1

I comunisti e la cultura giovanile durante il miracolo economico

Per tracciare una breve riflessione sul legame tra cultura giovanile e case del popolo nel corso della seconda metà del ‘900, dobbiamo partire dal grande cambiamento economico-sociale di cui fu portatore, in Italia e anche a Pistoia, il cosiddetto miracolo economico. Esso, infatti, fu il vettore che permise la nascita di una cultura giovanile ancora inedita all’epoca, fatta di cinema, TV, musica, riviste e fotoromanzi.

 

Nella provincia di Pistoia, le case del popolo furono uno dei luoghi dove le nuove generazioni entrarono in contatto con questa cultura – così pop, così statunitense. A prima vista potrebbe sembrare una contraddizione (siamo negli anni della guerra fredda), ma il fascino che esercitò sulla popolazione fu tale da non lasciare indifferenti nemmeno i militanti del Pci.

 

Per evidenziare il rapporto che si creò allora tra la cultura giovanile e le case del popolo, prenderò a esempio la casa del popolo di Tobbiana (un paese di circa 1.000 abitanti in provincia di Pistoia, nel comune di Montale), di cui mi sono ampiamente occupata per la mia tesi di laurea.

 

Fondata dai militanti del Pci nel secondo dopoguerra, questa casa del popolo non era mai rimasta indifferente al fascino di quelle “invenzioni” che diverranno poi alcuni dei simboli della civiltà dei consumi, catalizzatrici di sogni e di nuovi stili di vita mai visti prima. Lì era infatti arrivata, nei primi anni ’50, la TV; dopo qualche anno, sarebbe stato il turno del juke-box. Nel 1965, infine, lì nei pressi venne edificata anche una grande sala da ballo (il Dancing la Roccia), per la gioia delle allora nuove generazioni.

 

Quei giovani nati negli anni ’40, non a caso, furono la prima generazione italiana omogenea in termini di lingua, gusti e riferimenti culturali. La TV e gli altri media (riviste, radio, cinema) avevano infatti contribuito fortemente a formarne i gusti: insomma, da Milano a Roma, passando per Tobbiana, i divertimenti e gli idoli di questi ragazzi erano pressoché gli stessi.

 

Allora il Pci non vedeva di buon grado la “permeabilità” di questa generazione alla nuova cultura giovanile, così intrisa di americanismo. Posso citare, a titolo di esempio, un articolo del 1960 de «La Voce» (il settimanale della federazione del Pci di Pistoia), intitolato «Troppi fumetti anche a Pistoia». Rifacendosi all’opuscolo di Maria Antonietta Macciocchi pubblicato nello stesso anno da «Noi Donne», nell’articolo si condannavano «la stampa a fumetti, le riviste di “vicende vissute” romanzi semipornografici, oroscopi, e “piccola posta”, le riviste di “sesso”, i giornali di “cinema”», la musica e il ballo, colpevoli di distrarre i giovani militanti dai loro compiti di lotta politica. Ma, nelle zone dove le strutture del Partito erano più profondamente integrate nella vita della comunità (e questo è il caso di Tobbiana), queste stesse strutture offrivano ai ragazzi degli spazi che avrebbero finito per favorire proprio la formazione e la diffusione dei nuovi interessi culturali.

 

Se dal centro le direttive ufficiali erano quelle di una condanna delle riviste, della musica e del ballo, in periferia i dirigenti delle sezioni del Partito si comportavano in maniera molto più elastica e, in fin dei conti, al di là dei proclami ufficiali, non erano poi così ostacolati dalla stessa dirigenza del Partito. Nel caso della costruzione del Dancing la Roccia, infatti, gli attivisti tobbianesi furono sostenuti dalla Federazione del Pci di Pistoia, senza che dai “piani alti” giungessero proteste di sorta.

 

Per questi adolescenti comunisti, la casa del popolo significava quindi musica, balli e corteggiamenti. Certamente, per i giovani era il divertimento a prevalere sull’impegno politico, al contrario di quanto accadeva per la generazione dei loro genitori. Ma sarebbe sbagliato credere che le “nuove leve” si disinteressassero della dimensione politica: infatti, anche l’organizzazione di eventi a prima vista ricreativi era un modo di fare politica.  C’era infatti chi si offriva volontario come barista o guardarobiere durante le feste al Dancing la Roccia; inoltre, i ragazzi si occupavano anche della distribuzione della stampa di partito e dell’affissione dei manifesti elettorali, scongiurando così le paure della dirigenza. Insomma, pur non rinnegando la loro fede politica “rossa”, i giovani militanti tobbianesi amavano il ballo, le canzonette e le riviste di fotoromanzi: li avevano conosciuti proprio lì, in paese, alla casa del popolo. La casa del popolo di Tobbiana era dunque finita per diventare (analogamente a tante altre realtà simili in provincia) il centro della propagazione della nuova cultura giovanile locale.

Daniela Faralli si è laureata all’Università di Firenze in storia contemporanea, con una tesi sulle case del popolo negli anni ’50 e ’60.




Guerra, fame, malattia

La pandemia d’influenza “spagnola” scoppiò nell’autunno 1918, quando la Grande Guerra stava terminando. Nessun angolo del globo fu risparmiato: la malattia si diffuse rapidissima, grazie ai traffici di uomini e mezzi causati dal conflitto. Nei Paesi occidentali, la macchina statale fu messa in ginocchio mentre altrove, come in Africa, la malattia stravolse ritmi economici e produttivi cristallizzati da decenni. Nel mondo, il virus uccise tra 24 e 100 milioni di persone, con un indice di mortalità tra i 2,5 e i 21,7 decessi ogni 1.000 abitanti. Le vittime prescelte della malattia furono le persone nella fascia d’età dai venti a quarant’anni: infatti, la spagnola sviluppò complicazioni non tanto negli elementi deboli o malnutriti, quanto tra gli individui più sani e forti.

L’Italia fu tra i Paesi europei che più soffrirono della pandemia: le stime, discordi tra loro, oscillano tra 600.000 e 350.000 morti. La difficoltà a ricostruire una storia e una statistica della malattia in Italia è diretta conseguenza dell’oppressiva censura imposta dal governo. I bollettini sanitari vennero contraffatti e ai giornali fu imposto di pubblicare notizie rassicuranti. Le autorità vietarono persino i normali riti funebri. L’interesse del governo fu tutelare lo sforzo bellico in un momento decisivo, mentre il virus avanzava nel fronte interno. La Toscana risultò la regione centrosettentrionale più colpita, stimando circa 30.000 morti.

