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Lotte sociali e proteste politiche. Il 1917 di una città industriale

Nel settembre del 1917, scrivendo al ministero, il prefetto di Livorno Giovanni Gasperini si mostrava allarmato per i «ripetuti propositi di sovvertimento dell’ordine, la propaganda contro la guerra e quella pel rifiuto della tessera del pane», «tanto più se si poneva mente che nelle ultime, recenti elezioni, la locale Camera del Lavoro, è caduta qui addirittura in balia dei socialisti ufficiali e degli anarchici e che si hanno qui nei molti stabilimenti 14mila operai». Queste poche frasi condensavano in sé alcuni degli aspetti più rilevanti e peculiari del ’17 livornese.

Giuseppe Emanuele Modigliani

In primo luogo, rilevavano l’improvvisa ripresa in quell’anno di proteste su larga scala, dopo oltre un anno e mezzo di sostanziale silenzio dalle ultime manifestazioni neutraliste dei primi mesi del 1915. Un silenzio che aveva indotto il prefetto a sbilanciarsi nell’agosto del 1915 in dichiarazioni sul «risveglio patriottico» ormai diffuso dei livornesi, dopo il prevalente neutralismo prebellico, e sulla perfetta tenuta dell’ordine pubblico cittadino. Ma la situazione, così come le opinioni di Gasperini, erano appunto destinate a cambiare; già nel 1916, secondo una dinamica che attraversa altre aree della Toscana, si era registrato qualche segno di ripresa di proteste di segno economico, non del tutto estraneo a impulsi politici che partendo proprio dai temi della pace e della guerra erano incentivati dal protagonismo del deputato livornese Giuseppe Emanuele Modigliani nelle conferenze internazionali socialiste.

Fra l’aprile e il maggio 1916, all’indomani di un concordato con cui gli operai avevano costretto la Società Metallurgica Italiana a riconoscere il sussidio straordinario integrativo, a fronte del rincaro del caro-viveri, una Commissione del Comitato Regionale della Mobilitazione Industriale (CRMI) dell’Italia Centrale era dovuta intervenire per esaminare le richieste dei lavoratori del grande Cantiere Navale cittadino, imponendo qualche concessione sulle indennità di guerra; ma in ottobre le agitazioni al Cantiere ripresero, con richieste di aumenti per l’accresciuto prezzo dei generi di prima necessità e per la mancanza dei cottimi normali. A fronte dell’atteggiamento dilatorio della direzione dello stabilimento la conflittualità salì di tono, con l’indizione di uno sciopero di mezza giornata (particolare non da poco in uno stabilimento “ausiliario” in cui gran parte della manodopera era militarizzata); gli operai, convinti anche da Bruno Buozzi appositamente giunto in città, decisero infine di fare pressioni sul CRMI che riconobbe miglioramenti salariali segnando una vittoria di Buozzi e della FIOM. Questa protesta si saldò direttamente con le prime settimane dell’anno nuovo, il momento di più acuta crisi sul “fronte interno”, che si aprì pertanto con una netta vittoria del sindacato e degli operai. Proprio in virtù di questi successi, e di altre dinamiche che vedremo, il protagonismo della FIOM nelle grandi fabbriche labroniche si affermò in quei mesi rapidamente (malgrado la riluttanza di diversi industriali, adusi a tradizionali forme di paternalismo, ad accettare il suo ruolo di mediazione nelle vertenze). La città labronica divenne nel corso della guerra una delle sue roccaforti: se nel novembre 1915 la sezione locale aveva 277 iscritti, nel maggio 1917, il rapido incremento dei mesi immediatamente precedenti li portò alla cifra di 3000, salita a ben 14000 nell’agosto 1918.

Per tornare al sintetico intervento del prefetto, la ripresa delle proteste, sospinta da disagi socio-economici, si sarebbe accompagnata nei mesi a una radicalizzazione della classe operaia e del clima politico sui luoghi di lavoro, testimoniata dal passaggio in agosto dell’organismo camerale dal tradizionale controllo dei repubblicani, attestati com’è noto su posizioni interventiste e di collaborazione allo sforzo patriottico, a quello delle componenti libertarie e socialiste rivoluzionarie. Alla guida della locale CdL fin dalla sua fondazione, gli eredi di Mazzini non potevano più eludere il problema di gestire una conflittualità operaia che cresceva di intensità e che avevano cercato di gestire smorzando la politicità delle loro posizioni e tenendo una linea conciliativa fra autorità, imprenditori e lavoratori. Il cambio di mano fu favorito anche dall’illustrato rafforzamento nella rappresentanza sindacale della grande industria, rispetto a un passato egemonizzato fino ad allora da leghe operaie artigiane e di mestiere, più vicine alla tradizione repubblicana ma con scarsi riferimenti alla grande fabbrica. Il passaggio era esemplificato dalla fisionomia del nuovo consiglio direttivo in cui a fianco di 1 membro ciascuno per la lega pastai, fornai, tipografi, spazzini, e due per la lega carbonai stavano ben 45 rappresentanti eletti dei metallurgici aderenti alla FIOM.

Manifesto del Comitato di Propaganda Patriottica del Cantiere Orlando (Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma)

Manifesto del Comitato di Propaganda Patriottica del Cantiere Orlando (Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma)

A favorire tale dinamica sindacale fu peraltro, per una delle tante eterogenesi dei fini innescate  dalla prima guerra mondiale, la creazione della Mobilitazione Industriale, un terzo attore di matrice statale che, con le sue ingerenze nelle controversie fra capitale e lavoro, finì per rinnovare non poco le relazioni industriali. La legislazione speciale di guerra e la Mobilitazione Industriale in particolare, e ancor più una concreta applicazione fatta di temperamenti e aggiustamenti, implicarono, accanto a profili fortemente repressivi, taluni aspetti modernizzanti che a Livorno risultarono assai spiccati. A fronte delle accennate e diffuse resistenze paternalistiche di molti industriali, con un abito mentale di stampo ottocentesco, fu infatti sovente la Mobilitazione a legittimare il maggiore e più organizzato sindacato, forzando la mano agli imprenditori. In una realtà come Livorno, per il suo profilo industriale, e per la tipologia delle sue produzioni, l’introduzione e il regime della Mobilitazione (che abbracciò le maggiori industrie cittadine e molte delle minori), istituito nel luglio 1915 e in seguito rafforzato, ebbero un grande impatto sul quadro socio-politico locale.

Dalle parole del prefetto si intuiva del resto quanto la città potesse considerarsi un’area industriale importante in una Toscana a forte prevalenza mezzadrile, con un numero di occupati nel settore molto al di sopra della media nazionale sospinto ancor più in avanti dalle commesse belliche. Inevitabile che in un tale contesto l’epicentro della conflittualità sarebbe divenuto, negli anni socialmente più caldi del conflitto, la grande industria metallurgica e navale. E fu qui che nel fatidico 1917 le proteste assunsero maggiore frequenza e più espliciti contenuti politici, cominciando a non essere più confinate come nei mesi finali del 1916 entro singoli stabilimenti o categorie e popolandosi di pratiche di resistenza dalla forte valenza simbolica. Quantomai emblematico divenne il caso delle due maggiori industrie cittadine, ossia il Cantiere Navale Orlando e la Società Metallurgica Italiana, facenti capo alla medesima famiglia, che costituiva un vero e proprio gruppo di potere con la sua struttura di clan, la sua rete di clientele, il controllo sulla stampa e un’influenza sulla politica che si ramificava dentro banche ed enti assistenziali.

Nel giugno 1917 sia alla Metallurgica che al Cantiere prese forma un’agitazione contro il d.l. 29 aprile 1917 che prevedeva la ritenuta d’acconto generalizzata di 1 Lira a favore della Cassa nazionale previdenza per tutti gli operai degli stabilimenti ausiliari. Cominciata dalle categorie meno protette e pagate (donne e apprendisti), trovò ampio sostegno in tutte le maestranze. Una solidarietà trasversale favorita anche dal fatto che il 25 giugno alcuni giovani apprendisti erano stati arrestati per i picchetti effettuati all’ingresso del Cantiere; circa 2000 lavoratori fraternizzarono astenendosi dal lavoro, così come fecero in forme più massicce il 4 luglio a fronte dell’arresto di quattro operai esonerati. La fabbrica era pronta per azioni simboliche di più marcato segno pacifista; per protesta contro una trattenuta ai salari per lo sciopero precedente gli operai rientrati al lavoro rimasero fermi alle macchine, e, stando alla ricostruzione del prefetto che parlava di una «massa operaia ormai in continuo fermento», inveirono contro la guerra e la Patria, mentre alcuni lavoranti minorenni cercavano di ammainare la bandiera nazionale dai cantieri per sostituirla con un cartello bianco con la scritta “Viva la Pace”. Giuseppe Orlando giunse a minacciare di chiudere temporaneamente lo stabilimento, mentre in agosto lo stesso Orlando dovette digerire un nuovo accordo per l’aumento dell’indennità di guerra. Il passaggio di mano interno alla Cdl si inserì in questo clima teso e lo alimentò, visto che fra il settembre e il novembre 1917 si susseguirono rivendicazioni e proteste che si estesero ad altri stabilimenti minori.

Giuseppe Orlando

Giuseppe Orlando

Negli ultimi mesi del ’17 le agitazioni si caricarono di un ancor più marcata coloritura politica anche per l’atteggiamento aggressivo assunto dalle istituzioni e dalla direzione delle imprese maggiori egemonizzate dagli Orlando. Il Consiglio comunale nel dicembre 1917 tolse il sussidio camerale di cui da anni la CdL godeva per i suoi indirizzi «di natura antipatriottica».. Attestati su accesissime posizioni filointerventiste, gli Orlando giunsero all’indomani di Caporetto a istituire nei propri stabilimenti un Comitato di propaganda patriottica che dopo la rotta sul fronte orientale e l’accelerazione in senso radicale della rivoluzione russa assunse toni particolarmente forti contro i disfattisti e i pericoli del contagio rosso. L’adesione era obbligatoria per le maestranze, ma alla sua infervorata propaganda nazionalista, sostenuta  mediaticamente da veicoli di diffusione come le conferenze patriottiche e la stampa di manifesti e pubblicazioni periodiche, gli operai opposero forme di resistenza che riuscirono a boicottarne l’azione. Le conferenze si susseguirono per tutto dicembre, ma la scarsa partecipazione andò aumentando, con quasi mille astensioni in occasione della conferenza di fine anno di Paolo Orano; di fronte all’imbarazzante fenomeno il prefetto fece presente la preoccupazione dei vertici militari della Mobilitazione Industriale sconsigliando la prosecuzione di quel genere di iniziative che con ordinanza del Ministero Armi e Munizioni furono di lì a poco ufficialmente sospese.

