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Fotografie di soldati ebrei durante la Grande Guerra

Non c’è libro di storia che non sottolinei come la Grande Guerra fu una specie di spartiacque nella vicenda ebraica italiana, e non solo in quella. I cittadini italiani di religione ebraica, che da pochi decenni avevano ottenuto la completa emancipazione ed erano diventati in tutto e per tutto uguali agli altri, corsero in gran parte volontari per il fronte.

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Foto 2. Giorgio Cividalli, documento (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

Poiché il loro livello di alfabetizzazione era assai più elevato rispetto alla gran massa degli italiani, si trovarono spesso nelle file dei sottufficiali, degli ufficiali superiori ed anche al vertice della struttura militare. Questa constatazione è vera soprattutto per gli ebrei piemontesi che per primi poterono uscire dai ghetti e che, numerosi, si iscrissero alle Reali Accademie per fare la carriera militare. In qualche modo questa scelta costituiva anche un riconoscimento di lealtà nei confronti di Casa Savoia. È altrettanto nota la partecipazione, che possiamo definire “civile”, delle donne ebree alla causa della Grande Guerra. Cercarono e raccolsero fondi per i soldati più disagiati, prepararono sciarpe e calzini da inviare al fronte, parteciparono attivamente alla propaganda interventista, scelsero il ruolo di madrine di guerra. Sostennero in mille modi la causa bellica.[1] E queste considerazioni che si possono estendere anche ad altri gruppi minoritari, fu sicuramente la novità nel panorama della mobilitazione generale.

Del resto gli stessi numeri ci raccontano come la partecipazione fu estesa e diffusa: considerando il fatto che la popolazione ebraica presente nella penisola era, fatto qualche possibile aggiustamento, di 35.000 individui, di questi 5.500 parteciparono al conflitto. Tra costoro, 450 erano toscani.[2]

Quello che invece è perfettamente sovrapponibile con gli altri soldati partiti per il fronte è la loro reazione di fronte allo scenario che si parò loro davanti. Una fonte utile per riconoscere e riflettere su questa omogeneità con tutti gli altri soldati del fronte, sono le fotografie che scattarono una volta giunti nello spazio bellico.

Il confronto si può fare con facilità con il bel libro curato da Marco Ruzzi per l’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo.[3]

Le fotografie del periodo immediatamente precedente la partenza per il fronte sono spesso foto prese dall’alto, con un atteggiamento che testimonia anche una certa retorica. Come i soldati schierati in ordine perfetto dentro il cortile della Reale Accademia militare di Torino, dentro uno spazio che parla già di guerra, ma in qualche modo è uno spazio asettico, pulito, ordinato. Qualcosa di molto lontano dalla realtà della guerra che ciascuno di loro, volontario o meno, sperimentò in prima persona. (si veda la foto 1)

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Foto 3. Giorgio Cividalli in trincea (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

Una volta al fronte i soldati ebrei si comportarono come tutti gli altri. Forse partirono entusiasti, ma presto cominciarono a perdere l’enfasi iniziale perché la guerra si dimostrò molto più dura di quanto ciascuno di loro poteva aver immaginato. Come si rappresentarono, soprattutto per i cari familiari che li attendevano a casa? All’inizio in posa davanti all’obiettivo, con la divisa ordinata e con lo sguardo fiero. Poi lentamente il paesaggio bellico prese il sopravvento. Ma anche lo stesso spazio nel quale erano immersi era così diverso dalle loro case e dalle loro abitudini. Ricordiamoci che la stragrande maggioranza di questa piccola minoranza viveva in città. Era una minoranza urbana sia per abitudini che per nascita. E adesso i giovani maschi presenti al fronte avevano come compagnia le montagne di dolomia, il paesaggio innevato, i cavalli e i mezzi bellici: cannoni, mitragliatrici, postazioni, trincee, costruzioni artificiali fatte dopo aver con ogni evidenza disboscato gli spazi, o case vuote e abbandonate dalla popolazione locale che era stata costretta ad uno sfollamento forzato. (Si vedano le foto 2, 3, 4)

Nonostante tutto ciò le foto che si inviano a casa vogliono mostrare uno scenario positivo, vogliono rincuorare i genitori, le fidanzate, le giovani mogli. Per dare questa impressione di positività si ricorre alle foto con gli amici più stretti, quelli con i quali si condivide tutto, quelli che ci sono accanto quando si rischia la vita.

In uno di questi piccoli fondi fotografici[4] sono presenti alcune foto dello stesso soldato, Giorgio Cividalli[5], quando dopo la guerra, in compagnia di amici e della giovane moglie, ritorna sugli stessi luoghi. Le foto sono scattate davanti alle stesse montagne sulle quali si è combattuto. Chissà forse per rendere meglio l’idea di cosa ha significato per questo fiorentino, borghese, giovane, vivere e lottare a 2.000 metri di altitudine. È un po’ come tornare sul luogo del delitto. (Si veda la foto 5)

Ma nessuno di loro, o perlomeno pochissimi, soprattutto quelli che si erano riconosciuti nel pacifismo di un loro correligionario più famoso e più avvertito, Giuseppe Emanuele Modigliani, smentirono mai quella scelta, che continuarono a rivendicare anche a decenni dalla fine del conflitto. In questo pensiamo pesi molto anche la loro estrazione borghese, poiché per le testimonianze che abbiamo delle classi popolari il discorso è assai più articolato e complicato.

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Foto 4. Giorgio Cividalli in montagna (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

E per questa adesione alla vecchia scelta ci soccorrono le immagini in divisa militare, quando oramai la guerra è lontana, foto scattate in uno studio in totale tranquillità, lontanissimi dalle granate e dal freddo, dai pidocchi e dalle malattie che quella guerra sporca, disumana come mai altre prima, aveva fatto loro conoscere.

Pensiamo alla bella foto di Carlo Castelli, farmacista partito per la guerra e combattente della sanità[6] (si veda la foto 6) o quella di Carlo Alberto Viterbo che posa accanto alla giovane sposa in abito da ufficiale della Grande Guerra[7]. E la loro identificazione è evidentemente molto forte considerando anche il fatto che ciascun ebreo si trova, una volta giunto al fronte, a sparare contro probabili correligionari che combattono sull’altro fronte. Ebrei contro ebrei.

Nonostante questo le foto ci raccontano una identificazione pressoché totale con la causa italiana, mai venuta meno. Identificazione del resto condivisa anche dalle donne ebree, quelle donne che si erano mobilitate per dare assistenza e conforto ai soldati partiti per il fronte. Scriveva una di loro, a molti anni di distanza, quando si sentiva abbandonata dallo Stato italiano sotto le bombe, in fuga dalla sua casa, perseguitata e perseguibile proprio perché ebrea:

”Ho amato l’Italia con tutte le forze dell’animo mio. Nell’altra guerra ho fatto quanto era in me per concorrere in qualche modo alla vittoria delle armi italiane: ho passato si può dire la vita negli ospedali, ho lavorato per mandare pacchi ai soldati, la sera fino a mezzanotte. E quando sono venute le terribili giornate di Caporetto ho pianto di dolore e di vergogna.

Avrei dato la vita per salvare l’Italia!”[8]

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Foto 5. Giorgio Cividalli in montagna dopo la guerra (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Cividalli)

Eppure Emma De Rossi nei Castelli aveva il primogenito al fronte, Carlo, e sicuramente tremava per la sua sorte. Ma l’adesione all’impresa bellica era stata così forte e partecipata che anche nella tormenta della Seconda guerra e della persecuzione antiebraica, il ricordo rimaneva vivo e veniva rivendicato in nome di una italianità che il fascismo poi aveva calpestato. Perché quella loro partenza entusiasta, spesso anche dalle colonie italiane per combattere contro gli austroungarici, fu poi sconfessata totalmente dallo stato totalitario di Mussolini che in ottemperanza alle sciagurate Leggi razziste del 1938, li espulse da ogni rango dell’esercito italiano[9].

[1] Cfr. la Sezione 01, Gli ebrei toscani e la Grande Guerra 1915-1918, del Catalogo della Mostra Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, Ets, Pisa, 2016, pp. 34-35, e 52-53.

[2] Il conteggio è possibile attraverso la lettura analitica del testo di Pierluigi Briganti, Il contributo militare degli ebrei alla Grande Guerra 1915-1918, Silvio Zamorani editore, Torino, 2009.

[3] Cfr. La Grande Guerra. Fotografie dal fronte, note da Cuneo e dalle città “irredente”, a cura di Marco Ruzzi, Primalpe, Cuneo, s.d.

[4] Si tratta si documentazione raccolta dall’Istoreco di Livorno durante la preparazione della Mostra Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, archiviata presso l’archivio dell’Istituto stesso.

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Foto 6. Carlo Castelli da ufficiale (Fonte: Archivio storico Istoreco di Livorno, fondo fotografico famiglia Orefice)

[5] Le foto della famiglia Cividalli ci furono donate dalla signora Sara Cividalli figlia del soldato Giorgio di cui ragioniamo in questo testo.

[6] Cfr. il Catalogo della Mostra Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, cit., p.33.

[7] Ibidem, p.33.

[8] Emma De Rossi, Pensieri e diario giugno 1943-novembre 1945, in Nei tempi oscuri. Diari di Lea Ottolenghi e Emma De Rossi Castelli. Due donne ebree tra il 1943 e il 1945, Comune di Livorno, Belforte & C. Editori, Livorno, 2000, p.181.

[9] Cfr. Annalisa Capristo e Giorgio Fabre, Il Registro. La cacciata degli ebrei dallo Stato italiano nei protocolli della Corte dei Conti 1938-1943, Il Mulino, Bologna, 2018, pp. 125-129 e Alberto Rovighi, I militari di origine ebraica nel primo secolo di vita dello stato italiano, USSME, Roma, 1999.




