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Giulia Faldi: un’antifascista nelle carte del Casellario Politico Centrale

Le carte del Casellario Politico Centrale rappresentano una fonte imprescindibile per lo studio delle norme e delle modalità fasciste di sorveglianza politica. Inaugurato in piena età crispina con la circolare 5116 del 25 maggio 1894, l’allora Servizio Schedario nacque come strumento di controllo e di repressione del sovversivismo anarchico e socialista. Un’istituzione coercitiva che, con l’avvento del regime, si avvalse di un inquadramento sempre più rigido e strutturato, passando da mero archivio ad ufficio autonomo sotto le dipendenze della I sezione della Divisione affari generali e riservati della P.S. Come recentemente osservato da Gianluca Fulvetti, fu durante la fase di costruzione dello “stato totalitario” che «questo sistema venne integrato dal fascismo con gli strumenti repressivi previsti dalla sua legislazione eccezionale»1; di conseguenza – riprendendo le parole di Andrea Ventura – ai «rapporti prettamente descrittivi delle prime segnalazioni si aggiunsero delle informative standardizzate e un sistema di controllo periodico capace di abbracciare l’intera vita del sorvegliato e di arrivare […] in ogni angolo del pianeta»2.

Dal punto di vista della ricerca, tuttavia, l’esame della dimensione repressiva costituisce solo una faccia della medaglia. Un’importanza analoga, se non superiore, è relegabile a due campi d’indagine distinti ma convergenti: quello degli antifascismi e quello degli antifascisti. Certo, sarebbe impossibile riassumere in poche righe un dibattito storiografico complesso e di lunga durata. Ciononostante, nel tentativo di ricostruire le molteplici forme di opposizione al regime, è doveroso sottolineare quanto e come una lettura critica dei fascicoli del CPC (che si chiudono con il 1943) possa consegnare agli studiosi importanti indicazioni al riguardo. In questa sede ne evidenzierò due, le più significative al fine di problematizzare la vicenda posta al centro della disamina.

Anzitutto, l’importanza della relazione tra spazio (inteso come spazio di controllo politico) e luogo (inteso come perimetro geografico)3. Negli ultimi anni è stata sottolineata la necessità di un confronto più attento fra la dimensione locale del fascismo e quella del regime a livello nazionale4. Un’indicazione volta a comprendere meglio le vicendevoli influenze tra centro e periferia, analizzando in chiave bilaterale l’eterogeneità delle dinamiche provinciali e le specificità del controllo sociale. Le carte del CPC, da questo punto di vista, assumono le vesti di un duplice osservatorio privilegiato: da un lato, se integrate con i fascicoli delle questure locali o con gli interrogatori, le sentenze e i rapporti provenienti dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e dai tribunali penali, possono aiutare a scavare nelle continuità e nelle rotture dei fascismi locali5; dall’altro, attraverso le inedite angolature socio-economiche, politiche e conflittuali rinvenibili dalla documentazione, forniscono un mezzo rilevante per esaminare da vicino gli sviluppi territoriali – non sempre omogenei – dell’antifascismo.

Si colloca qui la seconda linea di ricerca, quella relativa agli antifascisti. Un universo complesso nel quale i fascicoli del CPC divengono una bussola in grado di svelare, oltreché il «profilo e la mentalità delle istituzioni e dei dipendenti pubblici preposti alla sorveglianza e alla repressione del dissenso, […] le voci dirette, e dal basso»6  del sovversivismo. Certo, non si può attribuire alle carte una completezza che, in alcuni casi, si smarrì nella fitta rete intrecciata dalle sacche d’opposizione. È comunque possibile cogliervi la trasversalità dell’antifascismo, le differenze tra «antifascismo popolare» e «antifascismo politico», le traiettorie e le forme del fuoriuscitismo antifascista e occupazionale (soprattutto verso la Francia e il Belgio, ma anche verso il Sud America e i richiami della Guerra civile spagnola), fino a ricostruire vicende talvolta lacunose e incomplete, ma in grado di fornire preziosi dettagli sui percorsi di uomini e donne sovente destinati a giocare un ruolo di primo piano anche nella Resistenza e nella costruzione dell’edificio repubblicano7.

Nelle pieghe di un sistema capillare e sterminato, però, a risaltare è soprattutto la latenza (per diversi motivi) di due corpi socio-politici: quello degli antifascisti cattolici e quello delle antifasciste8. Ci concentreremo qui sul secondo aspetto, inerente alle donne marginalizzate dalle attenzioni poliziesche e relegate dal regime al ruolo di «angeli del focolare domestico». Scendendo repentinamente nel contesto pistoiese, nel database del CPC ne troviamo infatti sole 45 su un totale di 1.468 schedati9. Tra queste, c’è Giulia Faldi. Nata a Monsummano10  il 30 luglio 1899 dal padre Giulio e da Guglielma Bartoletti, fin dall’adolescenza si trovò a vivere una realtà animata da forti tensioni conflittuali. Nella cornice di un’area segnata dalla piccola proprietà terriera, dove a poderi parcellizzati e spesso concessi a mezzadria si sommavano fattorie di piccole-medie dimensioni (non di rado di proprietà nobiliare) collocate nella zona tra Tizzana e Monsummano11, prese parte attiva alle manifestazioni organizzate dal movimento socialista bracciantile. A confermalo era un’accurata relazione rilasciata il 28 ottobre 1926 dalla prefettura di Lucca, nella quale la Faldi – attraverso un lessico fortemente ideologizzato – veniva definita una «attiva comunista»:

La predetta è cresciuta in una famiglia di sovversivi. Il padre fu per vari anni acceso socialista e tuttora professa false idee. Il fratello è tuttora un sovversivo irriducibile per cui la Faldi Giulia sin da giovinetta si dette al sovversivismo. Essa organizzò e presiedette comizi e riunioni; benché abbia poca cultura (avendo frequentato solo la scuola elementare) è abbastanza intelligenze e loquace, ed è stata una assidua propagandista specie nelle campagne fra le masse di contadini. In ogni agitazione e manifestazione sovversiva che veniva organizzata in paese essa era sempre presente e fra le persone più accese. Non risulta sia stata mai arrestata o denunciata all’autorità giudiziaria, però è stata più volte richiamata al dovere dai vari comandanti della stazione di Monsummano e da funzionari […] dell’ordine pubblico. Dopo l’avvento del fascismo fu costretta a troncare la sua propaganda sovversiva e a rimanere in casa molto riservata12.

Nelle carte del CPC, tuttavia, non c’è traccia del padre. Si trovano invece pochissime informazioni sul fratello Gino, muratore di undici anni più grande. Esponente di zona e militante «nella parte estremista del partito socialista», egli prese «parte attiva a tutte le manifestazioni sovversive del secondo dopoguerra» quando fu «candidato al Consiglio comunale e provinciale».

Denunciato nel 1921 e poi prosciolto in Camera di consiglio dalle accuse di tentato omicidio, bancarotta fraudolenta e «apologia di reato e di delitto contro i poteri dello Stato per professe idee comuniste», con l’avvento del fascismo fu sottoposto ad un controllo sempre meno stringente, frutto di un «contegno riservato» e di rari richiami13. Un trattamento ben diverso rispetto a quello riservato alla sorella, assieme alla quale – in seguito alla scissione di Livorno del 21 gennaio 1921 – aveva aderito al Partito comunista d’Italia. Il motivo non era da ricercare solo nella febbrile attività politica della Faldi, ma piuttosto in una delle poche circostanze ritenute inderogabili dal regime per sorvegliare una donna: il suo legame affettivo con un antifascista di spicco. Non era un caso che, nonostante i precedenti, la prima segnalazione su Giulia Faldi fosse arrivata solo nel 1923, indicata come «assidua propagandista […] fra le donne» . E non era un caso che il vasto fascicolo a lei riservato riportasse spesso informazioni sul marito: il comunista Fulvio Zamponi14.

 

[continua]

 

Federico Creatini si è laureato all’Università di Pisa nel 2015 e ha conseguito il dottorato in Storia contemporanea presso l’Università di Bergamo nel 2019. Attualmente è borsista post-doc presso l’Università di Pisa, dove svolge anche la funzione di cultore della materia. Ha all’attivo numerosi articoli e contributi; nel 2019 è stata pubblicata la sua prima monografia, «Dalla fabbrica alla città. Conflitto sociale e sindacato alla Cucirini Cantoni Coats di Lucca (1945-1972)», Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca.




La persecuzione degli ebrei senesi (1938-1944).

