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Leonardo da Vinci ‘genio italico’ del fascismo

Il 9 maggio 1939, nell’anniversario della nascita dell’Impero, si inaugurava a Milano la Mostra di Leonardo da Vinci e delle Invenzioni italiane, un evento che, nelle parole del Comitato organizzatore, avrebbe mostrato, «in forma al tempo stesso eletta e popolare, il vertice altissimo raggiunto dallo spirito italiano con Leonardo, in modo da esprimere nella mirabile opera dell’artista e dello scienziato del Rinascimento, i caratteri essenziali della spiritualità della stirpe che nel Fascismo si ricompongono ancora dopo molti secoli in forma unitaria».

Di fatto divenne uno degli show più propagandistici del regime, un’esposizione -per usare le parole di Roberto Longhi- «discutibile e discussa», che portò a una significativa strumentalizzazione e decontestualizzazione storica dell’artista.

L’ingresso alla mostra milanese su Leonardo del 1939

L’interpretazione di Leonardo quale genio della “stirpe italica”, da cui partiva una gloriosa linea di scienziati che culminava con Guglielmo Marconi, eroe dell’Italia autarchica di Mussolini, era già iniziata qualche anno prima: in questa direzione si allineò la mostra milanese, portando all’associazione della grande monografica sull’artista con una parallela esposizione, ovvero la seconda edizione della Mostra delle Invenzioni italiane, che trovò altisonante sede presso il Palazzo dell’Arte al Parco Sempione (ora della Triennale).

Già dall’inizio degli anni Trenta il fascismo aveva utilizzato sia le mostre d’arte antica italiana all’estero che le grandi esposizioni monografiche in patria, come palchi propagandistici, eventi collettivi ampiamente pubblicizzati con gli strumenti di comunicazione di massa (video dell’Istituto Luce, opuscoli turistici promozionali, comunicati radio) già sperimentati nella propaganda politica. Rispetto ad altre importanti esposizioni della seconda metà degli anni Trenta (come la mostra giottesca a Firenze del 1937), quella dedicata a Leonardo a Milano assunse tuttavia connotati ancor più particolari: Leonardo diventò l’antesignano dell’ “uomo nuovo” fascista, paragonabile allo stesso Duce.

I vari approfondimenti sugli studi di Leonardo dedicati all’architettura, all’ingegneria, all’anatomia, alla matematica diventarono tappe di un percorso espositivo incentrato sulla celebrazione del suo ruolo di pioniere nella cultura tecnico-scientifica italiana, secondo un’impostazione – cara al regime – per cui i protagonisti della storia della scienza erano visti come monumenti, isolati dal contesto in cui avevano operato. L’aspetto preponderante e più spettacolare fu la parte scientifica e tecnica dell’opera dell’artista, rappresentata da 200 modelli di macchine, talvolta anche in scala gigantesca e azionabili dal pubblico, realizzati grazie alla progressiva edizione dei manoscritti ma anche con una buona dose di interpretazione.

Tuttavia la mostra vedrà anche la presenza di numerosi dipinti e disegni originali di Leonardo, portando alla spoliazione di quasi ogni opera leonardesca presente nei musei italiani. Lo sforzo maggiore fu chiesto proprio alla soprintendenza fiorentina: il 1° maggio 1939 partirono da Firenze una trentina di casse con dipinti, disegni e sculture principalmente dalla Galleria degli Uffizi e dall’allora Regio Museo Nazionale del Bargello, comprese opere simbolo e delicatissime come l’Adorazione dei Magi e l’Annunciazione di Leonardo e il Battesimo del Verrocchio. Per quest’ultime, invano, il soprintendente Giovanni Poggi e il responsabile del Gabinetto Restauri Ugo Procacci richiesero un restauro preventivo «per poter sopportare un viaggio senza risentire danni».

In linea con la dialettica del regime, che da un lato promuoveva grandi eventi accentratori e dall’altro valorizzava le identità locali in senso di orgoglio municipalistico, anche a Vinci soffiò forte il vento della retorica fascista. Collegata alla mostra milanese, nel paese natale  fu organizzata un’esposizione di cimeli leonardeschi, inaugurata il 20 agosto 1939 dal ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, che parlò dal balcone della casa del fascio. Pubblicizzato alla stregua di un “pellegrinaggio”, il tour vinciano prevedeva la visita ai luoghi dell’infanzia dell’artista, tra i quali la restaurata casa di Anchiano, oltre a fonte battesimale e la riproduzione di un documento di mano del nonno di Leonardo.

Una delle sale dedicate ai modelli leonardeschi nella mostra milanese del 1939

In quello stesso biennio 1938-1940 l’esaltazione di Leonardo divenne di fatto una moda e mania collettiva che fu cavalcata anche dalle frange più estreme del regime. A tal proposito ne «La Difesa della Razza» comparvero una serie di articoli a tema artistico dedicati proprio a Leonardo, dove la strumentalizzazione sciovinista si colorò anche di tinte antisemite e perversioni interpretative. Già nel 1938 era comparso il breve articolo Come Israele insudicia il genio di Leonardo, atto di accusa contro la nota interpretazione di Freud sul sogno raccontato da Leonardo riguardo al nibbio. Nel 1939, anche in riferimento alla mostra milanese, nella rubrica “la razza e l’arte” la polemica dei redattori si indirizzò verso La favola dell’europeismo e Leonardo italiano, ovvero verso la tendenza degli studi dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, di scippare l’italianità dell’artista a discapito di una sovra-nazionalità europea. Nel 1940, in un climax ascendente di strumentalizzazione interpretativa, comparve un nuovo articolo dall’emblematico titolo Leonardo pittore razzista, dove venne presentata un’analisi del Cenacolo improntata alla presunta diligenza leonardiana nell’aver riprodotto nei volti degli apostoli caratteri somatici “biologicamente” ebraici.

Con l’entrata in guerra dell’Italia continuò l’utilizzo politico di Leonardo, protagonista, grazie all’interessamento del ministro della Cultura Popolare Alessandro Pavolini, di una leonardesca americana, organizzata dal Rockefeller Center nel Museum of Science and Industry di New York nel luglio 1940 con i modelli della mostra del 1939. Questi stessi modelli presero poi la via di Tokio, dove furono esposti – suscitando grande stupore – nel 1942, in piena guerra mondiale. Fu il loro ultimo viaggio: la nave che che dal Giappone li riportava in Italia fu colpita e affondata, in una sinistra e simbolica fine, per mano di quel conflitto così acclamato, della strumentalizzazione retorica di Leonardo come grande “genio italico”.




I Campeggi del Chianti negli anni Settanta

Vicenda recentemente storicizzata, dalla quale emerge una sorta di legame ideale con precedenti esperienze collettive che hanno animato la cultura e messo in movimento dinamiche sociali lungo parte del Novecento. Hippy e naturismo, pic-nic e colonie libertarie, campeggio autogestito, hanno epigoni in America, Inghilterra, e parte dell’Europa. Il bisogno di percorrere strade antiautoritarie o sottrarsi a controlli statali, assieme alla necessità di crescita e di autoformazione, hanno prodotto nel tempo e nello spazio numerosi esempi in qualche modo evocativi, e precedenti storici, di questi campeggi, come l’esperienza hippy dell’alessandrino del 1970-71 dove vengono occupati cascinali, e si aggregano quasi cento ragazzi e ragazze di provenienza beat generation e contestazione del Sessantotto, che accanto all’esigenza di una vita a contatto con la natura, si oppongono al mercato, al lavoro salariato, alla famiglia.