La malattia investì tutta la regione, ma ebbe conseguenze più nefaste nella provincia. In queste zone limitrofe, i costi e le necessità della guerra avevano ridotto al minimo i servizi essenziali. In questa casistica rientra Pistoia, all’epoca parte della provincia di Firenze, dove fin dal 1915 le condizioni delle classi meno abbienti, per l’aumento del costo della vita, erano peggiorate. Le condizioni sanitarie, già precarie nell’anteguerra per lo sconquasso finanziario dei Regi Spedali del Ceppo, si deteriorarono per il passaggio giornaliero di truppe e per la mancanza di medici. Alla situazione non giovò, dopo Caporetto, l’afflusso in città dei profughi veneti bisognosi di assistenza.

L’influenza pandemica si manifestò l’area pistoiese dalla metà di settembre, contagiando dapprima le fasce più esposte come i funzionari della pubblica amministrazione. All’inizio dell’emergenza, il sottoprefetto invitò i cittadini ad avere cura della propria igiene – facendo ricadere la responsabilità della malattia sul singolo – mentre raccomandò i sindaci di smentire «ogni notizia che abbia carattere di gravità». Minimizzare l’esplodere del contagio fu l’obbiettivo anche della stampa locale. Il periodico «La Difesa religiosa e sociale» affermò che «uno dei mezzi più efficaci per andare immuni dal contagio è quello di non avere paura. Morale alto, ecco il miglior disinfettante, e insieme con questo morigeratezza di vita e preghiera umile a Dio». Il giornale consigliava quale rimedio l’uso di stimolanti come il caffè.

In ottobre, tuttavia, la situazione precipitò. Il prefetto decretò la chiusura dei cinematografi e delle scuole. Il vescovo di Pistoia e Prato, Gabriele Vettori, impose la disinfezione dei luoghi di culto e delle acquasantiere, e raccomandò di areare le Chiese prima e dopo le funzioni. Il vescovo, però, decise di non sospendere o limitare le messe.

Il sistema di approvvigionamento annonario divenne difficoltoso per la mancanza di manodopera, in larga parte contagiata dalla spagnola. Le lunghe file fuori dai negozi si ingrossarono, diventando tra i principali vettori del virus. Il Comune emanò misure contro gli affollamenti e fu limitato ai malati l’accesso ai punti di distribuzione. Nonostante i divieti, molti malati, per timore di non ricevere la propria quota, si recavano ugualmente nei luoghi preposti all’approvvigionamento, esponendo al contagio i cittadini ancora sani. L’amministrazione di Pistoia, sull’esempio di altre città, istituì delle rivendite alimentari riservate agli ammalati in possesso di certificato medico.

La spagnola decretò il collasso dei Regi Spedali: la struttura completò la sua crisi finanziaria e amministrativa, tanto che la prefettura di Firenze dovette commissariarla. La mancanza di medici – buona parte era stata richiamata al fronte – lasciò intere condotte, soprattutto della montagna, con poca assistenza. I dottori rimasti operavano in condizioni disagiate e senza i mezzi di trasporto necessari a coprire le grandi condotte. Diversi medici, debilitati dai massacranti turni di lavoro, furono contagiati e tornarono a lavoro solo dopo lunghe convalescenze. Non mancarono casi eclatanti. Scoraggiato dalla grave situazione, il dottor Lai abbandonò la condotta di Cireglio. L’amministrazione comunale, minacciando di denunciarlo, impose al dottore di riprendere servizio. Dietro la diserzione del medico, si celava il malessere per le estreme condizioni in cui operava.

A metà ottobre, la situazione era talmente grave che la Misericordia di Pistoia si trovò senza i cavalli sufficienti per trasportare il gran numero di salme. Scarseggiavano persino le casse da morto tanto che il sindaco ordinò alla direzione ospedaliera di far trasportare i cadaveri «avvolti in un lenzuolo bagnato con disinfettante». Soltanto davanti alle proteste dei necrofori, il Comune ritirò la misura e attese la fabbricazione di nuove bare.

Davanti all’incapacità di aiutare la popolazione, le autorità pistoiesi si posero in linea con quelle nazionali: la spagnola andava censurata. Fu imposta la chiusura dei cimiteri per la festa del 2 novembre, per «evitare l’immancabile depressione degli animi allo spettacolo evidente e palpabile della tanta mortalità». Furono approntate nuove norme per il trasporto dei feretri al cimitero, che doveva avvenire «nelle prime ore della sera e anche nelle prime ore della mattina».

A metà novembre, le condizioni sanitarie migliorarono timidamente: il prefetto riaprì i cimiteri benché il contagio non fosse concluso, come si intuisce dalla colletta «pro vitanda mortalite finché non sia cessato il morbo influenzale» promossa dal vescovo. Ai primi di dicembre le condizioni della città tornarono alla normalità: il provveditore della provincia di Firenze decise per la riapertura delle scuole. La spagnola lasciò dietro sé molti strascichi nella popolazione, colpita da innumerevoli lutti, come nelle autorità. Nel timore di nuovi episodi pandemici, il Comune progettò l’ampliamento dei cimiteri per far fronte a improvvisi picchi di mortalità.

Un conteggio preciso del numero dei morti nell’area pistoiese non è di facile stima: le fonti documentarie sono lacunose e vari decessi riconducibili alla spagnola furono refertati sotto altre cause (come le polmoniti). Stando ai pochi dati a disposizione, si può ipotizzare un numero di morti per la spagnola oscillante tra le 1.500 e le 1.800 persone nel pistoiese.

Francesco Cutolo si è laureato in Storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sull’influenza spagnola. Lo scorso giugno è stato eletto nel Consiglio direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, con cui da anni collabora. A novembre inizierà il dottorato in Storia presso la Scuola Normale di Pisa.




Formare le élite: il liceo “N. Forteguerri” di Pistoia in età giolittiana

Le classi liceali,

Le nostre care scuole,

Son umidi locali

Ove non entra il sole,

Ma tutta l’aria è pregna,

In queste tre cantine,

Del fumo della legna,

E odor delle latrine.

 

Così nel 1914 un anonimo – ma certo creativo – studente del “Forteguerri” ricordava la sua scuola, allora ospitata nel palazzo della biblioteca Forteguerriana, ne «L’Assillo», giornaletto goliardico soppresso dopo pochi mesi per gli sberleffi puntualmente destinati a professori e compagni di classe – da M. Rampini a cui si chiedeva di «non assumere pose tragiche quando ripete la lezione» a un certo Tosi di cui era decantata «l’aria a pipistrello».