8 settembre 1943: il disarmo e la deportazione degli Internati militari italiani

8 settembre 1943: per centinaia di migliaia di soldati italiani presenti sui fronti di guerra in Grecia, nei Balcani, di stanza in Italia, la firma dell’armistizio da parte del maresciallo Badoglio significa la cattura e la deportazione nei lager nazisti. Questo il destino di circa 650000 Internati militari italiani, la cui esperienza è stata a lungo dimenticata.
La notizia dell’armistizio infatti in pochi casi comporta la realizzazione di azioni armate di resistenza ai tedeschi, come a Cefalonia, ma anche come a Pisa, dove il maggiore Gian Paolo Gamerra, il 9 settembre decide di andare incontro alle truppe tedesche con la 12° batteria, rifiuta di cedere le armi e cade nello scontro armato insieme a otto dei suoi soldati. Nella maggior parte dei casi però i soldati non ricevono ordini dai superiori e si sbandano, nel tentativo di tornare a casa. I più fortunati riescono a salvarsi, spesso grazie a donne, madri e mogli putative, che forniscono loro abiti civili e cibo, riuscendo così a metterli in salvo, in quella sorta di maternage di massa di cui ha parlato Anna Bravo. È il caso anche dell’appena citata 12° batteria che, dopo il combattimento coi tedeschi, riesce a rientrare al comando di Riglione, dove le donne del paese, dopo aver dato sepoltura ai nove martiri, che vengono accolti nel cimitero cittadino come membri della comunità locale, assistono i soldati sbandati, riuscendo a farli fuggire prima dell’arrivo dei tedeschi.
Per 650000 soldati però il destino è invece quello del disarmo, della cattura, del rifiuto di combattere nelle file dell’esercito nazista e del rinnovato esercito fascista repubblicano, e dunque della deportazione in Germania. I diari e le memorie degli internati toscani, che sono raccolti in molti archivi, tra cui nel fondo ANEI dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana e presso l’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, fondi da cui questi appunti sono ispirati, si aprono infatti spesso con l’8 settembre, con l’annuncio dell’armistizio, la mancanza di direttive, lo sbando e la cattura.
Al viaggio verso il lager sono dedicate pagine cariche di emozioni: vengono infatti raccontate il sovraffollamento e le inumane condizioni in cui avviene il viaggio, alcuni tentativi di fuga, talvolta le conseguenti punizioni o fucilazioni e il viaggio insieme ai cadaveri. Vengono descritti anche gli espedienti che alcuni soldati escogitano per riuscire a sopportare meglio il viaggio. È il caso per esempio di un soldato che con alcune coperte crea una sorta di amaca legata alla struttura del treno. Infine viene talvolta ricordato l’aiuto e i tentativi di assistenza che la popolazione civile fornisce ai militari durante il trasporto.
Arrivati nel lager, vengono poi sempre descritti i momenti della disinfezione, della schedatura e della requisizione degli oggetti personali. Sono in molti a fare cenno del sentimento di spersonalizzazione provato dopo essere stati spogliati delle proprie cose ed essere divenuti numeri.
La realtà del lager mostra dunque da subito tutta la sua crudezza. In ogni diario o memoria sono infatti descritte le inumane condizioni di vita nei campi di concentramento e nei comandi di lavoro: il vestiario inadeguato, gli zoccoli di legno, gli interminabili appelli fuori al gelo, il freddo, il lavoro duro, la fame.
immagine imi gavettaCostante è il riferimento allo scarso e disgustoso vitto, alla “sbobba”, e ricorrenti sono i racconti sull’arte di arrangiarsi, sulle modalità di reperire il cibo e sulle strategie di sopravvivenza. Numerosi sono gli episodi di furti di cibo sia ai tedeschi che ai compagni di prigionia. Inoltre gli internati riferiscono dei commerci e degli scambi di cibo che avvenivano anche con annunci su bacheche. Altrettanti i racconti in cui gli internati decidono di sfidare le punizioni e la fucilazione per uscire dai reticolati, soprattutto la notte, per reperire qualche patata o rapa nei campi vicini al lager. Si descrivono poi i racconti di litigi coi compagni per il cibo “che riduceva uomini fatti a livello di ragazzacci di strada per non dire peggio” e dunque l’ideazione di stratagemmi per dividere in modo equo le razioni. Numerosi anche i racconti in cui gli internati ricercano nell’immondizia o tra le macerie resti di alimenti e in cui escogitano e mettono in atto piani per catturare ogni genere di animali di ogni sorta. (cfr. testimonianza allegata)
È sottolineata spesso la sensazione di essere diventati come bestie, talvolta in racconti tragicomici, in cui si tenta di abbeverarsi come aveva fatto un cane, si ruba e si mangia il cibo che veniva dato alle anatre o si divide un osso trovato nell’immondizia con un cane. (cfr. testimonianza allegata)
Molti i riferimenti al lavoro, alle violenze e alle punizioni messe in atto dagli aguzzini nazisti per i più disparati motivi, che giungevano anche alla fucilazione anche solo per un’esitazione di fronte alla fatica per il duro lavoro.
Gli ultimi aspetti che vengono spesso delineati sono quelli della liberazione, dell’arrivo degli alleati “che fanno di tutto per far[li] risentire esseri umani”, offrono agli internati cibo a volontà tanto che alcuni ne fanno indigestione e rischiano anche la vita. Alcuni descrivono poi l’attesa del rientro e i campi alleati post-liberazione. In alcuni casi viene denunciato un sentimento di rabbia per il fatto di venire considerati nuovamente prigionieri, nonostante la liberazione, e di non ricevere un buon trattamento. Infine alcuni si soffermano sul tema del rientro, e sul rimpatrio disorganizzato realizzato con ogni mezzo di fortuna: carretti, biciclette, a piedi. L’uscita dal lager è l’inizio di un viaggio a ritroso nello spazio, la strada per tornare a casa spesso compiuta lungo le linee ferroviarie dissestate o a piedi, ma anche un percorso intimo, un primo momento di rielaborazione di quella tragica esperienza, spesso non compresa una volta rientrati.
L’ultimo aspetto che emerge dalle memorie riguarda infatti l’incomprensione e l’isolamento rispetto alla società italiana postbellica, che celebra la Repubblica nata dalla Resistenza e la vittoriosa lotta di liberazione antifascista del “popolo alla macchia” nelle narrazioni e nella storiografia dominante marginalizzando e escludendo dalla memoria pubblica le esperienze degli IMI, che resteranno a lungo taciute.




“Distruggono Firenze!”: la notte dei ponti, 3-4 agosto 1944

Da poco era cominciato ad imbrunire lievemente perché siamo nel plenilunio, quando cinque minuti avanti le ventidue è parso che un terremoto scuotesse la terra, abbiamo udito un boato prima sordo e poi fragoroso […] Ci siamo guardati in faccia: evidentemente i tedeschi cominciano la loro opera di infame distruzione”.

Con queste parole l’avvocato Gaetano Casoni rievoca nel suo diario il momento in cui, chiuso nella propria abitazione con i suoi familiari, avverte come tutti i fiorentini che i nazisti hanno iniziato a far saltare le mine posizionate ai piloni dei ponti. L’ora da tempo attesa è scoccata.

La rapida avanzata degli eserciti Alleati, dopo lo sfondamento della Linea Gustav e la liberazione di Roma, da questi agevolmente attraversata grazie allo status di “città aperta” riconosciuto dalle parti belligeranti, aveva spinto i comandi nazisti a rapide contromisure. Per consentire il completamento dei lavori della linea Gotica fra Spezia e Rimini, lungo la dorsale appenninica, viene attuata una strategia di “ritirata aggressiva” che grava sui comuni e sulle popolazioni della costa e dell’interno. Ai disagi e alle rovine causate dal passaggio delle truppe dei diversi eserciti si uniscono quelle dei combattimenti lungo le diverse linee di difesa tracciate sul territorio, oltre che ad una specifica strategia di “guerra ai civili” con il conseguente stillicidio di saccheggi, rappresaglie, singole uccisioni, stragi delle comunità delle aree attraversate dalle truppe in ritirata.
L’Arno rappresenta l’ultima grande trincea naturale su cui potersi attestare. Il passaggio del fiume deve essere impedito. Firenze, che ne è attraversata, diviene così centrale nelle strategie naziste. Il destino dei ponti è segnato.  I comandi nazisti non vogliono ripetere l’esperienza di Roma, anche se il confronto sull’attribuzione dello status di “città aperta” anima le giornate di luglio fra illusorie speranze e volontà di attribuire al nemico la responsabilità della mancata proclamazione. Al tempo stesso  si fa riferimento al presunto impegno  nazista a risparmiare la città dalle conseguenze “di un’azione combattuta entro l’abitato urbano”, come si legge nell’Avvertenza ai fiorentini, fatta pubblicare sulla “Nazione” del 27 luglio, viene usato per premere sulla popolazione affinché non compia atti di sabotaggio o aggressione nei confronti delle truppe tedesche.

Ma ogni illusione viene meno il pomeriggio del 29 luglio quando viene affissa sui muri della città l’ordinanza di sgombero dei Lungarni, pubblicata il giorno dopo sull’ultimo numero della “Nazione”. Consapevoli del pericolo imminente, a sera si riuniscono in Arcivescovado con il cardinale Elia Dalla Costa, il vice prefetto Gigli, il vice podestà De Francisci, il Soprintendente alle Belle Arti, il console svizzero Steinhäuslin. Dopo la fuga delle autorità fasciste repubblicane, gli ultimi rappresentanti delle Istituzioni cercano di adoperarsi per Firenze. Redigono un “Memorandum” per ricordare le precedenti assicurazioni date da Hitler e da Kesselring a tutela della città, che, insieme anche al rettore Marsili Libelli consegnano il giorno dopo al colonnello Fuchs, da pochi giorni comandante in capo della piazza di Firenze. Precedentemente, fino alla sua partenza il giorno 25, anche il console tedesco Gerhard Wolf si era mosso nella stessa direzione, cercando di tutelare il patrimonio artistico della città. Ma Fuchs non lascia spazio ad illusioni, richiamando le conseguenze negative subite dall’esercito nazista a seguito della proclamazione di Roma “città aperta” e mostrando un volantino lanciato da aerei inglesi in cui si invitava la popolazione a difendere la città e favorire la rapida avanzata alleata. La scelta è già stata presa. L’ultimo tentativo avanzato dalla delegazione di ottenere un lasciapassare per raggiungere il comando Alleato e ottenere precise garanzie sulla loro condotta si spenge, infatti, nella mancata risposta tedesca.

Il Comitato toscano di liberazione nazionale (CTLN) non aveva creduto nella possibilità di una trattativa e riteneva che la città potesse essere salvata solo da un’azione insurrezionale, ma è colto di sorpresa dall’ordinanza del 29 luglio. Le truppe alleate sono ancora troppo distanti dalla città, così come le formazioni partigiane, e il caos diffusosi fra la popolazione dei lungarni rende impossibile qualsiasi azione immediata.

Subito dopo l’annuncio dello sgombero, decine di migliaia di persone devono abbandonare le proprie case, con la consapevolezza di non farvi più ritorno, e trovarsi un luogo sicuro dove potersi riparare nell’imminenza della battaglia. Il carcere delle Murate, chiese, caserme, abitazioni di amici e conoscenti diventano mete ambite. In Oltrarno moltissimi sfollano a Palazzo Pitti. La reggia dei Granduchi e dei re d’Italia diviene l’alloggio del popolo di Firenze che ne occupa sale, corridoi, cortili e loggiati, dove vivranno i giorni della battaglia e trascorreranno il mese di agosto in condizioni di grave precarietà, ma sperimentando anche diffuse manifestazioni di solidarietà umana, grazie all’organizzazione che viene approntata per gestire i bisogni più imminenti e naturali.

Il precipitare della situazione è palesato il 3 agosto dalla proclamazione dello stato d’emergenza. Il comando tedesco ordina ai fiorentini di non uscire dalle proprie case. Chiusi nelle abitazioni, spesso senza adeguate riserve di acqua e di vivere, i fiorentini attendono la battaglia imminente. A sera squadre partigiane cercano di tagliare i fili delle mine al Ponte della Vittoria e alla Carraia, ma sono respinti dalle preponderanti e ben armate truppe tedesche.

I resti di Ponte Santa Trinita

I resti di Ponte Santa Trinita

Nel corso della notte fra il 3 e il 4 agosto le esplosioni provocano boati e scosse che fanno tremare la città, come un terremoto. Scrive sempre Casoni: “Ogni due ore circa si rinnovano gli scoppi di grossissime mine, i boati, i colpi che sembrano determinati da proiettili destinati a cadere su di noi; nuove nuvole si innalzano paurose quasi a precipitare l’enormità del disastro”. Ad uno ad uno sono abbattuti i ponti, fino a quello di Santa Trinita che è così saldo sui suoi piloti da richiedere tre cariche di esplosivo prima di crollare. La scelta di salvare Ponte Vecchio, particolarmente ammirato da Hitler nelle sue visite in città, comporta la distruzione del cuore medioevale di Firenze, alle sue estremità, su entrambe le sponde dell’Arno. I quartieri di Por Santa Maria e di Borgo San Jacopo, via Bardi e via Guicciardini, con le antiche e caratteristiche case torri e la casa di Machiavelli, sono dilaniati e rasi al suolo.

Al mattino, quando i fiorentini più coraggiosi salgono sui tetti o cercano di raggiungere i lungarni si trovano di fronte uno spettacolo spaventoso: monconi di pietre al posto dei piloni in Arno e montagne di macerie fumanti ai lati di Ponte Vecchio. Le esplosioni sono state così forti che pezzi del Santa Trinita sono giunti fino in via Cerretani. L’avvicinarsi del fronte ha così drammaticamente marchiato Firenze e la sua popolazione. Mentre le primi truppe delle truppe coloniali britanniche avanzano da via Senese ed entrano da Porta Romana in città e le brigate partigiane, dopo i primi combattimenti a Gavinana il giorno precedente, penetrano in Oltrarno fra l’entusiasmo della popolazione, la città è divisa in due nell’imminenza della battaglia per l’insurrezione.




Per una storia della Scuola Elementare di Nozzano Castello (II°)

È doveroso soffermarci, attraverso le testimonianze raccolte, sull’11 agosto, giorno particolarmente tragico.