Si trattò di una sconfitta politica per il mondo industriale livornese, sancita in gennaio-febbraio 1918 dall’esito della sfida da esso lanciata anche sul piano sindacale alla CdL che chiedeva al Cantiere Navale un nuovo aumento dell’indennità di guerra e la riduzione delle trattenute contro il caroviveri, in un momento arroventato da problemi di approvvigionamento alimentare che avevano portato in alcune fabbriche a scioperi e grandi cortei spontanei con le donne in prima fila. Di fronte all’atteggiamento duro e sordo assunto da Giuseppe Orlando, la risposta fu una mobilitazione che dilagò in ben 12 stabilimenti e coinvolse 5.431 operai, mettendo in grande imbarazzo gli organismi della MI. Fu quantomai evidente che quest’ultima trovava non di rado uno dei suoi principali ostacoli non solo, o non tanto, nella classe operaia, quanto nella rigidità degli Orlando. La vertenza ebbe vasta eco e si chiuse con un accordo non del tutto sfavorevole ai lavoratori imposto dal Comitato Centrale della MI. E in giugno-luglio, una nuova protesta avrebbe portato al riconoscimento di una sorta di scala mobile, come solo a Milano e Firenze era stata applicata, a segnare la fine delle lotte del ciclo bellico e una sconfitta definitiva per i metodi paternalistico-autoritari della famiglia Orlando.

* Marco Manfredi ha conseguito nel 2005 il titolo di Dottore di Ricerca presso l’Università di Pisa. Dal 2007 al 2009 è stato borsista postodottorato al Dipartimento di Scienze della Politica dell’Università di Pisa, mentre dall’anno accademico 2009-2010 è Professore a contratto di Storia Contemporanea. Attualmente è collaboratore dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno.




MICHELE BARUCH BEHOR: da Cutigliano ad Auschwitz

L’alba del 21 gennaio 1944 fu tragica per la famiglia Baruch, composta da ebrei livornesi sfollati presso la pensione Catilina di Cutigliano, paese posto sulla montagna pistoiese lungo la strada verso l’Abetone. Per quella mattina erano stati convocati nella locale caserma dei carabinieri che li avrebbero inviati a un cupo destino, quello dei campi di concentramento nazi-fascisti.

La famiglia, emigrata a Smirne in Turchia nel 1920 alla ricerca di lavoro, aveva fatto ritorno a Livorno nel 1933 ed era composta da Isacco e Cadina, marito e moglie, rispettivamente di 54 e 44 anni  e dai loro figli, Michele (24 anni), Clara (17 anni) , Susanna (19 anni) e Marco (14 anni).

Erano ebrei sefarditi, discendenti cioè degli ebrei che alla fine del XV secolo i re cattolici di Spagna e Portogallo avevano deciso di espellere dai loro regni, facendo fortuna poi nell’impero ottomano nel quale avevano trovato rifugio. I sefarditi si erano poi diffusi lungo le rive del Mediterraneo e quindi anche in Italia dove si stabilirono soprattutto a Ferrara e Venezia prima e in Toscana poi. I granduchi medicei favorirono con le “Costituzioni leonine” lo stanziamento degli ebrei, in particolar modo a Livorno. Intorno agli anni Trenta del XX secolo la comunità ebraica della città labronica contava su circa 2.300 persone ed era una delle più consistenti della penisola.

Michele, che sarà il solo superstite della famiglia, nel 1933 lavorava alla Società Italiana del Litopone, produttrice di una miscela di solfato di bario e solfuro di zinco che dava il nome all’azienda. Con l’avvento delle leggi razziali, nel 1938, perse il suo impiego e la sua famiglia riuscì a sopravvivere solo grazie all’appoggio della locale comunità ebraica. In una sua testimonianza afferma di aver lavorato anche sotto falso nome per la Todt, un’impresa di costruzioni operante in Germania e poi negli altri paesi occupati che in Italia provvide alla costruzione di parte della linea Gotica, aggiungendo che “dopo una decina giorni i repubblichini, scoperto che ero ebreo, mi consigliarono con tono quasi bonario di abbandonare quel lavoro“.

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Foto gentilmente concessa da Simone Breschi e Gianna Tordazzi

Le famiglie di origine ebrea vivevano nella zona del porto, occupandosi di cantieristica e nel centro storico intorno alla Sinagoga, cioè nelle zone più soggette ai bombardamenti alleati della primavera/estate 1943. Diversi gruppi familiari, fra cui i Baruch, decisero pertanto in quei mesi di spostarsi in zone ritenute più sicure. Molti si rifugiarono nell’entroterra fra Livorno e Grosseto e sulle colline pisane, altri andarono più lontano, nelle zone di Firenze, Lucca, Arezzo. Alcune famiglie si recarono in Garfagnana sfruttando la rete di conoscenze acquisite con le donne di servizio che tradizionalmente scendevano a Livorno da quelle zone. Altre decisero di spostarsi nei paesi della Toscana settentrionale, secondo alcuni direttamente su indicazione della Delasem, la Delegazione per l’Assistenza agli ebrei Emigranti, creata nel 1939 dall’Unione delle Comunità israelitiche per favorire la fuga agli ebrei che erano rimasti bloccati in Italia.

Fu in seguito a questo insieme di situazioni che i Baruch giunsero sulla montagna pistoiese e precisamente a Cutigliano. Quel che accadde loro nel piccolo paese dell’Appennino pistoiese lo sappiamo dallo stesso Michele che, a quarant’anni circa da questi fatti decise di far conoscere il calvario della propria famiglia attraverso un breve dattiloscritto, attualmente conservato presso la biblioteca della comunità ebraica di Livorno.

Una volta catturati, i membri della famiglia Baruch furono condotti prima nel carcere di Pistoia e da qui, dopo dieci giorni, alle Murate a Firenze. Nel carcere fiorentino i Baruch rimasero quindici giorni fra atroci sofferenze prima di partire per Fossoli, presso Carpi (MO), dove vissero circa un mese. Da qui, caricati su un carro bestiame assieme ad altre settanta persone circa, furono indirizzati verso una destinazione a loro originariamente ignota, che si rivelerà essere il campo di concentramento di Auschwitz. Per il viaggio di dieci giorni dice Michele nelle sue memorie “ci era stato dato un fiasco d’acqua e dei barattoli di marmellata e di pane“.

All’arrivo i superstiti furono posti in file di cinque davanti alle Kapò e al temuto dottor Mengele. Lavati, depilati con “rozzi rasoi” e cosparsi di creolina, furono condotti all’aperto in attesa del vestiario, cioè la nota divisa a righe e un paio di zoccoli di legno e, come si legge nelle memorie, delle “mutande pidocchiose appartenute a qualche altro deportato deceduto“. Michele ricorda quindi con dolore la marchiatura  sulla pelle del numero di matricola che ha portato sino alla morte, il 174474 e quella, con lo stesso numero, del vestito.

L’autore rammenta chiaramente a distanza di anni le lotte con i prigionieri già presenti nel campo per conquistare un posto nei letti a castello e gli appelli, fatti spesso alle tre del mattino, con accanto ai sopravvissuti le cataste costituite dai  corpi dei compagni deceduti durante la notte, perchè “all’atto della conta, doveva tornare il numero preciso” dei prigionieri.

Il loro lavoro consisteva nel “portare pietroni sulle spalle o con un carrettone o portare via i cadaveri dalle baracche per condurli ai forni crematori“, accompagnati dalle note di  Rosamunda, una polka della cui versione tedesca nel 1938 erano state vendute più di un milione di copie. Colpisce il fatto che questo stesso dettaglio è citato nell’opera “Se questo è un uomo” di Primo Levi.

Il pranzo era costituito da una brodaglia di rape, la cena che arrivava dopo un altro estenuante appello, da un po’ di margarina.

Michele afferma che solo dopo un po’ di tempo scoprì la funzione della ciminiera “le cui fiamme uscivano dipinte di mille colori“. In quel momento sentì mancargli il terreno sotto i piedi perchè fu solo allora che comprese che i suoi cari, non appena divisi dal dottor Mengele, erano stati destinati alle camere a gas e non alle docce come promesso. Il pezzo di sapone e l’asciugamano che avevano ricevuto erano stati insomma un vile inganno.

Nel suo breve dattiloscritto l’autore cita le baracche destinate all'”ospedale” (in realtà i locali dove venivano effettuati gli esperimenti dei medici nazisti) e fa riferimento alle esecuzioni capitali tramite “fucilazioni e tortura“.

Michele afferma di essere stato scelto, poi tramite il consueto appello, per andare a lavorare in un altro campo, quello di Monovitz, in polacco Oswiecim, a 7 km. da Auschiwitz, dove fu impiegato come manovale per scavare fosse e scaricare sacchi di cemento.

La mattina del 26 febbraio 1945 fu fatta una selezione per individuare gli inabili al lavoro che, si diceva, sarebbero stati destinati a un “lager di riposo“. La reale destinazione dei prescelti erano i forni crematori. Terminato l’appello Michele e altri giovani furono condotti in una fabbrica di armi e pezzi di ricambio per carri armati e autoblinde, la Buna Weke. Per i lavoratori di questa fabbrica i maggiori rischi erano dati dai bombardamenti alleati, quattro complessivamente, che colpirono la struttura e dal fatto che durante questi i tedeschi si recavano nei rifugi chiudendo i prigionieri nei locali con il rischio di rimanere sepolti vivi sotto le eventuali macerie.

L’ultima destinazione di Michele fu Buchenwald, da lui definito un campo di “eliminazione”, dove giunse dopo otto giorni di viaggio sotto i bombardamenti.  Michele, ormai pieno di sporcizia e di “bolle per mancanza di vitamine“, venne adibito a lavorare a un tunnel e riuscì a sopravvivere a diverse epidemie di tifo.