Fondate nel 1475 sotto l’egida testamentaria del cardinal Niccolò Forteguerri, la Pia Casa della Sapienza e la sua annessa biblioteca – quella che poi sarebbe stata, più tardi, conosciuta con il nome di Forteguerriana – non tardarono ad assumere un ruolo di primo piano nel panorama culturale ed educativo pistoiese. Lo conservarono nei secoli successivi, dedicandosi alla formazione della classe dirigente locale a livello secondario e universitario – le cattedre di Diritto e Medicina sopravvissero fino al 1867, quando il Consiglio comunale fu costretto ad abolirle sotto pressione del Ministro della Pubblica Istruzione. Sussisteva ancora ai primi del Novecento, quando il ginnasio-liceo era ancora l’unica scuola secondaria presente sul territorio: la scuola industriale maschile (l’attuale IPSIA Pacinotti) sarebbe stato fondata nel 1907, l’istituto magistrale nel 1912, l’istituto tecnico industriale e commerciale durante il primo conflitto mondiale, nel 1917. Più che un segnale di disinteresse delle classi governative locali e nazionali per un’istruzione secondaria diversa da quella tradizionalmente largita all’élite, era la constatazione dell’assenza di interesse per un ogni altro tipo di istruzione. Sfavorevoli erano le condizioni sociali, culturali ed economiche del territorio e del panorama lavorativo, caratterizzato da piccole imprese a conduzione familiare dove la specializzazione della manodopera era affidata ai tradizionali canali dell’apprendistato: il deludente risultato raggiunto nei suoi primi decenni di vita dalla Scuola industriale – che, contrastando le iniziali aspettative dei suoi fautori, accolse figli di industriali e non futuri tecnici ed operai – ne era la testimonianza più concreta.

Accessibile dopo il completamento delle scuole elementari e divisa in due corsi – il ginnasio, quinquennale, fondato soprattutto sull’insegnamento della grammatica italiana, latina e greca (quest’ultima però solo nei due anni finali); e il liceo, triennale, focalizzato invece sullo studio della letteratura italiana e classica, la scuola era destinata non solo a chi intendeva proseguire verso l’istruzione universitaria, ma anche verso chi, dotato di più modeste risorse, ambiva dopo la licenza ginnasiale (o liceale) a un impiego nell’amministrazione.

Nemmeno il liceo tuttavia godette di buona salute nei primi anni del Novecento. Dal 1900 al 1915 le iscrizioni passarono da 125 a 91, e fu soprattutto il ginnasio – ovvero il ramo tradizionalmente più frequentato – a soffrirne. Non fu una peculiarità cittadina: la sua crisi di iscrizioni s’inserì in un più vasto moto di stagnazione nazionale, che, contemporaneo all’espansione dell’istruzione post-elementare e soprattutto di quella tecnica, evidenzia come la medio-bassa borghesia, incline fino alla fine del secolo a inviare i propri figli al ginnasio, nel secolo successivo intravvedesse nelle scuole tecniche e negli istituti tecnici una più redditizia opportunità di formazione. A Pistoia, dove l’istituto tecnico sarebbe comparso solo verso la fine della prima guerra mondiale, questa funzione fu probabilmente rivestita dalla Regia Scuola industriale.

Il declino quantitativo non significò tuttavia un ridimensionamento culturale del liceo. Diversi suoi docenti ricoprirono posizioni di un certo rilievo in età liberale e negli anni a venire: Alfredo Chiti, docente del ginnasio e segretario dal 1899 della neonata “Deputazione di storia patria”, divenne un importante studioso del Risorgimento pistoiese e curò fino alla morte la rivista «Bullettino storico pistoiese»; Michele Losacco, professore di lettere al liceo, era un collaboratore di “Nuovi Doveri”, rivista di pedagogia fondata da Gentile e Lombardo-Radice; Carlo Villani, insegnante di latino e greco, durante il ventennio sarebbe diventato localmente famoso per la direzione del settimanale clerical-fascista «L’Alfiere».

 




La Resistenza in un piccolo comune pistoiese: Lamporecchio

L’inizio dell’attività partigiana e della Resistenza armata in provincia di Pistoia deve essere collocato poco dopo l’inizio dell’occupazione nazista nel settembre 1943, quando le prime squadre sorsero sulle montagne pistoiesi, nelle aree collinari e nella zona valdinievolina. Erano formate da soldati sbandati, renitenti alla leva, uomini di altre nazionalità fuggiti dalla Wehrmacht, donne e antifascisti.

Nell’accezione più ampia del termine, la Resistenza è un fenomeno complesso che coinvolse, a vari livelli, un’ampia maggioranza della nazione e tutti gli strati sociali della popolazione: dal fornire cibo e alloggio a un estraneo, che sia un partigiano o un soldato sbandato, al rivelare informazioni a un “bandito” o agli alleati; dall’ascoltare Radio Londra al non presentarsi alla leva obbligatoria; dal combattere attivamente i tedeschi all’effettuare sabotaggi.

In Toscana il 9 ottobre 1943 fu costituito il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), erede dei comitati interpartiti e dei fronti antifascisti già attivi durante il ventennio fascista. La resistenza pistoiese s’inserisce nel quadro di quella toscana: in parte ebbe origini autoctone e in parte fu promossa, coordinata e supportata dall’esterno e dai partiti. Militarmente fu suddivisa in due zone: undicesima e dodicesima.

A Lamporecchio, l’unica formazione costituita fu la “Squadra di Azione Patriottica” (S.A.P.), chiamata anche “Lamporecchio”, di ispirazione profondamente comunista. Nel comune operarono sporadicamente anche le formazioni “Comunista n. 1”, “Ribelli del Montalbano” e “Silvano Fedi” di Pistoia.

La S.A.P., guidata dal comunista Giovanni Calugi, aveva sede presso la Cisterna di Montefiori, situata sulle colline, svolse la sua attività sul Montalbano e operò nei comuni di Lamporecchio, Larciano, Vinci, Serravalle Pistoiese. La sua forza raggiungeva e superava la cinquantina di uomini, specialmente quando venivano effettuate azioni e si aggregavano vari patrioti; la squadra sostenne dieci scontri a fuoco e inflisse ai tedeschi 4 morti, 13 feriti e 8 prigionieri. Due partigiani morirono, tre restarono feriti; un russo che si trovava nella formazione da due mesi, chiamato Ivan, rimase ucciso da una raffica di mitra durante uno scontro il 12 agosto 1944 e venne sepolto al cimitero di Larciano; Leonetto Neri, residente in Cerbaia, fu ferito in uno scontro il 2 settembre e morì dopo qualche settimana all’ospedale di Siena; Enzo Verdiani, residente a San Baronto, fu ferito a una gamba da una pallottola di mitra il 28 luglio; Ivo Ancillotti, residente in Cerbaia, fu ferito a una mano da una pallottola di mitra; Osvaldo Desideri, residente a Larciano, rimase ferito in seguito allo scoppio del proprio fucile il 12 agosto.