“Fuoco di bivacco al tramonto”, Moggiona (AR), luglio 1972

Negli USA, un po’ prima, gli anarchici si trovavano insieme in numerosi pic-nic, durante i quali fra grandi e piccoli si creano contesti che prevedono gioco e pranzo, ma anche e soprattutto, preludono a luoghi di scambio di informazione, di progettazione di attività politica. Così come nel Secondo dopoguerra, raduni dei “figli dei fiori”, musica e droghe lisergiche, diventavano happening liberatori e costruzione di identità libere, specie dalla religione e dalla oppressione sessuale. Accanto a questo, le prime colonie estive in ambito anarchico, per i bambini di compagni meno abbienti, sottraevano alla Chiesa il primato. A Barcellona, in Spagna, la Colonia “L’Adunata dei Refrattari” nel 1938, sullo scorcio della Rivoluzione perduta, crea luoghi per i bambini orfani della rivoluzione, pensando alla loro salute ai loro diritti ad essere soggetti e non oggetti della pedagogia. In Italia, negli anni Cinquanta a Ronchi di Massa Carrara e in precedenza a Sorrento (Na), Giovanna Caleffi Berneri realizza Colonie per i figli dei compagni, con la presenza di figure importanti dell’antiautoritarismo e della cultura pedagogica libertaria come gli obiettori di coscienza, Pietro Ferrua e Mario Barbani, oltre a Federico Ernovino, in seguito collaboratore a Partinico di Danilo Dolci, autore dell’esperienza comunitaria siciliana di Trappeto (TP), o ancora del Campeggio Internazionale Anarchico del 1969.

Orosei

Orosei (Sardegna), 1972

Il Secondo dopoguerra è stato ricco di sollecitazioni e di interventi diretti, “alternativi” rispetto a quegli ecclesiastici e finalizzati a specifiche porzioni di società, spesso quelle meno abbienti o operaie, o carenti di stimolazioni culturali oltre la famiglia la chiesa e la scuola. Dalla Comunità Olivetti di Ivrea, alle colonie “Figli del popolo” di ispirazione operaia, come quella promossa da una delle fondatrici dell’UDI (Unione Donne Italiane), Alessandra Meucci a Sesto Fiorentino. Sul periodo si legga quanto scrive Carlo De Maria nel Saggio introduttivo al volume, Giovanna Caleffi Berneri. Un seme sotto la neve (Reggio Emilia 2010) dove specifica il percorso dando conto proprio di ciò che avviene, solo apparentemente “accanto” ai fatti della storia, fra minoranze ereticali che si sviluppano nella società nel Secondo dopoguerra. Comunitarismo, pacifismo, laicità, libertarismo, pedagogia d’avanguardia, da Aldo Capitini ai coniugi Calogero, da Olivetti a Silone a Lamberto Borghi ad una grande quantità di persone pensanti, libere da dogmi ed aperte ad una società aperta.

Da tali principi e dalla necessità di applicare concetti di pedagogia libertaria a quello che fino ad allora era, nel migliore dei casi, un servizio reso alle comunità, attraverso le colonie comunali, Giampaolo Lumachi, coadiuvato in seguito da amici e collaboratori, si fa promotore verso l’Amministrazione comunale di San Casciano Val di Pesa (FI), di un modello completamente nuovo di servizio.

Manifesto e programma dei campeggi estivi del 1972

Manifesto e programma dei campeggi estivi del 1972 organizzati nel contesto dell’esperienza dei “Campeggi del Chianti”

Coinvolti cinque comuni del Chianti fiorentino (San Casciano val di Pesa, Bagno a Ripoli, Greve in Chianti, Impruneta, Tavarnelle Val di Pesa), prese avvio una esperienza della quale di fatto, solo Lumachi ne conosceva i contorni. Il coinvolgimento di una grande quantità di persone, avviene per contatti concentrici. Lumachi getta il sasso e ne controlla i cerchi che da esso si dipartono. Servono tecnici, specialisti, amici, monitori, i ragazzi giungeranno in seguito. Lumachi, insegnante fiorentino, abbandona il CEMEA (Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva, un’esperienza nata nel 1937 in Francia e diffusa in Italia a partire dal 1950) perchè in disaccordo con il clima “chiuso” degli aderenti, cercando forme di sperimentazione diretta sul territorio. Le sue conoscenze e relazioni sono di aiuto in questo senso. Da Lele Rago a Marcello Trentanove, ad una costellazione di persone che via via, per affinità, coinvolgerà in questo suo bisogno di pedagogia militante di agire libero e fuori dagli schemi. In tale percorso di crescita, non è estranea la sua adesione alla sinistra extraparlamentare e “luogo” di probabile incontro con Corrado Coradeschi del Centro Igiene Mentale di Borgo Pinti a Firenze, altro pilastro su cui poggerà l’esperienza di cui si tratta. Lumachi è il proponente e la matrice è di sinistra extraparlamentare e antiparlamentare con forte libertarismo e critica ai valori borghesi, alla religione, alla società, tramite lo strumento di una pedagogia diretta, immediata, antiautoritaria.

Sicilia 1973. terremotati

Campeggio in Sicilia, 1973. I ragazzi intervistano gli abitanti delle baracche dopo il terremoto.

Lo scorcio degli anni Sessanta, con le sue istanze di liberazione sessuale, di antimilitarismo ed antiautoritarismo, e di creatività e gioia di vivere, sono il naturale terreno di coltura della formazione dei “vecchi“, e l’aria da respirare, per le giovani generazioni. Tre sono le generazioni coinvolte, la più vecchia, nata negli anni Trenta del Novecento, è l’ispiratrice e la miccia che dà fuoco a quella esperienza, la mediana, fra anni Quaranta e Cinquanta, giovani che saranno via via coinvolti come monitori anche se con originaria differente funzione – mi vengono in mente le persone incrociate nel percorso, sia nei luoghi di esperienza che attraverso l’attività nei campeggi (operai, autisti), infine i ragazzi, gli utenti, nati quasi tutti negli anni Sessanta, che si troveranno a vivere una esperienza in qualche modo sconvolgente.

Un approccio differente alla conoscenza sperimentato negli anni in luoghi molteplici, diversi, ciascuno comunque vissuto in modo sempre attivo e nella consapevolezza della valenza dell’ambiente socialie come elemento educativo: Sardegna, Camaldoli, Igea (1972); Val d’Aosta, Sicilia, Sardegna (1973), Sardegna, Arcidosso (1974), Sardegna, Amiata (1975), Sardegna (1976).

Alberto Ciampi  – Architetto, si interessa di Avanguardie storiche del Novecento, Movimento Anarchico, e cura il Centro Studi Storici Valdipesa. Ha pubblicato libri, saggi e articoli su pubblicazioni periodiche. Collabora, fra l’altro, alla rivista d’arte “ApArte°” di Venezia ed è membro del Comitato Scientifico dell’Archivio Berneri – Aurelio Chessa di Reggio Emilia. Suoi, fra gli altri: “Futuristi e anarchici – Quali rapporti?”; “Un fiore selvaggio”; “Rivoluzione in Tipografia”; “Anarchia e Futurismo – Revolverate”; “Gli Indomabili”; “Forma e Forme”; “I colori dell’anarchia nelle pubblicazioni periodiche”; “Leda Rafanelli – Carlo Carrà: un romanzo – arte e politica in un incontro ormai celebre!”. Ha collaborato a: reprint de “L’Italia Futurista”; “Dizionario del futurismo italiano”; “Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani”. In ambito locale, con il Centro Studi Storici della Valdipesa ha curato numerosi convegni e pubblicazioni.




