dalle lotte generali e completamente isolate nell’ambito aziendale. Questi limiti settari e il permanere di una insufficiente chiarezza sui problemi dell’autonomia sindacale sono i motivi principali che hanno impedito di dare ai grandi scioperi unitari per il rinnovo dei contratti […] un più ampio respiro ed un carattere nuovo, popolare, di massa.

Certe problematiche assumevano forme ancor più complesse all’interno di uno stabilimento in costante mutamento come la Cantoni, intento ad assorbire nuova manodopera che, giovane e proveniente nella maggior parte dal contado lucchese, non aveva vissuto il clima più teso della guerra fredda e la scissione del 1948, restando sostanzialmente distante da qualsiasi parvenza di sindacalizzazione. Condizioni che tuttavia avrebbero contribuito al riemergere di una nuova conflittualità nelle sale della Cantoni, destinata a sfociare nella grande vertenza del 1963.




L’esodo dalla campagna.

Il territorio pistoiese, a differenza delle aree centrali della regione, conosceva da sempre una distribuzione della proprietà terriera peculiare, estremamente polverizzata, con una prevalenza numerica della piccola e piccolissima proprietà, spesso addirittura inferiore a un ettaro, a fronte di pochi grandi proprietà terriere. I grandi proprietari concentravano nelle loro mani la maggioranza della superficie agricola e del reddito imponibile, pur rappresentando una quota intorno al 4% del totale dei proprietari. I piccoli proprietari però solo in parte erano costituiti da coltivatori diretti. Più spesso si trattava di ceti urbani in possesso di terreni che davano a mezzadria, per ottenere in questo modo una rendita in prodotti agricoli. Queste due caratteristiche avevano da sempre frammentato e reso differenziato il movimento mezzadrile pistoiese, che infatti durante la sua storia fu afflitto da una continua debolezza nelle forme rivendicative, a cui corrispondeva però una grande forza organizzativa, pari a circa il 50% dei mezzadri durante tutta l’epoca repubblicana. Alla vigilia degli anni ’60, il movimento sindacale dei mezzadri pistoiesi era ancora una grande forza, strutturata principalmente intorno alla Federmezzadri. Ma di lì a poco le cose sarebbero radicalmente cambiate.

L’abbandono delle campagne, come fenomeno generale, era già in corso fin dall’inizio del secolo, con una significativa battuta dì arresto durante il Regime fascista. Ma dagli anni ’60 divenne un esodo vero e proprio. Giocavano vari fattori: il confronto con i salariati si era ribaltato e gli operai usufruivano di condizioni di lavoro e di vita migliori; l’esclusione dai comfort moderni delle aree urbanizzate; lo sviluppo economico che creava lavoro; la fine del patriarcato, che metteva in crisi la famiglia azienda.
I giovani non volevano più lavorare sul podere e le donne si rifiutavano di sposare i contadini. Si diffondeva il modello unifamiliare. Stanchi di non ottenere cambiamenti radicali e dell’intransigenza dei proprietari ad applicare le varie leggi dello Stato che si erano susseguite, i mezzadri iniziarono a guardarsi intorno ed a vedere vie d’uscita.

Dal 1948 al 1966 la superficie condotta a mezzadria in provincia si era più che dimezzata, passando da 34.200 ettari a 16.000. La proprietà coltivatrice diretta non era cresciuta in proporzione, anzi la sua estensione era stata modestissima, da 34.200 a 38.000 ettari. Anche l’affittanza era cresciuta poco, passando da 2.100 a 2.300. Il balzo in avanti invece l’aveva fatto la conduzione capitalista in economia con salariati, che quasi raddoppiava, passando da 18.400 a 33.000. Nel ’67 esistevano ancora 4.200 nuclei mezzadrili e 12.500 unità, dai 33.558 del 1948. Il calo continuava anche se il ritmo era meno accelerato. Nel 1964 i nuclei erano 5.656 con 19.518 addetti, nel ’65 4.840 e 15.647 unità. Tra il ’48 e il ’67 la mezzadria si era dimezzata come nuclei e aveva perso il 60% delle unità lavorative superiori ai 12 anni, anche se i dati andavano presi per difetto. L’esodo maggiore si era verificato dal 1961 in avanti Tra il 1962 e il 1965 i braccianti salariati erano più che raddoppiati, passando da 590 a 1.257, ed erano diminuiti gli occasionali e gli eccezionali, aumentando la stabilità lavorativa.