La formazione lamporecchiana, oltre agli scontri a fuoco, si occupò della raccolta delle armi, del servizio informazioni, dei sabotaggi e di aiuto nei confronti dei fuggiaschi e della popolazione. Fu continuamente in contatto con la brigata “Bozzi” con la quale effettuò alcune azioni sulla montagna pistoiese. Un personaggio di spicco della formazione fu Giovanni Frediani con ruoli di comando, di collegamento con altre formazioni e di rifornimento alimentare.

La squadra “Comunista n. 1” si scontrò il 2 e il 4 agosto con pattuglie tedesche nella zona di Lamporecchio; la “Silvano Fedi” di Pistoia effettuò alcune azioni di sabotaggio presso San Baronto il 15 agosto; i “Ribelli del Montalbano” sostennero combattimenti armati il 4 e il 5 settembre lungo la strada che da San Baronto conduce a Casalguidi e obbligarono i repubblichini a ricostruire le vie e i ponti distrutti.

Lamporecchio venne liberata dall’occupazione nazifascista dopo circa un anno, esattamente il 2 settembre 1944. La liberazione ricalcava in molte zone lo stesso schema. Può essere applicato in maniera appropriata al caso lamporecchiano e a quello di parte della provincia pistoiese: i tedeschi scappavano dal territorio e arretravano verso nord, gli angloamericani prendevano contatto con le formazioni partigiane e avanzavano prudentemente, i partigiani assumevano il possesso della città, infine gli angloamericani arrivavano definitivamente e imponevano il proprio controllo sul paese.

Gli alleati a fine agosto si avvicinarono a Pistoia da sud e gli inglesi presero contatto il 1° settembre con le formazioni partigiane valdinievoline.

La formazione partigiana S.A.P. di Lamporecchio partecipò attivamente alla liberazione insieme alla banda Silvano Fedi di Pistoia, comandata da Enzo Capecchi e Artese Benesperi. Giunta la notizia che gli alleati avevano attraversato il fiume Arno, la squadra si divise in varie pattuglie per “rastrellare la zona”. Il paese fu occupato dopo vari scontri a fuoco: il primo avvenuto in Cerbaia e costato la vita a Leonetto Neri, il secondo nei pressi di Lamporecchio, il terzo nella località Giugnano, il quarto nella frazione Vaccareccia.

Quel giorno vennero catturati alcuni nazisti e consegnati agli inglesi, i primi ad arrivare in paese. Successivamente, il 3 settembre, la formazione partecipò alla liberazione di San Baronto, seguita da quella di Pistoia, occupata l’8 settembre in collaborazione con le altre squadre partigiane della provincia.

I partigiani residenti e riconosciuti in città furono 35; i patrioti, invece, 31.

Fu fondamentale la presenza di numerose donne all’interno della Resistenza, anche lamporecchiane, come possiamo intuire dalla relazione sull’attività svolta dai gruppi di “Difesa della Donna” nella provincia di Pistoia: “Tutte le organizzate hanno prestato la loro opera con fede e costanza, senza avvertire la stanchezza e rifiutando la paura, viaggiando attraverso i posti di blocco tedeschi, soggette a perquisizioni e requisizioni. Hanno continuato la loro lotta contro i nazi-fascisti, adoperandosi a seguirne i movimenti, ad ostacolare le loro opere di rastrellamento, fiduciose che i loro sacrifici sarebbero stati coronati dalla vittoria completa”.

Il giorno dopo la liberazione, il 3 settembre 1944, il CLN si riunì nell’ufficio comunale del paese: i componenti progettarono un piano di attività basato sulla collaborazione di tutti e destinato esclusivamente al bene della collettività; vennero anche salutate le truppe di liberazione dell’esercito alleato che, per mezzo di cinque rappresentanti, assistettero all’assemblea.

Il 6 settembre, su richiesta angloamericana, fu nominata la giunta comunale che si sarebbe riunita per la prima volta l’11 settembre alle 9.30. La giunta a sua volta nominò Foscolo Maccioni, già presidente del CLN, come primo sindaco di Lamporecchio dopo la liberazione.

Decine di cittadini lamporecchiani continuarono la lotta di liberazione, arruolandosi nei Gruppi di Combattimento (Legnano, Folgore, Cremona, Friuli, Mantova e Piceno.) e affiancando le truppe alleate durante la risalita nel nord Italia. Furono circa 500 i pistoiesi partiti da piazza del Duomo il 16 febbraio 1945: ex militari, ex partigiani, semplici cittadini che desideravano dare il loro contribuito alla liberazione del resto d’Italia, avvenuta ufficialmente nell’aprile 1945.

Matteo Grasso, laureato in storia contemporanea con una tesi sull’occupazione nazifascista di Monsummano terme, è direttore dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia. Svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti del Novecento e lavora presso l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. In precedenza ha svolto un tirocinio annuale per la valorizzazione culturale di Villa La Quiete a Firenze. Fra le pubblicazioni ricordiamo: “Giovanni Fattori. Lettere di un montalese dal lager nazista” (2017); “Sulle tracce della memoria. Percorsi pistoiesi nei luoghi della guerra” (2015); “Guerra e Resistenza. Vicende partigiane per uno della «Bozzi», la storia personale di Doriano Monfardini” (2014).




Il Conservatorio di San Giovanni Battista

La storia del Conservatorio di San Giovanni Battista si sviluppa dagli inizi del secolo XIV fino ai giorni nostri con una particolare continuità all’interno della vita religiosa, artistica e sociale della città di Pistoia e può essere suddivisa in due distinte fasi.

 La fase della vita religiosa

È costituita dall’aggregazione di tre monasteri femminili.

 Il Monastero di San Giovanni

Costituisce il nucleo iniziale del complesso e viene edificato al di fuori della seconda cerchia di mura cittadina secondo il lascito testamentario del 1287 di Giovanni Ammannati che aveva stabilito che se il figlio Gherardo fosse morto senza successori fosse edificato un convento femminile nell’area di un palazzo di sua proprietà.

Gherardo morì nel 1321 e, assecondando la volontà del testatore, il palazzo fu trasformato in monastero femminile dedicato a San Giovanni Battista.