Il giorno 11 agosto 1944 in seguito a rastrellamenti ed arresti operati dalle SS furono radunati in Nozzano Castello nel locale scolastico varie centinaia di uomini. Di questi una parte, la maggiore, furono condotti lontano a lavorare, un’altra parte, circa 70 uomini, furono barbaramente assassinati nei dintorni di Nozzano.  Sembra che la scelta dei candidati alla morte sia stata fatta in questo semplice modo: fu domandato a quei poveretti chi voleva essere visitato e scartato dal lavoro. Tutti quelli che domandarono la visita medica furono assassinati. Un interprete chiese se vi era qualcuno che chiedesse visita. Sessantanove braccia si alzarono e firmarono così la loro condanna a morte. Infatti mentre gli altri furono fatti proseguire verso Lucca i 69 portati a scegliere la morte con atroce inganno furono rinchiusi nelle scuole di Nozzano. Molti furono torturati. Dopo tre giorni di speranze e timori la mattina dell’11 agosto a gruppi di 5 o 6 furono trucidati lungo le strade che da Nozzano portano a Lucca, Quiesa, Massaciuccoli, Massarosa. Sui corpi straziati venne posto un cartello testimoniante l’infame menzogna delle belve naziste ”uccisi per aver sparato sui tedeschi”. Sul territorio di Balbano la sera del giorno 11 vi erano 11 cadaveri crivellati di pallottole. Il giorno di poi con l’aiuto di vecchi uomini raccolti dal Pievano nel paese fu proceduto all’inumazione di questi disgraziati. Prima del seppellimento furono prese di ognuno le caratteristiche personali, l’età presunta, oggetti trovati nelle tasche e un pezzo di giacchetta di ognuno cosicché in seguito furono potuti riconoscer dai familiari e riportati nei relativi cimiteri. Quattro cadaveri furono trovati a Casanova ad occidente della casa di Giovanni Ferretti ed ivi sepolti in una fossa comune (si tratta di Pollone Oscar di Pisa, sfollato a Ripafratta, Pecori Gastone e Carissi Crocifisso maresciallo di Pisa, Dalla Croce Raulle di S.Maria in Monte.) Altri 4 cadaveri furono trovati nella cava di pietre a pochi metri dalla via che conduce a Massaciuccoli a ponente delle case, luogo detto Al Cavaliere (Giusti Guido di Ripafratta, Aladino ed Emilio Barsuglia , Pera Giuseppe di S.Angelo in Campo). Altri tre cadaveri furono trovati nel fondo detto di Bucino, fra la via di Massaciuccoli all’altezza del viottolo che sale alla casa del Giuliani al loco detto Al Cavaliere e l’imbocco del tunnel ferroviario (Sbrana Mario e Farnesi Donatello di Pisa, D’Angiolillo Aniello di Salerno, sfollato a Pisa). Con questi ultimi doveva essere assassinato un quarto, che invece riuscì a sfuggire per un puro caso e correndo nel fondo del canale si rifugiò nella casa dei Pannocchia adiacente alla linea ferrata e di qui più tardi si fece uccel di bosco. Ho saputo poi dal figlio che fu di nuovo rastrellato e condotto in Germania”. (Testimonianza del Pievano Tofani di Balbano sulla strage dell’11 agosto 1944 in Archivio Parrocchiale, Parrocchia di Balbano).

Fummo presi in 300, uomini, donne e bambini. Dopo averci inquadrati ci condussero in località Focetta. Qui ci divisero dalle donne e dai bambini. Soltanto la signora Gereschi fu costretta a seguirci. A Ripafratta un interprete ci chiese se fra noi c’era qualcuno che chiedesse visita. Molti chiesero di essere sottoposti a visita medica. Ci divisero quindi in due gruppi: uno fu fatto proseguire per Lucca, l’altro, del quale facevo parte anch’io, fu portato alle scuole di Nozzano. Passarono così 4 orribili lunghi giorni. Alcuni di noi vennero torturati. Credo che la signorina Gereschi sia stata violentata. Eravamo tutti ammassati in un’aula scolastica, sorvegliati a vista da due sentinelle armate di mitra. La mattina dell’11 agosto venne un ufficiale dell’SS. Ci disse che ci avrebbe fatto passare la visita quattro alla volta. Io fui del secondo turno. Insieme ad altri compagni mi condussero nei pressi di Filettole in località Pancone. Ci fecero scendere e subito ci fucilarono. Per meglio accertarsi della nostra morte i criminali ci spararono a bruciapelo il colpo di grazia alla nuca. Per pura combinazione anziché colpirmi alla tempia il proiettile mi prese di striscio all’orecchio sinistro. Non feci alcun movimento e forse a causa del sangue che mi usciva in grande quantità dalla ferita mi credettero morto. Infatti poco dopo si allontanarono tutti con la camionetta. Allora tentai di alzarmi ma non ci riuscii. Avevo la gamba e il braccio destro massacrati. A prezzo di atroci sofferenze, rotolandomi per terra riuscii ad avvicinarmi al Serchio. Gridai aiuto sperando che qualcuno mi sentisse. Infatti un tedesco che stava facendo il bagno nel fiume si avvicinò. Mi chiese che cosa fosse accaduto ed io gli spiegai il fatto. Dopo essersi accertato della verità delle mie parole andò via e ritornò dopo un’ora insieme a sette suoi camerati armati di mitra e due italiani che trascinavano un carretto. Vi fui caricato sopra e condotto alla Croce Rossa di Avane. Giunti a sera i soliti due italiani e due tedeschi mi portarono, sempre con il carretto, all’Ospedale di Lucca, dove verso mezzanotte mi fu fatta la prima medicazione dal momento in cui ero stato ferito. Sette giorni dopo mi amputarono la gamba sopra il ginocchio e il braccio mi fu rabberciato alla meglio, tanto è vero che ora è completamente inservibile”. (Testimonianza di Oscar Grassini (nato 01/06/1908), messo comunale di S.Giuliano Terme). (5)

Il 19 agosto 1944, dopo una prima scelta che conduce alla Pia Casa di Lucca alcuni uomini che si dichiarano abili al lavoro, 53 reclusi nella scuola di Nozzano vengono condotti fino a Bardine San Terenzo (Fivizzano) e qui legati con filo spinato e poi fucilati a colpi di mitra. Sono i rastrellati del 12 agosto a Valdicastello al termine delle operazioni di Sant’Anna di Stazzema.

Il giorno dopo, 20 agosto, parte dalla scuola di Nozzano un rastrellamento a vasto raggio nei paesi attorno a Lucca. All’alba le SS penetrano a forza nelle case e fanno scendere dal letto tutti gli uomini che, incolonnati e caricati su camion vengono portati a Lucca ed internati alla Pia Casa. Tra i rastrellati ci sono anche i fratelli Franco e Nello Orsi.

20 Agosto 1944, nelle prime ore del mattino fui svegliato da un suono di voci gutturali, incomprensibili, mi ci volle un po’ di tempo prima di poter capire la situazione, poi improvvisamente balzai dal letto scossi mio fratello Franco che dormiva poco distante da me: sveglia gli dissi, c’é il rastrellamento, saltò immediatamente dal letto e tutti e due ci precipitammo verso le scale per discendere, ma era troppo tardi, saliva verso di noi un tedesco della S.S. armato fino ai denti, che non appena ci vide, spianò il suo fucile contro di noi, e con un gesto espressivo ci fece capire di seguirlo. Nella corte dove ci condusse trovammo altri amici, i quali erano attorniati dai parenti e dai genitori in lacrime. Mi misi in fila con loro e dopo dieci minuti di sosta ci avviammo verso il centro del paese, dove ci relegarono in una stalla, in compagnia di altri sfortunati. In quell’ambiente sostammo circa un’ora, poi ci caricarono tutti su di un camion pronti per partire. Fuori vidi donne che piangevano, nel vedersi strappare così i loro cari, bambini che strillavano e chiamavano i loro papà. Ansiosamente io scrutavo tutti i volti per riconoscerne qualcuno noto, e finalmente vidi mio Padre…. Non dimenticherò mai la sua espressione, rivedo ancora i suoi occhi lucidi, lo additai a mio fratello e tutti e due gli sorridemmo per infondergli coraggio, egli ci salutò con la mano, poi fece l’atto di avvicinarsi al camion, ma proprio nello stesso momento un tedesco respingeva brutalmente una donna che si era avvicinata per dare un ultimo abbraccio al proprio marito. Pochi secondi ancora, poi il camion si mise in moto, rivolsi un ultimo sguardo a mio padre e ve lo tenni fisso finché non lo vidi rimpiccolirsi e poi sparire. Ci scaricarono come sacchi alla Casa Pia in Lucca. Indescrivibile il caos che regnava la dentro, centinaia di uomini di tutte le età si muovevano in quelle stanze, in tutti i volti notavo la disperazione ed il timore per la sorte che ci era riservata. Parlai con alcuni di loro, molti si trovavano là già da dieci o quindici giorni, e dicevano che non avevano più la forza di resistervi, altri invece, erano giunti da poco, come noi. Un’ora di aspettativa, poi la mia sorte fu segnata. Un Tedesco ci mise in fila, e scrutandoci in faccia con un cenno ci faceva uscire e ci metteva da una parte, venni scelto anch’io e con gioia anche mio fratello cadde nella scelta. Così partimmo, la destinazione ci venne detta in via eccezionale da un interprete, la meta era Diecimo Pescaglia”. (Testimonianza di Nello Orsi) (6)

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Fascisti di Nozzano della XXXVI Brigata Nera (Archivio privato)

In agosto nell’Oltreserchio si muovono anche i fascisti della XXXVI Brigata Nera, capitanata da Vittorio Marlia di Nozzano che vede tra i più attivi collaboratori: Lelio Rossi di Balbano, Giuseppe Cortopassi di S.Maria a Colle, Paolino Bertolozzi di Farneta. E’ lo squadrismo fascista ad aizzare i tedeschi contro i civili. Testimonianze del tempo affermano che i fascisti locali entravano nei locali della scuola di Nozzano per cambiarsi d’abito. Indossate le divise dell’esercito tedesco uscivano con i soldati impegnati nei rastrellamenti, violenze ed uccisioni.

Il 18 agosto un sottufficiale medico della XVI Panzergrenadier, il sergente Papuska, preleva dalla sua abitazione di S.Maria a Colle il giovane Raffaello Giannini, lo conduce in Corte Cosci a Nozzano S.Pietro e lo uccide.

Il 23 agosto lo stesso Papuska, assieme al suo interprete detto “Il bolzanino”, piomba in Corte Tenente dove massacra a sangue freddo i cugini Alberto e Cherubino Vannucci, ordinando ai genitori del primo di seppellirne i corpi.

Successivamente, nella stessa corte, rastrella altri tre giovani: Pompilio, Aurelio e Pietro Vannucci. Mentre li avvia verso la scuola di Nozzano i tre tentano la fuga così li uccide a colpi di pistola. Il mattino del giorno seguente il criminale nazista fa irruzione in Corte Treppia dove uccide il giovane Alessandro Palagi. (7)

A Lucca liberata, Diana Vannucci, 16 anni, “in seguito a fucilazione del padre avvenuta in S.Maria a Colle ad opera dei tedeschi il 23 agosto ’44 e dovendo provvedere a madre e fratellino” chiederà al CpLN di Lucca di essere assunta come stenodattilografa. Uno degli innumerevoli casi di mancata giustizia e mancato risarcimento per i lutti e le perdite subite.

Il 28 agosto le truppe alleate varcano l’Arno, liberano Pisa (2 settembre) e si dirigono verso la lucchesia. Nozzano Castello non costituisce più un luogo sicuro per la Reichsführer-SS, che lo abbandona tra il 28 e 29 agosto trascinando a nord molti civili e dei sacerdoti incarcerati nella scuola elementare. Prima di abbandonare la scuola i soldati tedeschi la fanno saltare in aria facendo uso di cariche esplosive. Non tutti i camion partono verso nord. Un paio si dirigono verso Filettole e qui, in località Laiano, i soldati del tenente Gerhard Walter fanno scendere i 37 prigionieri, tra cui Don Libero Raglianti. Dopo averli fatti allineare lungo una fossa scavata da una bomba alleata, li fucilano.