Si diffusero in quegli anni figure ibride, i “metalmezzadri”, che svolgevano attività lavorative sia nelle fabbriche che sui campi, a volte alternandole. Era il preludio all’abbandono delle campagne. Le famiglie abbandonavano i poderi in un colpo solo oppure per gradi, con i figli che se ne andavano progressivamente ed i vecchi che restavano. I proprietari iniziavano a faticare a trovare persone disposte a lavorare a mezzadria. Gli ex contadini diventarono dipendenti, artigiani, commercianti, vivaisti, non mancando esperienze imprenditoriali di successo. Le loro destinazioni erano spesso le città e i paesi vicini.

Con la legge 756 del 1964 si vietò la stipula di nuovi contratti di mezzadria. Rimanevano validi quegli già in essere. Il movimento sindacale continuò le sue battaglie per una riforma, ma venivano a mancare le forze. Dagli anni ’60 la nuova parole d’ordine fu la proprietà associata, senza tralasciare la tutela delle questioni quotidiane. Tuttavia le campagne si spopolavano e la dinamica politica non lasciava intravedere possibilità di successo. L’accento si spostava sempre più sulla caratterizzazione del mezzadro come potenziale “imprenditore” agricolo, socio dell’azienda, coltivatore diretto o socio di cooperativa, in funzione di uno sviluppo dell’agricoltura alternativo al capitalismo e basato sulla piccola proprietà contadina. Dagli anni ’70 si iniziò a chiedere la trasformazione della mezzadria in affitto. Ma ormai le campagne erano spopolate, e il movimento mezzadrile uscì silenziosamente di scena.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.




Le aziende “ausiliarie” di Prato e il proficuo rapporto tra Unione Industriale e Croce Rossa

Risulta ormai storicamente provato che la I Guerra Mondiale rappresenti una grande opportunità di sviluppo per il comparto industriale pratese. La produttività, non solamente quella delle ditte tessili, non scende mai sotto i livelli di guardia, anzi, per alcuni comparti strettamente legati alle commesse belliche, si assiste a una vera e propria crescita esponenziale degli ordini e del fatturato. Questo accade nonostante i documenti riportino continue lamentele da parte dei dirigenti del Comitato per la Mobilitazione Industriale (creato ad hoc come emanazione del Ministero della Guerra, per monitorare lo stato di salute delle industrie e il livello della produzione per l’esercito) riguardo la qualità delle stoffe di Prato: si denuncia in generale il fatto che nelle coperte da campo e nel panno grigio-verde destinato alla confezione delle divise, venga inserita una troppo bassa percentuale di lana vergine a fibra lunga, solo il 35-40%, a fronte di ingenti quantità di blousses, lana rigenerata e del famoso “rinforzo” – quelle fibre artificiali a basso costo necessarie per tenere insieme la lana meccanica pratese a fibra corta. Anche in tempo di guerra gli industriali pratesi non mancano di applicare tutte le astuzie del caso per cercare di ottenere un maggior guadagno! Nonostante questa continua lotta tra gli imprenditori e il Comitato, a Prato non manca mai il sostegno economico dello Stato, concretizzato nel costante afflusso di commesse belliche alle aziende della città laniera.

Parallelamente non bisogna sottovalutare le generali condizioni di vita e di lavoro in cui la popolazione italiana viene a trovarsi a partire dal 1915: il richiamo al fronte degli uomini, spesso unica fonte di reddito familiare, e il carovita, generato dall’improvviso aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, mettono a dura prova l’intera popolazione. Se a questo si aggiunge il malcontento per la disomogeneità delle condizioni di lavoro che esisteva fra i vari lanifici pratesi, si può facilmente capire come la situazione nel pratese fosse una vera e propria polveriera pronta ad esplodere.
È da questo sostrato di tensioni che ha origine l’imponente sciopero del 1916 organizzato dai circa 400 operai dal lanificio Forti della Briglia, in Val di Bisenzio. L’agitazione nasce per richiedere la “tariffa unica”, cioè l’adeguamento della paga per il lavoro a cottimo in tessitura su tutto il territorio pratese. Quelli concessi dalla ditta Forti erano forse i salari più bassi di tutto il distretto, ed è per questo che la protesta parte proprio dalla Briglia, allargandosi poi a tutta la città di Prato. La serrata degli industriali è tremenda, i Forti non vogliono cedere, tanto che vengono sospesi i sussidi alle famiglie dei richiamati in guerra e si minaccia lo sfratto delle mestranze coinvolte nello sciopero. Solo dopo mesi di agitazioni, sotto la minaccia sindacale dello sciopero generale, anche l’Unione Industriale si adopera per la ricomposizione del conflitto e gli operai ottengono la tanto agognata tariffa unica, una prima, importantissima vittoria.