Mario Misan, insieme alla sorella gemella Lia, nacque a Siena nel 1933. Il padre Giuseppe, di religione ebraica, era originario di Livorno[2] e, insieme al fratello Roberto, gestiva un negozio di tessuti in via di Città. La madre Silvia Tognazzi, non era ebrea, bensì figlia di un mezzadro della Val d’Orcia; la donna si era trasferita a Siena all’età di vent’anni per andare a lavorare, come infermiera, presso l’ospedale psichiatrico, e proprio in città, dopo essersi convertita all’ebraismo, era convolata a nozze presso la sinagoga locale.
Il giovane Mario conobbe prestissimo l’umiliazione delle leggi razziali in quanto a sei anni (nel 1939) presentandosi a scuola insieme alla sorella, fu costretto a iscriversi alla pluriclasse riservata ai bambini ebrei. La scuola si trovava in località “La Lizza” e il locale riservato agli israeliti (circa 15 studenti, per i quali l’insegnante era la maestra Giustina Del Monte, originaria di Firenze, anch’ella di religione ebraica) era fatto in modo che non ci fossero contatti con i bambini “ariani” e persino i bagni erano separati.
Racconta Mario Misan che il membro della famiglia che soffrì di più per le discriminazioni scolastiche fu suo cugino Giulio[3], figlio di Roberto; il giovane amava gli studi ed era particolarmente portato ma quando si trovò a passare dal ginnasio al liceo, ciò gli venne impedito a causa delle leggi razziali. I problemi più gravi per la famiglia Misan arrivarono tuttavia dopo l’8 settembre 1943. Con l’occupazione tedesca, prudentemente, la madre di Mario, portò lui, la sorella Lia e il fratello Aldo presso il podere “La Macina”, a mezza strada tra Montalcino e Buonconvento presso gli zii materni Nello e Quirino Tognazzi che diedero loro ospitalità nonostante i gravissimi rischi che questo comportava. La situazione era particolarmente dura, ricorda Misan, la madre andava «a Montalcino e si arrangiava a vendere pannina[4] casa per casa, trascinandosi dietro una grossa valigia. I proventi erano magri ma tutto serviva. Questa donna era incinta al quinto mese di gravidanza, Laura [l’ultima sorella di Mario n.d.r.] nascerà infatti nel gennaio del 1944, periodo tristissimo, pieno di angosce e paure».
Giuseppe Misan, con il figlio maggiore, Manrico, per tutelare in qualche modo quello che rimaneva delle magre risorse della famiglia, nonostante le esortazioni dei familiari a lasciare la città (la notizia del rastrellamento degli ebrei romani, avvenuto il 16 d’ottobre del 1943, era trapelata e aveva scatenato forti apprensioni), avevano preso la pericolosissima decisione di rimanere a Siena, nel proprio appartamento di via Girolamo Gigli e rischiarono di pagare a caro prezzo questa scelta. La notte del 5 novembre dello stesso anno, una pattuglia di fascisti repubblicani, insieme a un militare tedesco[5] si presentarono a casa Misan e arrestarono Giuseppe e Manrico; contemporaneamente, due zie di Mario, Adriana e Isolina, con le loro famiglie, venivano prelevate dalla loro casa nella zona di Belvedere.
Tutti gli ebrei catturati vennero portati alla caserma “Lamarmora” e il padre di Mario raccontò al figlio di aver visto «i Valech, quasi tutta la famiglia, i Nissim, i Belgrado, i Sadun e altri»[6].
Il viaggio degli sventurati proseguì in camion alla volta di Firenze, da dove, dopo una sosta di un giorno, vennero spediti per mezzo di un carro bestiame a Bologna e portati presso un comando delle SS tedesche. Fortunatamente l’intera famiglia Misan, comprese Adriana e Isolina, venne considerata di “matrimonio misto” e quindi rilasciata[7] tuttavia, da quel momento in poi, considerato il rischio corso e i continui giri di vite alle normative razziali «i fascisti e le SS tedesche prendevano tutti i sospetti per ½ per ¼ di sangue ed altri» anche coloro che erano rimasti a Siena decisero di riparare presso il podere “La macina”.
Nonostante il numero dei rifugiati presso la famiglia Tognazzi fosse particolarmente elevato («eravamo un branco di persone nascosti fino alla liberazione» scrive Mario Misan) e pertanto facilmente individuabile (era anche noto il fatto per cui si nascondevano), nessuno dei vicini rivelò alle autorità la presenza di ebrei in quella casa. Lo stessa solidarietà venne trovava dai Misan al ritorno a Siena, alcune famiglie che avevano prestato loro aiuto in città durante le tristi vicissitudini della dittatura e della guerra, i Monciatti, i Tortorelli e i Vannini, non fecero mancare il loro appoggio e pian piano la vita tornò alla normalità.

[1]La testimonianza è stata incisa e scritta dallo stesso Mario Misan il 5 ottobre 2018 e successivamente consegnata all’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea “Vittorio Meoni”.
[2]Riferiva il cugino di Mario, Giulio, che la famiglia Misan si trasferì a Siena da Livorno per sfuggire all’epidemia di colera che colpì quella città nel 1911, cfr. Giulio Misan – Intervista a Giulio Misan [consultato il 17 marzo 2020].
[3]Anche Giulio riuscì a scampare all’Olocausto. Tra l’8 settembre 1943 e il giugno 1944, fu ospite di famiglie contadine nella zona tra Montalcino, Buonconvento e Torrenieri, mentre la famiglia del fratello venne nascosta nella zona di Dievole nel Chianti dal parroco di Vignano, don Luigi Rosadini. Al termine della guerra, dopo essere stato per qualche tempo venditore ambulante, Giulio Misan riuscì, nel 1946, a riaprire, insieme alle sorelle, un negozio di stoffe che gestì fino al 1970.
[4]Nel dialetto senese dell’epoca, per ‘pannine’ si intendeva la biancheria e altri prodotti tessili di modesto valore.
[5]Alba Valech, nella sua testimonianza, riferì che i fascisti erano accompagnati da un militare italiano delle SS, cfr. La tragica storia di 15 ebrei senesi raccontata nel documentario di Juri Guerranti, Novembre 1943: accadde anche a Siena [consultato il 17 marzo 2020].
Cfr. Alba Valech Capozzi, A 24029, Siena, Soc. An. Poligrafica, 1946.
[6]Gli ebrei rastrellati a Siena quella notte furono una ventina, di costoro alcuni, come i Misan, vennero rilasciati, Alba Valech, arrestata successivamente, si salverà dall’inferno di Auschwitz, ma Adele Ajò (di anni 64), Gino Sadun (di anni 71) Ubaldo Belgrado (di anni 52), Ernesta Brandes (di anni 85), Giacomo Augusto Hasdà (rabbino, di anni 74), Ermelinda Segre (di anni 68), Achille Millul (di anni 40), Gina Sadun (di anni 47), Marcella Nissim (di anni 20), Graziella Nissim (di anni 14), Livia Forti (di anni 55), Davide Valech (di anni 64), Michele Valech (di anni 68), Morosina Valech (di anni 21) e Ferruccio Valech (di anni 13) non tornarono più alle loro case, cfr. La tragica storia di 15 ebrei senesi raccontata nel documentario di Juri Guerranti, cit.
[7]Cfr. Archivio di Stato di Siena, Pref. Uff. Gab. 1935-1957, b. 4, f. 3, elenco degli ebrei nati da famiglia mista residenti a Siena.




Una commedia di Giocondo Papi

Giocondo Papi – sindaco socialista di Prato dal 1920 al 1922, quando l’amministrazione liberamente eletta venne defenestrata dai fascisti – si dilettava a scrivere poesie. Nel 1930, per i tipi delle Arti grafiche Nutini, diede alle stampe una commedia in tre atti intitolata Mia moglie…non è mia moglie?

La commedia, imperniata sulla straordinaria somiglianza fra le due protagoniste, narra una storia di infedeltà coniugale e, tenuto conto dell’epoca in cui è stata scritta, non è priva di una certa audacia. È stato osservato che la trama presenta evidenti punti di contatto con Come tu mi vuoi di Luigi Pirandello, rappresentata per la prima volta a Milano proprio nel 1930. L’ambientazione ed alcune situazioni da vaudeville rendono il tono del lavoro di Papi leggero e frivolo: la sua atmosfera è dunque ben diversa da quella della commedia pirandelliana, anche se l’opera è attraversata da una vaga inquietudine, causata dalla consapevolezza dell’impossibilità di conoscere realmente perfino i propri familiari.

La commedia non ha particolari pregi artistici, ma merita di essere ricordata come una testimonianza degli interessi che Papi coltivava, da autodidatta, in campo letterario: la famiglia degli scrittori pratesi si allarga così per far posto ad un nuovo, inaspettato, componente.

Ecco un breve riassunto dell’opera.