E’ bene qui ricordare anche il grave episodio avvenuto nella Certosa di Farneta. Il 2 settembre i soldati tedeschi entrano con un inganno nel monastero: tutti i presenti vengono arrestati e portati in un capannone fuori dal convento. Dodici certosini – 6 monaci, tra cui un vescovo, e 6 conversi (cioè laici con l’abito religioso) – vengono fucilati nei giorni seguenti, tra Pioppeti, Camaiore, Massa, mentre gli altri vengono in parte tenuti in carcere e in parte trasferiti nel campo di concentramento di Fossoli, in attesa del trasferimento in Germania. Vengono uccisi anche 32 civili che avevano trovato rifugio nel monastero. (8)

L’8 settembre 1944 Nozzano viene cannoneggiata dalle truppe alleate. Secondo la testimonianza di Don Giovanni Galli, allora parroco di Nozzano Castello, con circa ottanta cannonate viene distrutta la torre campanaria e vengono gravemente danneggiate sia le case vicine sia la stessa chiesa.  “La Guerra che già da anni seminava morte e rovina in tutto il mondo ha cominciato a farsi violenta anche in Italia e nei nostri paesi. Nozzano è stato uno dei più provati del Comune di Lucca. Abbiamo sopportati numerosi e violenti bombardamenti quando si cercava di colpire il ponte di ferro della ferrovia e gli automezzi tedeschi che ritirandosi da Pisa passavano per le nostre vie.

Il dieci agosto ebbero inizio i rastrellamenti e le aule delle scuole in breve tempo si riempirono di uomini di ogni età portati via anche da altri paesi.  Anch’io fui rastrellato e dopo essere rimasto chiuso nella scuola fui condotto a Lucca. Feci il viaggio a piedi con una colonna lunghissima di uomini sotto la guardia delle S.S. Tedesche.

A Lucca per intercezione dell’Arcivescovo venni liberato subito e potetti rientrare in parrocchia. In paese si erano istallati gruppi di soldati tedeschi. In brevissimo tempo derubarono quasi tutto il bestiame: buoi, mucche, suini, pollame. Non contenti iniziarono la demolizione delle case e ne furono distrutte varie sia dentro il Castello come fuori. Il ventuno fui nuovamente rastrellato. Era le 6 ½ della Domenica. Stavo confessando, quando un gruppo di S.S. armate penetrarono in Chiesa e spianandomi il mitra mi costrinsero a seguirle. Anche questa volta la Madonna mi aiutò e riuscii a raggiungere il Vescovato dove rimasi fino alla liberazione da parte degli Alleati che avvenne il 9-IX-1944.

Nella notte dell’otto settembre Nozzano fu violentemente cannoneggiata dagli Alleati. Fu colpita la Torre con circa ottanta cannonate. La Cella fu semidistrutta e la campana superstite andò in frantumi. Fu colpita anche la Chiesa. Un danno immenso sia alla Torre come alla Chiesa. Delle case possiamo dire che furono poche quelle rimaste illese. I Tedeschi prima di lasciare il paese minarono e fecero saltare le scuole dove erano state chiuse e martoriate migliaia e migliaia di persone tra cui donne e sacerdoti. (9)

Lo stesso Don Giovanni Galli, a guerra finita, ricorda quei giorni:  “L’inizio del nostro calvario avvenne con l’incendio pauroso che distrusse molteplici capanne murate, ricolme del raccolto del grano ancora in manne. Era il frutto di tanti sudori, e su questo ponevamo tante speranze. I colpevoli? Stentiamo a credere alla realtà. “Se si ripeterà un fatto simile mi disse con cipiglio severo il comandante della gendarmeria tedesca che mi aveva fatto chiamare- farò delle gravi repressioni in paese. Riferisca questo ai suoi parrocchiani” Dopo il danno dovemmo prendere anche la colpa. L’incubo era così cominciato e la scuola già rigurgitava di uomini rapiti nei paesi del pisano. Di qui la maggioranza di essi era trasportata a Lucca alla Pia Casa, altri venivano falciati col mitra nei dintorni. Avete potuto vedere coi propri occhi quanti cadaveri contenesse la sola fossa di Filettole. Gli alleati sono ancora al di là dell’Arno, nel paese contiamo pochi tedeschi ma bastano per incutere terrore di morte. Una squadra sale il Castello armata di picconi. Cosa hanno intenzione di fare? Tutti ci dicono che le mine iniziano la temuta demolizione del Castello. Le case sbrecciate e smantellate cominciano a cadere. Il Castello non si riconosce più. Quale sarà la sorte della Chiesa? Se l’opera di distruzione dovesse continuare, finirebbe anch’essa in un cumulo di macerie. I vetri sono andati tutti in frantumi per lo spostamento dell’aria e pezzi di pietra gettati in alto sono poi venuti a sfondare il tetto precipitando sul pavimento. E’ doveroso salvare le suppellettili prima che sia troppo tardi; e così come dalle case si porta via ogni cosa, anche la chiesa viene spogliata. Solo nel vuoto si eleva il grande Crocifisso posto sull’altare maggiore. Alla sera di questo giorno fatale avviene un fatto inaspettato. La medesima squadra demolitrice si trasforma in vero assetto di guerra: depone il piccone e si pone in testa l’elmetto, si cinge i fianchi di bombe a mano e imbraccia il moschetto. Di lì a poco salgono velocemente il Castello alcune macchine tedesche. Le osservo, non visto, dalle persiane; conducono anche degli ufficiali. Nei dintorni della torre sta curiosando qualche bambino e qualche vecchio. Viene allontanato con la scusa che si faranno brillare delle mine ed infatti si ode una fortissima detonazione. Un sergente maggiore tedesco era stato fucilato. Pozze di sangue miste a materia cerebrale sono rimaste per vari giorni a testimoniare il fatto. Quale la causa? Per noi sarà sempre un enigma. Alcuni hanno voluto vedervi una punizione per la inutile e disumana distruzione delle case. Il fatto certo è questo che da quella sera non si udirono più scoppi di mine. Era appena cessato questo incubo, quando ebbero inizio i rastrellamenti: anche il sottoscritto va a finire alla scuola, divenuta centro di raccolta, e di qui incolonnati ci indirizzano alla Pia Casa. Appena a Lucca il sottoscritto fu liberato e dopo tre giorni mandato di nuovo in paese. Alla domenica, nuovo rastrellamento. Come molti paesani furono portati via dalle loro case, così il Parroco fu portato via dalla chiesa. Erano le sei e tre quarti del mattino e stava ascoltando le confessioni. Questa volta dovetti rimanere assente fino alla venuta degli alleati. Intanto Nozzano continua la sua ascesa nella via sanguinosa. Gli alleati sono a poca distanza da noi, quando ha inizio un violento cannoneggiamento. I proiettili cadono violentemente l’uno dopo l’altro sul paese. Il primo bersaglio è la Torre vetusta. Ha sfidato tanti secoli, è rimasta intatta mentre l’ira del tempo e degli elementi ha fatto crollare tante sue sorelle ed ora sembra divenuta debole e fiacca. Ogni colpo è un pezzo di muro che si stacca. La Torre campanaria non si riconosce più e la campana unica superstite colpita in pieno cade. Il tiro si sposta ed è la volta delle case. Quasi tutte sono state più o meno colpite, ed anche attualmente si vedono le stigmate degli squarci…..anche la Chiesa viene colpita. Prima di abbandonare il paese le S.S. tedesche demolirono alcune case in basso. Anche la frazione di Corte Pardi, oltre ai gravissimi danni al palazzo dei conti Bargagli, vide incendiate tutte le sue stalle e le sue capanne.” (10)

Nel 1948 iniziano i lavori di costruzione della nuova scuola elementare, inaugurata l’11 dicembre 1949 ed ancora intitolata ad Ermenegildo Pistelli.

E’ bene infine ricordare come il responsabile per grado delle atrocità commesse sopra descritte, il generale Max Simon, al termine della guerra, dopo essere stato rinchiuso con Reder nel Campo di Wolfsberg, venga processato a Padova davanti a un tribunale militare inglese. Il suo è l’ultimo celebrato di una serie di processi tenuti nella stessa città contro presunti criminali di guerra nazisti. Il criminale nazista viene condannato a morte, ma la sentenza è quasi immediatamente commutata con il carcere. L’ex generale viene trasferito in Germania per scontarvi la pena. Come molti altri prima di lui, è libero nel 1954 anche per intercessione dell’arcivescovo di Colonia Frings e grazie alla campagna per il perdono e la riabilitazione dei criminali di guerra che coinvolge in particolare la Germania negli anni della Guerra fredda, volta a rilegittimare l’esercito tedesco come elemento centrale nello schieramento europeo della NATO.  Durante il processo non si mostra mai pentito, affermando “rifarei esattamente tutto ciò che ho fatto”. Max Simon muore d’infarto nel 1961.

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Note:

(6)  Nello Orsi, Da rastrellati a partigiani – Diario 1944, Tra le Righe Libri 2014

(7)  Don Pio Serafini, De Tempore Belli, Istituto Storico della Resistenza

(8)   Michele Battini, Paolo Pezzino, Guerra ai civili: occupazione tedesca e politica del massacro: Toscana 1944, Marsilio 1997

(9)  Archivio Parrocchiale Nozzano Castello 1944

(10) Bollettino Parrocchiale di Nozzano Castello n.1 in Regnum Christi, maggio 194

 

 

 




Per una storia della Scuola Elementare di Nozzano Castello (I°)

Nei primi anni del ‘900 a Nozzano Castello i bambini in età scolare seguono le lezioni in abitazioni private che vengono affittate dal Comune per questo scopo. A partire dagli anni ’20 il Comune di Lucca acquisisce un edificio che sorge proprio al centro della piazza del paese per adibirlo a scuola elementare: una palazzina a due piani. Le classi sono al pianterreno e l’abitazione della maestra al piano superiore, come d’uso in quel tempo, quando le maestre avevano l’obbligo di residenza nel luogo dove insegnavano.

foto 3In un primo momento la scuola deve essere intitolata a Salvatore Bongi (Lucca 1825 – Lucca 1899), storico e bibliografo, responsabile dell’Archivio di Stato di Lucca dal 1859 fino alla sua morte, ma nel 1928, anche per la volontà dell’allora segretario federale di Lucca del partito fascista, Carlo Scorza, dal 1942 segretario nazionale del Pnf, la scuola di Nozzano viene intitolata a Ermenegildo Pistelli.

Ermenegildo Pistelli (Camaiore 1862 – Firenze 1927) è un sacerdote scolopio, filologo e glottologo, di aperte simpatie per il fascismo. In polemica con Benedetto Croce, che rifiuta sempre l’iscrizione al Partito Fascista, scrive vari articoli sul giornale “Battaglie Fasciste”, organo del fascio fiorentino. Nel 1927 viene pubblicato il suo libro “Eroi Uomini e Ragazzi”. Nella prefazione di Benito Mussolini, Ermenegildo Pistelli viene definito “fascista fedele e appassionato”. Va ricordato che proprio in quell’anno il regime fascista impone il libro unico per l’insegnamento elementare “Patria” scritto da Adele e Maria Zanetti, seguìto nel 1934 dal “Libro fascista del Balilla” di Vincenzo Meletti. (1)

La scuola sorge nella piazza dedicata ai Martiri della guerra fascista, separata dalla Casa del Fascio dal Fosso Dogaia. Oltre la scuola sorge il Campo della Rimembranza dei caduti della Prima Guerra Mondiale, cinto da una inferriata poi tolta e utilizzata come materiale bellico durante la Seconda Guerra Mondiale. Già all’inizio la scuola è insufficiente a contenere tutti gli alunni, per cui ancora si deve ricorrere a succursali dislocate presso privati, come Villa Febbrini, situata nella parte opposta della piazza, ma la scuola della piazza è quella ufficiale.

 

Manifesto con la dichiarazione dello stato di emergenza dopo l’8 settembre

Manifesto con la dichiarazione dello stato
di emergenza dopo l’8 settembre

Dopo l’11 settembre 1943 assume il comando su tutte le autorità militari e civili di Lucca e Provincia il comandante Randolf che, dichiarato lo stato di emergenza, avverte: “coloro che tentassero delittuosamente di nuocere al Reich tedesco o ai suoi soldati, devono attendersi le più severe punizioni senza alcun riguardo”.