Il servizio Radio CO.RA. e il suo contributo alla lotta di Liberazione

A partire dai primi di settembre del 1943, i dirigenti del Partito d’Azione fiorentino, allo scopo di dotare la nascente organizzazione resistenziale cittadina di un adeguato strumento di informazione e di intelligence militare, disposero la creazione di un servizio clandestino di radiocomunicazioni sotto la sigla Co.Ra, abbreviazione di Commissione Radio. Come ebbe a ricordare successivamente uno dei suoi proponenti, il servizio – in linea peraltro con quanto di analogo stavano facendo altrove altri gruppi del partito – oltre a ricercare un ponte radio col quartier generale alleato ad Algeri rispondeva all’intento di collegare più «organicamente la resistenza armata in Italia»[1], mettendo meglio in comunicazione tra loro i principali centri clandestini operanti in territorio occupato e i comandi delle nascenti formazioni partigiane. Quest’ultimo aspetto nel contesto fiorentino implicava creare un più diretto coordinamento tra il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), nel quale gli azionisti detenevano un ruolo chiave, e le bande operanti in provincia. In tal senso, ai responsabili il costituendo servizio radiocomunicazioni del Partito d’Azione fiorentino, vennero sottoposti sin da subito due obiettivi in particolare:

1) [creare] Collegamenti con i centri radio del Partito nell’Alta Italia per facilitare l’attività politica e militare clandestina e dare la possibilità di comunicare via Svizzera con Algeri o direttamente col Comando militare dell’Italia liberata per l’invio di notizie militari e per la richiesta di armamento ed approvvigionamento delle bande partigiane.

2) Collegare le bande stesse col Comando militare di Firenze.[2]

A capo del comitato tecnico del nascente servizio furono poste le figure del capitano dell’aeronautica Italo Piccagli, del fisico Carlo Ballario e dello studente di ingegneria Luigi Morandi, nessuna delle tre formalmente iscritte al partito, ma già impegnate a sostegno del movimento clandestino antifascista cittadino.

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Il capitano Italo Piccagli (ISRT, Fondo Italo Piccagli e Ruth, fasc. 2)

Italo Piccagli, classe 1909, dopo una prima formazione militare ricevuta presso l’Accademia Navale di Livorno, era passato all’Aeronautica, dove si era presto distinto in azioni militari (ottenne la medaglia d’argento al valor militare per un’azione di salvataggio in mare che gli costò una cronica malattia polmonare) e per gli studi nel campo dell’ottica, della meteorologia e della navigazione aerea. Militare in servizio permanente, nel 1943 dirigeva a Firenze il Gabinetto di Navigazione Aerea e di Meteorologia della Scuola di Guerra Aerea delle Cascine. Di sentimenti antifascisti, benché senza mai aderire formalmente ad alcun partito, dopo l’8 settembre 1943 Piccagli si era avvicinato al movimento clandestino. Lasciata di conseguenza la Scuola delle Cascine era riuscito a mettere in salvo presso l’Istituto di Fisica di Arcetri il materiale tecnico-scientifico del Gabinetto da lui diretto e sottratto casse di munizioni e materiale radio vario[3]. Di radio Co.Ra Piccagli divenne una delle figure chiave grazie alle sue conoscenze in campo aeronautico e alla sua personale rete di contatti in campo militare che gli permisero di organizzare un efficiente servizio di informazioni.

Oltre a Piccagli, con ruolo di consulente tecnico e scientifico, fu posto nel comitato Co.Ra Carlo Ballario, classe 1915, assistente di Fisica all’Università di Firenze e poi di Bologna. A lui, nella seconda metà del settembre 1943, gli azionisti Giovanni Turziani e Carlo Furno avevano chiesto di interessarsi per il partito del problema delle comunicazioni radio con l’Alta Italia, ragion per cui Ballario era entrato in contatto ai primi di ottobre con Piccagli. A questi due venne ad affiancarsi anche Luigi Morandi, giovane studente di ingegneria classe 1920, il quale accettò di buon grado di porre a servizio le sue pregresse conoscenze tecniche già note al Ballario e oramai «decuplicate da lunga esperienza»[4]. In effetti, appassionato sin da giovane di radio-trasmittenti grazie all’attività del padre (un esperto radiotecnico e proprietario di un negozio radio) Morandi, dopo alcune esperienze lavorative prima in un’azienda radio milanese (la Geloso) e poi a Bologna presso il reparto ricerche della Ducati, nel 1941 era stato chiamato sotto le armi e dislocato in Albania con compiti di radio-operatore, venendo poi destinato nel 1942 col grado di sottotenente al 7° Reggimento Genio Radiotelegrafisti di Firenze[5]. Piccagli, Ballario e Morandi poterono costituire così nel seno del servizio Co.Ra «un’équipe di grandissimo valore scientifico e tecnico»[6].

Il primo tentativo di stabilire un contatto radio con altri centri dell’Alta Italia da parte del gruppo Co.Ra si ebbe con l’acquisto a Bologna di una ricetrasmittente (denominata «la bolognina») della potenza di circa 60 watt che fu consegnata a Firenze a Carlo Lodovico Ragghianti per tramite di Antonio Rinaldi e Paolo Bassani (fratello dello scrittore Giorgio Bassani e impiegato del laboratorio nel quale l’apparato era stato costruito) e occultata a cura di Enzo Tardini “Doria”. Numerose difficoltà tecniche, tra cui la mancanza dei quarzi stabilizzatori di frequenza e l’approntamento delle basi di trasmissione con l’installazione di antenne sufficientemente potenti, vanificarono però i tentativi del gruppo di stabilire in tempi rapidi un collegamento costante con Milano. A poco valse in tal senso anche un viaggio informativo lì compiuto da Morandi. Si dovette attendere il marzo del 1944 perché il gruppo riuscisse a far funzionare adeguatamente l’apparato radio, entrando in contatti continuativi con i centri radio clandestini di Milano, Genova e Bologna. A quella data, tuttavia, il progetto originario di una rete di comunicazioni interna che collegasse i principali centri dirigenti della Resistenza italiana aveva perso di rilevanza. Ciò, anche a causa dello smantellamento a opera del Sicherheitsdienst tedesco dell’Organizzazione radio “Otto”, la missione dello Special Operation Executive britannico organizzata dal medico genovese Ottorino Balduzzi alla quale, col tramite del radiotelegrafista della Marina Giuseppe Cirillo, aveva fatto riferimento il sistema informativo organizzato da Ferruccio Parri per il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e che aveva offerto inizialmente un appoggio per una rete di comunicazioni interna alla Resistenza italiana [7].