forti 1L’eco di questi concitati avvenimenti arriva anche al governo nazionale, che immediatamente, cercando di operare affinché agitazioni del genere non risuccedano, il 10 novembre 1916, con decreto ministeriale, dichiara “fabbriche ausiliarie” le quattro più grandi aziende pratesi: il Fabbricone, il lanificio Forti, la cimatoria Campolmi e il lanificio Cangioli. Essere fabbrica ausiliaria, non implicava solo un cambiamento dal punto di vista produttivo, perché di fatto si è obbligati a lavorare esclusivamente a fini bellici, ma anche e soprattutto una generale militarizzazione delle maestranze, esonerate sì dall’arruolamento, ma obbligate a sostenere determinati ritmi e condizioni lavorative.

 Nel corso della guerra, quasi tutte le ditte che raggiungono le dimensioni di “media impresa”, ottengono lo status di fabbrica ausiliaria: oltre le quattro grandi aziende sopra citate, vengono militarizzati il lanificio Romei, la Calamai Brunetto, il lanificio Cavaciocchi, la Magnolfi, il polverificio Nobel ecc…

 Alla fine del conflitto la città di Prato aveva prodotto coperte da campo e casermaggio e panno grigio-verde per un valore di 177.943,038 lire.

In questo quadro di complessiva prosperità delle aziende pratesi, risulta più facile comprendere l’importanza assunta dall’Unione Industriale nei confronti di tutti i fenomeni di assistenzialismo e beneficenza; anche grazie alle commesse statali, l’associazione degli industriali riesce ad accantonare ingenti somme per il “fondo di beneficenza”; in quest’ottica risulta per loro quasi naturale rivolgersi alla Croce Rossa perché questo fondo sia ben destinato e risulti utile sostegno alle vittime di guerra.

forti 3A Prato, al momento della costruzione degli ospedali militari da parte della Croce Rossa si assiste a una miriade di gesti di solidarietà da parte degli industriali, sia a livello privato, che come Unione: c’è chi offre la propria vettura con autista, come il Cangioli e il Canovai, chi si impegna a fornire quantitativi sempre crescenti di borra (lo scarto lanuginoso della filatura cardata) usata per riempire i materassi delle lettighe, come la fabbrica Forti, chi regala coperte (quasi tutti i lanifici) e chi contribuisce con pane e pasta per i ricoverati, come il pastificio Ciampolini, erede di Antonio Mattei, il famoso “Mattonella”. Da parte sua l’Unione Industriale non è da meno, in quanto finanzia la costruzione dei due ospedali territoriali di Croce Rossa con un investimento iniziale di 10.000 lire e continuerà a contribuire fino al 1918, con un contributo mensile di 3.500 lire al mantenimento dei vari reparti ospedalieri.
Questo proficuo e duraturo rapporto tra Unione Industriale e Croce Rossa in una situazione di emergenza come risulta essere quella bellica, non manca di essere sottolineato con continui e solenni ringraziamenti da parte dell’ente benefico: alla fine del conflitto il Comitato Centrale della CRI farà richiesta del diploma di benemerenza per l’U.I.P., che riceverà la Medaglia d’Argento.

Una vicenda particolare e degna di nota è quella che riguarda il rapporto tra Croce Rossa e il Fabbricone, il lanificio Kössler, Mayer & Klinger, l’unica azienda tessile pratese a capitale austro-tedesco. Come è facilmente intuibile, il Fabbricone, proprio per la natura dei suoi proprietari e per la presenza di quadri e tecnici di nazionalità austriaca e tedesca, è oggetto di una pesante campagna diffamatoria da parte dei nazionalisti pratesi, che ne avrebbero addirittura voluto lo smantellamento. Di fatto, però, i 1200 telai e i 1500 operai impiegati sono una risorsa non trascurabile per il Comitato per la Mobilitazione Industriale, che di fatto ignora queste remore iniziali e dichiara ausiliaria la più grande azienda tessile pratese. Anche la Croce Rossa, probabilmente influenzata dal clima di sospetto cittadino nei confronti di questo “gigante produttivo straniero” si trova in difficoltà a gestire i rapporti con il Fabbricone, che come molte altre ditte pratesi vuole rendersi utile e offrire sostegno all’ente benefico. I dirigenti della fabbrica, oltre a donazioni pecuniarie e di materiale tessile, addirittura offrono alla CRI parte dei loro locali per l’allestimento di ospedali e punti di pronto soccorso; il Comitato della CRI, dopo aver inizialmente accettato la generosa offerta, si vede costretto a rifiutare e compiere un passo indietro, anche in considerazione dell’atteggiamento negativo di una parte importante della società civile pratese, che arrivò a raccogliere centinaia di firme contro detta iniziativa in un documento intitolato “Viva l’Italia! Abbasso l’Austria!”.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano:

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.