Il 18 maggio 1944 la Circolare n.781 gab. riservata ai Podestà e Commissari Prefettizi della Provincia, al Questore e al Comandante provinciale GNR, prevede l’eventualità, in caso di Stato di Emergenza, di sfollamento nel giro di poche ore di popolazione e bestiame verso Pistoia. I Podestà, d’accordo con i Segretari del Fascio Comunale, nominano: i Capi Ammasso, che devono radunare il bestiame e i conducenti; i Capi Colonna, che guidano distintamente bestiame e persone alla località di sfollamento.

E’ previsto l’impiego della Polizia per sostenere i Capi Ammasso e i Capi Colonna per garantire l’ordine pubblico e prevenire o reprimere ogni eventuale incidente. I nominati possono anche non essere iscritti al Partito Fascista, ma devono godere di largo prestigio fra la popolazione.

Per la Zona dell’Oltreserchio vengono nominati: per Nozzano Castello, Capo Frazione Boggioni Amleto; Capo Ammasso Simi Fausto, Capo Colonna Benetti Orlando. Per Nozzano S.Pietro, Capo Frazione Barsotti Alfredo; Capo Ammasso Micheli Giovanni; Capo Colonna Michelucci Vittorio.

Il 24 luglio 1944 la Scuola Elementare di Nozzano Castello viene requisita dalla XVI Panzergrenadier Division “Reichsführer-SS”, comandata dal generale Max Simon. La scuola diventa la sede del carcere divisionale. Nei pressi della scuola, in località Bordogna, viene istituito il tribunale che si occupa di processare e condannare a morte gli elementi sospetti. La gestione del carcere è affidata alla Feldgendarmerie del tenente Gehrard Walter.

 

Le testimonianze di chi è sopravvissuto al soggiorno nella scuola di Nozzano e al trattamento del tenente Walter sono agghiaccianti. Si dorme su pagliericci che al mattino vanno risistemati, pena le ingiurie e le percosse delle guardie. Il cibo è quasi inesistente. Le finestre sono sbarrate e in quella torrida estate l’aria è irrespirabile. Dormire è praticamente impossibile, ci si può recare alle latrine solo al mattino e alla sera. Le SS praticano ai danni dei reclusi un vero e proprio campionario di esercizi di tortura. (2)

Si legge nella testimonianza del maestro Mario Bigongiari arrestato con il fratello don Giorgio, Cappellano di Lunata (Lucca):

Il giorno 16 agosto 1944, dietro denunzia anonima di fascisti, fui arrestato insieme col fratello don Giorgio, cappellano di Lunata, col pievano don Angelo Unti e con altri uomini del paese, in tutto dieci persone, e condotto direttamente a mezzo camion nelle scuole elementari di Nozzano Castello. Arrivati, ci condussero in un’aula del secondo piano, dove trovammo altri due di Lucca, certi Ninci e Vannini; erano circa le sette del mattino. Dalle condizioni dei primi internati veduti, capimmo che ci trovavamo in carcere e fra persone su cui pesavano gravi accuse. In una prima stanza, tutto intorno alla parete c’erano dei  giovani in ginocchio di cui alcuni bendati. Nel mezzo c’era una sentinella tedesca armata di mitra che sorvegliava ogni movimento, percuotendo brutalmente chi, per stanchezza o insofferenza, cambiava posizione. Sempre al piano superiore in comunicazione con la nostra stanza, vi erano i rastrellati di Valdicastello. Tra loro in seguito conoscemmo il pievano don Libero Raglianti, un carmelitano Padre Marcello e uno studente di teologia salesiano Tognetti. Anche le condizioni di questi erano dolorose. L’aspetto lo dimostrava: barba lunga, vestiti strappati, volti cadaverici. Restammo in quella stanza, priva di qualsiasi mobile, tutta la mattina, senza subire alcun interrogatorio e senza  uscire nemmeno per i più elementari bisogni. Alle quattro del pomeriggio ci portarono in un solo coperchio di gavetta militare del grano cotto, che doveva servire insieme ad un pezzo di pane per 12 persone. La sera stessa ci fecero scendere al primo piano, in una stanza più grande con della paglia e delle panche, la quale comunicava con la stanza più terribile perché qui le sofferenze erano continue (…) Dopo due giorni cominciarono gli interrogatori. Ogniqualvolta ci interrogavano, venivamo separati l’uno dall’altro. Quando le interrogazioni non li soddisfacevano, si sfogavano brutalmente. Continuamente pesava su di noi l’incubo di una fine tragica, perché questa giornalmente era la sorte di tanti disgraziati che si vedevano partire sopra una camionetta con alcuni tedeschi armati. Poco dopo tornava la camionetta con i soli tedeschi. Ogni giorno eravamo spettatori di atrocità raffinate: troppo ci vorrebbe a raccontarle tutte. Un giorno portarono una donna di circa 30 anni. Fu messa nella stanza superiore, poi perché per i maltrattamenti subiti gridava aiuto dalla finestra, fu condotta in un piccolo gabinetto al piano superiore, sporco da non dirsi. Ve la tennero in un fetore insopportabile, senza avvicinarsi nessuno, senza bere e senza mangiare due giorni e due notti. Impazzita, fu fucilata in una fossa a poca distanza dalla scuola. Era di Camaiore, si chiamava Leila Farnocchia”.

foto 4 La scuola è separata dalle case circostanti dalla strada comunale, eppure la paura e l’istinto di sopravvivenza domina gli abitanti rimasti in paese, prevalentemente donne, bambini e anziani, inerti di fronte a ciò che accade nell’edificio. Gli uomini quasi tutti sono sfollati da Nozzano per rifugiarsi soprattutto nei locali dell’Ospedale Psichiatrico di Maggiano. Fra le memorie raccolte dalla loro viva voce c’è il ricordo dei camioncini che si allontanano pieni e ritornano vuoti e della donna di Camaiore sopra citata. Leila Farnocchia è una maestra, imprigionata perché sorpresa con volantini contro i tedeschi, secondo alcuni raccolti per terra, secondo altri da lei stessa distribuiti.

Qualche anziano, testimone del tempo, dice che sia stata sorpresa con un canestrino di viveri che sta portando al marito nei campi e accusata di portare cibo ai partigiani. Di fatto i tedeschi la trattano come una partigiana. Dalla finestra della scuola grida il suo nome e si raccomanda che venga avvertita la sua famiglia a Camaiore. Dopo il martirio nella latrina viene fucilata in un campo vicino alla scuola, lungo la strada che porta alla Chiesa di Nozzano S.Pietro. Il suo corpo viene gettato in una fossa di confine. Li rimane diversi giorni, ben visibile e nessuno osa darle sepoltura e perfino guardarla temendo rappresaglie.

Una ordinanza del comando della XVI Divisione vieta comunque la sepoltura delle vittime.

Il periodo che va dall’agosto al settembre ’44 è il più terribile per tutto il territorio, sul quale si sfoga la barbarie dei tedeschi. Lo ripercorriamo attraverso le testimonianze di persone che l’hanno sofferto e che documentano dal vivo in modo tragicamente essenziale le vicende di quei giorni.

Il periodo che intercorse fra l’arrivo degli alleati all’Arno (30 luglio 1944) e l’8 settembre, giorno della liberazione di Nozzano, è quello in cui i tedeschi infierirono sulla popolazione inerme e benché questa rimanesse calma e serena in attesa degli eventi, l’attività tedesca di brigantaggio non ebbe più limiti. Il sistema di rappresaglie e di terrore ebbe inizio con il bruciamento di 12 capanne, ove era ricoverato grano ecc., sul mattino del 29 luglio 1944… Circa la chiamata e l’avvertimento dato al parroco dalla gendarmeria altro nonera che lo scopo preciso di crearsi un alibi per commettere più agevolmente i loro delitti sulle persone e sulle proprietà, Infatti veniva razziato tutto il bestiame, ed a ciò era incaricato un soldato tedesco delle S.S. rimasto celebre in tutta la zona. Lo chiamavano Leo ed era un vero delinquente, specializzato per tale bisogna. Interi campi di patate, fagioli erano depredati sotto gli occhi di coloro che avevano lavorato e sudato. Gli uomini e perfino i ragazzi venivano rastrellati e portati a lavorare. In questo periodo di tempo veniva minato e distrutto il ponte di ferro sul Serchio, minata e divelta la ferrovia che conduce a Viareggio, minata e fatta saltare la galleria di Balbano”. (Testimonianza di Giuseppe Vecci di Nozzano Castello).

Tra il quattro e il cinque agosto una squadra di guastatori demolisce diverse abitazioni in Castello. Il giorno sei hanno inizio distruzioni in grande stile con un cinismo ed una ferocia impareggiabili, poiché il vero scopo di queste distruzioni non viene compreso dalla gente del luogo. In realtà la distruzione degli edifici sul lato sud della cerchia del Castello deve servire ai tedeschi per posizionare cannoni ed artiglieria pesante per colpire in direzione di Pisa gli alleati e frenarne così l’avanzata verso Lucca. Tra gli edifici distrutti, senza dare agli abitanti nemmeno il tempo di raccogliere le loro masserizie, c’è anche la sede della Croce Rossa Italiana, depredata di tutti i medicinali in essa riposti.

La notte tra il 6 e il 7 agosto 1944 i soldati della “Reichsführer-SS”, guidati da spie fasciste, organizzano il rastrellamento della “Romagna” nei Monti Pisani, vicino al Santuario di Rupecava. Oltre 300 uomini vengono catturati e condotti nella scuola di Nozzano. Tra i rastrellati c’è anche una donna, Livia Gereschi, giovane insegnante che conosce il tedesco e che è intervenuta spontaneamente in difesa degli sfollati, spiegando al comandante delle SS che non sono partigiani, bensì famiglie che si sono rifugiate sui monti per sfuggire ai bombardamenti degli Alleati. Ottiene così di far rilasciare donne e bambini, ma non gli uomini e lei stessa viene incolonnata insieme a loro e portata via.

A Ripafratta i prigionieri vengono divisi in due gruppi: uno di “abili al lavoro” che viene condotto alla Pia Casa di Lucca, l’altro, costituito da 69 persone tra le quali si trova anche Livia Gereschi, viene costretto a proseguire a piedi fino alla scuola elementare di Nozzano Castello. Qui i prigionieri trascorrono quattro lunghi orribili giorni, durante i quali molti di loro vengono torturati. La mattina dell’11 Agosto alcuni di loro sono portati in località Pancone, altri, tra cui Livia Gereschi, in località Sassaia nel comune di Massarosa, dove vengono uccisi a colpi di mitragliatrice.  (4)

 

Note:

(1)  Sabrina Fava, Percorsi critici di letteratura per l’infanzia tra le due guerre, Vita e Pensiero 2004

(2)  Gianluca Fulvetti, Una comunità in guerra, L’ancora del mediterraneo 2006

(3)  Mons.Francesco Baroni, Memorie di guerra in lucchesia (1940-1945) Tip. Artigianelli

(4)  Carla Forti, Dopoguerra in provincia: microstorie pisane e lucchesi 1944-1948, Franco Angeli 2007

 




L’eccidio di Monterongriffoli, 17 luglio 1920.