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Carlo Ballario (ISRT, fondo Carlo Ballario, ins. 25)

Nel frattempo, anche il secondo proposito originario del servizio Co.Ra., di creare cioè un collegamento tra le bande armate toscane e i vertici militari del CTLN, si era scontrato con difficoltà di natura tecnica. Mentre infatti sin dai mesi finali del 1943 erano state costruite e testate con la supervisione di Ballario e Morandi piccole radio da campo alimentate a pile che avrebbero dovuto essere distribuite alle bande, la difficoltà di collegarsi con queste ultime e la mancanza di personale radiotelegrafista ritardò l’avvio delle prime sperimentazioni, le quali, d’altro canto, una volta iniziate non ebbero l’effetto sperato[8]. Fu anche per questo, che l’attività del gruppo Co.Ra a partire dalla primavera del 1944 si orientò prevalentemente a ricercare un collegamento diretto con gli Alleati, così anche da rendersi autonoma dall’appoggio sin lì fornito da altre missioni radio cui il Partito d’Azione fiorentino era dovuto ricorrere in precedenza, sia per l’ottenimento di informazioni che per la richiesta di supporto militare. In tal senso, già nel febbraio 1944 l’organizzazione azionista fiorentina era riuscita a ottenere dagli Alleati un aviolancio su Monte Giovi tramite la missione radio “Rutland”di Domenico Azzari, agente dello Special Operation Executive paracadutato al confine tra Lunigiana e Lucchesia, il quale, dopo essersi unito alla banda partigiana di Angiolino Marini “Diavolo Nero”, si trovò a gestire e smistare dalle Apuane diversi aviolanci alleati a favore di varie formazioni toscane. In quel caso, per il partito azionista fiorentino i contatti con la missione Azzari erano stati tenuti tramite accordi stabiliti tra la partigiana viareggina Vera Vassalle e la staffetta fiorentina Maria Luigia Guaita – responsabile del servizio di falsificazione documenti del Partito d’Azione fiorentino che lavorava in stretta collaborazione col gruppo Co.Ra – e il lancio, raccolto su Monte Giovi a cura di Max Boris, aveva avuto buon esito[9]. Più o meno negli stessi mesi anche il maggiore dell’aeronautica Giuseppe Cusumano in relazione col gruppo azionista fiorentino era stato inserito in una missione alleata incaricata di rilevare le fortificazioni sul tratto occidentale della Gotica e di trasmetterne via radio le informazioni ad Algeri[10].

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Attestato di Partigiano Combattente di Carlo Ballario (ISRT, Fondo Carlo Ballario, ins. 22)

L’occasione per dotare il gruppo Co.Ra dell’equipaggiamento necessario a contattare autonomamente i comandi alleati giunse per mezzo della figura dell’avvocato Enrico Bocci, un antifascista di lungo corso, amico fraterno dei fratelli Rosselli, già membro in passato del Circolo di Cultura Salvemini di Firenze e collaboratore assieme a Ernesto Rossi, Piero Calamandrei e Nello Traquandi di «Italia Libera» e del «Non Mollare». Alla fine di gennaio 1944 Bocci era stato messo in comunicazione tramite il signor Oscar Fontanella con l’ufficiale Nicola Pasqualin, capo di una missione alleata sbarcata nei paraggi di Porto Corsini, sulle coste adriatiche, e giunta a Firenze per stabilire un ponte radio tra il movimento resistente e il comando alleato. Le presentazioni tra Bocci e Pasqualin erano state fatte nello studio dell’industriale Vasco Petrelli, personalità in contatto con esponenti del movimento clandestino comunista, cui sovente passava informazioni. Il Pasqualin, in possesso del cifrario per le trasmissioni, assieme al radiotelegrafista Renato Levi – un ebreo sfuggito alle persecuzioni razziali e conosciuto col soprannome di «Pomero» o «Rossino» – furono affidati così alle cure del Bocci. Quest’ultimo, chiamato il Ballario per affidargli la riparazione della ricetrasmittente in dotazione della missione alleata danneggiatasi durante lo sbarco, sì unì di fatto col gruppo di Piccagli nella direzione del servizio Co.Ra. La ricetrasmittente messa a disposizione dal Pasqualin fu portata in un primo tempo nello studio dello stesso Bocci, al piano terra di via Ricasoli n. 26, dalla sua segretaria Gilda Larocca, preziosa collaboratrice del servizio clandestino. La prima trasmissione, tuttavia, venne effettuata nei locali della Casa Editrice Bemporad, in via dei Pucci, messi a disposizione da Renato Giuntini, amico di Bocci. Come primo tentativo fu deciso di trasmettere al centro radio alleato di Bari-Monopoli il messaggio convenzionale L’Arno scorre a Firenze il quale, a prova dell’avvenuto contatto, venne poi ritrasmesso in chiaro dagli Alleati sulla frequenza di Radio Bari.

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Luigi Morandi (da A. Morandi Michelozzi,”Le foglie volano…”)

Stabilito un contatto oltre le linee, l’attività del gruppo Co.Ra, oltre a richiedere l’intervento alleato in operazioni di appoggio alle bande partigiane o l’invio di armamenti e rifornimenti a mezzo aviolanci, si indirizzò prevalentemente nella raccolta e trasmissione agli Alleati di informazioni riguardanti le linee difensive appenniniche, i presidi e i depositi tedeschi, il traffico merce diretto in Germania, i movimenti ferroviari e lo spostamento delle truppe germaniche, così da rendere possibile adeguate contromisure. Le informazioni provenivano dalla rete d’intelligence del partito o altrimenti erano raccolte tramite i più vari canali dai collaboratori del servizio. La stessa moglie di Bocci, Mitzi, d’origini austriache, approfittava della sua madre lingua per carpire eventuali notizie che ufficiai tedeschi inavvertitamente potevano lasciar trapelare nel corso dei ricevimenti organizzati dall’industriale Vasco Petrelli e ai quali i coniugi Bocci erano spesso invitati[11].

Sul piano militare uno dei successi più eclatanti conseguiti dal servizio Co.Ra fu, nel maggio 1944, la raccolta e l’invio al comando alleato di circostanziate informazioni inerenti lo spostamento della divisione Herman Goering da Firenze verso il fronte meridionale, comunicazione che permise all’aviazione alleata di intercettare nel grossetano il grosso della formazione, provocandole perdite sostanziose[12].

Le modalità con le quali avvenivano le trasmissioni da parte del gruppo erano grossomodo le seguenti:

Di tutte le informazioni che Bocci e Piccagli sceglievano, setacciavano, vagliavano, venivano poi fatti tanti fogliolini – i chiari – che venivano portati, dalla Gilda [Larocca], per la traduzione in codice, dal Pasqualin. Questi era l’unico che avesse il cifrario. Stava in via Tornabuoni. E di lì i bigliettini ripartivano per la casa dove in quel giorno era installata la radio e dove il R.T. [radiotelegrafista] li trasmetteva all’VIII Armata. Ogni volta, in cifrato, al R.T. veniva trasmessa dagli Alleati l’ora della trasmissione successiva. Decifrato il messaggio (mai dal R.T. che non conosceva il codice) si preparavano le notizie «tradotte» per l’ora stabilita. C’era però sempre un appuntamento di emergenza se, per una ragione qualsiasi, nell’ora pattuita la trasmissione non avesse potuto aver luogo.[13]

Per quanto riguardava invece gli accurati rilievi topografici connessi  a obiettivi militari sensibili che il gruppo otteneva dal servizio informazione del partito, essi venivano riportati dettagliatamente su carte in scala variabile cedute dietro sollecitazione di Piccagli dal colonnello Lari dell’Istituto Geografico Militare e ordinate nella ricca cartoteca dell’archivio Co.Ra a cura di Ballario e con l’assistenza di Piccagli e di Lodovico De Renzis-Sonnino, dal cui palazzo familiare di via del Prato venivano talvolta effettuate le trasmissioni radio e ove erano altresì confezionate da Piccagli le copie microfilmate delle stesse carte[14].