Teresa Meroni e la marcia delle donne

Chi era Teresa Meroni? Quale fu il suo impegno di sindacalista e attivista per la pace durante il periodo della Grande Guerra? Rispondere a queste domande significa approfondire non solo la storia personale che la portò in Val di Bisenzio, ma anche indagare le condizioni socio-economiche che caratterizzavano quel territorio di precoce industrializzazione posto a Nord di Prato.

Legata al lombardo Battista Tettamanti da una “scandalosa” relazione che sarà sancita da matrimonio civile solo nel 1930 (tra l’altro dopo la nascita dell’unico figlio Vladimiro), la Meroni nacque a Milano nel 1885 da una famiglia operaia e subito, da giovanissima, si iscrisse al Partito Socialista da poco nato a Genova. L’attività politica e sindacale che svolse nel comasco accanto a Tettamanti, a cui nel 1915 fu affidata la segreteria della Lega Laniera di Vaiano,  avrebbe posto le premesse alle battaglie condotte successivamente in Val di Bisenzio. La sua vicinanza profonda al mondo contadino e operaio del comasco maturò in lei una forte consapevolezza del fatto che i diritti dei contadini e degli operai sarebbero stati conquistati solo grazie alla rivoluzione (Teresa era una seguace del socialismo rivoluzionario alla Sorel).

Giunta in vallata appena trentenne Teresa Meroni si trovò di fronte a una situazione socio-economica diversa da quella a cui era abituata nel comasco: in Val di Bisenzio le fabbriche tessili erano legate al ciclo della lana “meccanica” o rigenerata e le famiglie contadine seguivano il modello della mezzadria toscana. Erano tempi difficili, ma c’era la speranza di un miglioramento della vita quando si lasciava la campagna per andare a vivere in città. Speranza che andò esaurendosi con l’entrata in guerra dell’Italia, avvenuta il 24 maggio 1915.

All’inizio della Prima Guerra Mondiale Tettamanti fu richiamato alle armi nel 171° battaglione della milizia territoriale e Teresa Meroni si trovò a sostituirlo, assumendo la guida della Lega Laniera di Vaiano. Si trattò di un fatto epocale, perché la Meroni prima di allora non faceva parte nemmeno del Consiglio Direttivo della Lega, come del resto nessun’altra donna. Da allora si distinse per la sua strenua attività di pacifista, tant’è vero che il commissario Luigi Morelli, in una testimonianza del 19 luglio 1917, affermò che la donna per mesi cercò di “catechizzare le donne e i ragazzi, e indurli a fare una dimostrazione contro la guerra”.

In effetti i sospetti del commissario di pubblica sicurezza non erano infondati: il 2 luglio 1917 da Luicciana, piccola frazione di Cantagallo, partì una marcia di quattrocento donne alla volta di Prato. Il gruppo di protesta passò davanti ai principali stabilimenti produttivi di Vernio. Decisero di unirsi alla manifestazione le “fabbrichine” del tappetificio Peyron a Mercatale e anche quelle contadine per lo più provenienti da Gricigliana, che erano entrate in fabbrica per colmare l’assenza degli uomini richiamati al fronte. L’intenzione delle scioperanti era di raggiungere Prato, così da allargare anche alla città laniera la protesta sociale contro una guerra ritenuta ingiusta e per rivendicare condizioni di vita e di lavoro dignitose. La Prefettura decise di intervenire con un reparto di cavalleggeri, ma le donne scelsero di proseguire comunque, nonostante il pericolo delle cariche.

Il corteo, che si ingrossò nei pressi di Coiano, riuscì a superare lo sbarramento dei cavalleggeri nei pressi di San Martino, dove però una decina di donne fu arrestata. La marcia riuscì comunque a raggiungere le carceri, dove furono liberate alcune donne fermate. Una volta giunta in prossimità della stazione ferroviaria, la protesta fu bloccata dalla polizia e il corteo si disperse per le vie del centro. L’agitazione però non si fermò qui: fino al 9 luglio si protrassero episodi e sommosse diffuse dalla Val di Bisenzio sino alle porte di Pistoia, e infine tutto si concluse con l’arresto di 56 persone.