Tina, moglie di Mario Bruni, attende con ansia l’amante Giulio Biondi. Costui entra in scena cantando una canzone, musicata dal maestro Giovanni Castagnoli, che è stata definita dal maestro Roberto Becheri, docente di composizione al Conservatorio di Ferrara, “una serenata che scorre leggera su una fresca melodia da café-chantant”. La moglie di Giulio, Nella, è fuggita tempo addietro, colta da improvvisa pazzia, senza più dare notizie di sé.  Mentre i due amanti stanno parlando rientra in casa il marito di Tina, e Giulio è costretto a nascondersi in cucina, naturalmente dentro un armadio. Sorpresa ed irritata a causa dell’improvviso arrivo del marito, Tina si difende attaccando e sostiene che Mario la tradisce. Al culmine della finta scenata di gelosia è però colta da malore. Mario chiede allora aiuto ai vicini. Un’ inquilina gli suggerisce di andare in cucina a prendere un po’ di aceto per spruzzarlo sul viso di Tina e, nonostante la moglie cerchi di trattenerlo, Mario va in cucina, causando la fuga di Giulio che riesce ad infilare la porta di uscita. Compresa facilmente la situazione, Mario accusa Tina di avere un amante. La moglie reagisce scappando ed i vicini la prendono per pazza. Dopo aver trascorso un anno di degenza in una clinica per malattie mentali, Tina viene ricondotta a casa per un confronto col marito. Giulio, però, giocando sulla straordinaria somiglianza fra le due donne, sostiene che Tina è sua moglie Nella. Tina arriva, accompagnata da due medici, e finge di non riconoscere né la casa né lo sposo. In esecuzione di un  piano preordinato, si presenta anche Giulio, che Tina si precipita ad abbracciare come se fosse suo marito. I medici decidono allora che, per giudicare con coscienza, sono necessarie delle prove inconfutabili, e chiedono a Mario di indicare qualche segno particolare visto nell’intimità sul corpo della moglie. Mario non riesce però a ricordare nulla, mentre Giulio indica ben tre nei: uno sotto la nuca, uno sotto l’ombelico ed un altro più sotto ancora: Tina si spoglia, mostra i nei ai medici e se ne va con Giulio che sembra così aver avuto partita vinta. Subito dopo, però, entrano due vicine con un giornale contenente la notizia che una ricca signora ha lasciato il suo patrimonio ad una bella smemorata sconosciuta, ricoverata in una casa di salute a Bologna. La donna della foto che accompagna l’articolo somiglia in modo impressionante alla moglie di Mario che, insieme con i medici e con le due vicine, si reca dunque a Bologna per un nuovo confronto. La donna che Mario vede a Bologna è in realtà la moglie di Giulio, Nella, ma egli crede sinceramente di riconoscere in lei Tina e la porta a casa con sé. Si presenta però Giulio che rivela la verità a Mario, facendolo esclamare: “Perdio!…Come?…Mia moglie non è mia moglie?” Giulio insiste. Il campanello suona ed entra anche Tina che implora Mario di perdonarla. Mario però, a questo punto, non vuol saperne più nulla di lei, la respinge e va a vivere felice con Nella.

La parte di Tina e quella di Nella dovevano essere sostenute dalla stessa attrice. Una curiosità: in calce al testo della commedia figura un’errata corrige, dove fra l’altro si specifica che alla quarta riga di pagina 36, dove si dice, “sua moglie”, si deve leggere invece “vostra moglie”. L’errata corrige è del 1930. Otto anni dopo, con un foglio di disposizioni del segretario del PNF Achille Starace  il regime avrebbe imposto la sostituzione del “lei” con il “voi”. Preveggenza?




Mazzino Chiesa, un uomo in mare

«Il bacino occidentale del Mediterraneo può venire considerato nel suo complesso come un unico mercato del lavoro per l’emigrazione italiana, nonostante le diverse condizioni, sia giuridiche, sia economiche dei paesi che ne fanno parte»: così scriveva il Commissariato generale dell’emigrazione nel 1926, riportando la stretta connessione e circolarità esistente tra le diverse sponde del Mediterraneo, in cui si venivano a intrecciare antichi insediamenti italofoni legati al commercio e alle professioni liberali, con nuovi flussi dell’emigrazione da lavoro attratti dagli interventi infrastrutturali, dalle attività portuali o minerarie, oltre che dai più tradizionali mestieri agricoli o servizi urbani. Alla metà degli anni ’20 si può stimare un totale di 550.000 persone di nazionalità italiana che vivevano stabilmente nei territori bagnati dal mar Mediterraneo e che intrattenevano con il paese di origine rapporti più o meno fitti e continui. Si trattava con ogni probabilità della più numerosa nazionalità in emigrazione nell’intero arco mediterraneo, considerando le minori dimensioni demografiche di Grecia e Malta, altri paesi con un’importante diaspora marittima.

Così come era successo con l’emigrazione politica degli esuli risorgimentali, lo spazio mediterraneo tornò a essere durante il periodo fascista un luogo di rifugio per gli emigrati politici avversati dal potere in Italia: gli antifascisti trovarono nei porti del “mare di mezzo” una risorsa molto importante per sfuggire alle maglie della repressione fascista e allo stesso tempo poter continuare a tenere rapporti con la società italiana.

L’intricato campo di relazioni dei sovversivi antifascisti che univa le coste del Mediterraneo si basava sulla presenza stabile delle comunità italiane all’estero, ma aveva poi bisogno di vettori e persone mobili che facessero da tramite. È il caso di Mazzino Chiesa, nato nel 1908 in un quartiere popolare di Livorno. La sua storia è strettamente legata al mare e al partito comunista: di madre valdese e di indole anarchica, fu attivo politicamente sin da giovane in un comitato sindacale comunista. Possiamo ricostruire la sua vicenda a partire dal fascicolo personale conservato nei faldoni della Polizia politica presso l’Archivio Centrale dello Stato e dall’intervista che gli fece Iolanda Catanorchi nel 1974, disponibile online.

chiesa_2A 17 anni si imbarcò per un trasporto oltreoceano, senza avere però l’accortezza di passare ai compagni le consegne delle sue attività politiche. Commise così una grave imprudenza: «avevo del materiale del soccorso rosso e dei soldi in casa e sono partito […] imbarcai a bordo di questo vapore […] partimmo e io nel partire siccome avevo lasciato tutto il materiale a casa e non avevo avuto il tempo di fare… […] scrissi una lettera a mia madre, scrissi: “cara mamma dietro al quadro trovi il materiale, dallo a Gino”». La lettera fu intercettata dalla polizia, che a distanza seguì gli spostamenti del vapore fino al suo rientro. «Ritornando da Montereale [Montreal, n.d.a.], dal Canada, avevamo caricato del grano, quando arrivammo nel porto di Napoli, fuora, nel golfo di Napoli, vedemmo dei motoscafi della milizia che circondavano il vapore, difatti diedero ordine al comandante di dar fondo fuora. Quando fummo fermi ci invitarono tutti al centro…». Non ancora maggiorenne Chiesa venne arrestato per la prima volta e portato al carcere minorile di Napoli, quindi a Regina Coeli e poi a Livorno.

Da allora fu costantemente sorvegliato dalle forze dell’ordine. Nel 1931 Chiesa venne a sapere che era stato spiccato un mandato di cattura e decise di partire per la Corsica insieme ad altri quattro ricercati, con una barca comprata per l’occasione. «Quasi tutta a remi ce la siamo fatta, 42 ore ci abbiamo messo, siamo stati più bischeri noi, perché non c’era vento, non abbiamo trovato…». Stabilitosi a Bastia con altri fuoriusciti comunisti, si fece notare per la vivace propaganda antifascista. Nel novembre 1931 venne arrestato per aver picchiato a sangue Vasco Patania, un altro livornese venuto a Bastia insieme a un commerciante di stoffe, ritenuto un agente dell’Ovra. Nonostante la gravità delle percosse (in seguito alle quali Patania morì in un sanatorio a Livorno) il processo si concluse con una lieve condanna, un mese di prigione che Chiesa aveva già scontato, come riferiva alla polizia italiana un’informativa anonima:

Il Chiesa è così uscito glorioso e trionfante, accolto dai compagnoni suoi, fra gli applausi generali. […] l’avv. Moretti di cui già altra volta abbiamo parlato per il suo antifascismo […] fra gli unanimi applausi sostenne invece che il Chiesa è un perseguitato politico dovuto fuggire dalla sua patria perché odiato dal Fascismo […]. Il processo è emerso [sic] una requisitoria antifascista che ha fatto andare in sollucchero i fuoriusciti che in gran numero si erano dati convegno nell’aula e nelle adiacenze del Tribunale. Il Chiesa Mazzino non appena uscito è tornato alla carica ed alla sera stessa ha tenuto una concione antifascista sulla banchina del Porto (malgrado il freddo) e dinanzi agli operai della “Impresa Vestrini” ha parlato ancora delle necessità di naturalizzarsi francesi per evitare di tornare in Italia a morir di fame sotto la sferza del fascismo. I soliti canti antifascisti hanno posto termine alla gazzarra senza che la polizia intervenisse.