Venne quindi ampliato tra il 1469 e il 1531 quando fu completata la chiesa ad opera di Ventura Vitoni e nel 1783 inglobò il contiguo monastero di S. Lucia ed ospitò anche le suore di S. Chiara.

 Monastero di S. Lucia

Fu fondato nel 1328 su testamento di Iacopo Bellebuoni nei pressi dell’attuale fortezza di Santa Barbara ma venne demolito nel 1539 per consentire l’ampliamento della fortezza e le monache furono trasferite nell’area dello spedale di S. Gregorio confinante con il monastero di S. Giovanni mentre lo spedale fu trasferito in via di Porta Lucchese. Nel 1783 il monastero fu soppresso e unificato con quello di San Giovanni.

 Monastero di S. Chiara

Viene fondato nel 1310 da Piccina di Bonaventura in via di Porta Lucchese. Nel 1783 il Vescovo Ricci soppresse il monastero per realizzarvi il nuovo edificio del Seminario e le monache furono trasferite nel monastero di San Giovanni.

La fase dell’educazione e dell’istruzione.

Nel 1785 all’interno dell’opera riformatrice del Granduca Pietro Leopoldo fu chiesto alle monache di San Giovanni di scegliere tra la vita monastica o la trasformazione del complesso in Conservatorio per l’educazione delle fanciulle.

Le suore optarono per il Conservatorio e iniziò così un periodo completamente nuovo in cui sotto la guida di suore e oblate venivano accolte e istruite le fanciulle pistoiesi.

Dopo l’unità d’Italia con la legge del 1867 i conservatori passarono sotto il controllo del Ministero dell’Istruzione e quello di san Giovanni si aprì progressivamente alla città divenendo una delle principali istituzioni educative pistoiesi. Accoglieva fanciulle tra i 7 e i 12 anni e a partire dal 1872 ospitò la scuola elementare femminile cittadina pubblica e privata.

Nel 1883 ne fu dichiarato lo stato laicale e il Conservatorio divenne un istituto pubblico educativo con amministratori nominati dal Ministero.

Nel 1898 il Conservatorio divenne sede dei corsi della Scuola normale femminile trasferita da Sambuca Pistoiese comprendente il corso complementare, la scuola di tirocinio e l’asilo infantile a sistema froebeliano.

Divenne così il principale polo educativo femminile pistoiese e attraeva alunne a convitto da tutta Italia. Il complesso fu ristrutturato nel 1877 e continuamente ammodernato nel corso del Novecento. Nel 1901 vi operavano la direttrice, tre istitutrici, una guardarobiera, una dispensiera-economa, una cuoca, due aiutanti di cucina, un giardiniere, un portiere, due inservienti, un medico, un ragioniere, un cassiere, il direttore spirituale, un chierico, un agente di campagna e quattro maestre e nel 1910 contava oltre 400 alunne.

Dal 1915 al 1919 una parte dei suoi locali fu destinato a ospedale militare di riserva e dal 1924 accolse la sede dell’Istituto commerciale “F. Pacini” e dell’Istituto magistrale.

Alla fine degli anni trenta si verificò un momento traumatico all’interno della struttura educativa con il licenziamento nel 1939 della direttrice Alba Mantovani perché di “razza ebraica” che venne riassunta solo nel dopoguerra.

Il complesso subì gravi danni con l’incursione aerea alleata del 18 gennaio 1944, quando fu distrutta completamente la chiesa e la maggior parte dei locali dove avevano sede gli istituti superiori.

Le attività vennero sospese e solo nel gennaio 1945, a liberazione di Pistoia avvenuta, si iniziò a rimuovere le macerie e si riaprì l’Istituto magistrale mentre nel 1947 ripresero a funzionare il convitto, l’Istituto tecnico e la scuola materna.

La ricostruzione integrale fu compiuta tra il 1951 e il 1957 con fondi del Ministero dei Lavori pubblici per oltre 205 milioni di lire e la direzione dell’ingegnere Adalberto Del Chicca. A partire dagli anni settanta le alunne ospitate diminuirono progressivamente e nel 1982 il convitto fu chiuso e il complesso ospitò solo le scuole pubbliche mentre nel 1983 il giardino è stato affittato al Comune e aperto al pubblico e la Chiesa è stata allestita a spazio espositivo.

Dal 2006 il Conservatorio è stato trasformato in “Fondazione Conservatorio San Giovanni Battista” e oggi è agenzia formativa accreditata presso la Regione Toscana, inoltre nei suoi spazi ha sede la Fondazione Luigi Tronci con la collezione di strumenti musicali.

Nel 2016 si sono conclusi due importanti operazioni di recupero e salvaguardia del suo patrimonio storico e architettonico. Si è concluso il restauro delle coperture e della facciata della Chiesa di San Giovanni con la direzione dell’architetto Gianluca Giovannelli, e, ad opera dello scrivente, è stato concluso il riordino e l’inventario dell’Archivio storico ed è stata allestita una mostra permanente sulla storia del Conservatorio.

Andrea Ottanelli, docente di lettere, dottore di ricerca in storia contemporanea, compie studi e ricerche sulla storia contemporanea di Pistoia, ha curato mostre e iniziative e pubblicato articoli e volumi sulla storia delle industrie e delle infrastrutture pistoiesi tra cui: La città e la sua fabbrica in La San Giorgio. Gli albori della grande industria a Pistoia, a cura di Piero Roggi, Pistoia, Gli Ori 2015; La Ferrovia Porrettana. Progettazione e costruzione (1845-1864), Pistoia, Settegiorni editore 2014. Economia e società a Pistoia dalle riforme leopoldine alla Restaurazione. Le arti e le manifatture; Gli anni del cambiamento (1878-1914) in Storia di Pistoia IV, a cura di Giorgio Petracchi, Firenze, Le Monnier 2000. Ha curato il riordino e l’Inventario di numerosi archivi storici pistoiesi tra cui quello del Conservatorio di San Giovanni Battista. È direttore della rivista “Storia Locale”.




Squadrismo toscano in Dalmazia

Se solo negli ultimi anni il mito del “bono ‘taliano” ha iniziato lentamente ad essere scalfito da una storiografia sempre più attenta allo scacchiere balcanico, molto resta ancora da fare per conoscere e comprendere appieno la particolare «guerra ai civili» condotta dalle truppe italiane nei territori orientali, occupati all’indomani dello smembramento della Jugoslavia nel 1941.
Da queste pagine di storia per troppo tempo rimosse emergono anche vicende locali che possono aiutarci a far luce su un’occupazione ben presto contraddistinta da una tenace resistenza armata affrontata con forme repressive sempre più estreme.
L’eruzione di un fenomeno partigiano dalla chiara matrice comunista fu infatti occasione, per le autorità fasciste nazionali e locali, per spingere verso la formazione di veri e propri reparti organici di squadristi, nella convinzione che l’esperienza maturata negli anni delle “squadre” potesse ora rivelarsi preziosa per affrontare il fenomeno comunista riaffacciatosi nei territori annessi al di là dell’Adriatico.