L’Italia uscì dalla Grande Guerra con una situazione di forte crisi economica e sociale, che causò un continuo incancrenirsi dello scontro politico. Nei primi mesi del 1920 si moltiplicarono le violenze. Il 7 marzo si registrò una prima aggressione alla Casa del popolo di Siena, durante la quale rimase ucciso un giovane di 18 anni, Enrico Lachi, per un colpo di pistola sparato da un appuntato dei carabinieri[1].
In segno di forte protesta, fu indetto lo sciopero generale. Si cominciava infatti a percepire una sentita avversione, di parte della forza pubblica e degli organi statali, contro i socialisti, che avrebbe in seguito condotto a una piena affermazione della violenza fascista[2].
Nel moltiplicarsi degli scontri, sabato 17 luglio si verificò l’episodio più tragico delle campagne.
L’oggetto del contendere era il “patto colonico”, del quale i mezzadri chiedevano alcune modifiche, per esempio di avere più del 50% del raccolto e di limitare il potere di escomio del padrone. L’occasione era il periodo della trebbiatura, il momento più delicato del lavoro nelle campagne, durante il quale lo sciopero assumeva una maggiore forza.
Un paio di poderi non ubbidivano all’ordine di scioperare emanato dal sindacato di matrice socialista. Di conseguenza, il proprietario della fattoria di Monterongriffoli, Aldo Bellugi Gragnoli, aveva chiesto al prefetto la protezione dei contadini che volevano tagliare il grano, in particolare il podere di Montepietri.
Problemi di scioperi si ebbero in tutta la provincia, che era in mano alle cosiddette “leghe rosse”, cioè le organizzazioni sindacali socialiste, tanto che fu proclamato lo “stato d’assedio”[3].
La nostra Provincia di questi giorni passati – scriveva il settimanale socialista “Bandiera Rossa Martinella” – è stata invasa da grandi forze armate col preciso scopo di soffocare col sangue la grandiosa compattezza delle masse agricole. La folla della campagna ha sostenuto l’urto violento, non ha piegato un attimo di fronte alla travolgente reazione padronale stimolante le autorità civili e militari alla più feroce repressione”[4].
La mattina del 17 luglio arrivarono a Monterongriffoli alcuni carabinieri del battaglione mobile di Roma, comandati da un maresciallo.
Il paese si sviluppava lungo la strada in discesa sotto una collina di tufo, e alla fine della stessa strada si trovava la villa padronale, che chiudeva l’abitato da un lato. Il maresciallo mandò una parte dei suoi uomini a sorvegliare il lavoro nei campi, mentre gli altri rimasero nella villa.

L’arrivo dei carabinieri aveva riscaldato gli umori degli scioperanti, che avevano comunque deciso di non impedire la trebbiatura da parte dei crumiri.
Erano i primi scioperi che venivano fatti; ancora il Fascismo non esisteva – ha testimoniato la sig.ra A. Meini – erano i contadini che volevano un po’ più di giustizia e stare un po’ meglio”[5].
Le rivendicazioni erano modeste e apparivano nel complesso degne di considerazione, non mettevano in dubbio l’istituto secolare della mezzadria. Ma gli animi erano stati accesi dalla forte propaganda socialista massimalista, dalla crisi economica e sociale, dalla speranza o paura – secondo in quale parte della barricata ci si trovava – di una rivoluzione come quella russa.
La scintilla che innescò la miccia degli scontri fu causata dall’arresto di tre contadini, che secondo alcune testimonianze erano ubriachi e provocarono i carabinieri, secondo altre avevano semplicemente sfoggiato vessilli rossi.
Ecco un paio di descrizioni contrastanti, da parte di due giornali, che fanno capire quanto fossero accesi gli animi e quanto le descrizioni risultassero di parte, orientando l’opinione pubblica dei lettori.
“La Vedetta Senese”, 19-20 luglio 1920.

A Monterongrifoli, frazione di S. Giovanni d’Asso, dove è situata la fattoria di proprietà del signor Aldo Bellugi, si trovavano 20 carabinieri per proteggere i lavori della trebbiatura. Nella mattinata di ieri 14 militi furono dislocati rimanendo così a Monterongrifoli 6 carabinieri con un commissario di P.S.
Una numerosa masnada di scioperanti si partì da S. Giovan d’Asso, distante pochi
chilometri, e si recò nella frazione a reclamare il rilascio di tre contadini arrestati.
Gli scioperanti ebbero la cura di sbarrare le strade d’accesso per impedire l’arrivo di rinforzi. Appena giunti a Monterongrifoli dettero un’assalto in piena regola ai R.R. C.C. tirando bastonate e commettendo violenza.
I carabinieri si difesero con i calci dei fucili cercando di ripararsi dalle botte date con rabbia e con forza, tanto che alcuno ebbe il calcio del moschetto spezzato da una bastonata. Mentre la zuffa continuava, arrivò un camion guidato da una guardia regia. Questa si accorse che un gruppo di forsennati cercava di prendere alle spalle un carabiniere per colpirlo a tradimento. Comprendendo che la vita del milite era in grave pericolo, la guardia sparò un colpo di rivoltella ferendo due contadini.
I carabinieri subito dopo, per non essere sopraffatti, spararono disperdendo la folla.
Si hanno a deplorare 4 morti e 4 feriti, fra i contadini.
I 6 carabinieri rimasero tutti più o meno gravemente contusi.
L’ord
ine è ristabilito”.

“Bandiera Rossa – Martinella”, 25 luglio 1920.

Ingresso Villa padronale a Monterongriffoli, giugno 2020

Sabato 17 verso sera tre contadini del vicino paese di Montisi si recavano a Monterongriffoli. Soffermatosi in una trattoria a bere, furono subito raggiunti dai carabinieri, i quali, senza motivo, li trassero in arresto, trasportandoli alla fattoria dell’agrario Aldo Bellucci-Gragnoli, poiché era colà che un camion di carabinieri comandati da un commissario di P.S. e da un maresciallo, sostava.
L
a folla composta, come dissi, di pacifici lavoratori, si avviava alla fattoria per chiedere il  rilascio degli arrestati. All’approssimarsi di questa, maresciallo, commissario e si dice anche il proprietario, ed il fattore, cominciarono a sparare. Fu un momento di panico. Si domandava se questi agenti e proprietari erano diventati pazzi. Si vedeva la faccia contorta del commissario che gridava sparando, il maresciallo e i carabinieri lo imitavano, dalle finestre della fattoria si faceva altrettanto. Cadevano contadini al suolo, feriti a morte. La folla veniva poi inseguita alla carica dai carabinieri, i quali piattonavano e colpivano col calcio del moschetto”.

La ricostruzione dei fatti risulta molto differenziata, nei giornali, nei documenti e nelle testimonianze. Quello che sembra certo è che arrivò una folla di persone, per chiedere di liberare i contadini fermati, che la folla entrò nel piazzale della villa padronale e che partirono colpi di arma da fuoco, non soltanto dalle pistole di ordinanza, come se qualcun altro avesse sparato contro i contadini.
Si contarono tre morti (Angelo Cingottini di 54 anni, Natale Baglioni di 30 anni e Settimio Capaccioli di 26 anni). Altre sei persone rimasero ferite.
I fatti di Monterongriffoli furono oggetto di un processo penale, tenuto nel corso del 1921, che si concluse in agosto, con le condanne per oltraggio e lesioni alla forza pubblica di alcuni contadini, che fecero ricorso in appello, e con l’assoluzione dai reati di omicidio e violenza del proprietaria dello fattoria Aldo e del parente Guido, per non aver commesso il fatto[6].
Poco dopo l’eccidio, ebbero termine le lunghe trattative sul patto colonico fra l’Associazione agraria in rappresentanza dei padroni e la Federazione italiana lavoratori della terra, in rappresentanza dei mezzadri.
Lo sciopero dei contadini può dirsi finalmente cessato” – scriveva il quotidiano “La Vedetta Senese” del 19-20 luglio –. Notizie che ci giungono da ogni parte della provincia confermano che i lavori sono già ripresi quasi da per tutto, e che in ogni modo l’agitazione è scomparsa possiamo sperare che fatti incresciosi non si abbiano a ripetere…
Disgraziatamente questo sciopero à voluto le sue vittime che potevano certamente essere evitate con un po’ di serenità
”[7].

Il paese di Monterongriffoli nei pressi della fattoria, giugno 2020

Note
[1] G. Maccianti, Una storia violenta: Siena e la sua provincia 1919-1922, Siena, Il Leccio, 2015, pp. 58-59.
[2] S. Maggi, Dalla città allo Stato nazionale. Ferrovie e modernizzazione a Siena tra Risorgimento e fascismo, Milano, Giuffrè, 1994, pp. 305-308.
[3] Lettera di Sesto Bisogni del 19 luglio, in “La Vedetta Senese”, 19-20 luglio 1920, p. 3.
[4] La ferocia bestiale dei carabinieri del re nello sciopero dei contadini, sbocca nel malvagio eccidio di Monterongriffoli, in “Bandiera Rossa Martinella”, 25 luglio 1920, p. 1.
[5] Statuto del Comune di Monterongriffoli. 1534, a cura di F. Raffaelli, Comune di San Giovanni d’Asso, 2001, p. 143.
[6] Archivio di Stato di Siena, Fondo Tribunale Penale di Siena, filza 611, Processi Penali, anno 1921, ottobre-novembre.
[7] Lo sciopero dei contadini. Lo sciopero è finito?, in “La Vedetta Senese”, 19-20 luglio 1920, p. 3.




Dover partire.

Come afferma Patrizia Gabrielli, quello biografico è un approccio a lungo rimasto a margine rispetto alla produzione storiografica sull’antifascismo che, solo fino a pochi anni fa, pareva prediligere una rimozione del retaggio delle storie personali, dei vissuti soggettivi quasi fossero soffocate dalle gesta dei molti eroi che contraddistinsero il periodo e segnarono la storia della nostra repubblica e della nostra libertà.

Nell’ambito della produzione memorialistica sull’antifascismo, il metodo biografico ha acquistato progressivamente uno spazio significativo, al punto che ormai, costituisce parte integrante della bibliografia sull’emigrazione con le sue memorie, autobiografie e carteggi, che hanno avuto il potere di mettere in luce angoli visuali inattesi.

Le ricche e interessanti storie soggettive e collettive contribuiscono così a rendere una visione d’insieme dell’esperienza dei fuoriusciti italiani attraverso plurimi punti di osservazione, non solo statistici o politici. La visione al tempo stesso vittimistica ed elogiativa dei migranti italiani all’estero, offre più profondi e interessanti spunti di riflessione sociologica e culturale. Infatti, ogni situazione contiene in se stessa una complessità che la rende unica. Questo articolo descrive la storia della migrazione da Marti a Valbonne durante l’affermazione del fascismo in Toscana raccontando, a titolo di esempio, la storia della famiglia Lanini una delle 28 famiglie immigrate in quel periodo da un paese che contava all’epoca 2000 anime, insieme ad altri toscani perseguitati dal fascismo[1]. In questa ondata migratoria una famiglia si caratterizzò dalle altre. In quanto strumento del regime, aveva un incarico ben preciso quello del controllo affermando le direttive del fascismo, fuori dal territorio nazionale, seppur interpretate secondo le necessità locali[2]. Il fascismo aveva provato a più riprese a incunearsi nelle società ospiti sebbene la forza del regime sia stata riconosciuta, soprattutto in Francia, con maggiore reticenza[3], sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero.

Primo Lanini arrivò a Valbonne (Francia) nell’estate del 1924 a piedi, dopo una lunga e disagiata marcia lunga 400 km durata 5 settimane. Aveva 37 anni.  Il suo è un viaggio esplorativo per verificare la situazione, trovare un alloggio, prendere accordi, stabilire contatti, comprendere le potenzialità da dove partire. Cosetta è l’ultima figlia nata in Italia e ancora vivente. Nasce il 5 dicembre 1924 al civico 18 di Borgo d’Arena, una borgata di Marti, al tempo frazione del comune di Palaia in provincia di Pisa un quartiere, molto attivo da un punto di vista di impegno politico dove risiedevano anarchici, socialisti e comunisti afferenti alla Lega mista contadini-operai formatesi con autentica partecipazione durante il biennio rosso ma anche l’associazione La fratellanza operaia legata al modello del mutuo soccorso e già attiva agli inizi del 1900.