 Partì quindi verso Marsiglia e si recò a Parigi. Qui prese contatto con i vertici del Partito comunista d’Italia (Pcd’I) in esilio: lavorò dapprima per il Soccorso rosso, poi insieme a Giuseppe Di Vittorio iniziò a occuparsi dell’organizzazione della propaganda presso i lavoratori dei porti. Dopo aver partecipato con lo stesso Di Vittorio a un congresso internazionale dei portuali ad Altona, vicino ad Amburgo, entrò ufficialmente nell’organizzazione sindacale per conto del partito.

Alla fine del 1932 i servizi informativi fascisti lo individuavano come «un rappresentante della federazione italiana dei lavoratori del mare» (Film), inviato dal comitato centrale del Pcd’i a Marsiglia «allo scopo di tentare di organizzare in detta associazione i marittimi delle navi mercantili italiane che toccano quel porto»: «costui frequenta spesso il Club dei marittimi di Marsiglia, cercando di avvicinare connazionali ai quali distribuisce stampa del partito e tessere». Prese contatto tra gli altri con gli ambienti dei portuali di Genova, Livorno, Savona, Napoli: «andavo nei porti, creavo i comitati di diffusione e stampa, e poi attraverso questi prendevamo contatti con i marinari e dovevamo andare molte volte negli ambienti equivoci, molte volte passavamo per magnacci, altre volte passavamo per contrabbandieri, altre volte… perché i marinari si trovano lì, non si trovano…».

Come ha ricostruito Paolo Spriano, nella storia ufficiale del Partito comunista, «in questo periodo [tra 1933 e 1934] una buona parte della propaganda clandestina comunista che riesce a penetrare nel Regno ha come veicolo i marittimi, e la polizia aumenta la sua sorveglianza sugli equipaggi». Per poter svolgere questa attività e sfuggire al controllo poliziesco, Chiesa assunse differenti identità, in un gioco di dissimulazione che gli apparati di sicurezza italiani stentavano a seguire: Mario Landrelli, Mario Sandrelli, Assante Puntoni, Luigi Lenzi, Mario Luschi, Mario Lucchi, André Bernard, Masianello, Silverio, Masini, Alfredo o Alfredone, Ernest Morioli, Ernst Boschi, Roque Celeste Amado sono alcuni dei nomi utilizzati, il più delle volte con la copertura di un documento falsificato. Nel marzo 1933 da Parigi un informatore della polizia politica riferiva gli estremi della carta d’identità francese di un certo Alfredo Ferrari, nella convinzione che si trattasse in realtà della copertura fittizia per un’altra persona, Luigi Lenzi. Non sospettava che la vera identità dell’uomo che stava seguendo era ancora un’altra, quella di Mazzino Chiesa.

Alcune missioni di cui venne incaricato dal partito appaiono particolarmente rischiose. Ad Algeri ebbe il compito di avvicinare i membri italiani della flotta navale, creare delle cellule comuniste a bordo e trovare un marinaio disposto a disertare per recarsi a un congresso ad Amsterdam, per poi andare a vivere in Russia. «Mi hanno dato una valigia a doppio fondo, con già il materiale, i clichet pronti, tutto il materiale, il passaporto svizzero, mi chiamavo Morioli Ernest». Riuscì nell’intento e tornò a Marsiglia con un disertore comunista. Sempre in Algeria, ma a Bona, fu ancora inviato per fare proselitismo tra gli italiani che caricavano i fosfati e i concimi chimici sui vapori.

Nonostante tutti questi spostamenti, il centro del suo peregrinare per i porti mediterranei rimaneva Marsiglia, dove teneva le fila dell’organizzazione dei marittimi. «Ero più utile io in questo lavoro…», dichiarò con orgoglio alla metà degli anni settanta. La guerra di Spagna segnò una cesura in questa sua attività. Si recò una prima volta come volontario insieme al fratello nelle formazioni di Giustizia e libertà, nella colonna Rosselli. Venne quindi severamente rimproverato dal partito che lo rispedì a Marsiglia a riprendere il lavoro con la Film, fortemente indebolita dalla sua partenza improvvisa. Qui però continuò a pensare alla Spagna: «è anche latore – segnalavano gli informatori fascisti – presso alcune personalità ed organizzazioni, di richieste di materiale bellico e di uomini». Riuscì a ripartire per il fronte spagnolo, per poi finire all’inizio del 1939 nel campo di concentramento di Argelès-sur-Mer. Dopo un breve periodo scappò e fece ritorno a Marsiglia, dove la polizia francese lo stava aspettando per trarlo in arresto. Riuscì a imbarcarsi clandestinamente su un vapore diretto a Tunisi. Qui trovò Giorgio Amendola e Velio Spano e fu introdotto nel gruppo degli italiani comunisti locali.

 Attualmente è ospite di un giudeo che abita nella Avenue Jean Jures [sic] n. 59. Il controscritto – appena giunto – si mise subito in contatto con gli altri compagni di fede, ai quali rimprovera la mancata energia e la mancata attività di mettere in esecuzione il programma rivoluzionario e dinamitardo anarchico. Sembra – ma non lo si può affermare con prove specifiche – che il Chiesa avrebbe preso parte alla spedizione punitiva eseguita recentemente contro la sede del Dopolavoro del circolo rionale Bab El Kadra di Tunisi.

 Nel corso del Ventennio, la vicinanza geografica tra le sponde del Mediterraneo e l’eredità storica delle circolazioni che avevano avuto luogo all’interno del bacino crearono delle condizioni favorevoli per gli antifascisti: di fronte alla situazione oppressiva che il regime fascista aveva instaurato all’interno della penisola e su cui imponeva in maniera sempre più dura i suoi apparati di controllo, il mare rappresentò una risorsa fondamentale per gli oppositori. Le vie acquatiche potevano portare con facilità in ambienti non sottoposti al codice penale fascista né alla sovranità della sua polizia, ma pur sempre familiari, grazie alla presenza delle comunità italiane e alla larga diffusione della lingua italiana nell’arco mediterraneo. La zelante attività di informatori e consoli non mancò di estendere la rete di controllo anche fuori dai confini, ma pur sempre sotto ordinamenti giuridici e statuali differenti da quelli dominati dal fascismo. In questa situazione si mossero persone e organizzazioni con una competenza specifica nel fare propaganda presso i portuali e la gente di mare. La ricostruzione dei loro percorsi e dei network su cui si muovevano è di grande interesse per un’analisi della centralità della dimensione mediterranea come spazio storico e geografico di libertà e democrazia.




Resistenza antinazista in Germania. Una mostra a Livorno

Dal 3 all’8 febbraio si terrà a Livorno la mostra L’altra Germania. L’opposizione tedesca al regime nazista, organizzata in collaborazione da Istoreco e dal Centro Filippo Buonarroti Toscana. Si tratta della presentazione al pubblico italiano di una mostra promossa in Germania dall’Associazione dei Perseguitati del regime nazista (Die Berliner Vereinigund der Verfolgten des Naziregimes). Particolarmente significativo che l’impulso iniziale alla sua realizzazione sia venuto da tre donne i cui padri sono stati condannati a morte dai nazisti: Barbel Schindler-Saefkow, figlia di Anton Saefkow, Susanne Riveles, discendente di Johannes Kreiselmaier e Annette Neumann, figlia di Erwin Freyer. Ospitata nelle sale del Cisternino di Città e inserita nel quadro delle proposte per il giorno della memoria, la mostra prevede anche alcune iniziative collaterali, fra cui la proiezione riservata alle scuole del film Lettere da Berlino di Vincent Pèrez (2016), ispirato alla vicenda ricostruita dall’avvincente romanzo di Hans Fallada (che reca invece il titolo di Ognuno muore solo). Nel libro si narra la storia realmente accaduta di due anonimi coniugi di un quartiere operaio di Berlino che, una volta ricevuta la notizia della morte al fronte del figlio, decidono di avviare una forma di personale protesta, ingenua quanto coraggiosa, contro la guerra del Führer.