Tra il 1941 e il 1942 vedevano quindi la luce 6 battaglioni squadristi organizzati dalla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, uno dei quali sorto proprio nella «fascistissima» Toscana; il 20 gennaio 1942 veniva infatti mobilitato il 1° (68°) battaglione squadristi “Toscano”, interamente costituito da volontari accorsi da tutta la regione in numero perfino superiore alle aspettative; allo zoccolo duro dei fascisti della prima ora (stime non verificabili indicavano in circa il 50% i partecipanti alla marcia su Roma), si affiancavano i numerosi reduci delle campagne africane o spagnola, al comando del forlivese, ma fiorentino d’adozione, 1° seniore (tenente colonnello) Pietro Montesi Righetti.
Con un’età media di circa 40 anni, il reparto si componeva di oltre 600 camicie nere, organizzate su 4 compagnie più il comando; accasermata a Montecatini Terme, l’unità completava nei 3 mesi successivi il proprio organico e l’addestramento, lasciando la Toscana il 15 aprile.
Dietro interessamento del Governatore della Dalmazia Giuseppe Bastianini, massima autorità civile nel territorio annesso delle provincie di Zara, Spalato e Cattaro, il “Toscano” raggiungeva il litorale dalmato il 26 aprile, scaglionandosi lungo il settore costiero tra Traù (sede del comando) e Spalato e ponendosi alle dirette dipendenze operative di Bastianini.

"In questi giorni i battaglioni squadristi sono inviati in altri teatri operativi. Hanno avuto numerosi scontri con le bande partigiane e bolsceviche nei Balcani. Ecco un reparto di camicie nere in un angolo dei Balcani, durante una purga [Sipho] 8.VI.1943".

“In questi giorni i battaglioni squadristi sono inviati in altri teatri operativi. Hanno avuto numerosi scontri con le bande partigiane e bolsceviche nei Balcani. Ecco un reparto di camicie nere in un angolo dei Balcani, durante una purga [Sipho] 8.VI.1943”.

Parallelamente all’ordinaria attività di presidio ed ordine pubblico, si scatenava fin dai primi giorni una vera e propria attività squadrista fatta di bastonature, sevizie e perfino omicidi di sospetti fiancheggiatori dei partigiani, condotta con il supporto dei fascisti locali e l’acquiescenza delle autorità civili.
L’incontrollabile violenza di una truppa di per sé particolarmente indisciplinata (e politicizzata) trovava però il suo apice il 12 giugno 1942, assumendo un virulento carattere antisemita: prendendo a pretesto una presunta provocazione da parte di alcuni ebrei, diverse decine di militi del “Toscano” e fascisti della locale Federazione assaltavano la storica sinagoga di Spalato, malmenando i presenti e devastandone locali ed arredi, mentre altre camicie nere saccheggiavano alcuni vicini negozi di proprietari ebrei. Il pogrom spalatino e successivi episodi di minacce verso militari e carabinieri scatenavano infine la dura reazione delle locali autorità militari, già in cattivi rapporti col Governatore Bastianini, costringendo quest’ultimo a ritirare gli squadristi in servizio a Spalato.
Particolarmente cruenta si sarebbe rivelata anche l’attività “ordinaria” del battaglione, spesso affiancata da elementi del Regio Esercito: oltre a fornire elementi per il plotone di esecuzione del Tribunale Speciale della Dalmazia (nella sola giornata del 22 maggio venivano fucilati 26 condannati a morte), il “Toscano” avrebbe condotto nei mesi a seguire numerosi rastrellamenti dell’immediato entroterra spalatino, sempre più minacciato dalla montante attività partigiana: negli scontri verificatisi nel corso dell’estate e la prima metà dell’autunno trovavano la morte alcune decine di partigiani o presunti tali (in un’azione del 28 giugno ne rimanevano 14 sul terreno), in un crescendo di violenze favorito dall’opacizzarsi della distinzione tra partigiani e popolazione civile.
Nella prima metà di novembre iniziava il trasferimento verso Vodice, nella parte meridionale della limitrofa provincia di Zara, area già sconvolta dalle durissime operazioni di rastrellamenti dei mesi precedenti.
Parallelamente alla continua opera di rastrellamento, nel corso delle prime settimane del 1943 lo stesso centro di Vodice veniva trasformato in una sorta di campo di concentramento a cielo aperto, con l’inasprimento di un coprifuoco duramente imposto: numerosi sarebbero stati i civili, tra cui molte donne, sorpresi fuori dal centro abitato e fucilati sul posto dagli squadristi del “Toscano” impegnati nella sorveglianza della zona.
Il 16 maggio il reparto abbandonava definitivamente la Dalmazia, a stretto giro seguito dagli altri battaglioni squadristi a loro volta schierati lungo il litorale dalmato: seppur ridotti in organico ed efficienza, non è da escludere che il rimpatrio fosse in parte dettato dai concomitanti (eppur infruttuosi) tentativi di puntellamento del regime condotti da parte del partito e, soprattutto, della milizia stessa. Truppa certamente fidata e pur sempre dotata di una certa “massa critica”, i 6 battaglioni squadristi trovavano accantonamento in varie sedi dell’Emilia Romagna, col “Toscano” riunito a Vergato, sull’Appennino bolognese.
La defenestrazione di Mussolini coglieva però impreparati i vertici della milizia e l’opera dello stesso Capo di Stato Maggiore Galbiati facilitava un pressoché indolore passaggio di consegne nelle mani di Armellini, generale fedele a Badoglio. Anche i reparti squadristi non opponevano particolare resistenza al cambiamento di regime, avviandosi, in un’atmosfera di smarrimento e rassegnazione, verso la fine della propria esperienza. Nell’impossibilità di disarmare o comunque ridimensionare la milizia, ancora presente in forze in praticamente tutti i teatri bellici, i vertici militari procedettero però a disinnescarne le maggiori criticità: tra i provvedimenti adottati rientrava anche il definitivo scioglimento dei battaglioni «già squadristi», posto in essere attraverso il congedo o il trasferimento dei militi verso altri reparti. Se a fine agosto il “Toscano” cessava di esistere, molte delle sue camicie nere avrebbero dimostrato la propria “coerenza” continuando, nei mesi a seguire, la guerra sotto le insegne della R.S.I.