Prato '50 Teresa Meroni parla alle operaie tessiliTeresa Meroni fu ritenuta (a ragione) responsabile delle agitazioni avvenute. Rimase in carcere tre mesi ma, una volta uscita, riprese la sua propaganda politica, soprattutto in favore della conquista dei diritti femminili. Per questo motivo fu allontanata dalla Val di Bisenzio e spedita al confino in Garfagnana, dove sarebbe rimasta fino alla fine della guerra.

La protesta, prettamente di stampo politico, per le autorità fu allarmante per il fatto che a guidarla fosse stata una “rivoluzionaria di professione”, ritenuta pericolosa “per le sue idee socialistiche rivoluzionarie, antimilitaristiche, maniacali”. Come ricordano Annalisa Marchi e Alessandro Cintelli, l’idea mazziniana di donna paragonabile a un “angelo della famiglia” era quanto mai una sbiadita immagine rispetto a quella dipinta dalla vita della Meroni: “dal punto di vista delle autorità di polizia, a ragione Teresa risultava un’agitatrice estremamente pericolosa perché la sua opera di propaganda scardinava i punti fondanti della mentalità del tempo, giustificando nell’immaginario collettivo l’idea che le donne potessero mettersi a capo della rivolta contro la guerra” e pretendere un ruolo che non fosse subalterno come quello che le donne avevano avuto sino a quel momento.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano: 

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Letizia Magnolfi si è laureata in Scienze Storiche nel 2012, con una laurea magistrale in Storia delle Dottrine Politiche. Ha collaborato con la Fondazione CDSE di Vaiano per la realizzazione della mostra 1944: l’ultimo anno di guerra a Schignano (aprile 2011) e ha recentemente vinto un concorso fotografico intitolato Immaginare…ascoltare, ricreare il lavoro, sempre a cura della Fondazione. Attualmente sta svolgendo un tirocinio di formazione presso la Rete Civica del Comune di Prato.

Tra le sue pubblicazioni:
A  proposito dell’USIA. Il ruolo dei mezzi di comunicazione negli anni ’60 della guerra fredda, Instoria, N. 42, Giugno 2011 (LXXIII)
Dal movimento Demau al femminismo di Oggi. Cosa è rimasto?, Instoria, N.41, Maggio 2011 (LXXII)




Stato sociale anni Cinquanta: le carte dell’ENAOLI di Rispescia

L’archivio della Fattoria-Scuola E.N.A.O.L.I. di Rispescia (GR) può essere definito,a buon diritto, un piccolo tesoro. La sua acquisizione da parte dell’Istituto grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea si è rivelata essere, sin dal primo sondaggio sulle carte, una grande fortuna per la ricerca e il patrimonio archivistico del territorio grossetano: il fondo rischiava seriamente il disfacimento, anche fisico, essendo rimasto per lungo tempo nei locali dell’ex-Collegio dell’Ente Nazionale Assistenza Orfani dei Lavoratori Italiani di Rispescia senza alcuna cura. Grazie all’iniziativa dell’associazione degli ex-allievi, e della Direzione dell’Istituto grossetano, le carte sono pervenute nei locali di quest’ultimo, pronte per i primi sondaggi e la definitiva sistemazione archivistica.

La Scuola professionale di formazione agricola di Rispescia, e l’Azienda di produzione agroalimentare ad essa associata, vennero costruite ed organizzate su iniziativa del succitato Ente Nazionale Assistenza Orfani dei Lavoratori Italiani, ente di diritto pubblico istituito inizialmente già nel 1941 (legge n.987 del 27 giugno) dal regime fascista con l’intento di coordinare in modo organico l’assistenza alle famiglie dei caduti sul lavoro, successivamente riconfermato nella sua esistenza e nelle sue funzioni con il decreto n. 327 del 23 marzo 1948. L’Ente, con sede centrale a Roma e uffici periferici nei capoluoghi delle province in cui sorgevano o sarebbero sorte le strutture di accoglienza ed educazione, operava sotto l’egida del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale; il suo scopo precipuo era finalizzato all’educazione morale, civile e professionale – sino al diciottesimo anno di età – degli orfani dei lavoratori mediante l’istituzione e la gestione di collegi-convitti o il ricovero in strutture gestite da altri enti, all’interno delle quali avrebbe dovuto curare l’avviamento professionale e il collocamento degli orfani assistiti. L’attività dell’Ente sarebbe proseguita fino al 1977, anno in cui il d.p.r. n. 616 del 24 luglio ne avrebbe decretato la soppressione nell’ambito della più generale riforma sulle autonomie locali e sul decentramento dei poteri alle Regioni.