La mattina del 26 febbraio i russi fecero finalmente irruzione nel campo liberando i superstiti. Michele era ridotto a pesare solo 31 chilogrammi. Dopo quattro mesi di cure e una dieta “a base di brodo di carne senza ulteriori aggiunte” per evitare sforzi eccessivi a un corpo estrememamente delibitato, Michele potè tornare nell’amata Livorno dove però non aveva più nessuno che lo aspettasse e soprattutto pochissimi a credere ai suoi racconti. Ritornerà con la moglie nei campi di concentramento molti anni dopo.

Il breve dattiloscritto si conclude con un toccante appello di Michele “Noi scampati lotteremo con tutte le nostre forze perchè tutti si sentano fratelli ed amici, per il progresso che vada sempre avanti nella libertà e nella democrazia, affinchè nessuno abbia più a vivere la triste storia dei campi di sterminio“. Il semplice racconto di Michele si pone quindi nella scia delle testimonianze di molti altri reduci dai campi di sterminio, come ad esempio Primo Levi. Non è solo un resoconto breve, anche se circostanziato dei fatti, ma anche un invito, rivolto a tutte le persone, a fare in modo, attraverso il ricordo e l’impegno quotidiano, che questi tragici eventi non debbano ripetersi più, a far si che certe ideologie, sconfitte dalla storia, non debbano riapparire.

Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.




Gli altri e Ilio Barontini

“Gli altri e Ilio Barontini”: è il titolo della ricerca di Mario Tredici (Ets, 2017) sui comunisti livornesi che, a vario titolo, furono inviati dal loro partito in Urss tra la fine degli anni venti e la metà degli anni trenta, e in cui si riassume sinteticamente il senso di questo lavoro.  Infatti se Ilio Barontini è stato un uomo politico assai noto e celebrato , “gli altri” sono rimasti finora pressoché sconosciuti: su di loro è caduta una spessa coltre di oblio. Ma allora, negli anni segnati dalla dittatura fascista, ebbero un ruolo significativo per mantenere in vita l’organizzazione illegale comunista in Italia, alimentare l’emigrazione in Francia e poi essere inviati dal Pci in Urss, un tratto distintivo perché emblematico di un valore politico. Quattro di loro combatterono in Spagna nelle Brigate Internazionali, e uno Menotti Gasparri cadde nel novembre 1936 in difesa di Madrid.

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Ilio Barontini (al centro in piedi, con la cravata e le mani in tasca) in una foto di gruppo con Togliatti e Nilde Iotti (Archivio Istoreco, Livorno)

Ilio Barontini, è stato finora l’unico cui siano state dedicate ben tre biografie: la prima, la tesi di laurea di Giovanni Degl’Innocenti, scritta nel 1981-82. Poi a seguire quella scritta a due mani da Era Barontini e Vittorio Marchi nel 1987, e infine quella di Fabio Baldassarri edita nel 2013. I documenti base su cui si è sviluppata questa ricerca sono ovviamente i fascicoli del casellario politico centrale all’Archivio centrale dello stato. Una raccolta di dati di natura poliziesca, comunque fondamentali, senza i quali per quasi tutti loro si sarebbe del tutto persa ogni memoria. La persecuzione come strumento di conoscenza, insomma. Documentazione certo parziale e tendenziosa, arricchita però, in vari casi, dalle lettere inviate dagli emigrati alle famiglie e dunque in grado di restituirci il tratto umano e momenti del pensiero politico. Di assoluta importanza è stato anche l’archivio del partito comunista, depositato alla Fondazione Gramsci, poiché su quasi tutti era stata stilata almeno una scheda biografica dall’ufficio quadri del Pci a Mosca. Per i militanti che furono in Spagna è stato di grande utilità anche l’archivio delle Brigate Internazionali, sempre alla Fondazione Gramsci.

Per Barontini, che certamente è la personalità di maggior rilievo politico, l’autore ha scelto di concentrare la ricerca, anche e soprattutto per la dimensione internazionale della sua attività (Francia, Unione Sovietica, Spagna, Etiopia, ancora Francia nel maquis e poi la Resistenza in Emilia-Romagna), su alcuni problemi ancora aperti: quale fu il suo impegno in Francia subito dopo la fuga da Livorno nel maggio 1931; come e perché fu inviato in Unione Sovietica, con note negative come sostenne Paolo Robotti; come si configurò il suo ruolo nel paese del socialismo al tempo di Stalin.  Emerge in sostanza un profilo di Barontini come stalinista a tutto tondo. Fu permeato da quella temperie politica come quasi tutti quelli che ebbero un ruolo dirigente nel Pci in quel tempo, tanto più se si trovarono a vivere e operare nell’Urss.

Il mito, di cui è stato da sempre circonfuso, si è nutrito di una perniciosa rinuncia a un serio approccio critico. Come invece merita, dato che è stato uomo del suo tempo, non ha partecipato a deliziosi balli di gala ma ha attraversato le fasi della storia del XX secolo più dure e drammatiche. Poteva essere solo cavaliere dell’ideale? In sostanza è emersa una figura con forti chiaro-scuri, che nel periodo qui analizzato (in sostanza dal 1927 al 1936) ha avuto un ruolo di primo piano.

La ricerca d’archivio ha consentito di accertare in via definitiva il fatto che Ilio Barontini fu inviato in Unione Sovietica per punizione. Era tra i dirigenti operativi del Centro estero del Pci, responsabile dell’invio di corrieri in Italia e fu travolto dal clima di sospetti nella “grande inchiesta” interna al Pci condotta nel 1932 da Giuseppe Dozza. E di cui si trovano accenni negli scritti di Giorgio Amendola, Mario Montagnana e Aldo Agosti. Fu accusato di “disordine, settarismo, non buona politica dei quadri” come ebbe a rilevare Togliatti. Fu ritenuto responsabile in sostanza di scarsa vigilanza cospirativa e rimosso dal delicato incarico. E gli andò bene, perché Dozza chiese addirittura di sospenderlo per sei mesi dal partito, sanzione che l’Ufficio politico rifiutò di infliggergli. Il libro ricostruisce nel dettaglio la complessa vicenda, finora trascurata dalla ricerca storica.

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Ettore Borghi (Casellario Politico Centrale, Archivio Centrale dello Stato)

Poteva essere una caduta definitiva, invece in Unione Sovietica riuscì ben presto a riabilitarsi e a entrare nel nucleo dirigente dell’emigrazione. Barontini aveva personalità, carattere e “nervi saldi” come si riconosceva. Risalì la corrente, pur patendo un altro infortunio con il rifiuto opposto ai dirigenti sovietici ad andare a Odessa. Pur di restare a Mosca (si era ben inserito nel Club degli emigrati italiani e si era anche innamorato) accettò le conseguenze del suo rifiuto: venne rimosso dall’incarico di funzionario del Profintern e dovette andare a lavorare in fabbrica. Sempre nel 1933 fu implicato, politicamente, nella tragica vicenda che portò all’omicidio di Alberto Bonciani, alias Grandi. Che venne soppresso in un albergo nel centro di Mosca. Finora la vicenda, per il contesto in cui si svolse, aveva sollevato gravi dubbi sul coinvolgimento della dirigenza del Club. La ricerca ha potuto utilizzare una vasta documentazione (anche risalente all’Nkvd) da cui esce una piena conferma della fondatezza di quei sospetti. Anche Barontini fu tra gli estensori di ripetute accuse e avvertimenti sul caso Bonciani.

Grazie alle lettere alla famiglia e alla documentazione d’archivio la ricerca ha teso a delineare quali fossero la mentalità e formazione politica di Barontini quando lasciò la Francia per Mosca. L’esperienza sovietica ne accentuò i tratti, segnò e plasmò la personalità politica di Barontini in senso stalinista. Esito che lui stesso ebbe a segnalare nell’autobiografia: “Non sono mai stato in dissenso con il partito”; “mi sono sforzato di assorbire quanto più ho potuto di ideologia marxista leninista stalinista”. E, in effetti, a Mosca, nel Club Internazionale di cui fu uno dei leader, fu sempre schierato a fianco di Paolo Robotti “stalinista al 100 per 100” come lo definì Dante Corneli. Lui “soldato disciplinato” fu allineato convintamente con il partito fino alle estreme conseguenze anche nella lotta senza quartiere contro i compagni accusati di bordighismo o di trotzkismo. Una lotta politica che nell’Urss di Stalin si trasformò ben presto in tragedia con oltre cento comunisti italiani soppressi e molti altri spediti nei gulag. Una tragedia che il Pci tenne celata fino al novembre 1961, quando proprio Robotti fu autorizzato a parlarne in comitato centrale. Quando Barontini arrivò a Mosca nel settembre 1932, era un dirigente in disgrazia, quando ne uscì, quattro anni dopo, nell’estate 1936 aveva uno status di tutto rilievo, tanto che fu tra i 62 che firmarono il famoso appello ai “fratelli in camicia nera”

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Armando Gigli (Casellario Politico Centrale, Archivio Centrale dello Stato)

Ma torniamo agli “altri”. Alle biografie degli altri otto militanti: vite parallele con tratti ed esiti assi diversi.  Astarotte Cantini e Menotti Gasparri ebbero un destino tragico: il primo fu represso nelle purghe staliniane, l’altro cadde combattendo a Madrid. Cantini era di origini assai modeste, militante anarchico poi diventato comunista, emigrò in Francia e quindi in Russia dove fu soppresso nel 1938. Il secondo, operaio vetraio, fu condannato giovanissimo dal Tribunale speciale, riuscì a fuggire in Francia dove peregrinò molto stentatamente nell’emigrazione (faceva letteralmente la fame), con compiti modesti nei ranghi dei Comitati proletari antifascisti (Cpa) finché venne inviato in sanatorio in Russia fino alla tragica morte a Madrid. Tamberi è una figura atipica: piccolo commerciante in fallimento fuggì  in barca da Livorno con Ilio Barontini e Armando Gigli; visse e lavorò a Mosca per oltre cinque anni e riuscì a tornare in Italia con un passaporto ottenuto dall’ambasciata italiana nell’autunno del 1936, mentre già dilagavano le repressioni staliniane. Riuscì, singolarmente, a passare indenne tra le insidie di Scilla e Cariddi.