Lorenzo Pera, laureato in “Storia e Civiltà” presso l’Università di Pisa, si interessa di storia militare della seconda guerra mondiale, con particolare riguardo vero i crimini di guerra compiuti dalle truppe italiane.




Contestazione cattolica: Pistoia 1968

Dopo il Concilio Vaticano II, dal 1965, nacquero in molte città, soprattutto del centro Italia, numerosi gruppi di giovani cattolici che legarono la propria fede ad un impegno attivo nella società e che si trasformarono progressivamente in quello che sarebbe stato il dissenso cattolico. Così avvenne anche a Pistoia.
La contestazione cattolica a Pistoia crebbe all’interno della Gioventù dell’Azione cattolica, con il gruppo del Cineforum, e all’interno delle Acli, con il gruppo del Ventiquattro. Due casi non isolati nella città, ma certamente emblematici di una parabola del dissenso cattolico italiano.
I due gruppi infatti, sebbene diversi per provenienza ed età, condivisero analoghi temi di impegno: la non violenza e l’obiezione di coscienza al servizio militare, la volontà di informarsi ed informare sui problemi dei paesi in via di sviluppo e dei poveri di tutto il mondo. E furono proprio l’attenzione alla povertà, condivisa con una cospicua parte della Chiesa cattolica di quegli anni, e ai paesi del Sud del mondo a spingere molti cattolici su riflessioni vicine a quelle della sinistra. Una parte del mondo cattolico giunse perciò alle contestazioni dell’autunno del ’68 con posizioni molto vicine a quelle della sinistra e dei movimenti studenteschi. Il ’68 tuttavia segnò, se non la fine del dissenso cattolico, sicuramente un anno di svolta.
A Pistoia il 4 ottobre del 1968 alcuni giovani pistoiesi cercarono con la forza di impedire la proiezione del film Berretti verdi, diretto e interpretato da John Wayne, considerato un’apologia del militarismo americano in quegli anni di fortissima opposizione alla guerra degli Stati Uniti nel Vietnam. Un gruppo di ragazzi cercò di impedire l’ingresso del pubblico una prima volta per lo spettacolo pomeridiano; l’impresa riuscì al secondo tentativo, per quello serale. Ai primi sforzi pacifici di boicottare la proiezione, con la diffusione di volantini anti americani e un sit-in di fronte all’ingresso della sala, seguirono atti di violenza contro l’edificio del cinema Lux: furono spaccati alcuni vetri e fu divelta una saracinesca. Fu necessario l’intervento delle forze dell’ordine e il sindaco comunista Corrado Gelli decise di sospendere la proiezione serale. Il quotidiano «La Nazione» riportò ampiamente la notizia titolando: Per i «Berretti verdi» tafferugli al cinema Lux. Gremita la sala alla proiezione pomeridiana i «contestatori» sono tornati all’attacco la sera – Vetri rotti ed un’inferriata divelta – Fortunatamente nessun ferito. Venne aperta un’inchiesta che si concluse con la denuncia di alcuni con l’accusa di adunata sediziosa, oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, violenza privata e danneggiamento doloso.
EPSON scanner ImageFu un’agitazione a cui parteciparono un migliaio di manifestanti e, sebbene di per sé non troppo originale, può essere assunta come spartiacque nella storia del dissenso cattolico pistoiese. Se infatti fino ad allora tutti i gruppi riconducibili alla contestazione cattolica si erano mantenuti su posizioni analoghe, di fronte ai tafferugli le posizioni si divaricarono irrimediabilmente.

Il gruppo del Ventiquattro partecipò al boicottaggio del film, e insieme a personaggi della sinistra pistoiese non si tirò più indietro negli anni a venire di fronte alle lotte sul territorio, a fianco degli studenti come degli operai. Abbandonò la Chiesa e assunse una nuova fisionomia per poi fondare insieme ad altri, nel ‘69, il gruppo di Lotta Continua a Pistoia.
Il gruppo del Cineforum, forse anche per l’età più adulta, assunse invece un atteggiamento critico di fronte alla contestazione. Avanzò le proprie valutazioni negative sia nei confronti della strumentalizzazione politica da parte di rappresentanti della Dc; sia contro le modalità di manifestazione di fronte al cinema. I dirigenti democristiani che gridarono alla violazione della libertà furono ironicamente invitati a scrivere una lettera agli organi di censura che, senza rompere vetri, impedivano al cittadino di vedere altri film come Teorema di Pasolini o Galileo di Liliana Cavani, entrambi censurati dal governo democristiano in Italia. Mentre agli organizzatori di quella “fetta di rivoluzione” fu contestata la sterilità dei metodi adottati. Secondo il Cineforum quella contro i Berretti verdi era stata infatti: «una rivoluzione anche un po’ comoda perché a “dialogare” con il padrone stavolta c’erano anche alti esponenti del PCI e in fondo una masturbazione collettiva dal godimento fine a se stesso perché, nella ricerca del fine immediato, è stato dimenticato proprio colui che avrebbe dovuto essere stato il beneficiario della dimostrazione; lo spettatore medio […] che avrebbe avuto per una volta l’occasione di guardare il film con occhio critico, se solo una volta la rivoluzione gli avesse offerto uno spunto per una riflessione». Il gruppo del Cineforum dopo il ’68 abbandonò le posizioni contestative per inserirsi nella dialettica istituzionale della città.
Così entrambi i gruppi con il ’68 conclusero la comune esperienza del dissenso cattolico, ma il Cineforum rimase cattolico e moderato, mentre il Ventiquattro abbandonò la Chiesa ed entrò a pieno titolo nella sinistra extraparlamentare pistoiese.

Francesca Perugi ha conseguito la laurea in storia contemporanea all’Università degli Studi di Firenze con la prof.ssa Bocchini Camaiani e ad oggi conduce un dottorato di ricerca all’Università Cattolica di Milano nell’ambito della storia del cristianesimo contemporaneo.
Collabora assiduamente con l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia e coltiva un vivo interesse per la storia orale. Tra le sue pubblicazioni citiamo:
“Si può essere buoni cattolici e disubbidire apertamente ai vescovi?” Il mondo cattolico pistoiese di fronte al referendum per l’abrogazione del divorzio, in «Quaderni di Farestoria», dicembre 2014 .