Quella di via del Prato non era che una delle molteplici basi logistiche del servizio da cui erano dirette le comunicazioni radio, le quali, per regola generale di sicurezza, oltre ad essere sempre brevi per non dare il tempo ai radiogoniometri tedeschi di intercettare la fonte, non dovevano partire mai due volte di seguito dallo stesso luogo. Le principali basi di trasmissione del gruppo, oltre allo studio del Bocci – per la verità poco adatto allo scopo – furono: l’abitazione di questo a Ponte a Mensola; la casa di Piccagli in via Repetti; la già citata casa editrice Bemporad; l’Istituto Fotocromatico Italiano in via La Farina di proprietà di Vincenzo Balocchi, un parente di Bocci; l’abitazione del medico e professore Piero Pieraccini in via Salvestrina e la clinica ove questi operava in Viale Mazzini; l’abitazione in viale Michelangelo di Gianni Banti, un compagno di Bocci dei tempi del «Non Mollare»; alcuni quartieri presi in affitto in viale Corsica e in via Brunetto Latini; la centrale Rifredi della Società Elettrica Valdarno; l’Istituto di Fisica di Arcetri e la già citata abitazione del De Renzis.

Ai primi di maggio del 1944, con l’aumento dell’attività e dell’organico del gruppo (entro il quale fecero ingresso in particolare Luciano Tamburini, come informatore militare, Guido Focacci, come responsabile dei campi di lancio alleati, e Gianfranco Gilardini), si rese necessaria la ricerca di un’ulteriore sede da cui trasmettere. Tramite la mediazione del Tamburini si riuscì a ottenere dal conte Carlo Cotta, vicino al Partito d’Azione, un appartamento situato al terzo e ultimo piano di un palazzo posto al civico 12 di Piazza d’Azeglio che fu regolarmente affittato a nome del Gilardini[15]. Si trattava di un ampio appartamento ammobiliato, dai cui quartieri di servizio, posti nelle soffitte, potevano essere effettuate con relativa sicurezza le trasmissioni, sempre affidate al «Pomero». Quest’ultimo, però, tendenzialmente restio per ragioni di prudenza ad accondiscendere a sessioni radio ripetute e continuative, con l’aumentare del ritmo delle trasmissioni in vista del progressivo avvicinarsi del fronte di guerra alla Toscana, lasciò che fosse Luigi Morandi a sostituirlo come radiooperatore.

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Enrico Bocci (da A. Morandi Michelozzi,”Le foglie volano…”)

Tra la fine di maggio e i primi di giugno l’attività del servizio crebbe in effetti di intensità. Una missione aviolanciata alleata di dodici paracadutisti (missione “Nicky”) che avrebbero dovuto integrare la precedente missione di Pasqualin fu organizzata dal gruppo Co.Ra in collaborazione col maggiore Mario Martini (Capitano Niccolai) comandante delle forze partigiane della provincia di Prato. Il lancio avvenne con successo la sera del 2 giugno ai Faggi di Javello nelle vicinanze del monte Calvana. Cinque dei paracadutati vennero avviati a Firenze e qui alloggiati per interesse di Bocci in alcuni appartamenti di via Tripoli e XXVII Aprile. In conseguenza della liberazione di Roma del 4 giugno e dello sbarco alleato in Normandia del 6, un’importante riunione dei componenti il gruppo venne inoltre convocata per il giorno 7 nella nuova sede di Piazza d’Azeglio allo scopo di trasmettere le informazioni di ordine militare inerenti lo stato delle forze tedesche e l’entità delle formazioni partigiane che il comando alleato aveva richiesto con un questionario cifrato appositamente radiotrasmesso. Tra i convenuti all’incontro – in numero superiore al consueto, data la circostanza – vi erano Bocci, Piccagli, Morandi, Focacci, Gilardini, Tamburini, la segretaria Larocca e anche Carlo Campolmi, responsabile militare del Partito d’Azione. Erano assenti invece Ballario, recatosi ad assistere la moglie ricoverata in ospedale per una setticemia, e Maria Luigia Guaita, partita lo stesso giorno per una missione di collegamento col gruppo viareggino di Radio “Rosa”[16]. Tra i convenuti alla riunione, Tamburini dopo un certo tempo se ne andò, seguito da Piccagli in ragione di un abboccamento già fissato in precedenza. Verso l’ora di cena, circa, tre uomini in borghese e armati si presentarono alla porta dell’appartamento nel quale fecero irruzione, seguiti nell’immediato da SS e fascisti del reparto di Mario Carità. Tutti gli adunati, senza che potessero reagire, furono fermati e fatti allineare su di una parete. Luigi Morandi, intento già a trasmettere dai locali della soffitta, non si accorse in tempo dell’irruzione. Sorpreso e disarmato, approfittando di una distrazione riuscì comunque a impossessarsi fulmineamente dell’arma di un tedesco uccidendolo, prima di venir fatto segno di una raffica di mitra sparata da un commilitone. Trasportato successivamente presso l’ospedale di via Giusti sarebbe deceduto tre giorni dopo a causa delle ferite riportare. Gli altri componenti del gruppo, percossi e malmenati, furono condotti in arresto presso i locali di Villa Triste, sede della polizia tedesca (Sicherheitsdienst) e del Reparto Servizi Speciali della 92° Legione della MVSN al comando di Mario Carità. Tra gli arrestati, oltre ai presenti alla riunione, cadde anche Piccagli, il quale, rientrando dall’abboccamento venne fermato da un milite lasciato a presidio della sede di Piazza d’Azeglio e trasportato con gli altri a Villa Triste[17].

Tra l’8 e il 9 giugno, le forze di polizia nazifasciste riuscirono a catturare anche quattro dei cinque paracadutisti della missione “Nicky”, ma non Pasqualin e «Pomero», i quali riuscirono a salvarsi. Negli stessi giorni, con l’intento di arrestarlo, tedeschi e fascisti si recarono a Montemurlo presso l’abitazione del capitano Mario Martini (che aveva collaborato all’aviolancio dei dodici agenti paracadutati ai Faggi di Javello), il quale però riuscì fortunosamente a sottrarsi alla cattura ma non a evitare l’arresto del figlio quattordicenne, Marcello, condotto a Villa Triste e successivamente deportato a Mauthausen. Stessa sorte toccò anche a Ruth Weidenreich, moglie di Piccagli e anch’essa attivamente impegnata nel movimento di Liberazione fiorentino. Ebrea tedesca, Ruth fu infatti arrestata dopo la retata del 7 giugno e quindi tradotta a Villa Triste, dove ebbe la possibilità di rivedere per l’ultima volta il marito, prima di essere deportata ad Auschwitz. Tutti gli arrestati del gruppo Co.Ra, nessuno escluso, a Villa Triste subirono per giorni incessanti interrogatori e brutali torture, i cui particolari raccapriccianti emersero nel corso dei procedimenti giudiziari cui nel dopoguerra furono sottoposti i membri della banda Carità presso le Corti straordinarie di Bologna e Lucca. I più martoriati, in tal senso, furono certamente Bocci e Piccagli, che con coraggio si assunsero tutta la responsabilità dell’attività di radio Co.Ra nel tentativo di scagionare i propri compagni. Oltre alle sevizie della tortura entrambi condivisero la stessa tragica sorte. Il 12 giugno, Piccagli venne infatti trasportato assieme ai quattro paracadutisti della missione “Nicky” (Fiorenzo Franco, Pietro Ghergo, Dante Romagnoli e Ferdinando Panerai) a Cercina, sulle pendici di Monte Morello, e qui fucilato sulle sponde del torrente Terzolle assieme ai primi, ad Anna Maria Enriquez Agnoletti (attivista cristiano sociale e sorella dell’azionista Enzo prelevata poco prima dalle carceri di Santa Verdiana) e a un partigiano cecoslovacco. L’agonia di Enrico Bocci in mano ai suoi carnefici si protrasse invece fino al 18 giugno, giorno in cui venne probabilmente finito a Villa Triste o altrimenti fucilato nei dintorni di Firenze, benché il suo corpo non fu mai ritrovato. I rimanenti del gruppo (Gilda Larocca, Ruth Weidenreich, Carlo Campolmi, Guido Focacci, Gianfranco Gilardini, Marcello Martini) dopo le torture subite vennero trasferiti a Fossoli di Carpi e da qui deportati in Germania: alcuni di essi riuscirono a fuggire durante il viaggio, gli altri fecero ritorno a casa solo a guerra finita.