Urbano Lorenzini emerge come la figura più compromessa con lo stalinismo: ebbe – come rivendicò – rapporti sistematici con l’Nkvd per denunciare alcuni dei propri compagni di Odessa. Ettore Borghi, di origini contadine, ebbe un ruolo fondamentale nella ricostruzione dell’organizzazione giovanile comunista a Milano: arrestato nel settembre 1934, fu condannato a 18 anni di galera. Nel dopoguerra di affermò come dirigente della Federmezzadri di cui fu segretario generale. Anche Armando Gigli, processato e assolto per insufficienza di prove nel 1927-28 dal Tribunale speciale, fu inviato più volte come corriere in Italia. Arrestato nel 1935 fu condannato a 12 anni. Assai controversa invece la figura di Angiolo Giacomelli, tra i fondatori del Pci a Livorno. Transfuga nel 1927, dal 1929 al 1932 a Mosca, inviato come corriere in Italia fu arrestato. Rimesso in libertà grazie all’amnistia del decennale svolse un ruolo occulto ma molto importante tra il 1933 e il 1935 quando venne nuovamente arrestato nel febbraio nella grande retata frutto di una delazione di un vecchio comunista, Tullio Baronti. Giacomelli fece il compromesso con l’Ovra con l’obiettivo di scoprire la spia o le spie che avevano provocato la caduta dell’intero gruppo dirigente comunista. La cosa si riseppe: da qui l’ostracismo, con l’espulsione per tradimento dal partito, fino alla sua riabilitazione completa nel 1969. Infine di grande rilievo la figura di Silvano Scotto, un portuale che fu l’anima della riorganizzazione del Pci dopo le ripetute retate dei primi anni ’30. La ricerca, proprio nell’ambito della sua biografia, ricostruisce anche il quadro politico degli anni della svolta a Livorno mettendo in luce una coriacea e persistente  volontà combattiva del piccolo nucleo comunista esistente in città. Che non cedette mai le armi.

Quella che esce da questa ricerca è una galleria di figure politiche, con l’obiettivo di ricostruire, attraverso loro, un periodo di lotte e di travagli umani e politici, segnato da una durezza di vita e di sacrifici, di dolori non solo dei militanti ma anche e soprattutto delle loro famiglie (molto importanti le lettere inviate a madri, mogli e figli). Anni ed esperienze connotati certo da asprezze, settarismi, opacità e talora gesti politici condannabili, ma anche anni ricchi di occasioni di crescita e riscatto, di coraggio e di dignità. Di lotte contro il fascismo. Questi tenaci combattenti fuggirono dall’Italia sotto il segno di un’amara sconfitta, ma sicuri che presto o tardi le cose sarebbero cambiate (è il leitmotiv di quasi tutte le lettere alle famiglie) e con una fiducia totale nel ruolo dell’Unione Sovietica. Un’ancora di salvezza, in un mare in tempesta.

 * Mario Tredici, giornalista professionista, è stato capocronista delle redazioni di Pontedera e di Livorno per il quotidiano “Il Tirreno” e vice capo redattore responsabile delle pagine nazionali. Membro del consiglio nazionale della Fnsi, del consiglio regionale toscano e del consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, è stato assessore alle culture del Comune di Livorno dal 2009 al 2014.




19 luglio 1944: gli alleati liberano Livorno, “città fantasma”

«L’opposizione e la resistenza [sono] costrette dentro un fazzoletto di terra a ridosso di una città morta ed impraticabile»; questa frase, scritta da Cesare Ciano, rende meglio di tante descrizioni le terribili condizioni in cui si trovava Livorno nel 1944. Parole simili si ritrovano nella descrizione fornita da un soldato americano, al suo ingresso in città: «a ghost town, lying in ruins, pulverised by Allied bombing» («una città fantasma, che cade a pezzi, polverizzata dai bombardamenti alleati»). Non è un caso se quando Luigi Comencini diresse il film Tutti a casa, nel 1960, molte scene furono girate a Livorno, che ancora in pieno boom economico era lo scenario adatto per fingere di essere ancora in guerra.

Il 1943 era stato un anno particolarmente funesto per la città: luogo di imbarco per il materiale bellico che doveva servire all’esercito italiano e a quello tedesco per sostenere le battaglie contro gli Alleati nell’Africa settentrionale, oltre che principale centro logistico per gli spostamenti delle truppe da e per la Corsica e la Sardegna, il porto di Livorno fu sottoposto a una serie di bombardamenti devastanti per l’intera città, in particolare quello del 28 maggio. Le vicende successive non fecero che aggravare la situazione: i combattimenti successivi all’8 settembre con il tentativo di resistenza all’occupazione tedesca da parte delle truppe italiane (e l’uccisione tra gli altri del maggiore Gamerra a Stagno), così come l’istituzione da parte dei comandi nazisti della “Zona nera” il 12 novembre, che imponeva per decreto lo sgombero completo del porto e del centro urbano, contribuirono ad annichilire la vita nella città portuale. La strategia militare degli Alleati mirava a far mantenere sulla costa toscana un grande quantitativo di truppe tedesche, facendo credere all’imminenza di uno sbarco navale che avvenne invece ad Anzio, nel gennaio 1944. I bombardamenti continui nell’area labronica si devono spiegare anche con questa funzione di ‘diversivi’, per quanto la cosa possa suonare paradossale.

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Piazza Grande, un cumulo di macerie (Raccolta Giancarlo Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

Quando poi si realizzò l’avanzata di terra, tra il giugno e il luglio 1944, i combattimenti furono durissimi. Mentre procedeva l’avanzata alleata, l’importanza della Resistenza divenne sempre più evidente: i partigiani furono decisivi nelle azioni di contrasto ai tedeschi e nel mostrare il territorio alle truppe alleate per accelerare il processo di liberazione. Dopo la battaglia di Rosignano del 12 luglio, l’obiettivo per gli angloamericani divenne Livorno, la cui liberazione fu preceduta da un accerchiamento della corona di paesi che vanno dal Castellaccio a Collesalvetti. Il contributo alla liberazione di Livorno venne proprio dai partigiani del 10º Distaccamento: dopo aver fatto alcuni sopralluoghi nei giorni precedenti, il 19 luglio 1944 entrarono a Livorno insieme alle truppe americane.

La storia della liberazione di Livorno non può prescindere da questi elementi, dalla vicenda di un tessuto urbano devastato dalle bombe e dalle truppe tedesche. Il valore della Resistenza sta anche in questo, nella capacità di rinascere dalle rovine provocate dal fascismo e dalla tragedia bellica, creando un nuovo tessuto connettivo a partire dai germi diffusi dell’antifascismo. Quest’aspetto si coglie molto bene in un brano scritto da Mario Lenzi, uno dei primi a entrare nella Livorno liberata: «Dall’alto delle Rocce Rosse, sul Castellaccio, mi fermai a guardare Livorno, distrutta dalle bombe americane e dalle mine tedesche, con il cannocchiale che gli americani mi avevano assegnato. Si vedevano distintamente le rovine del porto, decine di navi affondate che emergevano dall’acqua bassa, le macerie della piazza Grande, il Duomo sventrato. Percorsi lentamente tutto il panorama della città morta: via Ricasoli, via Roma, Piazza Magenta. Puntai il cannocchiale dove era Villa Medina, ma la mia scuola non c’era più. […] Forse quel mondo non era mai esistito. E se era esistito, poi era scomparso. Un baratro si era aperto, ingoiando per sempre la scuola, le strade, i miei compagni. Erano andati via tutti e con loro se n’era andato anche il ragazzo che io ero stato. Dalla città che c’era una volta, ora si alzavano pigramente nell’aria colonne di fumo».

*Stefano Gallo è assegnista di ricerca presso l’ISSM-CNR di Napoli. Il suo principale campo di ricerca è la storia delle migrazioni e del lavoro, ma si dedica anche alle vicende della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. Collabora con l’Istoreco di Livorno, per il quale sta conducendo una ricerca sulla storia della Resistenza, ed è socio fondatore della SISLav (Società Italiana di Storia del Lavoro), di cui copre attualmente il ruolo di segretario coordinatore.




Leggere i manifesti di Oriano Niccolai

La Federazione del Partito comunista di Livorno aveva un grande grafico. Anzi un grandissimo grafico, Oriano Niccolai. L’Istoreco di Livorno gli ha dedicato, nel 2013 e poi di nuovo nel 2014, una bellissima Mostra con un altrettanto significativo Catalogo, dal titolo Rosso creativo.[1]  Le intenzioni dell’autrice di questo brano sono di cominciare, con questo intervento in rete, una sequenza di approfondimenti per raccontare come una visione politica si possa rappresentare graficamente e come si possa proporre una lettura della storia politica dell’Italia a partire dai colori, come suggerisce Maurizio Ridolfi [2], dalle scelte grafiche, dal testo che le accompagna. Perché i manifesti politici utilizzano una modalità polisemica per veicolare il loro messaggio. Parlano attraverso il colore, l’impaginazione, la grafica, le parole, la loro stessa dimensione e la tecnica di realizzazione.