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Immagine della fattoria-scuola di Rispescia nel 1956 (Fondo fotografico Fratelli Gori, Grosseto)

I lavori di edificazione della fattoria-scuola di Rispescia, iniziati nel 1952, si conclusero nel 1955; la struttura poteva dirsi a regime a partire dal 1958, anno di completamento del primo ciclo scolastico. Fino al 1962 il piano formativo degli allievi prevedeva un ciclo scolastico post-elementare unico della durata di 6 anni; in quell’anno una generale riorganizzazione dell’assetto della Scuola professionale (nel frattempo elevata dallo Stato italiano a scuola pubblica con l’attestato finale fornito di valenza statale) avrebbe ridotto a 3 gli anni del ciclo post-elementare, introducendo 3 anni di Istituto professionale superiore. Fra il 1955 e il 1973 (stando ai dati raccolti nell’ambito di una ricerca interna compiuta in quell’anno), circa 650 ragazzi sarebbero stati ospitati a Rispescia: in maggioranza provenienti dal Sud e dalle Isole (molti dei quali trasferiti in Maremma da altri Istituti E.N.A.O.L.I. del Centro-Sud), in seconda battuta dalla provincia di Grosseto e più in generale dal Centro Italia; pochissimi i ragazzi provenienti dal Settentrione.

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I ragazzi dell’ENAOLI di RIspescia impegnati nell’azienda agraria, 1956 (Fondo fotografico Fratelli Gori, Grosseto)

Le carte dell’archivio acquisito dall’ISGREC presentano una ricchezza qualitativa ed una completezza quantitativa assolutamente straordinarie: esse ci restituiscono un quadro oltremodo particolareggiato e ricco di informazioni su tutta la vasta gamma di attività che caratterizzavano la vita quotidiana della Fattoria-Scuola di Rispescia. Le oltre 220 buste che lo compongono restituiscono un affresco interessantissimo sull’attività scolastica (cartelle personali degli allievi complete di pagelle, profili psicologici, informazioni anagrafiche e sul collocamento al lavoro), sulla conduzione del Convitto (contabilità della mensa, spese per l’alloggiamento degli orfani, acquisti della biblioteca e della discoteca ecc.), sull’Azienda di produzione annessa (piani annuali di produzione e colturali, contabilità, attività sperimentali come quella relativa ad un impianto metanifero attivo sin dal 1955 ecc.).  Il fondo contiene poi ancora serie particolarmente regolari sul personale (sia didattico che amministrativo), la corrispondenza istituzionale e privata della Direzione, e infine, ma non ultimo per importanza, il fondo bibliotecario dell’Istituto professionale che aspetta ancora uno spoglio approfondito.

L’ISGREC, facendo tesoro del contributo regionale nell’ambito del programma “Giovani Sì, ma consapevoli” 2014-2015, ha portato a compimento, al termine di un anno di proficua attività di spoglio e sistemazione delle carte, una fase di mappatura preliminare della consistenza archivistica del fondo E.N.A.O.L.I. che offre alla ricerca e alla consultazione uno strumento prezioso e già operativo. Questo fondo archivistico, così interessante e prezioso per la conservazione e l’indagine di un pezzo non secondario della storia di Grosseto e del suo territorio, attende pur tuttavia una prosecuzione delle operazioni di catalogazione e di eventuale ricondizionamento, che una realtà come quella grossetana, sommamente bisognosa di fare luce sul suo passato, merita senza dubbio alcuno.




La Firenze industriale di primo ‘900

All’inizio del Novecento, sull’onda del decollo economico dell’età giolittiana, anche la struttura industriale fiorentina conobbe un forte sviluppo. Quali caratteristiche assunse lo sviluppo industriale di una città a lungo dominata dagli interessi del notabilato agrario-finanziario?

Un buon punto di partenza per ricostruire il tessuto produttivo della Firenze dell’epoca sono le fonti statistiche ufficiali (censimenti, annuari, statistiche industriali), messe a confronto e integrate con i dati nominativi delle aziende censite nel 1904 dall’ Indicatore generale della città di Firenze. Riportando su una pianta della città la lunga lista di indirizzi di industrie reperiti su queste fonti è possibile farsi un’idea della localizzazione delle imprese cittadine tra fine ’800 e primo ’900.