Nonostante il duro colpo inflitto all’organizzazione Co.Ra dalla retata del 7 giugno – la cui portata aprì molti dubbi e sospetti sulla possibile delazione di una spia infiltratasi entro l’organizzazione clandestina del Partito d’Azione[18] – il servizio non cessò comunque di esistere e l’attività di radiocomunicazioni riprese con sorprendente rapidità. L’ufficiale Pasqualin, sfuggito alla cattura e rifugiatosi per qualche tempo in provincia di Arezzo, fatto ritorno a Firenze con «Pomero» attorno al 20 di giugno riprese subito i contatti col movimento clandestino incontrandosi con Carlo Lodovico Ragghianti, Presidente del CTLN. A quest’ultimo venne consegnato un apparecchio ricetrasmittente occultato dal «Pomero» prima della fuga che consentì di riprendere le trasmissioni, affidate stavolta al nuovo telegrafista indicato da Ragghianti: il capitano del Genio Giuseppe Campolmi “Spartaco”. Quest’ultimo, dopo diversi tentativi andati a vuoto, riuscì a stabilire un nuovo ponte radio col centro alleato di Bari-Monopoli trasmettendo dalla soffitta della clinica privata di via della Robbia, messa a disposizione dal dottor Bruno Gherardi. Al nuovo servizio radio Co.Ra coadiuvarono anche Ludovico De Renzis-Sonnino, il giovane studente d’ingegneria Lorenzo Rigutini – chiamato a collaborare alla rete informativa dal Ballario sin dalla fine di giugno[19] – e Adriano Milani Comparetti, membro delle squadre d’assalto del Partito d’Azione, fratello di don Lorenzo Milani e in seguito tra i più famosi neuropsichiatri infantili italiani[20]. Tra le sedi clandestine che ospitarono la rinnovata attività di trasmissione vi furono i locali della Società di cremazione al Mercato Nuovo, una soffitta in via del Pratellino, l’Istituto del Rinascimento in Palazzo Strozzi, la Villa Vittoria e l’abitazione dei Rigutini a Bellosguardo[21]. Con l’avvio dell’emergenza ai primi di luglio del 1944 e il distacco della rete elettrica cittadina, la possibilità di utilizzare gli apparati ricetrasmittenti venne garantita dall’impiego di alcuni accumulatori in dotazione della facoltà di Chimica messi a disposizione dal professor Giovanni Speroni per tramite di Carlo Ballario[22]. A questo modo, le trasmissioni del servizio Co.Ra poterono proseguire, di fatto spingendosi sino alle fasi imminenti la liberazione della città, l’11 agosto.

[1] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», «La Nazione», 11 agosto 1979, p. 3.

[2] Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze (d’ora n poi ISRT), fondo Carlo Ballario, inserto 1, relazione dattiloscritta sull’attività della Commissione Radio del Partito d’Azione; l’originale manoscritto di Carlo Ballario della relazione è in: ivi, inserti 31-36. La relazione di Ballario è citata parzialmente anche in L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci. Una vita per la libertà, G. Barbera Editore, Firenze 1969, p. 61.

[3] ISRT, fondo Piccagli Italo & Ruth, fasc. 1 Servizio radio Co.Ra, Relazione sull’attività svolta dal Capitano Italo Piccagli, Firenze 20 agosto 1944; Italo Piccagli: una scelta di libertà, a cura del Comitato regionale toscano per il 30° Anniversario della Resistenza e della Liberazione, Parretti, Firenze 1974.

[4] ISRT, fondo Carlo Ballario, inserto 1, relazione dattiloscritta sull’attività della Commissione Radio del Partito d’Azione; ivi, ins. 31, appunto manoscritto di Ballario.

[5] Andreina Morandi Michelozzi, Le foglie volano. Appunti per una storia di libertà, La Nuova Europa Editrice, Firenze 1984, pp. 31-33.

[6] Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio e le altre due stazioni radio, Giuntina, Firenze 1985, p. 46.

[7] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», cit. Sull’Organizzazione “Otto”, cfr. Peter Tompkins, L’Altra Resistenza. Servizi segreti, partigiani e guerra di liberazione nel racconto di un protagonista, Il Saggiatore, Milano 2009, pp. 151-152.

[8] ISRT, fondo Carlo Ballario, inserto 1, relazione dattiloscritta sull’attività della Commissione Radio del Partito d’Azione;

[9] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», cit.; L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci, cit., p. 80. Sulla missione Azzari cfr. Maurizio Fiorillo, Uomini alla macchia. Bande partigiane e guerra civile. Lunigiana 1943-1945, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 48-49. Sul lancio procurato su Monte Giovi cfr. Max Boris, Al tempo del fascismo e della guerra. racconto della vita mia e altrui, a cura di Simone Neri Serneri, Polistampa, Firenze 2006, pp. 56-61.

[10] Testimonianza di Giuseppe Cusmano citata in L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci cit., p. 64.

[11] Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio, cit., p. 50.

[12] Carlo Francovich, La Resistenza a Firenze, La Nuova Italia, Firenze 1975, pp. 155-157; Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio, cit., pp. 59-60; Andreina Morandi Michelozzi, Le foglie volano, cit., pp. 41-43.

[13] L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci cit., pp. 82-83.

[14] Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio, cit., p. 52.

[15] ISRT, fondo Piccagli Italo & Ruth, fasc. 1 Servizio radio Co.Ra, deposizione di Gianfranco Gilardini, p. 1.

[16] Maria Luisa Guaita, Storie di un anno grande. Settembre 1943-agosto 944, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1975, pp. 56-58.

[17] Per una ricostruzione dell’irruzione e degli arresti, oltre alla bibliografia citata nelle note precedenti, si veda anche: ISRT, fondo Piccagli Italo & Ruth, fasc. 1 Servizio radio Co.Ra, deposizione di Gianfranco Gilardini, pp. 5 e sgg.

[18] ISRT, fondo Piccagli Italo & Ruth, fasc. 1 Servizio radio Co.Ra,, Partito d’Azione, Sezione di Firenze, Servizio Informazioni, Indagine intesa ad accertare come le SS abbiano scoperto la radio clandestina di Piazza d’Azeglio n. 12..

[19] Ivi, fondo Carlo Ballario, inserto 23, Relazione sull’attività Cora di Lorenzo Rigutini.

[20] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», cit.