Fernando Melani, un “incantatore di atomi”

Fernando Melani (1907-1985) fu artista pistoiese e ricercatore scientifico cosmopolita. Partendo dalle riflessioni sulla materia e sull’atomo portò avanti una ricerca creativa vicina a correnti come l’Arte Povera, l’Arte Concettuale e la Minimal Art, anticipandone in alcuni casi gli esiti. Molte sue opere oggi trovano sistemazione presso la casa-studio Fernando Melani a Pistoia.
Donatella Giuntoli, amica e studiosa di Fernando Melani, affermò che “Melani si poteva configurare nell’immaginario pistoiese come un manipolatore di particelle o un incantatore di atomi”. In questa frase è racchiusa l’essenza profonda di un uomo del Novecento che ha votato la sua vita alla sperimentazione sulla materia.

Melani passò gran parte della sua esistenza a Pistoia. Nacque a San Piero Agliana (PT), secondogenito di una famiglia borghese, il 25 marzo 1907 e morì a Pistoia nel marzo 1985. Nel 1937, di rientro da un’esperienza lavorativa a Novara, entrò in possesso dell’abitazione familiare in Corso Gramsci a Pistoia, dove abitò per tutta la vita con un’unica parentesi legata allo sfollamento per i bombardamenti del 1943/44.
Lo spartiacque del secondo conflitto mondiale cambiò drasticamente il modo di pensare di Fernando portandolo a una completa rielaborazione delle sue priorità, si dedicò all’arte e sposò un’assoluta essenzialità, sostituendo ogni suo abito con una tuta blu (accompagnata da una sciarpa gialla) ed eliminando ogni accessorio domestico dall’abitazione, compresi cucina e termosifoni. La casa di Corso Gramsci divenne così il luogo della creatività, lo studio, dove gli ‘atomi potessero essere liberi di vagare per le stanze’, mentre l’esterno acquisì una funzione legata alle necessità fisiche, gestite attraverso una rigorosa routine. Melani, infatti, mangiava sempre nel medesimo ristorante e frequentava regolarmente i soliti centri d’aggregazione.
Nell’“immaginario pistoiese”, un tessuto culturale ampio e variegato, Melani era inserito per analogia o contrasto, la sua era una socialità fatta di provocatorie discussioni e biunivoci rapporti di crescita. Lo si poteva incontrare al Cafè du Globe, al bar Piemontese o al bar Valiani, a pranzo e a cena alla trattoria Autotreni in Porta al Borgo, oppure a discutere animatamente presso la Libreria dello Studente di Giovanni Tellini. In questi ambienti era entrato in contatto con molte personalità (come Luigi Bruno Bartolini, Alfiero Cappellini, Gianfranco Chiavacci, Donatella Giuntoli, Remo Gordigiani, Giulio Innocenti, Lando Landini, Antonio Nespoli, Renato Ranaldi, Giovanni Tellini); ma manteneva sempre un occhio vigile nei confronti di un macrocontesto, non strettamente locale, stringendo rapporti con figure importanti come Luigi Ardemagni, Ettore Bonessio di Terzet, Silvio Ceccato, Luciano Fabro, Ernesto Galeffi (in arte Chiò), Rosy Novella, Fiamma Vigo, Marisa Volpi.
Il suo essere Fernando, assieme al modo di esplicarsi verso l’esterno, è una diretta emanazione dei suoi valori scientifico-razionali, in questo le definizioni di “manipolatore di particelle” e “incantatore di atomi” tentano di inquadrare, a loro volta, il processo intellettuale melaniano in un sistema razionale. La sua attività non è semplicemente definibile in categorie standardizzate e univoche, infatti, se da un lato si può identificare come artista astratto, dall’altro vanno ricordati i suoi slanci di ricercatore scientifico, di scrittore, di teorizzatore, di fotografo e altri aspetti che il recente lavoro di sistemazione dell’archivio ha approfondito. Possiamo, quindi, concepire il suo lavoro come se fosse accomunato dall’unico obiettivo di analizzare la verità dell’universo, in altre parole l’atomo; il suo lavoro diviene così uno strumento e non il fine ultimo della ricerca. Solo in quest’ottica possiamo comprendere opere come le ‘macchine semplici’, meccanismi funzionali e funzionanti finalizzati alla sperimentazione sonora o fisica; oppure le riflessioni spaziali legate alle opere ‘bucato’ e ‘bandiera’; o ancora lo studio della casualità, opere nate dalla sedimentazione di materiale nel corso del tempo.
In questo rapporto tra materia, esistente e teoria risiede la ricerca artistico-scientifica di Fernando Melani. Dal 1950 comincia a esporre le prime opere già definibili ‘astratte’ e per più di quarant’anni continua la sua attività collaborando con vari centri d’arte pistoiesi come la Galleria Studio La Torre o la Galleria Vannucci; arriva anche a Firenze e a Milano grazie alla fruttuosa collaborazione con Fiamma Vigo; nel 1972 partecipa assieme a Luciano Fabro a ‘Documenta 5’ presso il Museo Fridericianum di Kassel in Germania. Tra i suoi numerosi scritti ricordiamo: Davanti alla pittura (1953), Addio Giulio! (1955), Chiò e Melani, due indirizzi della pittura plastica formativa (1956), Un’analisi critica di Fernando Melani, Quadri di John Forrester (1960), Astratto vecchio nuovo ed oltre (1963-64), Universo Evoluzione Arte (1979).
Oggi la sua eredità intellettuale e culturale è portata avanti dalla Casa-studio Fernando Melani, sita in Corso Gramsci 159, di proprietà del Comune di Pistoia e gestita dall’ U.O. Musei e Beni Culturali dello stesso comune. Nella casa-studio, accessibile su prenotazione, è possibile immergersi completamente all’interno di un ambiente creativo unico nel panorama culturale pistoiese e toscano.

Lorenzo Sergi ha conseguito la laurea magistrale in Archivistica con la prof.ssa Laura Giambastiani svolgendo una guida dell’Archivio di Fernando Melani. Collaboratore esterno per istituti di ricerca, ha svolto e svolge attività di valorizzazione culturale, per bambini e adulti, in enti e associazioni del territorio. Tra le sue pubblicazioni: SERGI L. (a cura di), Catalogo di mostra I 7 Antichi, le carte dell’Archivio Storico comunale di Monsummano Terme, in «Caffè Storico. Rivista di studi e cultura della Valdinievole», anno I, n. 2, Monsummano Terme, Istituto Storico Lucchese, 2016; Ricerca fotografica e fotografie in LOMBARDI M., PALANDRI A., SERGI L., Jorio raccontato ai bambini, Buggiano, Edizioni Vannini, 2013.