Sez.2_18_0345Per favorire la comprensione di questa affermazione utilizzerò alcune esemplificazioni concrete, collocabili in un tempo ed uno spazio preciso, a partire dal manifesto del 1961 in occasione della vittoria di Castro a Cuba. Il manifesto è firmato lateralmente con un rinvio al committente, che è il Pci ma in particolare la Federazione giovanile comunista di Livorno. E noi sappiamo che per i manifesti della Fgci Oriano, come tutti gli altri grafici comunisti, aveva più libertà d’azione rispetto invece alle direttive che si ricevevano dalla direzione del Partito per quelli, in qualche modo, più ufficiali. Il colore che domina è il bianco dello sfondo. Secondo la lettura più ortodossa in cima al manifesto trionfa una scritta dove si ricorda che ha vinto non il leader, ma il “popolo” di Cuba che si è liberato del dittatore Fulgencio Battista. Poi il manifesto prosegue richiamando Castro e subito dopo ancora la rivoluzione cubana, ma aggiungendo a chiusura un richiamo alla pace. Qual è l’aspetto più significativo di questa comunicazione, della sua realizzazione grafica? Sicuramente festeggiare l’avvenuta presa del potere da parte di Castro. Quale l’intenzione che ci sta dietro? Allacciarsi al tema dell’internazionalismo in una cornice nella quale questo tema appassionava ancora milioni di uomini e di donne. Aver utilizzato l’immagine della bandiera cubana spezzata a cosa rinvia? Spezzata perché i cubani si sono liberati di un dittatore? Può darsi. Ma a mio parere ancora di più perché la bandiera cubana, ironia della sorte, è costruita con strisce blu su sfondo bianco e con una stella su sfondo rosso. Ricorda quasi in modo automatico la bandiera statunitense. Ed allora averla impaginata in questo modo, con le strisce “esplose” è un rinvio alla sconfitta degli Usa che in questa partita giocarono un ruolo decisivo ma pur sempre perdente. Non aver caricato il manifesto di “rosso” evita alla comunicazione di presentarsi come conforme ad una ortodossia comunista ancora molto forte agli inizi del decennio Sessanta, permette alla comunicazione di rimanere su un registro più “leggero”.

punto esclamativoPassiamo adesso ad un altro manifesto di quello stesso periodo, periodo contrassegnato anche dall’impegno militante di tutta la sinistra italiana a favore del popolo vietnamita in lotta contro gli Stati Uniti.  Nel manifesto di nuovo domina il bianco. Sembra impaginato con una disciplina grafica che risponde ad una direttiva artistica del “togliere” e non a quella dell’aggiungere. Il manifesto si può definire minimalista, quasi astratto. Un grosso punto esclamativo che produce un effetto “non centrato” rispetto al foglio, e che a causa di questa sua asimmetricità ha un impatto sul lettore ancora più efficace, produce un richiamo all’attenzione ma nello stesso tempo, e anzi ancora di più, rinvia alla traiettoria di una bomba che cade. La scrittura del testo che accompagna l’immagine, nelle realizzazioni di Niccolai sempre sintetica e mai aggiuntiva o sostitutiva, è collocata a sinistra e a destra della “bomba-punto esclamativo”.  Il messaggio invita ad un’azione di impegno contro la guerra, all’organizzazione di una Marcia della Pace dentro un quartiere periferico, a sud della città, una mobilitazione di quella che oggi potremmo chiamare la “società civile”. Un luogo decentrato nella città, nella sua periferia sud. Noi sappiamo che quel manifesto è uscito dalla Federazione del Partito comunista di Livorno e quindi ha una sua specifica e ben riconoscibile paternità politica, ma sappiamo anche l’originalità di questa composizione che rinvia senza mezzi termini alle avanguardie pittoriche più interessanti e alla migliore grafica italiana. Sappiamo che per Oriano fare il grafico era “l’arte del togliere”, e sappiamo che non l’aveva imparato da Calvino e dalla sua esigenza di leggerezza, ma dal suo maestro, Albe Steiner[3], il più grande e innovativo disegnatore/comunicatore del secondo dopoguerra italiano. E sappiamo[4] anche che quando sceglieva le parole per ogni manifesto, in testa gli giravano sia i racconti di Marcovaldo che le poesie del suo caro amico Gianni Rodari. Quel Rodari che si era ispirato a lui nella filastrocca “Giovannino perdigiorno”, che in primis doveva essere “Orianino perdigiorno[5]”. Perché? Perché Oriano aveva un aspetto minuto, quasi fanciullesco, con un’aria perennemente assorta e riflessiva, sembrava uno un po’ svagato che correva dietro alle nuvole immaginarie che si agitavano nella sua testa.  Chi lo ha frequentato lo ricorda così: concentrato sopra una pagina di giornale, taciturno, quasi assente, eppure Oriano era sempre assai presente, uno capace di ascoltare le richieste, farle proprie per poi trasformarle in un messaggio grafico e linguistico impeccabile, mai superfluo, mai retorico. Con le sue proposte, che difendeva con caparbietà e consapevolezza, riusciva ad interpretare i bisogni della Federazione, del Partito nel suo insieme, o delle singole parti di quella che era una macchina mastodontica, pesante, lenta. Ma nel farlo ogni volta si prendeva lo spazio di affermare la sua scelta grafica, libera e “leggera”, mai monumentale, mai ingombrante. Perché Niccolai metteva la sua capacità a disposizione del Partito non in modo mercenario o opportunista ma da appassionato militante quale si sentiva e voleva essere.

mollettaMolti anni dopo, ancora per un’altra occasione di mobilitazione per la ricerca di pace. Oriano Niccolai disegna un altro manifesto. Siamo nei primi anni Novanta. La guerra stavolta è quella del Golfo. I tempi sono cupi e Niccolai sceglie lo sfondo nero su cui troneggia la data dell’appuntamento politico e sotto, attaccata ad un filo, è sospesa una bomba tenuta ferma soltanto da una molletta per i panni, su un filo pesantemente curvato. La scritta successiva indica il cosa fare e come, rinvia all’appuntamento di una fiaccolata. La manifestazione quindi si fa in notturna e questo può anche aver ispirato Niccolai a fare lo sfondo nero. Ma lo sfondo è nero anche perché siamo entrati in un orizzonte più cupo, il mondo per un vecchio militante comunista non è più così chiaro, c’è già stata la caduta del muro di Berlino e il tentativo di golpe contro Gorbaciov, tutto si è fatto più incerto. Per chi osservava quel manifesto, quel nero e bianco della bomba erano molto più significativi delle tante immagini di orrore che già campeggiavano nella nostra percezione nonostante la volontà di anestetizzare quella guerra da parte dei suoi contendenti. La “bomba” di Oriano non è proprio la bomba “intelligente” della propaganda militarista. È una bomba sospesa che sta per cadere. Che sicuramente cadrà, così come è, appesa ad un filo. L’innocua molletta, oggetto umile, persino casalingo che la trattiene, non la può certo bloccare per molto ancora. Quindi il messaggio implicito ma non troppo è: partecipate numerosi, la pace è in pericolo e forse siamo già in ritardo. Pochi anni fa due giovani artisti livornesi, Valerio Michelucci e Stefano Pilato ispirandosi forse a questa bomba realizzarono una installazione in occasione del 70° bombardamento di Livorno, quello del 28 maggio del 1943, e ne fecero una finta, dipinta di color fucsia magenta, e la attaccarono sospesa ad un palazzo vicino al mercato di Piazza Cavallotti, luogo popolare, deputato a rappresentare la tradizione democratica e pacifista della città. Perché le proposte intelligenti e creative permettono anche questo, di essere riprese e aggiornate e, risultare, nonostante le loro radici nel passato, originali e intelligenti.[6]

[1] Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti (a cura di Margherita Paoletti), Debatte Editore, Livorno, 2013. I manifesti che risultano nel Catalogo corrispondono a quelli della Mostra che fu realizzata a Livorno dall’8 al 22 novembre 2013 presso Villa Henderson e replicata a Pisa l’anno successivo presso il Centro San Michele degli Scalzi. Sono oggi custoditi presso l’archivio dell’Istoreco di Livorno e formano tutti insieme un fondo di circa duemila pezzi.

[2] Maurizio Ridolfi, L’Italia a colori Storia delle passioni politiche dalla caduta del fascismo ad oggi, Le Monnier, Bologna, 2015.

[3] Rosso creativo, cit., p. 15.

[4] L’espressione “noi sappiamo” non è legata a nessuna astuzia retorico-linguistica ma è giustificata dalle decine di ore di interviste e colloqui che prima di fare la Mostra e il Catalogo abbiamo avuto il piacere di realizzare all’interno dell’Istituto. In particolare Margherita Paoletti, che curò tutta l’operazione, costruì con Oriano Niccolai una specie di carta d’identità di ogni manifesto utilizzato.

[5] Rosso creativo, cit., p. 15.

[6] Purtroppo la bomba finta non c’è più. Fu realizzata nel 2013 e mai presa in carico dal Comune di Livorno. Distrutto uno dei fermi che la sostenevano, è stata tolta e mai più reinstallata.




In fuga di paese in paese

La vicenda della persecuzione degli ebrei ha ancora bisogno di moltissimi approfondimenti. Conosciamo infatti le traiettorie dei più illustri, di tutti coloro che hanno consegnato la loro storia al grande pubblico, in alcuni rari casi già a ridosso del ’45, più spesso dopo molti anni da quegli avvenimenti, attraverso diari e memorie nelle quali hanno rievocato la vita in esilio, il riparo in località più appartate, talvolta il viaggio verso la Palestina o l’esperienza tragica dei campi di concentramento. Più difficile è invece entrare in contatto con vicende più nascoste, vicende delle quali i testimoni diretti hanno mantenuto il segreto o perlomeno una forte riservatezza, di persone semplici ma anche di esponenti borghesi che non sono entrati, non hanno voluto far parte della schiera, mai troppo grande dal punto di vista delle generazioni successive, dei testimoni. Per scelta ponderata, per ritrosia, per caso, perché non hanno avuto la percezione chiara dell’importanza della loro vicenda, ed hanno pensato che questa potesse avere interesse solo per la cerchia degli stretti familiari.

Durante la preparazione della Mostra: Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, mi è capitato di divenire la destinataria di molte testimonianze inedite, sia orali che scritte, pressoché sconosciute. Testimonianze che probabilmente senza questa occasione sarebbero andate perse, testimonianze meno eroiche di altre  perché fortunatamente raccontavano una storia a lieto fine. Mi sono parse però capaci di rendere bene quel terribile biennio e il suo clima di paura. Spesso scritte in un tono minore da testimoni coevi che mettendo sulla carta la storia dei tentativi fatti per salvarsi, pensavano di narrare gli eventi solo per dei cari parenti lontani, o credevano che quelle poche pagine di appunti sarebbero potute servire quando, giunta la vecchiaia,  il ricordo si sarebbe annebbiato e tutto quel vissuto avrebbe corso il rischio di scolorire. Nel caso di cui ragionerò qui di seguito, caso abbastanza eccezionale[1], mi sono giunte tra le mani  quattro scritture diverse, elaborate da quattro diversi osservatori che si confermano a vicenda, senza che nessuno di loro fosse a conoscenza, al momento della stesura, del testo dell’altro. Una lettera di una giovane ragazza, Elsa Lattes di Livorno, una memoria di suo padre, Aleardo Lattes, un’intervista trascritta e pubblicata, quella a Gastone Orefice e poche pagine che riassumono i fatti, scritte dal vecchio Ugo Castelli sul “Libro d’oro della famiglia”.