Foto SaefkowQuella del “Widerstand” (la resistenza tedesca al nazismo) è una pagina di storia poco conosciuta, e in parte persino rimossa, per la difficoltà di mettere a fuoco la questione dell’opposizione interna alla Germania al totalitarismo hitleriano e per l’imbarazzo a lungo prodotto dal tema sul senso di colpa dell’opinione pubblica tedesca. Diversamente dai paesi occupati dall’espansione militare del Terzo Reich, nella patria del nazismo non si svilupparono infatti, neppure nei momenti più critici per il fronte interno, forme di lotta armata contro il regime. Un fenomeno che gli storici hanno in parte spiegato con la capillarità e la ferocia preventiva della repressione, le cui maglie strettissime si manifestarono fin dal marzo del 1933 con la costruzione dei primi campi di concentramento inizialmente sperimentati proprio su antifascisti e oppositori interni. In questo contesto il dissenso, piegato nelle sue premesse, si sarebbe manifestato solo in forme isolate e sparse attorno alle trame di alcuni circoli militari o alla sfortunata propaganda di circoscritti e ristretti gruppi borghesi, come gli universitari di Monaco di Baviera facenti capo alla Rosa Bianca, o ancora a figure eroiche espressione di una sorta di resistenza etica al nazismo come il teologo e martire Dietrich Bonhoeffer.

Al di là del notevole ruolo testimoniale di questi episodi e di singole individualità di cui anche in Italia si conosce ormai abbastanza grazie alla produzione negli ultimi anni di film e pubblicazioni, poco si sa invece dell’esistenza di aree o di forme di avversione alla penetrazione del serrato progetto totalitario nazionalsocialista. La completa e rapida conquista della società all’ideologia del Terzo Reich viene di norma data per assodata, anche con riguardo a quei ceti sociali, come la classe lavoratrice salariata delle cinture industriali e dei quartieri operai delle maggiori città, a cominciare da Berlino, elettoralmente più ostili all’avvento di Hitler. Non si deve dimenticare che ancora nelle ultime elezioni libere del marzo del 1933, già pesantemente condizionate dall’inquietante incendio del Reichstag e dai primi rilevanti provvedimenti repressivi verso le forze di opposizione, i due partiti della sinistra (comunisti e socialdemocratici) continuarono a sopravanzare largamente nella capitale (52,6% contro il 31,3%) il partito della croce uncinata.

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Dietrich Bonhoeffer

Già dalla ricostruzione del più ampio contesto in cui si muovevano i coniugi Quangel (Hampel nella realtà) del citato romanzo di Fallada, rappresentato da storici quartieri rossi come Wedding, Moabit o Neukölln, era possibile scorgere l’intenzione dell’autore di descrivere un ambiente popolare non pienamente piegato al nazismo, un microcosmo sommerso che nel suo vissuto quotidiano non sempre si muoveva secondo i comportamenti d’ordine e le pretese e di disciplina auspicati dal Fuhrer e dai suoi uomini. Non un’opposizione organizzata certo, ma una forma di istintiva ripulsa esistenziale a una nazificazione completa che sembrava esprimere un ethos fondamentalmente resistenziale a un ordine che pretendeva adesione assoluta. La mostra ospitata a Livorno, e relativa non a caso soprattutto all’esperienza di Berlino, va un passo oltre, cercando di far emergere una serie di vicende in cui la politica ha un ruolo indubbio e attivo e da cui emerge come nella metropoli la resistenza al nazismo sia stata essenzialmente operaia. Dalle molte storie personali presentate dai pannelli in esposizione emerge quanto in segreto si mossero e si attivarono, soprattutto sotto lo stato di guerra, cellule e trame clandestine in cui protagonisti furono soprattutto soggetti già legati alle formazioni politiche e sindacali della sinistra tedesca liquidate dopo l’assunzione dei pieni poteri da parte del neocancelliere di origini austriache. In particolare i capi di questa rete come Anton Saefkow, Franz Jacob, Bernhard Bästein erano stati quadri del Partito Comunista tedesco (KPD) e dopo il 1933 avevano conosciuto lunghi periodi di dura detenzione in penitenziari e in campi di concentramento. Ma a questo movimento organizzato, che giunse a reclutare circa cinquecento persone (di cui un quarto donne) si unirono anche molti che non avevano avuto in precedenza esperienze partitiche ma che avevano motivi concreti o ideali che li spingevano a sperare nell’immediata fine della dittatura. Dai diversi pannelli tematici è possibile conoscere con ampiezza di dettagli le sconosciute biografie di questi resistenti, i luoghi di azione delle loro reti cospirative (in cui un ruolo di spicco ebbero le fabbriche), le collaborazioni instaurate (con ebrei e lavoratori coatti, con elementi borghesi, con soldati arruolati nella Wehrmacht o con medici ospedalieri) e le modalità della loro azione alle prese con i costanti problemi posti dai rischi rappresentati dalla delazione e dal controllo capillare sulla società degli apparati nazisti.

La gran parte delle vicende individuali ricordate e raccontate nella mostra finirono tragicamente. Uomini e donne delle organizzazioni berlinesi di resistenza furono giustiziati o morirono in carcere e nei campi di concentramento. Non riuscirono dunque a salutare la liberazione della città, né a prepararne di fatto l’avvento che fu dovuto esclusivamente allo sforzo delle truppe sovietiche impegnate nella sanguinosa battaglia di Berlino. Il loro principale lascito si materializzò dunque in un martirio soprattutto testimoniale. A chiudere l’esposizione è infatti una sezione, dal titolo Ultime lettere, che contiene una piccola selezione di commoventi messaggi di commiato scritti ai famigliari, nelle ore immediatamente precedenti alla loro esecuzione, da alcuni dei condannati alla decapitazione dalla famigerata Corte popolare di giustizia del Reich. Parole da cui traspare soprattutto il profondo dolore privato per l’abbandono dei più cari affetti famigliari, ma nelle quali l’umanissima paura della morte non si abbandona neppure per un attimo a un sentimento di pentimento. Perché la Germania di Hitler era un luogo in cui non era possibile vivere, né immaginare un futuro, un inferno in terra rispetto al quale ogni scelta, per quanto rischiosa, appariva ai nostri resistenti preferibile e ammessa.




Sui luoghi della memoria o la memoria dei luoghi

L’espressione ripresa da Pierre Nora, e subito fraintesa, come ebbe a scrivere lo stesso autore, doveva facilitare un approccio critico al problema dei luoghi, ma si trasformò da subito in una espressione autocelebrativa.

A distanza di molti anni dall’opera di Nora, la situazione non è migliorata, anzi è profondamente peggiorata. Prima però di fare alcune riflessioni legate soprattutto, come mi pare corretto, all’esperienza maturata all’interno delle attività dell’Istoreco di Livorno e del territorio della sua provincia e, in parte, della provincia di Pisa, vorrei fissare l’attenzione sul titolo che dichiara da subito come si debba dividere la problematica in due diverse concettualizzazioni. Un conto è ragionare sui “luoghi della memoria” e un conto è ragionare sulla “memoria dei luoghi”. Mentre i secondi, a mio parere sono quelli che, con maggiore spontaneità, attraverso gli anni, sono diventati dei veri e propri topos che condensano alcuni significati importanti per gli abitanti che vivono su quello spazio o nei suoi pressi, o, forse è più corretto ipotizzare, per una parte dei suoi abitanti. Faccio un esempio chiaro per la consapevolezza di un italiano medio, perlomeno lo spero. Il luogo dell’attentato a Falcone, alla moglie e alla scorta sulla strada che dall’aeroporto di Palermo arriva nel capoluogo siciliano.

Ci passai molti anni fa, perlomeno 18-20 anni fa (era quindi l’anno 2001 o 1999). A ricordare cosa era accaduto lì, il 23 maggio 1992, c’era solo la vernice rossa che una qualche mano pietosa ed onesta (penso qualcuno dei lavoratori che rifecero il guard rail) aveva steso per attirare l’attenzione degli autisti che si trovavano a passare di lì. Lì era accaduto qualcosa di grosso, di veramente esorbitante, cosa nostra aveva fatto saltare uno dei simboli alla lotta alla mafia, e l’aveva fatto provocando un cratere degno di una guerra. Erano passati già diversi anni da quell’attentato ma l’erezione di un cippo commemorativo avvenne solo nel 2004. Dodici anni dopo la strage! Siamo sempre stati un Paese lento nel prendere coscienza, e qualche volta manco la prendiamo.

Ma dal punto di vista del significato, quella semplice rudimentale mano di vernice, suscitava un grande impatto e segnalava l’accaduto e nello stesso tempo denunciava la negligenza dello Stato. Quella poca vernice aveva assunto il valore di prendere su di sé la responsabilità e la scelta di dichiarare quel luogo, un luogo della memoria civile e democratica del nostro paese. La politica e lo Stato arrivarono dopo, molto dopo. Quel segno costituiva come un codice per la comprensione e la lettura, era un invito a schierarsi contro i mafiosi e chi li proteggeva. Un invito che non portava firma, anonimo. Occorre però aggiungere che nessuno aveva osato cancellare quella vernice. Quindi per genesi spontanea la coscienza di una parte degli italiani aveva decretato che quel punto dell’autostrada doveva essere sottolineato a ricordo del sacrificio di Falcone, della moglie e della scorta, trucidati da una quantità di tritolo spaventosa.