È evidente, a colpo d’occhio, la notevole consistenza dei settori metallurgico-meccanico e tipografico-editoriale, che si impongono come i più rappresentativi della realtà economica dell’epoca, sia per il numero degli stabilimenti sia per la consistenza degli addetti. Inoltre, è interessante notare come la loro localizzazione contribuisca a disegnare nel contesto urbano una sorta di geografia industriale separata e distinta. Le fonderie e le officine meccaniche erano ubicate perlopiù nelle aree periferiche lontane dal centro storico, mentre gli stabilimenti tipografici e le case editrici erano concentrate nelle vie centrali di Firenze, dando forma a una geografia industriale che, in un certo senso, incarnava e perpetuava due identità della città: da un lato, l’industria nelle sua accezione più moderna, dall’altra le attività legate alla produzione di beni culturali della Firenze città d’arte e “Atene d’Italia”, spesso con intere strade dedicate a particolari lavorazioni o commerci (si vedano gli orafi intorno al Ponte Vecchio o la lavorazione del legno in via Maggio).

Il panorama che ne emerge, inoltre, è caratterizzato dalla prevalenza della piccola e piccolissima unità aziendale, con un numero notevole di imprese gestite dal solo proprietario, e da settori largamente incentrati sul lavoro a domicilio. Dalla confezione di abiti alla preparazione di accessori in pelle, dalla lavorazione della paglia al ricamo, dal mosaico al mobile, il lavoro a domicilio risulta in effetti una componente essenziale del modo di “fare industria” della produzione manifatturiera fiorentina.

Nonostante la presenza di ditte ragguardevoli per la realtà dell’epoca – come la Società anonima Fonderia del Pignone, l’Officina Galileo, le Officine Ferroviarie, le Manifatture Tabacchi -, il tessuto industriale della città appare insomma frantumato e disperso in una miriade di situazioni produttive spesso molto differenti, fra le quali non è facile tracciare una precisa linea di demarcazione. Lo stabilimento come la piccola officina e il laboratorio, lo studio come la bottega dell’artigiano e la casa dell’operaio rappresentavano i diversi e molteplici luoghi della produzione, in una serie di interazioni e compenetrazioni che rinviavano a un universo composito e dinamico, non assimilabile alla fabbrica moderna, ma ugualmente figlio dei meccanismi innescati dalla rivoluzione industriale.

Ing. Pietro Veraci

Ing. Pietro Veraci

Accanto a questo tessuto fatto di micro-aziende, crescevano e si rafforzavano industrie più moderne. Proprio nei primi anni del secolo, alcune imprese cittadine si erano trasformate in società anonime, a conferma dell’esistenza anche a Firenze di importanti fenomeni di concentrazione produttiva e finanziaria. La fonderia dell’ing. Pietro Veraci, per esempio, nel marzo del 1905 si era costituita in società anonima con un capitale sociale di 800.000 lire e si stava dotando di nuovi reparti; la Fabbrica di automobili Florentia, divenuta società anonima nel 1903, aumentò il suo capitale per ben due volte tra l’aprile del 1905 e il marzo 1906 e conobbe un notevole potenziamento occupazionale, passando dai 55 addetti del 1904 ai 195 del 1907. Tuttavia, anche nel comparto metalmeccanico – settore che in quegli anni aveva assunto un ruolo trainante nel processo di industrializzazione nazionale – la realtà fiorentina si caratterizzava per la prevalenza di una meccanica di tipo leggero, ancorata a produzioni che non richiedevano grandi investimenti di capitale fisso. Nella varietà delle tipologie produttive figuravano però anche realizzazioni ad alto contenuto tecnologico quali, ad esempio, gli strumenti ottici prodotti dalla Galileo per la Marina militare. La storia stessa delle maggiori industrie metalmeccaniche fiorentine (Pignone, Galileo…) mostra, al contempo, l’esistenza di un processo di crescita e di rinnovamento dell’apparato industriale locale e il persistere di difficoltà ad adottare forme di organizzazione del lavoro più razionali e moderne. Pertanto, almeno nel primo quinquennio del ’900, l’industria metalmeccanica fiorentina non sembra conoscere quella radicale svolta nell’organizzazione del lavoro che era in atto già dall’ultimo ventennio dell’Ottocento in alcune grandi aziende metalmeccaniche dell’Italia del Nord. Ancora all’inizio del ‘900, l’industria fiorentina cresceva soprattutto grazie alla moltiplicazione di piccole unità aziendali scarsamente meccanizzate.