[21] Ibidem. Per il riferimento delle trasmissioni effettuate presso l’abitazione dei Rigutini, cfr. Archivio Diaristico Nazionale di Pieve S Stefano, Diario di Beatrice Rigutini, a cura di Silvia Rigutini.

[22] Carlo Lodovico Ragghianti, Ecco che cosa fu «Radio Cora», cit.; Gilda La Rocca, La “Radio Cora” di Piazza d’Azzeglio, cit., pp. 97-98.




Un inedito contributo dei Tre Carabinieri di Fiesole “all’armamento (…) delle formazioni partigiane”

Un importante documento inedito nell’archivio dell’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea ci aiuta a comprendere alcuni dettagli chiave su un evento celebre, legato alla Resistenza in Toscana: la storia dei Carabinieri di Fiesole. Tra il luglio e l’agosto del 1944, negli ultimi mesi dell’occupazione, mentre le truppe tedesche stavano preparando la ritirata verso nord, i carabinieri di stanza a Fiesole misero costantemente a rischio la propria vita, aiutando i partigiani impegnati contro le brutali forze occupanti.[i]

Tutti i carabinieri che risultavano allora attivi nella caserma erano anche iscritti alla Brigata “V” del Corpo Volontario della Liberà, Divisione Giustizia e Libertà: il comandante, Vice Brigidiere Giuseppe Amico, l’appuntato Francesco Naclerio, e i giovani carabinieri Alberto La Rocca, Vittorio Marandola e Fulvio Sbarretti. Il 6 agosto Amico venne deportato dai tedeschi ma riuscì a fuggire e a far recapitare ai suoi quattro colleghi rimasti in caserma l’ordine di lasciare il presidio, di spostarsi a Firenze e partecipare alla liberazione. La sera dell’11 agosto Naclerio, La Rocca, Marandola e Sbarretti misero in atto la prima parte del piano ma, rimasti bloccati a Fiesole, ormai isolata, dovettero nascondersi. I tedeschi, trovando vuota la locale caserma, minacciarono di uccidere dieci civili già preventivamente trattenuti se i carabinieri non si fossero consegnati. Informati dell’imminente pericolo per gli ostaggi, i quattro militari decisero di presentarsi. Al più anziano furono inflitte pesanti minacce, risparmiata la vita e imposta la ripresa del servizio. Il destino dei tre giovani, La Rocca, Marandola e Sbarretti, è descritto nella motivazione per il conferimento della medaglia d’oro al valor militare, conferita nel 1946. Ciascuno

veniva informato che il comando germanico aveva deciso di fucilare dieci ostaggi nel caso egli non si fosse presentato al comando stesso entro poche ore. Pienamente consapevole della sorte che lo attendeva, serenamente e senza titubanze la subiva perché dieci innocenti avessero salva la vita. Poco dopo affrontava con stoicismo il plotone d’esecuzione tedesco”.

Il documento indica anche che i Tre Carabinieri parteciparono “con grave rischio personale, all’attività del fronte clandestino. Dettagli ancor più approfonditi su tali attività appaiono in un rapporto informativo su ciascuno degli eroi, redatto da Vittorio Sorani, comandante della Brigata “V”: “con i suoi colleghi della stazione di Fiesole collaborò alla sottrazione di armi e munizioni (…), all’armamento e al vettovagliamento delle formazioni partigiane a nord di Fiesole”.[ii] Proprio su questo “armamento” esistono ulteriori informazioni, che consentono di formulare nuove ipotesi.

La storia dei Tre Carabinieri è nota soprattutto grazie a un libro del Generale Arnaldo Ferrara, pubblicato dall’Arma dei Carabinieri nel 1976,[iii] ed è stata ripetuta, spesso testualmente, praticamente in tutti i testi successivi. Sebbene si basasse sull’ampia documentazione contenuta nell’archivio storico dell’Arma, in particolare i verbali degli interrogatori dei testimoni redatti tra il 1944 e il 1945, sorprendentemente il volume del 1976 non fa alcun riferimento all’appuntato Naclerio.[iv] Evidentemente Ferrara decise di concentrarsi sui tre eroi che avevano ricevuto le medaglie d’oro. Tuttavia, la figura del “quarto carabiniere”, rimasta praticamente sconosciuta, è stata trattata in altri studi pubblicati successivamente dall’Arma.[v] Una fonte importante, evidentemente non consultata da Ferrara, si trova nell’archivio del Comitato di Liberazione Nazionale di Fiesole, presso l’ISRT. Un inventario dettagliato del 2014 dedica un capitolo all’inchiesta su Luigi Oretti, il segretario comunale di Fiesole durante l’occupazione tedesca accusato, tra l’altro, di non aver evitato la fucilazione dei Tre Carabinieri.[vi] Il verbale della riunione del 15 febbraio 1945, convocata per discutere accuse anonime rivolte a Oretti, riassume le deposizioni di alcuni protagonisti degli eventi dell’11-12 agosto 1944.[vii] Oltre a dimostrare l’innocenza di Oretti, il documento fornisce molti dettagli nuovi sulla storia dei carabinieri di Fiesole. Per esempio Raffaello Nieri, ragioniere comunale durante l’occupazione, spiegava le circostanze in cui il tenente Hans Hiesserich, comandante delle forze tedesche a Fiesole, aveva scoperto la fuga dei carabinieri:

il comandante suddetto aveva ordinato la raccolta di un certo numero di secchi, badili ecc. Dando incombenza di questo al segretario, che avrebbe dovuto trasmettere quest’ordine alle forze di polizia italiane; queste sarebbero andate nelle case mentre i soldati tedeschi li avrebbero accompagnati (…) Mancando i carabinieri, si mandarono dei civili (…) Alla sera il comandante infuriato constatò la assenza dei carabinieri e domandò dove erano (…) il comandante diede ordine di ritrovare i carabinieri entro due ore pena la fucilazione degli ostaggi”.

Anche Oretti riportava la notizia della minaccia e della raccolta degli oggetti in metallo,[viii] e aggiungeva di essersi recato “dal vescovo e qui mons. Luigi Turini affermò di sapere dove si trovavano”. Infatti nel verbale che riguarda quest’ultimo si legge:

Mi consta, avrebbe detto il comandante, che i carabinieri hanno abbandonato la caserma; o stasera prima delle 9 ritornano o faccio fucilare gli ostaggi.[ix] Mons. Turini aveva saputo da alcune donne che i carabinieri in borghese stavano tra la Misericordia e i cunicoli del Teatro romano, destando timori di rappresaglie nelle persone abitanti quella zona. Per consiglio del vescovo andò con l’Oretti ad esporre il dilemma ai carabinieri e trovò prima l’appuntato che chiamò anche gli altri. Mons. Turini li consigliò a vestirsi e presentarsi, persuaso che non ci sarebbe state altre conseguenze che doversi mettere a disposizione dei tedeschi per i servizi di polizia. Andò quindi con la signora Marchi [ l’interprete] dal comandante a riferire che i carabinieri non erano affatto fuggiti.