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Rita Castelli (Fonte: Archivio privato famiglia Castelli)

In questo intervento però mi riferirò solo alle prime tre. Il primo caso è una vera e propria missiva redatta da Elsa, poco più che ventenne, e inviata dall’Italia alla zia Rita Castelli che vive e risiede ad Asmara, per raccontare le vicende degli scampati pericoli. Al momento della stesura la famiglia è salva a Bolgheri, in casa di amici, e attende di poter tornare a Livorno, città già liberata ma impraticabile a causa delle macerie provocate dai bombardamenti. Questa lunga lettera è arrivata fino a noi grazie alla zia Rita che ha custodito per tutta la vita il carteggio che proveniva dall’Italia, e grazie anche alla successiva cura garantita dalla figlia Lidya dopo la sua scomparsa (si tratta di un epistolario di circa 730 lettere). La lettera in questione risale al 18 dicembre 1944. Tramite questa scrittura privata, poco più di due pagine, noi abbiamo come la fotografia di un nucleo familiare piuttosto ampio, quello della famiglia di Ugo Castelli, farmacista livornese, padre di quattro figlie e di un maschio, il primogenito. Tutti sono sposati e con prole, tutti legatissimi alla stessa scrivente che per alcuni è figlia, per altri nipote o cugina. Così dalla lettera di questa giovane, figlia di Aleardo Lattes e di Ada Castelli e sorella di Mario, noi possiamo ricavare tutte le informazioni che lei riassumeva per tranquillizzare la zia più lontana.

In questo testo si rammentano sei nuclei familiari, dai vecchi nonni fino all’ultimo nato, il figlio della cugina  Elena. In tutto diciannove persone, tutte quelle che rientrano nel reticolo parentale più diretto di Elsa Lattes. Così noi lettori di oggi veniamo a conoscenza che, dopo la fuga da Livorno, (tutta la famiglia era stata discriminata e aveva, fino a che era stato possibile, potuto fare una vita quasi normale, con la farmacia, il lavoro, gli scambi delle visite, le piccole gite e poco altro), era cominciato un lungo e tortuoso pellegrinaggio. Il loro distacco dal lavoro e dalla casa è causato dai bombardamenti, soprattutto da quello tragico del 24 maggio 1943. La paura della persecuzione all’inizio resta sullo sfondo degli avvenimenti. A sfollare dalla città verso la campagna  è un gruppo formato da due coppie, quella dei nonni e quella di Ada e Aleardo Lattes, figlia e genero di Ugo Castelli, il patriarca. Nel primissimo periodo si recano prima a Bolgheri da conoscenti, alla villa La Campana, e poi al Forte di Bibbona e poi da lì, e quello sarà il punto di svolta del loro pellegrinaggio, si recano alla villa “la Clementina” a Marina di Bibbona, villa di proprietà della famiglia ebrea dei cugini Tabet. La villa rimane per un certo periodo un rifugio sicuro ma poi, l’avvicinarsi del fronte, l’incrudelirsi della violenza tedesca e repubblichina, consigliano di cercare altri ripari.

Nel frattempo i componenti più giovani come Elsa, Vittorio, Gastone, tutti cugini, erano stati allontanati dalla costa e spediti a Firenze, Firenze che doveva essere “per i ragazzi” una tappa intermedia verso la Svizzera. Questo passaggio però non risulta dalla lettera di Elsa ma si estrapola dalle memorie che scrive il padre Aleardo. Perché Firenze? Forse perché lì risiedeva un fratello della nonna, perché lì agiva una ramificata organizzazione di aiuto per gli ebrei. Comunque tramite questi contatti o altri che non vengono menzionati, i giovani trovano rifugio presso alcuni conventi, come decine di altri ragazzi e ragazze ebree. All’inizio, per i maschi, escluso Mario, il fratello di Elsa, che si reca a Roma, c’era stata l’accoglienza presso i frati di Villa Imperiale[2]. Le ragazze vanno invece in un convento di suore. Scrive Elsa alla zia Rita:

Nel convento dove io ero, solo la madre (ottima donna che ha fatto di tutto per noi e ci ha aiutato fino all’impossibile) sapeva che ero ebrea, le suore tutte no. Vivevo così in mezzo alle educande come se fossi una di loro e non so davvero come hanno fatto a non accorgersi di nulla, per quanto andassi spesso alla messa o alle funzioni nella cappella del convento. Ma la vita a Firenze per noi, cominciava a diventare impossibile; venivamo a sapere di tanta gente che i tedeschi avevano deportato, e ci eravamo molto impauriti.

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Elsa Lattes a Villa Tabet, 1944 (Archivio privato Famiglia Cabib Lattes)

La paura suggerisce quindi di muoversi. Stare fermi in quei frangenti apparve a tutti come una inattività insopportabile, come un piegarsi al destino senza reagire. La decisione presa da Elsa fu di tornare indietro, andare di nuovo verso la costa, alla villa la “Campana”, a Bolgheri, dove Elsa sa di poter trovare i genitori. In quei giorni la stazione di Firenze era piena di soldati, di repubblichini e di tedeschi ma nessuno fa caso a questa giovane ragazza con uno zaino, che si appresta a prendere un treno per percorrere una distanza breve ma che la guerra trasforma in un’odissea che si protrae per dodici lunghe ore, dalle  diciassette del pomeriggio del 14 dicembre 1943[3] alle cinque del giorno seguente. Ma nessuno l’ha bloccata, né alla stazione, né sul treno. In questo colpo di fortuna entra solo il caso e niente altro. Se Elsa fosse stata fermata avrebbero visto dai suoi documenti l’appartenenza alla razza ebraica e per lei sarebbe stata la fine.

Intanto i giovani cugini, i figli di Giorgio Orefice e Anna Castelli: Vittorio e Gastone, dopo aver abbandonato il rifugio dei frati si sono diretti verso Norcia e noi sappiamo che si diedero alla macchia con un gruppo di partigiani del luogo[4]. Il piccolo gruppo era stato anticipato dai genitori che già si trovavano a Norcia e per loro forse la decisione fu meno sofferta Quello che più risalta comunque su questa scena, dove incontriamo diversi personaggi, è la loro modalità di muoversi e di agire, che appare in gran parte guidata dal caso. Una giovane ragazza che ritorna sui suoi passi e fa un viaggio a ritroso anche perché letteralmente non sa dove andare. E’ l’unica ragazza del gruppo, divisa dai cugini, e non ha con chi consigliarsi. Due ragazzi livornesi che vanno a finire in montagna con una banda di partigiani monarchici.

Riprendiamo però le fila della storia della nostra giovane ragazza che,riunitasi con i genitori e con i vecchi nonni, dopo soli quindici giorni di permanenza con i familiari, si rimette in marcia, di nuovo per prima e da sola, perché la sua età la rende potenzialmente più  facile vittima – anche se non viene mai detto o scritto – di uno stupro. Il padre farà un riferimento più esplicito a questo pericolo nelle sue memorie, perché più maturo e più esperto, e sicuramente anche perché ha meno ritrosia linguistica della figlia. Elsa invece, poiché il pericolo, adesso che racconta, è passato, si  permette anche considerazioni romantiche alla giovane zia lontana.

“..non potrai immaginare quello che ho provato quella giornata; mi sembrava di sognare, oppure di stare leggendo un libro di avventure. Infatti sembravo proprio un’avventuriera. Chiusa in un calessino coperto, con due uomini ai lati (uno era un certo Bianchi, guardia della villa Campana) partii di buon mattina invernale, il 12 dicembre[5], dirigendomi nella campagna di Riparbella da un cugino del Bianchi, il quale mi accolse volentieri in casa sua e mi tenne, ti assicuro, più che come una figlia…. La vita che avrei dovuto fare non mi sgomentava per nulla….Andavo la mattina con le bestie nella macchia insieme a un altro ragazzetto di 15 anni e una bimba di 10, stando fuori il più delle volte anche tutto il pomeriggio fino alla sera…..Dopo non molti giorni che ero là vennero anche babbo, mamma e i nonni, scappati di qui. Avevamo poco da mangiare (erba di campo, che si andava a cogliere anche sotto la neve, cavoli e basta). Essi sono stati lì con me fino al 7 marzo, giorno in cui sono partiti per Castellina.”

L’abitazione che la ospita è quella del cugino di Bianchi, certo Rodesindo, collocata nella macchia più fitta[6], dove la vita può trascorrere con una relativa tranquillità. La ragazza vi si fermerà per un lungo soggiorno, fino a pochi giorni prima dell’arrivo degli Americani a Castellina, quando il padre la va a prendere e la porta con sé per ricongiungerla con la madre e i vecchi nonni Castelli. Quando poi le cannonate si fanno troppo vicine, tutto il nucleo si rifugia in una grotta scavata nella roccia e dove, con il gruppo della famiglia Bianchi, raggiungono le nove persone.

Il 7 luglio finalmente Castellina viene liberata ma resta sotto il fuoco dell’artiglieria tedesca che cerca di proteggere la propria ritirata. Trascorrono quindi altri sette giorni e poi il 15 luglio, tutti,  possono finalmente ritornare alla villa di Bibbona, la Clementina, la casa dei Tabet. La trovano integra e finalmente tirano un sospiro di sollievo. La nostra testimone, giovane e piena di salute, si dedica ai bagni di mare prima che sia possibile, per lei e gli altri, rientrare a Livorno, ormai liberata. I parenti stretti di cui non si hanno ancora informazioni sono tanti: Carlo Castelli, lo zio più anziano e la sua famiglia, la moglie, la figlia, il genero e il nipote e la cugina Emma Belforte.