La scelta del luogo dove installarsi con la famiglia era riconducibile essenzialmente al passaparola con altre famiglie toscane emigrate a Valbonne[4] già a fine Ottocento per motivi legati al lavoro stagionale costituito principalmente dalla vendemmia dell’uva servan e dalla raccolta dei fiori come il gelsomino e la rosa centifoglia per le profumerie di Grasse, che attirava nella zona donne e uomini provenienti anche dalla provincia di Cuneo e dalle valli limitrofe[5] e dal fatto che la Francia, in quel momento, registrava un importante presenza di antifascisti (nel dipartimento Alpi Marittime e nella Regione PACA ce ne sono molte)[6]. Il Paese confinante era stato ritenuto da Primo l’alternativa più sicura e più accessibile considerato l’inasprimento dei rapporti internazionali e l’affermarsi del fascismo. La comunità martigiana proveniva da un paesaggio rurale caratterizzato dalle belle colline inferiori pisane, punteggiato da boschi e calanchi di creta argillosa. La gente allevava polli, vitelli e porci, intrecciava cesta, costruiva cerchi per le botti, lavorava il castagno, forgiava il ferro, coltivavano la terra, il mare non era nelle loro corde, né tantomeno il paesaggio urbano di Nizza, per questo la scelta di un paese simile, se non altro per clima e contesto, sembrò la più appropriata. Valbonne al tempo, era circondata da boschi si poteva tagliare la legna, venderla, trasformarla in carbone, costruire gabbie per gli uccelli, arrangiarsi, ingegnarsi, destreggiarsi, adattarsi ma lavorare finalmente in pace e vivere in attesa di tempi migliori. Le migrazioni cambiano e arricchiscono la storia di un Paese, trasformano la composizione sociale e politica di un luogo, incrementano l’economia locale ma la transizione non è così immediata, lineare e pacifica e, sicuramente nella fase iniziale, non è mai semplice inserirsi nel nuovo tessuto sociale. Così, spesso, gli eventi sfociavano in importanti divergenze culturali anche se, nel caso di Valbonne, non ci sono state mai vere e proprie discriminazioni da parte francese[7]. L’integrazione, anche solo lavorativa, non sembrava essere facile salvo sfruttare liberamente le risorse naturali del territorio: i boschi, rendendo vitale questo settore. I martigiani si specializzarono nel taglio del bosco e nella produzione del carbone, realizzavano fascine per venderle nei ristoranti, nei panifici o nei forni di cottura della celebre ceramica di Vallauris dove si installerà Picasso dal 1948 al 1955[8].

unnamedParisina Bottai con il primogenito Rigoletto, 10 anni,  Alfio, 5 anni e Cosetta, di soli sei mesi[9], arrivarono a Valbonne un anno più tardi, nell’estate del 1925, quando ormai in Italia erano state parzialmente approvate le leggi fascistissime trasformando, progressivamente, la monarchia parlamentare in una dittatura totalitaria. Arrivarono con il treno con un biglietto di terza classe fino a Ventimiglia dove Primo li raggiunse e li aiutò a passare la frontiera. Lanini era un socialista non interventista (aderente in un successivo momento al comunismo) che, suo malgrado, fu coscritto quattro anni nel corpo degli alpini e inviato sul fronte orientale in Trentino Alto Adige per combattere durante la Prima Guerra mondiale[10]. Tornato a casa, scioccato da quanto aveva visto e vissuto, demoralizzato e amareggiato per il trattamento riservato loro al rientro dalla guerra, cercava, come tutti i reduci, di reinserirsi nel tessuto sociale e riprendere stabilmente il suo lavoro di boscaiolo che gli consentisse di mantenere la famiglia. Così quando le camice nere andarono a cercarlo a casa per ingaggiarlo nelle loro spregiudicate imprese intimidatorie, Primo non ne volle sapere: era stanco della violenza e del dolore. Era un uomo giusto, dignitoso, le sue pretese erano semplici e lecite:  voleva solo ricominciare a lavorare e dimenticarsi dell’orrore della vita delle trincee e della disillusione delle promesse fatte. Lanini non condivideva l’ideologia fascista pertanto si rifiutò con fermezza di partecipare anche alla Marcia su Roma. Considerato un sovversivo, divenne vittima delle vessazioni delle cosiddette squadracce e a seguito di un’aggressione fisica grave decise di mettersi in salvo con la famiglia da un paese ingrato e illiberale.. Vi erano già state nel Comune di Palaia situazioni di tensione alcune delle quali trasformarsi in tragedia. Una sera durante una veglia clandestina, un gruppo di camicie nere provenienti da Pontedera fece irruzione nella casa dove si erano riuniti clandestinamente alcuni esponenti antifascisti e cominciarono a colpire all’impazzata con il manganello tutti i partecipanti alla riunione. Emilio Doni (1886-1954) attivo sindacalista e autorevole sindaco di Palaia già dal 1920 si mise miracolosamente in salvo saltando velocemente fuori dalla finestra e nascondendosi dentro il forno per il pane. Doni fu costretto a dimettersi dal ruolo di sindaco a causa dell’avanzamento dell’ondata nera guidata dai proprietari terrieri della zona tra tensioni e tumulti che sfociarono in feroci aggressioni e atti di sangue. Ma l’evento determinante che fece maturare definitivamente la scelta di Primo Lanini di trasferirsi in Francia fu l’aggressione e l’omicidio di un compaesano. Primo, che da qualche tempo aveva già preso in considerazione l’ipotesi della fuga all’estero, ne fu convinto soprattutto dopo l’assassinio di Alvaro Fantozzi[11]  segretario della Camera del lavoro di Palaia di soli 29 anni avvenuto sulla strada di Castel del Bosco al mattino del 2 aprile 1922 mentre si recava a un comizio a Marti per cercare di ripristinare la Lega mista contadini-operai. Lanini comprese che la situazione stava degenerando, accelerò dunque i tempi passando velocemente all’azione avvalendosi delle indicazioni di altri martigiani che anni prima avevano già tentato l’avventura in cerca di fortuna e che nel frattempo, grazie a scelte oculate, erano diventati abbienti. Infine, la realtà nella quale questo giovane toscano dovette, suo malgrado, vivere gli prospettò un avvenire tranquillo e agiato, così quando, al termine della Seconda Guerra Mondiale si paventò l’idea di ritornare a casa a Marti, la scelta fu quella di restare in Oltralpe, a Valbonne dove morirà nel 1973[12]. Nonostante un forte senso esistenziale lo legasse ancora alla Toscana, la sua vita era ormai orientata a Valbonne e la Francia gli aveva procurato protezione e benessere economico.

[1] Famiglie provenienti da Marti: Bottai, Balducci, Bagnoli, Bandini, Banti, Doni, Trinti, Monti, Catalini, Giglioli, Ciampini, Cenci, Corti, Costagli, Ceccarelli, Giannini, Marmeggi, Gorini, Lanini, Nardi, Pretini, Pitti, Telleschi, Ulivieri, Regoli, Pistolesi, Pupeschi, Vanni. Famiglie originarie di Ponte a Egola : Billeri, di Forcoli : Doveri, di Massa : Trietti, di Pontremoli : Biasini e Valenti. Infine, famiglie provenienti da Pistoia: Vivarelli e Bizzarri.
[2] Il fascismo aveva provato a più riprese a incunearsi nelle società ospiti sebbene le forza del regime sia stata riconosciuta, soprattutto in Francia, con maggiore reticenza, sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero.
[3] La penetrazione del fascismo nelle comunità italiane all’estero è stata per lungo tempo sottovalutata dalla storiografia, tanto in Italia quanto nei paesi d’arrivo. La storia del fascismo all’estero si è arricchita, nel corso degli anni, di diversi contributi che hanno ricostruito la penetrazione del regime in svariati contesti nazionali e regionali. Nell’ambito della storiografia italiana, il contributo recente più interessante appare quello di Matteo Pretelli.
[4] Demografia di Valbonne village: 1891 = 1015 , 1896 = 1138, 1901 = 1067, 1911 = 1045, 1921 = 831, 1926 = 949, 1931 = 1063. Nel periodo di cui stiamo parlando Valbonne contava 949 abitanti. Ultimi dati aggiornati al 2017 = 13 325 abitanti.
[5] Il Comune di Valbonne si era già dimostrato accogliente nei confronti degli italiani che svolgevano lavori stagionali poiché aveva già ospitato altri migranti toscani, provenienti da Marti primo su tutti Amerigo Balducci giunto nel villaggio nel 1895 con la moglie Zaira Nardi, seguiti, in ordine sparso, da altre 6 famiglie di cui il nucleo di Armando Nardi e Ida Petrini arrivati a Valbonne nel 1904 che rappresentano un’importante testa di ponte per la successiva migrazione politica.
[6] Occorre ricordare, a titolo di esempio, la famiglia di Amleto Gorini martigiano installatosi a Draguignan e Danilo Gorini che fu a lungo sindacalista nella CGT e che partecipò alla Resistenza francese.
[7]  Le condizioni di vita erano piuttosto favorevoli e la comunità locale dimostrava quanto meno una certa tolleranza nei loro confronti. Nel censimento del 1936 si contano in Francia 720.000 italiani tra esuli antifascisti e comunità di lavoratori immigrati di cui 11.000 aderenti ai partiti politici antifascisti.
[8] Studi antropologici mostrano che la catena di immigrazione si organizzava per via familiare, così che le nuove comunità che si formavano erano omogenee per area di provenienza; la stabilità di tale flusso migratorio è confermata dall’esiguo numero di ritorni in Toscana.
[9] L’ultima figlia della famiglia Lanini, Angel, nascerà in Francia nel 1931.
[10] Primo Lanini fu insignito dal capo della Repubblica dell’Ordine di Vittorio Veneto dell’Onorificenza di cavaliere al valore militare (Numero d’ordine 315). L’onorificenza commemorativa fu istituita in Italia nel 1968 dall’allora presidente Giuseppe Saragat.
[11] Alvaro Fantozzi, Segretario della Camera del lavoro di Palaia e Assessore comunale a Pontedera, fu un infaticabile organizzatore di leghe bracciantili. Il giovane fu assassinato con armi da fuoco la mattina del 2 aprile 1922 da tre fascisti di San Miniato rimasti poi impuniti. Dopo l’omicidio Fantozzi, che scosse per la sua cruenza tutta la Valdera, i comunisti aggredirono due fascisti a cui seguì una pronta rappresaglia delle camicie nere che, in varie località della Provincia di Pisa, bastonarono gli avversari.
[12] Solo due famiglie dell’ondata migratoria tornarono a Marti dopo la fine della seconda guerra a causa di lutti e della necessità di fornire un aiuto materiale ai propri cari. Gli altri rimasero tutti in Francia dove nel frattempo avevano preso la nazionalità.




Il solstizio delle stragi. Bucine, Giugno 1944.

San Pancrazio
“Si vide per l’ultima volta il babbo che ci guardò in silenzio…”. Quanti strati di ricordo si snodano pensando a eventi tragici che hanno lasciato tracce profonde, insieme a veloci dimenticanze. Quella frase è parte della testimonianza di Romano Moretti, nato nel 1932, che all’epoca aveva 12 anni e che con la mamma cercava di andare via da San Pancrazio, per raggiungere case solidali nella campagna aperta. Il babbo di Romano di lì a poco sarebbe stato trucidato con un colpo di pistola alla nuca. Si chiamava Renato Moretti, 33 anni, di professione operaio. Era il 29 giugno del 1944. Un giorno indimenticabile per chi visse le stragi di Civitella e di San Pancrazio nei due comuni di Bucine e di Civitella della Chiana. E anche per me che feci in quei luoghi, nel 1944, a 50 anni dalla strage, una ricerca sul campo e dove conobbi i portatori del ricordo, i testimoni di quelle giornate di fuoco e di sangue. Mi resi conto allora che il 29 giugno del 1944 io avevo due anni e vivevo altrove, sfollato con la famiglia in un paese della Sardegna centrale. Questi pochi dati mi hanno fatto sentire in colpa per il privilegio di essere così lontano ma, allo stesso tempo, anche così vicino perché i giorni di quelle stragi sono anche i giorni del mio compleanno che cade il 27 e del mio onomastico che cade il 29.

La testimonianza di Romano Moretti su suo padre è a pagina 236 del suo libro Il giorno di San Pietro. L’eccidio di San Pancrazio (le memorie e la storia). Il bambino dodicenne, divenuto orfano, segnato per sempre dalla strage, si è fatto storico ed ha dedicato la sua vita, tra maturità e pensione, a raccogliere testimonianze e documenti. Il libro ha come esergo: A mio padre e ai suoi compagni. Sul libro che io posseggo è scritto a mano: Al Prof. Pietro Clemente con la mia stima Romano Moretti. Il libro è uscito nel 2005 e lui me lo donò in occasione di un incontro a San Pancrazio per una iniziativa di Porto Franco e dell’Istituto Ernesto De Martino. In quella occasione fummo ospitati proprio nel palazzo dove la strage era avvenuta. Dove ora c’è un museo. Essere in quello spazio mi toccò molto. Gli spazi, secondo me, restano abitati dai ricordi anche se per lo più si fa come se non fossero altro che muri. Penso ora anche a quegli ospedali psichiatrici dove non è rimasta traccia di memoria delle vite consumate al loro interno.