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La lapide che ricorda la nascita del PCI a Livorno

Qualcosa di simile è accaduto ed accade per altri luoghi della nostra storia democratica. Altre volte si sviluppano dei percorsi più tortuosi come quello che ha riguardato la città labronica. A Livorno, c’è un luogo, in via Borra, dove prima si ergeva il teatro San Marco, il teatro dove si riunirono gli scissionisti del Congresso del Psi nel 1921 per fondare il Partito comunista, e a ricordarlo era stata collocata nel dopoguerra una lapide. Con gli anni sia il luogo che la lapide avevano perso parte del loro smalto, del resto la lapide è posta in alto e occorre alzare gli occhi per vederla e il testo appare oggi per i giovani praticamente incomprensibile. Il profilo dell’edificio dell’ex teatro, oggi sede di un asilo, è profondamente cambiato e al di là di pochi fiori collocati da mani sconosciute per gli anniversari della nascita del Pci, mani forse cariche di nostalgia e di mitologia, pareva un luogo dimenticato. Ma quella lapide subì spontaneamente una nuova semantizzazione quando la ministra Gelmini dell’allora governo Berlusconi, dopo le proteste per il simbolo della Lega in una scuola del nord del paese, inviò un ispettore ministeriale per verificare se i bambini dell’asilo erano sottoposti alla fascinazione della falce e martello.

L’ispezione ci fu e non poté scattare nessuna reprimenda per il Comune di Livorno perché quel luogo storico, che tale è, e come tale va preservato, non esercitava nessuna persuasione occulta nei confronti dell’infanzia, anche perché, semplicemente, i bambini dell’asilo entrano dalla parte opposta. Una parte degli abitanti di città però non gradì questa minaccia e, immediatamente, la lapide che ricorda la nascita del Partito comunista, beneficiò per un periodo, anche abbastanza lungo, di attenzioni particolari: fiori freschi, scritte di solidarietà. Così la lapide e quello che vi è inciso ripresero vivacità e attenzione, e molti di quelli che si trovavano a passare da quelle parti, alzarono gli occhi alla segnalazione marmorea. L’Istoreco di Livorno l’ha sempre inserita nel percorso del trekking urbano che rivolge alle scolaresche sul Novecento, e alla spiegazione del significato del testo e della sua comprensione storica, adesso aggiunge la nuova vita che quella lapide ha assunto nello scontro politico attuale. Come si comprende bene due episodi molto diversi nelle dinamiche e nel significato ma che vedono entrambi scattare una specie di presa in carico da parte di cittadini sconosciuti di un luogo che viene letto come luogo deputato a rappresentare qualcosa che ci appartiene, che in qualche modo sta dentro la costruzione della nostra identità.

Ma la risemantizzazione di un luogo indica che si è potuto ricostruire la condivisione di un’emozione e questo ha permesso di rivitalizzarlo attraverso una ri-narrazione. Come scrive Antonella Tarpino la memoria come traccia “non è più un atto diretto, come nel caso del testimone, ma un atto vicario: un osservare davvero, si potrebbe dire, per conto terzi.“

L'ossario di S. Anna di Stazzema

L’ossario di S. Anna di Stazzema

E quando soggetti come gli Istituti storici accompagnati e sostenuti in questa operazione dalle amministrazioni pubbliche anche perché l’intervento è quasi sempre sopra uno spazio pubblico, decidono di segnare uno spazio, di riperimetrarlo, decidono cioè di proporre per quello spazio una narrazione che lo indichi come luogo, luogo di memoria fanno su una base solida di conoscenze, una operazione di narrazione, che è anche una ri-narrazione, una aggiunta, un addendum segnalato con una qualche modalità visiva. Ma affinché l’operazione funzioni occorre che ci sia qualcuno pronta ad accoglierla. Ed è qui che si rivelano spesso le fragilità. Mentre tutti i segni che contraddistinguono un luogo come Monte Sole così come Sant’Anna di Stazzema, sono quasi immediatamente percepiti e compresi perché luoghi di pellegrinaggi, perché luoghi diventati mete scolastiche, altre emergenze pur raffinate e pur dense di significato, non riescono a condensare senso e memoria condivisa, o se lo fanno, ciò accade in modo diverso e spesso opposto a quello auspicato.

Rinvio ad esempio all’esperienza del progetto Luoghi della memoria del mio istituto che, a pochi anni dalla sua realizzazione, risulta molto meno efficace e meno ricco di quella che i suoi ideatori ed io stessa auspicavamo. La novità del QRcode quando fu adottata sembrò ricca di potenzialità ma poiché adesso il rinvio ad altro, di solito un approfondimento, tramite il QRcode è anche sulle confezioni dei fazzoletti, la forza comunicativa si è persa. Non solo. Il sito ha bisogno di manutenzione mentre il pannello in materiale non biodegradabile alle intemperie ha retto negli anni. Questo alla fine è quello che è rimasto. Una tappa in un trekking urbano sulla memoria del Novecento. Un appiglio visivo per un passante poco distratto, una percezione momentanea e forse stimolante. Credo niente di più. Può darsi comunque che non sia poco.

Ma c’è un altro problema con i luoghi della memoria, specialmente quelli più affardellati dagli anni e dai trascorsi. Proviamo a ragionare sul campo-monumento di Fossoli. Fossoli è un luogo simbolico assai importante nella nostra storia di italiani e di democratici. Immediatamente il campo ci fa scattare la memoria Primo Levi e, subito dopo, specialmente se abitiamo un luogo sede di comunità ebraica, altri nomi di ebrei passati di lì (per Livorno sicuramente Frida Misul della quale ricorre l’anniversario della nascita), ma anche il nome di molti politici. Eppure quel campo, campo di concentramento a pochi chilometri da Carpi, è stato campo di concentramento non solo nel senso legato agli eventi della seconda guerra mondiale. É stato anche molto altro. É un luogo della memoria nel quale è possibile leggere, anche grazie alla cura che ne ha la Fondazione Fossoli, una stratigrafia semantica di significati. Campo per prigionieri di guerra dal 1942 all’ 8 settembre 1943, campo per profughi stranieri, campo della Repubblica sociale italiana per ebrei e politici destinati all’azione di persecuzione delle truppe nazifasciste, campo di prigionia di manodopera coatta per la Germania, centro di raccolta profughi stranieri, campo per i i bambini di don Zeno Saltini fino a quando lui con i suoi ragazzi furono allontanati da Fossoli e don Zeno fu accusato di praticare quello che si chiamava “comunismo evangelico” dal ministro degli Interni Scelba. La sua comunità divenne famosa come la comunità di Nomadelfia. Non furono però gli ultimi ospiti del campo, che si aprì di nuovo per i profughi giuliano-dalmati con il cosiddetto Villaggio San Marco.  Dopo quella data, il campo fu abbandonato all’incuria fino a quando finalmente arrivò una legge ad hoc nel 1984 che solo dopo un periodo lunghissimo di passaggi burocratici portò alla costruzione di Fossoli come luogo di memoria pubblica. Ci sono stata poco tempo fa e ho visto grazie anche a Silvano, un volontario che la lavora con la Fondazione Fossoli che ha sede a Carpi, che ci ha fatto da guida fuori dall’orario di apertura. Insieme a lui abbiamo osservato due mazzolini di fiori collocati lì al cancello di ingresso e sopra un pannello da mani sconosciute, perlomeno per me. Silvano ci ha spiegato che sono alcune donne dell’est che si trovano in zona come badanti, ad aver messo quei mazzolini. Probabilmente qualche loro parente è passato di lì come prigioniero di guerra. E questa è l’ultima ri-semantizzazione di quel posto. Ed è una ri-semantizzazione che rende, a mio parere, quel luogo anche un po’ più europeo di prima, serve ad avvicinare e non a costruire barriere, a rafforzare l’idea di un’Europa unita come unica cornice di pace.

Ma i luoghi, tutti, questo come il mausoleo di Sant’Anna di Stazzema o il monumento su Monte Sole, godono oggi di molta più attenzione rispetto anche ad un passato abbastanza recente perché il “guardare” è diventato preponderante rispetto all’”ascoltare”. Anche per questo credo che occorra da parte nostra manipolare con molta cura questa situazione per non avallare conoscenze frettolose, superficiali, da turismo dell’horror. Per avvicinarsi a questi deposi memoriali occorre sempre utilizzare una guida preparata, fare delle soste lontano dagli stessi prima di entrare dentro a spazi che, nel bene e nel male, risultano comunque monumentalizzati. Proporre per le scolaresche percorsi che abbiano solo come ultima tappa la visita. Quello che si fa ad esempio con il viaggio ad Auschwitz, o nei luoghi del “confine orientale”, con la Regione Toscana.