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni '30 - Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni ’30 – Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

I cinque membri che non si sono mai separati sono tutti vivi e sani; hanno perso moltissimi beni ma sono sopravvissuti. Ma proviamo a guardare questa storia da un’altra memoria, molto più dettagliata e,direi, meno edulcorata, di quella di Elsa. La ragazza doveva e voleva rincuorare la zia lontana, in Eritrea, e poneva l’accento sugli aspetti più leggeri tralasciando, penso di proposito, quelli più pesanti. Ma se confrontiamo quanto scritto dalla nipote di Rita con il testo del padre, emerge un quadro più drammatico e più realistico.  Il riepilogo delle vicende proposto da Aleardo, conservato con amore dai familiari e giunto per questo fino a noi, porta come data iniziale: 29 settembre 1945. Il suo racconto non prende le mosse dalla fuga ma dal bombardamento del 28 maggio 1943 su Livorno, uno dei più tragici subiti dalla città. Ed è a quello e alle distruzioni prodotte che il nostro autore attribuisce l’allontanamento suo e dei nonni di Elsa dalla città labronica, subito dopo aver allontanato i ragazzi, Vittorio e Gastone. Le due coppie di adulti vanno nella campagna vicina, da amici, in una abitazione al Forte di Bibbona ma sia Ugo Castelli, il suocero, che Aleardo continuano a tenere la farmacia aperta fino all’ottobre dello stesso anno. A quel punto sia la precarietà delle vie di comunicazione, che il clima di paura che tutti respiravano, in loro aumentato dal fatto di essere ebrei, li convincono a chiudere l’attività e a mettersi in fuga a tutti gli effetti. Aleardo però cerca, ancora per alcuni giorni, di raggiungere Livorno per imballare il salvabile, mettere via qualche mobile e qualche masserizia, chiudere la porta di accesso del negozio. Purtroppo niente di tutto quello che mise in salvo rimase intatto. Tutto fu distrutto dalle razzie degli sciacalli, portato via dai tedeschi in ritirata, distrutto dalle bombe.

Il riparo trovato non sembra però sufficientemente idoneo, soprattutto per la giovane figlia rientrata da Firenze. Allontanata Elsa in una campagna che pare dimenticata, lui e la moglie Ada durante la giornata si allontanano dalla casa che li ospita, e per non dare nell’occhio, si inoltrano nelle macchie vicine ma il 20 dicembre un amico li avvisa che sono stati cercati dai carabinieri di Bibbona. Anche  il padrone della villa la Campana non è più disponibile a tenerli lì, e li prega di andarsene.  Lo spostamento sarà breve. Si recheranno dai cugini Tabet che possiedono una villa poco lontano, la Clementina, e che li ospitano condividendo tutti la paura di essere arrestati e deportati. Ma questa sarà solo una breve pausa. Anche quel rifugio diviene insicuro e dovranno ripartire. Decidono di  seguire la strada della figlia e si rivolgono pure loro dai cugini del Bianchi, nel podere Torignano, nel comune di Riparbella. Alla Clementina restano solo i vecchi Castelli. Ma per poco. Anche per loro quel nascondiglio comincia a divenire troppo pericoloso e così pure la vecchia coppia raggiunge le macchie di Riparbella e si ritrova con gli altri. La situazione però è delicatissima, stretti in una abitazione molto piccola, senza risorse alimentari sufficienti, senza alcuna comodità. La vita diventa un calvario. Le giornate trascorrono nella ricerca di erbe selvatiche da mangiare ma quello che riescono a trovare è veramente troppo poco. Aleardo decide di andare a piedi ben oltre i confini del podere e dirigersi verso Chianni, nelle proprietà di un certo dottore Ugo Cortesi che conosce grazie alla lunga vita passata in farmacia. E miracolosamente arriva alla abitazione signorile di Cortesi che, dopo averlo ben rifocillato, lo fornirà anche di due quintali di grano, cinque chili di fagioli e un grosso pane. Tutte risorse che consumeranno al podere in poco più di due mesi.

Ma intanto Riparbella a causa dei cannoneggiamenti tedeschi e delle bombe americane si sta svuotando di tutti i suoi abitanti. Un certo numero di parenti di Redesindo arriva dove già sono in troppi. Per il nostro gruppo di ebrei è venuto il momento di partire anche da lì. Si recano in due abitazioni a Castellina, poco lontano da Riparbella, dove si era già rifugiata la famiglia dei Moise di Livorno, e dove trovano due stanze per le due coppie in fuga, quella dei Castelli e quella dei Lattes, mentre Elsa resta temporaneamente ancora al podere di Torignano. Il 15 giugno 1944 Aleardo torna a riprendersi la figlia e la conduce con sé, ma il 29 giugno, tutti loro con i Bianchi, quattordici persone tra i 79 anni e un bambino piccolo di due mesi, si rifugiano dentro una grotta scavata nella roccia vicino a Castellina perché il passaggio del fronte rende la stessa piccola cittadina, un inferno. Gli alleati sono vicinissimi ma i tedeschi continuano a mitragliare e lo scontro sembra non dover più finire. In quel frangente, il vero pericolo è quello della guerra, perché in quel territorio, non sembra esserci quello dell’antisemitismo. Scrive Aleardo:

Il giorno seguente al nostro arrivo una folla di conoscenze di vecchia data vennero a farci visita, e tutte non a mani vuote. Fu una gara di gentilezze e di attenzioni veramente commovente. Per quanto facessimo una vita assai ritirata e guardinga, tutto il paese sapeva chi eravamo, e per quale ragione vi eravamo giunti (persino il Commissario prefettizio ne era informato) ma nessuno ci tradì mai.[7]

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Rita Castelli da giovane signora (Archivio privato famiglia Castelli)

Tanta generosità era sicuramente dettata dalla consapevolezza che il quadro politico da lì a breve sarebbe radicalmente cambiato ma, ai  nostri protagonisti, tutto apparve positivo. Nella grotta, adibita a rifugio, ci stanno per sedici lunghi giorni con i viveri sufficienti solo per cinque ma altri arrivano in loro soccorso.

Non soffrimmo la fame, vera e propria, perché altre famiglie ci aiutarono a sbarcare il lunario fino a che, l’ottavo giorno, avvenne il miracolo tanto atteso: la liberazione dall’incubo tedesco-fascista, la provvidenza per noi tutti[8]

Con la liberazione finisce anche la fame perché gli Americani proseguendo nella loro avanzata verso il nord abbandonarono sul terreno: scatolette, cioccolata, latte in polvere e anche, annota Aleardo, carta igienica.  Come aveva scritto a proposito del dormire su dei veri materassi invece che su pagliericci improvvisati, la nuova dimensione faceva intravedere un vivere più civile. Passata la paura delle deportazione, finita quella dei bombardamenti e delle razzie dei fascisti e dei tedeschi, si poteva ricominciare a pensare al futuro anche se, ancora per otto giorni, dall’interno di una grotta prima che intorno tornasse la calma.

Se ripensiamo a quanto scritto fino a qui e lo facciamo guardando una carta geografica, ci accorgiamo che il raggio delle peregrinazioni che le due famiglie dei coniugi Castelli e Lattes affrontarono, fu anche relativamente piccolo. Essi non avevano avuto la possibilità di organizzare fughe più sicure, magari verso l’estero. Per l’età avanzata dei Castelli, Ugo e Emma De Rossi, per mancanza di mezzi a disposizione. Quello che poterono mettere in atto fu una strategia di scappa e fuggi, di gioco tragico a nascondino. Trovato un riparo, lo si utilizzava fino a quando questo risultava sicuro, o perlomeno sembrava sicuro agli interessati. Quando in questa relativa sicurezza, si aprivano delle crepe, ci si spostava un po’ più in là. In base a cosa? Alle conoscenze pregresse, alla rete di parentele che si possedevano e tramite queste si allargavano ad altre potenziali reti di salvataggio da costruire. Nel nostro caso la salvezza arrivò da persone semplici, poveri contadini toscani. Nessuno di loro mai, fino a qui, era stato nominato in un documento di tipo pubblico. Lo fecero per antifascismo convinto? Forse è chiedere troppo. Lo fecero e basta, a loro rischio e pericolo, ma la loro scelta di non partecipare alla caccia all’ebreo, di non approfittare di una famiglia in fuga, permise la salvezza di cinque persone.

A me questa è sembrata una storia piena di angoscia e di paura, ma anche una storia piena di solidarietà e di dignità e per questo significativa da raccontare.

[1] Su questa vicenda, vista però da un’angolatura molto diversa, molto legata alla religione, era comparso già diversi anni fa un diario, quello di Emma De Rossi Castelli in, Nei tempi oscuri. Diari di Lea Ottolenghi e Emma De Rossi Castelli due donne ebree tra il 1943 e il 1945, Belforte & C. Editori, Livorno, 2000. Mi riprometto di tornare sopra tutte queste scritture ma in un’altra sede e con più spazio disponibile.

[2]Gastone Orefice. Un giornalista livornese nel mondo, intervista a cura di Catia Sonetti, Ets, Pisa, 2014, p. 32.

[3] La data la ricavo dalla memoria dattiloscritta e inedita di Aleardo Lattes gentilmente concessami dalla vedova.

[4] Gastone Orefice…, cit., pp. 33-34.

[5] Si tratta del 12 dicembre 1943. Il padre di Elsa nel suo diario posticipa questa partenza al 17, ma potrebbe essere anche un refuso della battitura.

[6] Vd. le Memorie di Aleardo Lattes, p.8.

[7] Memoria dattiloscritta di Aleardo Lattes, p.14. L’originale è in possesso della famiglia e presso l’Istoreco di Livorno ce n’è una copia.

[8] Ibidem, p. 17.




Togliatti e il PCI di fronte ai “fatti d’Ungheria”

Tra l’ottobre e il novembre del 1956 l’Ungheria balzò al centro delle cronache internazionali per la rivolta pacifica della popolazione contro il sistema sovietico. Un evento cruciale che riverberò i suoi effetti nel breve e nel lungo periodo rimodulando, anche in Italia, le coordinate entro le quali si sviluppò la Guerra Fredda e la questione comunista. In occasione dei sessant’anni da quegli avvenimenti l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco), ha promosso un convegno dal titolo “Ungheria 1956. Considerazioni inattuali in una cornice di guerra”. L’iniziativa ha avuto luogo giovedì 27 ottobre 2016,  presso la Sala Conferenze dell’Istoreco, Palazzo della Gherardesca. Pubblichiamo qui un’estratto della relazione tenuta in quest’occasione da  Alexander Höbel, assegnista di ricerca presso l’Università di Napoli “Federico II”.