Questo fenomeno si riscontra anche in altri settori importanti nella realtà industriale cittadina. È il caso del variegato universo produttivo censito sotto la voce “industrie diverse”, di cui il settore tipografico-editoriale era di gran lunga il più rappresentativo. Accanto ad iniziative come quella avviata nel 1897 dal tedesco Leo Samuel Olschki, legato al mercato antiquario e agli ambienti culturali e accademici (italiani e stranieri), o ad alcuni stabilimenti più grandi – come quello di Antonio Civelli –, troviamo un fitto tessuto di piccole e piccolissime tipografie orientate a una produzione più propriamente commerciale volta a soddisfare la domanda proveniente da un turismo che, se non era ancora di massa, vedeva muoversi sulla scena cittadina flussi consistenti di persone, perlopiù straniere, interessate ad acquistare cartoline illustrate, carte decorate e incise in oro e colori, lavori artistici in carta e cartonaggi, incisioni, litografie di paesaggi e architetture della Toscana.

Antonio Civelli (Milano 1850- Firenze 1930). Editore, presidente della Camera di Commercio di Firenze 1891-93

Antonio Civelli (Milano 1850- Firenze 1930). Editore, presidente della Camera di Commercio di Firenze 1891-93

Al fine di valutare le caratteristiche della crescita dell’industria fiorentina di inizio secolo occorre guardare anche a tutte quelle lavorazioni che facevano ancora ampio ricorso al lavoro a domicilio. Stando a un’indagine della Camera di Commercio del 1904, nella confezionatura di biancheria – una manifattura che aveva un certo rilievo in una città che da qualche decennio aveva visto crollare le ultime vestigia di una attività tessile degna di nota – erano occupate a Firenze circa 500 «operaie cucitrici adibite da sole o in piccoli laboratori a questa fabbricazione». L’impiego di manodopera a domicilio era largamente diffuso e sottostimato, a causa della difficoltà di censire l’effettiva entità del fenomeno, anche in altre attività del settore come, per esempio, nella cucitura di divise militari.

Un altro aspetto che contraddistingueva la struttura produttiva fiorentina era la vivacità delle lavorazioni censite sotto la voce di Arti decorative ed industriali (1904). Ad accomunare queste produzioni non era la materia prima utilizzata o l’adozione di determinati procedimenti trasformativi, bensì l’attenzione riservata alle “qualità artistiche” del prodotto. La notevole varietà dei materiali adoperati – dal ferro al legno, dal vetro al merletto, dal marmo alla porcellana -, dei prodotti e la notevole eterogeneità delle figure coinvolte – dall’apprendista al piccolo imprenditore – dimostrano come la risorsa principale del settore fosse costituita dal patrimonio di mestieri recuperati dalla lunga tradizione artigianale fiorentina. Questo settore era caratterizzato da un fitto e variegato tessuto produttivo: la produzione artistica di più alto livello conviveva con l’attività di copiatura di opere d’arte – una vera e propria “industria della replica” – molto diffusa a Firenze in quegli anni, che traeva alimento dalla presenza di radicate colonie di stranieri e da un turismo d’élite particolarmente sensibile ai richiami del “prodotto artistico”. Accanto a questo lavoro di riproduzione e di imitazione di oggetti d’arte mutuati dalla tradizione tardo-rinascimentale – come per esempio le fedeli riproduzioni dei Della Robbia della Ditta Cantagalli o le pregiate terrecotte artistiche della Manifattura di Signa – si era notevolmente sviluppata la produzione di beni di consumo e di componenti per l’arredo (domestico e urbano) in stretta connessione ai progetti di ristrutturazione urbana degli anni Ottanta dell’Ottocento.[foto 6]

Dunque, la Firenze di primo ‘900 descritta da queste fonti si caratterizza per un impasto originale di specializzazione artigianale e di ammodernamento industriale. Funzionale all’idea di Firenze “città d’arte e di cultura”, tanto cara al ceto dirigente moderato toscano, questa struttura produttiva era il frutto di una trasformazione, di un adattamento della tradizione corporativa e artigiana alle esigenze della competizione industriale e ai cambiamenti del mercato. Accanto agli stabilimenti più grandi, che impiegavano macchine e motori, cresceva un fitto tessuto di piccole aziende a carattere familiare organizzate con criteri semi-artigianali. Era varia la tipologia dei luoghi adibiti alla produzione: dalla piccola officina, dove ritmi e cadenze del lavoro artigianale si alternavano a forme produttive più moderne – seriali ma di qualità – ai ricoveri per poveri; dalle scuole professionali, dove il motivo dell’apprendistato si saldava con quello della produzione, alla casa-laboratorio dell’operaio. Tra questi mondi c’erano contatti e interazioni reciproche, ma parallelamente si andavano sviluppando forme di associazionismo e di rappresentanza differenziate e articolate per categorie e classi, a cui il decollo industriale e la crisi del blocco di potere moderato avrebbero dato nuova visibilità nella Firenze degli anni giolittiani.