Il mauseleo a Costanzo Ciano sulle colline di Livorno

Il mauseleo a Costanzo Ciano sulle colline di Livorno

Altrettanta attenzione e sensibilità occorre nell’affrontare i luoghi della memoria della destra. O i luoghi a doppia lettura. Uno per tutti: Piazzale Loreto. Luogo dell’uccisione di 15 partigiani, con un’esecuzione fra le più feroci della guerra. Poco meno di un anno dopo, il 29 aprile 1945 nella stessa piazza forno esposti i corpi di Mussolini, Claretta Petacci, Pavolini ed altri.

Questo luogo è come comprendiamo facilmente, un luogo a doppia valenza. Le nostre ricerche sulle dinamiche di entrambi gli episodi possono essere utilizzati a seconda del vento che tira. E di questo occorre essere consapevoli.

O pensiamo a luoghi come il cimitero di Predappio invaso sempre più spudoratamente da folle inneggianti al Duce. In questo caso forse occorrerebbe domandarsi cosa è stato fatto dalla Repubblica perché questo, nei decenni passati, prima che il partito della Lega di Salvini prendesse il potere in quel municipio, per impedire questa manifestazione di ossequio e riverenza ad un passato tragico e colpevole, quello del ventennio fascista.

Esistono risposte di fronte a queste difficoltà, alla impossibilità di costruire una grammatica narrativa non penso condivisa, ma rispettosa, credo di sì, ma non dentro questo presente dove sempre il sindaco di Predappio ha negato per la prima volta un contributo per il viaggio ad Auschwitz degli studenti affermando che questi viaggi sono sempre a senso unico. Dove pensa che vada costruita la coscienza europea, nei Gulag? O che la storia del “confine orientale” comprensiva della tragedia delle foibe, possa pareggiare con quella dei campi di sterminio e di concentramento? Certo quello che domina è l’ignoranza che insieme alla tracotanza, diventa una miscela molto esplosiva. Proviamo a resistere a questa deriva che ci può far naufragare in un mare molto scuro.




Gli ebrei senesi tra le leggi razziali e il secondo dopoguerra

La comunità ebraica senese era una delle più antiche e integrate dell’intero territorio nazionale. A differenza di altri gruppi di correligionari, sparsi in varie aree d’Europa, gli israeliti senesi avevano superato con poche burrasche il medioevo e l’età moderna. La prima grande catastrofe era avvenuta in piena età napoleonica con il pogrom devastante del 28 giugno 1799, in seguito al quale 19 persone avevano perso la vita e 200, su un totale di 500, avevano preso la via dell’esilio. Coloro che decisero di rimanere ricostruirono con tenacia le proprie case e la sinagoga costituendo, negli anni a seguire, una parte vivace della vita sociale, politica e economica della città[1].

La Sinagoga di Siena

Un nuovo sconvolgimento si profilò quando, a partire dal settembre del 1938, la politica razzista di Mussolini, già presente nelle colonie ai danni delle popolazioni autoctone, venne estesa anche agli italiani di religione ebraica e ciò causò un sensibile peggioramento della vita di molti israeliti senesi. Una delle prime misure adottate (ancor prima dell’emanazione della prima legge razziale italiana[2]) fu il censimento degli ebrei disposto dalla Direzione generale per la demografia e la razza l’11 agosto 1938[3].

I dati ricavati rivelano che al momento dell’emanazione delle disposizioni antisemite, sul territorio senese vivevano 235 ebrei, più o meno tutti appartenenti alla piccola media borghesia. Le prime vittime della discriminazione furono una ventina di ebrei stranieri che studiavano presso la locale università; questi ultimi furono costretti ad abbandonare gli studi e venne loro impedito di trovare un lavoro.

Il successivo giro di vite colpì gli stessi ebrei senesi che furono costretti a lasciare scuole (sia in qualità di insegnanti, che di studenti nonché impiegati) e i posti di lavoro presso l’amministrazione comunale e il Monte dei Paschi[4].

Lo smantellamento dei diritti degli ebrei italiani procedeva spedito pur concedendo alcuni trattamenti di favore a coloro che, agli occhi del regime, avevano acquistato determinati meriti come l’essere familiari di caduti nelle guerre di Libia, mondiale, d’Etiopia e di Spagna; dei caduti, feriti e mutilati per la «causa fascista» oppure coloro che si erano iscritti al Partito nazionale fascista negli anni 1919-22 e nel semestre successivo al delitto Matteotti nonché i legionari fiumani[5].

Dopo la dignità di un posto di lavoro o di un banco di scuola il fascismo decise di colpire i patrimoni e in base al Regio decreto legge 9 febbraio 1939, n. 126, si previde, per quanto riguarda i beni immobili appartenenti agli ebrei, di individuare una quota di proprietà consentita, calcolata in base alla rendita catastale, ed una eccedente destinata a essere incamerata dall’erario che, come indennizzo, avrebbe dovuto rilasciare un certificato trentennale con un interesse al 4%[6].

In questa prima fase soltanto una persona subì una confisca a Siena[7], ma il peggio doveva arrivare e ciò sarebbe avvenuto ben presto. Dopo l’8 settembre, con

l’occupazione tedesca e la nascita della Repubblica sociale italiana, la persecuzione fascista dei diritti conobbe la sua tragica evoluzione in persecuzione delle vite[8]. La comunità israelitica senese ebbe il secondo pogrom della sua storia con il rastrellamento della notte tra il 5 e il 6 novembre 1943, quando 15 ebrei vennero arrestati e deportati nei campi di concentramento da cui soltanto una farà ritorno[9]. Fortunatamente, molti israeliti vennero avvertiti in tempo e poterono mettersi in salvo nascondendosi presso amici o enti religiosi, ma la persecuzione non si fermò nemmeno davanti a questo abbattendosi sistematicamente sui loro beni: le autorità fasciste repubblicane, nello spazio di pochi mesi, disposero il sequestro di 26 immobili[10], alcuni dei quali vennero persino saccheggiati.

Con il passaggio del fronte e la liberazione della città, avvenuta il 3 di luglio del 1944, pian piano la situazione tornò alla normalità e gli ebrei che si erano salvati poterono tornare alle loro case ma in molti casi, ad attenderli, avrebbero trovato amare sorprese. Quegli imprenditori le cui aziende erano state espropriate e affidate a amministratori nominati dalle autorità, al loro ritorno, trovarono la richiesta di corresponsione delle imposte che, pur avendo intascato gli utili, gli amministratori non avevano versato[11]; altre famiglie trovarono le loro case occupate da inquilini o depredate.

Emblematica la testimonianza di Edmea Forti Castelnuovo[12], il cui marito, Aldo, gestiva un negozio di stoffe insieme al fratello Geremia. Dopo la loro fuga, avvenuta nelle ore immediatamente precedenti il rastrellamento del 5-6 novembre, il negozio e il magazzino vennero depredati, l’appartamento espropriato per ordine del Capo della Provincia e ceduto dall’Egeli[13] a un ufficiale dell’esercito.

Ferruccio Valech, 13 anni, la vittima senese più giovane del campo di Auschwitz.

Ferruccio Valech, 13 anni, la vittima senese più giovane del campo di Auschwitz.

I Castelnuovo, in seguito alla liberazione di Siena e alla revoca dei provvedimenti di confisca emanati dal Governo dell’Italia liberata[14], decisero di tornare in città per riprendere, per quanto possibile, la loro vita normale; tuttavia, al loro arrivo, scoprirono che l’attività non esisteva più e che la casa era occupata; ma non era tutto. Al momento della restituzione dell’immobile, un solerte funzionario dell’Egeli richiese, a Aldo Castelnuovo, il pagamento dell’indennità di gestione delle sue proprietà nella misura applicata ai sudditi nemici. Di fronte a quell’affermazione, racconta il figlio Renzo, Castelnuovo, che solitamente era un uomo mite, sbottò con forza. Non era stata, a ferirlo, la richiesta di pagare un’indennità a chi gli aveva portato via la casa costringendolo a fuggire, quanto il fatto di essere trattato come un nemico dell’Italia[15].