Dopo varie manifestazioni per commemorare Rajk e chiedere il ritorno al potere di Imre Nagy, il 23 ottobre una manifestazione che rivendica l’“indipendenza dell’Ungheria” è seguita da assalti alle sedi della radio e del partito, con le prime vittime da entrambe le parti [Dalos, 37-48]. Alla richiesta di intervento di truppe sovietiche si affianca la nomina a capo del governo di Nagy. Nei suoi Diari, Luciano Barca – allora a capo dell’edizione torinese de “l’Unità” – segnala, oltre al sorgere di “consigli operai”, la presenza “di gruppi di provocatori, veri e propri commandos”, legati alla “vecchia classe agraria” e al clero reazionario [Barca, 156-7].

Il PCI prende posizione con un editoriale di Ingrao – Da una parte della barricata – che esorta a scegliere “tra la difesa della rivoluzione socialista e la controrivoluzione bianca”; poi con un comunicato. Il 27 Nagy forma un governo comprendente anche non comunisti, che ordina il “cessate il fuoco” e annuncia il ritiro delle truppe sovietiche, lo scioglimento della polizia politica e il ritorno della vecchia bandiera. Il 30 è abolito il monopartitismo e si chiede all’URSS “di ritirare tutte le proprie forze armate dall’Ungheria”, ciò su cui il PCUS mostra una cauta disponibilità. I rivoltosi parrebbero aver vinto; solo l’uscita dal Patto di Varsavia – “una richiesta a cui nessun governo ungherese poteva venire incontro” – non è accolta [Dalos, 86-8, 97-101, 107-11].

Tuttavia la rivolta prosegue: un gruppo armato occupa il ministero della Difesa; inizia la “caccia al comunista”. La sede del partito a Budapest è assaltata con artiglieria pesante: vari funzionari vengono linciati o fucilati, e i loro cadaveri appesi agli alberi [Dalos, 76-7, 103-4, 122, 203]. In Italia si verificano aggressioni a sedi del PCI e dell’“Unità”, mentre una lettera di 101 intellettuali chiede “un rinnovamento profondo nel gruppo dirigente del partito” [Ajello, 401-6, 535-8]. “Poli di contestazione” emergono a Roma (la sezione “Italia”, Natoli, Lombardo Radice); Milano (Fortini, Rossanda, Occhetto, l’Istituto Feltrinelli); Torino (la cellula dell’Einaudi). L’intero partito è scosso da una discussione serrata. La CGIL deplora l’intervento sovietico, con un comunicato che indica nei fatti ungheresi “la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di direzione”; Di Vittorio in persona conferma tale linea.

Il 30, un articolo di Togliatti stigmatizza l’“incomprensibile ritardo dei dirigenti” ungheresi “nel comprendere la necessità di attuare quei mutamenti […] che la situazione esigeva, di correggere errori di sostanza”; ma aggiunge che “alla sommossa armata […] non si può rispondere se non con le armi” [Höbel(b), 127-30]. In Direzione il Segretario afferma che la critica anche aspra va bene, ma non si può legittimare la rivolta armata nei paesi socialisti. Con lui concorda tutto il gruppo dirigente, eccetto Di Vittorio, secondo il quale “l’insurrezione è un fatto storico e dobbiamo trarne le lezioni”. Anche Berlinguer sottolinea che “in Ungheria c’è stata un’esplosione di malcontento popolare e ciò esige di spiegarne le cause”. Per Pajetta “chi non capisce che bisogna dirigere in modo nuovo non può dirigere il movimento operaio”. Da tutti però la rivolta è condannata, e Di Vittorio è aspramente criticato. Conclude Togliatti: “In Ungheria non era in corso una discussione, vi era una sommossa […]. In una simile situazione o si schiaccia la sommossa o si finisce per essere schiacciati” [Righi, 210-40]. Il comunicato riconduce la crisi alla “insufficiente capacità di consolidare le alleanze della classe operaia e il lavoro comune di edificazione socialista con una politica che rispondesse alle strutture sociali, alla storia e alle tradizioni nazionali”: da ciò “un distacco fra lo Stato e le masse” aggravato da “metodi burocratici di direzione”; tuttavia “era dovere sacrosanto […] sbarrare la strada” al ritorno delle forze reazionarie [Höbel(b), 151-61].

Intanto il gruppo dirigente sovietico, anche sotto l’influenza dell’attacco anglo-francese a Suez, si orienta per un secondo intervento [Kramer]. Il 1° novembre Nagy proclama l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia, mentre il cardinale Mindszenty chiede la restituzione delle proprietà della Chiesa. Il 4 il secondo intervento sovietico ha luogo [Dalos, 117-20, 125-8, 135-7].

Per Togliatti, l’alternativa sarebbe stata “l’anarchia e il terrore bianco”. L’ intervento, quindi, è “una dura necessità”, che conferma l’urgenza di correggere gli errori del passato [“l’Unità, 6.11.1956; Bonchio et alii, 97-102]. La difesa delle ragioni dell’iniziativa sovietica procede quindi di pari passo con la critica avviata nell’intervista a “Nuovi Argomenti”.

L’articolazione della posizione del PCI sui “fatti d’Ungheria” è confermata dai colloqui di Parigi tra Velio Spano e una delegazione del PCF in vista di una eventuale posizione comune. La divergenza, però, è netta. Gli italiani imputano gli eventi a due fattori: “i gravi errori compiuti” e la “disgregazione” del Partito ungherese. Ciò ha reso “possibile che una parte delle masse popolari si lasciasse trascinare a un movimento di carattere insurrezionale”, in cui si sono inserite “forze reazionarie e fasciste”. Un emendamento inviato da Togliatti ribadisce che “una correzione degli errori […] avrebbe senza dubbio evitato il movimento popolare che ha portato all’insurrezione, così come un legame più profondo con le masse avrebbe permesso al partito” di evitare quell’appello alle forze sovietiche, che ha prodotto una “esasperazione del sentimento nazionale”. È un’aggiunta non marginale, respinta dai francesi. L’idea di una posizione comune sfuma [Höbel(a)].

La linea dei comunisti italiani è insomma lontana da un allineamento acritico. L’accento è posto in particolare rapporto partito-masse e sulle questioni più generali dell’egemonia, che non a caso saranno rilanciate di lì a poco con l’VIII Congresso, quello della “via italiana al socialismo”.

 

 




Ebrei in Toscana, XX-XXI secolo

Il 20 dicembre 2016, alle ore 13, si aprirà presso la Galleria delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi a Firenze la prima grande mostra sulla storia degli ebrei in Toscana nel XX e XXI secolo. Un arco di tempo a cavallo di due secoli, due guerre mondiali e migliaia di storie di vite che appartengono a questa regione e si legano al mondo intero.

La Mostra, aperta dal 20 dicembre 2016 al 26 febbraio 2017, promossa e coordinata dall’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (ISTORECO), realizzata col contributo determinante della Regione Toscana, racconta attraverso un percorso narrativo di immagini, documenti, testi e produzioni multimediali la vita delle comunità ebraiche toscane e i loro legami con la comunità ebraica italiana e internazionale.

L’importanza delle comunità ebraiche nella storia della Toscana è legata alla presenza di una rete diffusa e diversificata di gruppi, da quello di Livorno – sicuramente il più numeroso – alla comunità di Firenze, a quelle di Pisa, Siena, il piccolo nucleo di Pitigliano, e altri gruppi familiari sparsi sul territorio.

Ogni comunità, grazie ai suoi membri, ha legami con il resto del mondo. Alcune famiglie provengono dall’antica emigrazione iberica, altre dal bacino del Mediterraneo, altre ancora dall’Europa dell’Est. Ogni comunità ha poi relazioni con la tradizione sionista nazionale ed internazionale, con i fermenti culturali che attraversano il paese e con gli orientamenti più significativi che lo agitano.

Il racconto di questa storia permette di cogliere i rinvii ad una cornice che non è solo locale ma nazionale ed europea, con un allestimento espositivo rivolto anche al mondo dei non addetti ai lavori, e soprattutto ai più giovani.

I testi, in italiano e inglese, si prestano ad una molteplicità di letture trasversali e di connessioni e sono arricchiti da riproduzioni di carte d’archivio, copertine di libri e disegni ma soprattutto da uno straordinario apparato di riproduzioni fotografiche generosamente messo a disposizione da archivi familiari privati e da fondazioni culturali. L’idea è rivolgersi a tutte le generazioni per rafforzare i fili della nostra memoria democratica e soprattutto costituire un antidoto alle pulsioni razziste e discriminatorie che attraversano la nostra realtà.

Il progetto scientifico è curato da un gruppo di studio e di lavoro costituito dalla Direttrice dell’ISTORECO Catia Sonetti e tre ricercatrici di storia ebraica contemporanea: Barbara Armani (Centro Interdipartimentale di Studi Ebraici, Pisa), Elena Mazzini (Università di Firenze), Ilaria Pavan (Scuola Normale Superiore di Pisa). La traduzione dei testi è stata curata da Johanna Bishop.

L’allestimento è progettato da Frankenstein-Progetti di vita digitale di Firenze.

La mostra è organizzata con il supporto della Regione Toscana; il sostegno della Città Metropolitana di Firenze; col patrocinio della Scuola Normale Superiore, dell’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (Indire), dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, dell’UnicoopFirenze.

NOTIZIE UTILI sulla MOSTRA

20 DIC | 26FEB

FIRENZE, Galleria delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi

Via Camillo Cavour, 5

ORARI DI APERTURA E VISITE GUIDATE

Dal martedì alla domenica dalle 10.00 alle 18.00, ingresso gratuito

Info: +39 0586 809219 | +39 055 284296 | +39 334 112 3981

istoreco.livorno@gmail.com | isrt@istoresistenzatoscana.it

Per prenotare visite guidate (massimo 25 persone), rivolgersi a:

Istituto Storico della Resistenza e della società contemporanea nella provincia di Livorno (ISTORECO)

Mail: istoreco.livorno@gmail.com

Per prenotare visite alle scuole (singole classi), rivolgersi a:

Istituto Storico della Resistenza in Toscana (ISRT), referenti: Paolo Mencarelli e Silvano Priori

Mail: isrt@istoresistenzatoscana.it

Tel: 055 284296 (lun-ven, ore 10-13)

Ufficio stampa e comunicazione

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055-06516906

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