Incontrai una prima volta Romano Moretti tra Civitella e San Pancrazio per la nostra ricerca del 1994. La ricerca era diretta dallo storico Leonardo Paggi e comprendeva un ampio gruppo di studenti e laureati antropologi di Arezzo (docente Carla Bianco), di Roma (docente Pietro Clemente) e un piccolo gruppo di Siena dove avevo insegnato fino al 1990. La ricerca storica era fortemente rappresentata dal coordinatore Leonardo Paggi e da Giovanni Contini, storico orale, responsabile del settore fonti orali nella Soprintendenza archivistica per la Toscana. Giovanni fu il primo a pubblicare un’opera d’insieme che ebbe grande rilievo e aprì forti discussioni sul tema che era anche il titolo del suo libro La memoria divisa. Per quanto riguarda la ricerca antropologica, insieme ai miei allievi dell’Università di Roma, venne prodotto un dossier rimasto purtroppo inedito. Il ricordo di Civitella fece, in un certo senso, ombra alla strage di San Pancrazio, e fu Civitella ad essere al centro del grande convegno internazionale In Memory al quale anche io avevo lavorato. Il titolo del mio intervento al convegno era Ritorno dall’apocalisse. Un testo molto ‘emozionato’ scaturito dall’esperienza fatta nella raccolta di testimonianze e nell’esperienza di incontro con i sopravvissuti. Un testo che oggi paragono con la fase di uscita dal lockdown dopo la pandemia. In un certo senso oggi è come se fossimo usciti dall’incubo di una strage insensata, che ha colpito esseri umani quasi a caso. Rappresentata dalla visione di camion militari che portano bare anonime per essere cremate. Non per caso, quando ho letto che la pandemia aveva colpito una RSA di Bucine, ho pensato alle stragi. Ma ho anche pensato a quanto è prezioso trasmettere la memoria, e a quanto abbiamo perso della memoria degli anziani nelle stragi delle province lombarde, venete, piemontesi, emiliane.

Di recente Gad Lerner e Laura Gnocchi, con il volume Noi partigiani. Memoriale della resistenza italiana (Feltrinelli 2020) hanno reso evidente la forza di trasmissione e di formazione propria della memoria degli anziani. Anche quando una singola memoria si è logorata e schematizzata, la polifonia è sempre straordinariamente efficace ed ha un forte valore conoscitivo che passa per la narrazione. È un modo diverso di produrre storia. Tutti i 50 testimoni del volume di Lerner e Gnocchi hanno quasi un secolo, età assai gradita al coronavirus, ma ancora ci insegnano, anche per la straordinaria disparità di storie, che la narrazione dell’esperienza è forse l’aspetto più capace di comunicare e dar senso alla pluralità delle resistenze in Italia.

Una storia civile
Di recente ho letto, con grande dispiacere, nella pagina web del Comune di Bucine della morte di Romano Moretti.
“Bucine 11 marzo 2019, è morto nei giorni scorsi Romano Moretti, lo storico che ha dedicato molti anni della sua vita allo studio delle stragi… aveva appena terminato il libro sulle stragi di Cornia e di Civitella, libro che uscirà postumo a cura delle amministrazioni comunali di Bucine e di Civitella. I funerali si sono svolti a San Pancrazio alla presenza dei due sindaci che “hanno ricordato entrambi l’opera di Moretti, come testimonianza di una memoria storica che non può essere cancellata ma va tramandata alle generazioni future”.

Una vita per la memoria. Ma anche una paziente presenza nella comunità, dove Moretti tornava da Firenze a fine settimana o d’estate. Discutemmo a lungo con lui dei problemi della memoria antipartigiana che emergevano soprattutto a Civitella. A noi non fu facile mediare le idee generali sulla Resistenza con le scelte di memoria e di lutto che la comunità di Civitella aveva fatto. Ma l’incontro, l’affratellamento, l’accoglienza delle loro memorie, la comprensione furono le esperienze più importanti del nostro stage, e ci condussero alla condivisone del lutto e della storia di quella comunità. Così potemmo capire il loro disagio, il modo di orientare il loro cordoglio nella critica dei partigiani, mentre non si metteva mai in discussione la Resistenza in quanto tale.

Moretti aveva una idea della storia come completezza dei dati e il suo sforzo fu quello di restituire la voce a tutti i protagonisti, e nel libro su San Pancrazio ha raccolto 139 voci di testimoni. Lo ha fatto con pazienza, tenacia e riserbo, tanto che è solo nel suo libro che io ho conosciuto Moretti bambino che, con la mamma, si allontanava dai luoghi della strage poco prima che suo padre fosse assassinato.

In quegli anni avevo teorizzato che tutti i comuni aprissero uno sportello nell’ambito dei servizi alla persona, dedicato all’ascolto e alla registrazione dei racconti delle persone. Lo avevo chiamato ‘la-storia-a-memoria’. Era l’idea di una connessione profonda tra storia della vita quotidiana delle persone e senso della civitas sia locale che planetaria. Una storia civile. Come quelle che ha prodotto Moretti. Mi sono incontrato spesso con gli studiosi locali, qualche volta sono stato critico verso un sapere prodotto per lo più da passione o con metodi non aggiornati, ma la gran parte delle volte ho imparato da loro. Così è stato con Moretti. Uno degli strati della memoria di cui dicevo all’inizio: ricordare Moretti come caso esemplare di storia civica locale, ricordare che Moretti ricordò la memoria delle stragi più atroci dell’aretino. Ricordare i ricordi, ricordarsi di ricordare.

La Fattoria del Pierangeli
Il Comune di Bucine ha 13 frazioni, quella di San Pancrazio (m.511 s.l.m.) oggi ha 177 abitanti. Lo spazio della comunità è descritto dettagliatamente da tutte le fonti orali sulle stragi: un borgo immerso nella campagna, che aveva al centro la Fattoria del Pierangeli, centro anche di vita economica del sistema di mezzadria, bracciantato e piccola proprietà contadina. Per le vicende della guerra e della Resistenza il Comune di Bucine è medaglia d’oro al valore civile:

“Strenuamente impegnato nella lotta di liberazione, sopportava stoicamente, con il sacrificio di tutti i cittadini, crudeli rappresaglie del nemico invasore; offriva alla causa della Patria la vita di molti suoi figli migliori, mantenendo intatta la fede nei supremi valori di libertà”.

Apro il volumetto, stampato a ciclostile, dai miei alunni romani nel 1994. Erano sette giovani, di cui sei donne che lavorarono su San Pancrazio. Altri studenti invece lavorarono su Civitella. Di quasi tutti ho traccia e memoria. La neolaureata che coordinò il gruppo San Pancrazio era Emanuela Rossi che ora insegna Antropologia culturale all’Università di Firenze.

Ecco un altro nodo della memoria: memoria della ricerca, dell’Università, delle vite e delle storie dei ‘miei’ studenti, che ho spesso ritrovato su Facebook, cercando di sentirli ancora parte di una comunità di studi che era anche incontro umano. Organizzarono per temi le loro ‘fonti orali’: L’evento, Vita nei borri, Giudizi sui partigiani, Il tempo successivo, La commemorazione, Come si viveva allora.

Moretti nel suo libro ha organizzato i fatti per ‘soggetti’ e ‘sequenze’. Noi cercavamo memorie ampie, rappresentazioni e racconti. Discutemmo a lungo sulla gente che viveva nei borri, negli spazi nascosti ricavati nel bosco, con scavi e capanne, dove piovevano obici alleati e proiettili della difesa tedesca. Nei borri erano le donne a gestire la comunità provvisoria, dominata dalla paura e dalla fame. Discutemmo allora del ‘tedesco buono’ che compariva in vari racconti e che è poi diventato quasi una delle ‘figure’ della narrazione della guerra vista dalle popolazioni. Un punto di incontro tra il dato di fatto che diversi tedeschi sul fronte non condividevano la guerra e avevano impulsi umani opposti agli ordini dei loro capi, ma anche il desiderio di lasciare speranza sulla umanità delle persone anche nelle situazioni più terribili. Fecero una buona ricerca i miei allievi. Riguardo i cognomi di coloro che intervistarono. Sono gli stessi (un po’ di meno) delle testimonianze raccolte da Moretti. Ma sono soprattutto cognomi che ripetono la dolorosa lista dei morti: 56 tutti maschi a San Pancrazio secondo Moretti. In gran parte contadini proprietari, in minor misura mezzadri. Sono 67, tutti maschi (perché comprendono anche luoghi vicini) i morti nella “List of the people killed at San Pancrazio” fatta dagli inglesi in una rapida ed efficace istruttoria dei fatti. Questa ultima fonte arrivò fresca fresca dalla ricerca negli archivi del Regno Unito proprio nel 1994. I nomi hanno come centro simbolico il sacerdote Don Giuseppe Torelli, che si offrì al posto degli altri, ma che ottenne soltanto di essere ucciso per primo.

“At San Pancrazio seventy men were rounded up and herded into a room of the Fattoria. Between this room and a second room was a narrow passage. One by one the men were taken from one room to the other, questioned as to their knowledge of Partisans, and those failing to give information were shot dead in the second room by pistol fire. All except seven were shot”.

Il rapporto firmato dal capitano N.E. Middleton ricostruisce anche i nomi dei comandanti responsabili di quella operazione pianificata e coordinata che colpì tanti piccoli centri e i due poli di Civitella centro e di San Pancrazio. Erano tutti appartenenti alle Herman Goering Divisionen.

Le testimonianze raccolte dagli inglesi sono state le memorie di fondazione che furono poi all’origine di quelle che raccogliemmo noi e di quelle che raccolse Moretti. A distanza di 50 anni, trovammo testi molto simili.

È una esperienza intensa il trovarmi ancora, a pochi giorni da un nuovo 29 giugno, che segna anche i miei 78 anni, tra le carte dell’esercito inglese, le voci raccolte dai miei alunni, e la voce di Romano Moretti con il suo piccolo monumento alla memoria e alla storia civile. Rileggo le testimonianze dei miei alunni e sento che sono proprio diventate racconti. Quante volte saranno stati ripetuti, ai nipoti, agli estranei, dopo la prima lunga fase del dolore chiuso e tacito. Hanno assunto il ritmo delle leggende e delle fiabe. Fatti narrabili. Sono diventate tradizione, ma è, facendosi tradizione, che il racconto accede alla trasmissione, e così alle nuove generazioni. Sono le domande meno legate ai singoli avvenimenti a produrre risposte più aperte: com’era la vita, come si mangiava, dove si trovava il cibo, soprattutto i racconti vivacissimi della vita nei ‘borri’ o ‘borrate’ sotto capanne (i ‘capanni’), trincee scavate, nascondigli per cibi e persone. Il paese dei sopravvissuti alla strage era sfollato lì, a pochi chilometri, avendo avuto anche le case incendiate dai tedeschi. Raccontano le contese per il cibo, gli egoismi, le solidarietà. Diamo l’ultima parola a Maria Assunta B., una testimone nata in loco nel 1914 (le temporalità delle generazioni si distendono e si intrecciano: questa testimone aveva 30 anni quando Moretti ne aveva 12 e io ne avevo 2).

Ha raccontato:

“C’erano tanti campi allora c’era tanta roba c’erano patate c’erano fagioli. Noi s’andava pe’ campi a prendelli. Pe’ fare il pane s’era fatto una bella buca nel bosco poi una lastra grande così. Ci si faceva fuoco dentro co’ la legna. Si faceva bollire questa lastra e poi si faceva pe’ quando si fa la farinata. Poi si metteva questo lastrone e veniva un po’ di pagnotta. E si campava, si mangiava fagioli patate, un pochino di pane per uno. Ma si era egoisti sa? Si si perché s’aveva tutti paura di morì di fame, qualcuno avea qualcosina un po’ di prosciutto un po’ di salame. Io non l‘avevo. Avevano un po’ di roba un po’ di ova”.

san pancrazio museo