 

[1] Cfr PAVONCELLO N., Notizie storiche sulla comunità ebraica di Siena e la sua Sinagoga, scritti in memoria di A. Milano in «Rassegna mensile d’Israele», 1970, pp. 289-313.
[2] Il Regio decreto legge 5 settembre 1938, n. 1390, Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista.
[3] CIONI P., MASOTTI F., MATTEI L., 1938-1944 documenti, storie e memorie. Gli ebrei senesi raccontano, Siena, Nuova Immagine editore, 2010, p.27
[4] Ivi p.35
[5] Cfr. Regio decreto legge 17 novembre 1938, n. 1728, Provvedimenti per la difesa della razza italiana.
[6] Regio decreto 27 marzo 1939, n. 665, art. 13.
[7] Archivio storico del Monte dei Paschi di Siena, Egeli, b. 647, «Repertorio dei beni di sudditi nemici ed ebraici sequestrati».
[8] Cfr. SARFATTI M., Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi, 2018, capp. IV e V.
[9] Cfr. VALECH CAPOZZI ALBA, A24029, Siena, Soc. anonima poligrafica, 1946.
[10] Archivio storico del Monte dei Paschi di Siena, Egeli, b. 647, «Repertorio dei beni di sudditi nemici ed ebraici sequestrati».
[11] Voci di carta. Le leggi razziali nei documenti della città di Siena. Catalogo della mostra documentaria. Archivio di Stato di Siena 26 ottobre 2018 -31 gennaio 2019, a cura di Cinzia Cardinali, Anna Di Castro, Ilaria Marcelli, Pisa, Pacini editore, 2019, p.103.
[12] Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea, Multimediale, dvd 58, Edmea Forti Castelnuovo.
[13] Acronimo di Ente Gestioni e Liquidazioni Immobiliari; era l’istituto incaricato dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati agli ebrei e ai cittadini di Paesi nemici. L’Ente, per operare sul territorio della Toscana, aveva stipulato una convenzione con il Monte dei Paschi di Siena. Cfr Atti della Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati, «Rapporto generale», aprile 2001, http://presidenza.governo.it/DICA/beni_ebraici/.
[14] Cfr Regio decreto legge 20 gennaio 1944, n. 25 «Disposizioni per la reintegrazione nei diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebraica» e Regio decreto legge 20 gennaio 1944, n. 26 «Disposizioni per la reintegrazione nei diritti patrimoniali dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati o considerati di razza ebraica».
[15] 1938-1944. La politica razziale del regime fascista a Siena, documentario di J. Guerranti, Siena 2014, https://www.youtube.com/watch?v=v_4FXd6N-4w




Leonardo da Vinci ‘genio italico’ del fascismo

Il 9 maggio 1939, nell’anniversario della nascita dell’Impero, si inaugurava a Milano la Mostra di Leonardo da Vinci e delle Invenzioni italiane, un evento che, nelle parole del Comitato organizzatore, avrebbe mostrato, «in forma al tempo stesso eletta e popolare, il vertice altissimo raggiunto dallo spirito italiano con Leonardo, in modo da esprimere nella mirabile opera dell’artista e dello scienziato del Rinascimento, i caratteri essenziali della spiritualità della stirpe che nel Fascismo si ricompongono ancora dopo molti secoli in forma unitaria».

Di fatto divenne uno degli show più propagandistici del regime, un’esposizione -per usare le parole di Roberto Longhi- «discutibile e discussa», che portò a una significativa strumentalizzazione e decontestualizzazione storica dell’artista.

L’ingresso alla mostra milanese su Leonardo del 1939

L’interpretazione di Leonardo quale genio della “stirpe italica”, da cui partiva una gloriosa linea di scienziati che culminava con Guglielmo Marconi, eroe dell’Italia autarchica di Mussolini, era già iniziata qualche anno prima: in questa direzione si allineò la mostra milanese, portando all’associazione della grande monografica sull’artista con una parallela esposizione, ovvero la seconda edizione della Mostra delle Invenzioni italiane, che trovò altisonante sede presso il Palazzo dell’Arte al Parco Sempione (ora della Triennale).

Già dall’inizio degli anni Trenta il fascismo aveva utilizzato sia le mostre d’arte antica italiana all’estero che le grandi esposizioni monografiche in patria, come palchi propagandistici, eventi collettivi ampiamente pubblicizzati con gli strumenti di comunicazione di massa (video dell’Istituto Luce, opuscoli turistici promozionali, comunicati radio) già sperimentati nella propaganda politica. Rispetto ad altre importanti esposizioni della seconda metà degli anni Trenta (come la mostra giottesca a Firenze del 1937), quella dedicata a Leonardo a Milano assunse tuttavia connotati ancor più particolari: Leonardo diventò l’antesignano dell’ “uomo nuovo” fascista, paragonabile allo stesso Duce.

I vari approfondimenti sugli studi di Leonardo dedicati all’architettura, all’ingegneria, all’anatomia, alla matematica diventarono tappe di un percorso espositivo incentrato sulla celebrazione del suo ruolo di pioniere nella cultura tecnico-scientifica italiana, secondo un’impostazione – cara al regime – per cui i protagonisti della storia della scienza erano visti come monumenti, isolati dal contesto in cui avevano operato. L’aspetto preponderante e più spettacolare fu la parte scientifica e tecnica dell’opera dell’artista, rappresentata da 200 modelli di macchine, talvolta anche in scala gigantesca e azionabili dal pubblico, realizzati grazie alla progressiva edizione dei manoscritti ma anche con una buona dose di interpretazione.

Tuttavia la mostra vedrà anche la presenza di numerosi dipinti e disegni originali di Leonardo, portando alla spoliazione di quasi ogni opera leonardesca presente nei musei italiani. Lo sforzo maggiore fu chiesto proprio alla soprintendenza fiorentina: il 1° maggio 1939 partirono da Firenze una trentina di casse con dipinti, disegni e sculture principalmente dalla Galleria degli Uffizi e dall’allora Regio Museo Nazionale del Bargello, comprese opere simbolo e delicatissime come l’Adorazione dei Magi e l’Annunciazione di Leonardo e il Battesimo del Verrocchio. Per quest’ultime, invano, il soprintendente Giovanni Poggi e il responsabile del Gabinetto Restauri Ugo Procacci richiesero un restauro preventivo «per poter sopportare un viaggio senza risentire danni».

In linea con la dialettica del regime, che da un lato promuoveva grandi eventi accentratori e dall’altro valorizzava le identità locali in senso di orgoglio municipalistico, anche a Vinci soffiò forte il vento della retorica fascista. Collegata alla mostra milanese, nel paese natale  fu organizzata un’esposizione di cimeli leonardeschi, inaugurata il 20 agosto 1939 dal ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, che parlò dal balcone della casa del fascio. Pubblicizzato alla stregua di un “pellegrinaggio”, il tour vinciano prevedeva la visita ai luoghi dell’infanzia dell’artista, tra i quali la restaurata casa di Anchiano, oltre a fonte battesimale e la riproduzione di un documento di mano del nonno di Leonardo.

Una delle sale dedicate ai modelli leonardeschi nella mostra milanese del 1939

In quello stesso biennio 1938-1940 l’esaltazione di Leonardo divenne di fatto una moda e mania collettiva che fu cavalcata anche dalle frange più estreme del regime. A tal proposito ne «La Difesa della Razza» comparvero una serie di articoli a tema artistico dedicati proprio a Leonardo, dove la strumentalizzazione sciovinista si colorò anche di tinte antisemite e perversioni interpretative. Già nel 1938 era comparso il breve articolo Come Israele insudicia il genio di Leonardo, atto di accusa contro la nota interpretazione di Freud sul sogno raccontato da Leonardo riguardo al nibbio. Nel 1939, anche in riferimento alla mostra milanese, nella rubrica “la razza e l’arte” la polemica dei redattori si indirizzò verso La favola dell’europeismo e Leonardo italiano, ovvero verso la tendenza degli studi dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, di scippare l’italianità dell’artista a discapito di una sovra-nazionalità europea. Nel 1940, in un climax ascendente di strumentalizzazione interpretativa, comparve un nuovo articolo dall’emblematico titolo Leonardo pittore razzista, dove venne presentata un’analisi del Cenacolo improntata alla presunta diligenza leonardiana nell’aver riprodotto nei volti degli apostoli caratteri somatici “biologicamente” ebraici.

Con l’entrata in guerra dell’Italia continuò l’utilizzo politico di Leonardo, protagonista, grazie all’interessamento del ministro della Cultura Popolare Alessandro Pavolini, di una leonardesca americana, organizzata dal Rockefeller Center nel Museum of Science and Industry di New York nel luglio 1940 con i modelli della mostra del 1939. Questi stessi modelli presero poi la via di Tokio, dove furono esposti – suscitando grande stupore – nel 1942, in piena guerra mondiale. Fu il loro ultimo viaggio: la nave che che dal Giappone li riportava in Italia fu colpita e affondata, in una sinistra e simbolica fine, per mano di quel conflitto così acclamato, della strumentalizzazione retorica di Leonardo come grande “genio italico”.