Come vedremo, poiché era il solo ad avere con sé la divisa, l’appuntato Naclerio fu l’unico carabiniere a presentarsi immediatamente dal Tenente Hiesserich. Assumono particolare importanza i ricordi di Isabella Marchi, che allora faceva da interprete, in quanto con tutta probabilità era l’unica persona, presente in quel momento presso il quartier generale nazista, in grado di capire sia l’italiano sia il tedesco. La testimone descrisse il tentativo di Naclerio di giustificare l’assenza dei suoi commilitoni, fornendo un altro dettaglio importante:

L’appuntato spiegò che i carabinieri, non venendo più pagati dal mese di giugno, si ritenevano liberi da impegni; per questo non si erano più presentati al servizio. Il tenente aggiunse che d’ora innanzi i carabinieri sarebbero stati alle sue dipendenze (…) l’atteggiamento del segretario come di tutti all’uscita da quel colloquio fu come se fosse chiarita favorevolmente la situazione dei carabinieri già detenuti, con un senso generale di sollievo. Al mattino dopo incontrò il segretario sconvolto che le diede la notizia della avvenuta fucilazione. La signora aveva una certa confidenza con un soldato tedesco e a quello domandò che cos’era successo e questi disse che disgraziatamente si erano trovate le armi. Nulla però trapelò durante il colloquio che già fossero scoperte le armi”.

Su questo ritrovamento, il resoconto del ragionier Nieri include ulteriori informazioni inedite. Mentre Oretti e Turini cercavano i carabinieri nei pressi della Misericordia,

I tedeschi stessi dapprima fecero ricerca dei carabinieri alla caserma (…) Mentre tutti erano al primo piano si presentarono i tre carabinieri in borghese per prendere le divise, forse ignorando la presenza dei tedeschi. Questi domandarono dove fossero le armi, e quelli ne indicarono il nascondiglio (uno stanzino nel giardino). Qui furono costretti a caricarsi le armi, e sotto scorta armata a portarle alla villa Martini”.

Quella sera, aggiungeva Oretti, “il comandante lo rimandò a chiamare e gli fece veder le armi trovate, fucili [e] bombe a mano, dicendo che quelle armi erano state preparate contro di loro”. Secondo una fonte anonima ma ben informata, nella caserma “vennero rintracciati 7-8 moschetti, circa 40 bombe a mano e vari proiettili”.[x] Come venne a sapere poco dopo l’interprete, signora Marchi, sarebbe stato proprio il ritrovamento delle armi a far infuriare il comandante. Normalmente le granate non facevano parte della dotazione ordinaria dei carabinieri. Forse, invece, tali bombe risalivano a un’operazione compiuta poco prima dai partigiani a Fiesole. Nella sua “Relazione sull’attività svolta dalla Banda Partigiana Fiesole”, scritta il 13/4/1945, il comandante Luigi Fossi riportava laconicamente: “Il 5 luglio 1944, una squadra di circa 15 uomini disarmò il presidio repubblicano di Poggio Sereno facendo bottino di 20 moschetti, 2 casse di bombe a mano, diversi caricatori”.[xi] Maggiori dettagli su tale audace operazione appaiono in un “Ricordo” che Riccardo Fossi, figlio del comandante, ha recentemente donato all’ISRT. Tale fonte, tuttavia, non chiarisce quale itinerario avessero poi seguito le granate dopo l’operazione. Dato che non vennero usate per altre azioni a Fiesole, sembra plausibile che quelle nascoste nello stanzino del giardino possano coincidere con le granate trafugate al presidio repubblicano il 5 luglio. Se così fosse, quando decisero di presentarsi ai tedeschi il 12 agosto, i quattro carabinieri erano consci di aver occultato materiale altamente compromettente il giorno prima. Monsignor Turini era persuaso che, per i carabinieri, “non ci sarebbero state altre conseguenze che doversi mettere a disposizione dei tedeschi per i servizi di polizia”. Ovviamente l’uomo di Chiesa non sapeva delle bombe a mano nascoste nella caserma. I miliari, viceversa, avevano ben presente i rischi che correvano; mutuando una frase dalla formula della motivazione della medaglia d’oro, ciascuno era “consapevole della sorte che lo attendeva”.

Rimane però un dubbio: perché i carabinieri avrebbero nascosto armi e bombe, se non avevano intenzione di tornare alla caserma? Da un lato non sarebbe stato difficile manomettere questo materiale, per assicurarsi che non potesse essere usato dai tedeschi. Dall’altro sappiamo sia da Sorani sia da altre fonti che in quel periodo i Carabinieri di Fiesole stavano contribuendo “all’armamento e al vettovagliamento delle formazioni partigiane a nord di Fiesole”. Sappiamo inoltre, grazie al verbale di uno degli interrogatori condotti dai Carabinieri, che il 12 agosto 1944 i tedeschi riuscirono ad accedere alla caserma chiusa passando dalla casa di Teresa Belli, la quale abitava dietro l’angolo. La Belli spiegava:

(…) Il Ragioniere Nieri, accompagnato da due tedeschi armati suonò al campanello della mia casa, sita in via Massicini n. 6. Andai ad aprire ed il rag. mi domandò se le finestre della mia abitazione affacciassero sul giardino della caserma dei carabinieri. Risposi negativamente, ma uno dei tedeschi intervenne e chiese di vedere. Allora l’accompagnai ad una delle finestre che dà su un cortiletto, adiacente alla caserma e separato da questa da un muro relativamente basso, facilmente sorpassabile. I tedeschi visto ciò, chiesero di scendere e arrivarono così nel cortile.[xii]

Poiché da lì i tedeschi entrarono facilmente nel giardino della caserma, è certamente possibile che i partigiani potessero o solessero accedervi in modo simile. Ancor oggi vari fiesolani ricordano che i carabinieri lasciavano nel proprio giardino armi a disposizione dei partigiani. Sulla base di tali informazioni e osservazioni, è possibile formulare una nuova ipotesi: forse i carabinieri vollero lasciare fucili e granate nel giardino, in modo che potessero essere recuperati dai loro “colleghi”, i partigiani di Fiesole. L’ipotesi ci riporta alla testimonianza del soldato tedesco confidente dell’interprete, Signora Marchi, secondo il quale il ritrovamento delle armi era stato il motivo della fucilazione dei tre giovani militari. Non sappiamo quanto fosse ben informata o attendibile la fonte ma, se lo fosse, la coraggiosa scelta dei Carabinieri di Fiesole prima di custodire e poi rendere accessibili le armi trafugate potrebbe aver avuto tragiche conseguenze.

[i] Per un resoconto accurato dei Tre Carabinieri di Fiesole, cfr. le schede di F. Fusi sul sito web Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, a cura di P. Pezzino, http://www.straginazifasciste.it.

[ii] Per una riproduzione dei tre documenti cfr. L’archivio del comitato di liberazione nazionale di Fiesole. Inventario, a cura di M. Bonsanti, Edizioni Polistampa, Firenze 2014, pp. 127, 128, 129 (ISRT, ACLNF, Partigiani, fasc. 2, sfac.5).

[iii] A. Ferrara, Carabinieri martiri di Fiesole, Il Carabiniere, Roma 1976.

[iv] I documenti più importanti di questa serie verranno pubblicati nel sito web della mostra “Marcello Guasti, Giovanni Michelucci e il Monumento ai Tre Carabinieri”, Fiesole, Museo Archeologico (17 febbraio – 30 settembre 2019), e sul sito del Museo stesso.

[v] A. Castellano, Carabinieri martiri di Fiesole, “Le Fiamme d’Argento” 42, nn. 8-9 (agosto-settembre 1998), p. 5; J. K. Nelson, Il Carabiniere Francesco Naclerio: superstite di Fiesole, “Notizario Storico dell’Arma dei Carabinieri”, a. III, 4 (2018), pp. 4-12.

[vi] L’inventario, cit., pp. 95-97.

[vii] Ibid, p. 96, ISRT, ACLNF, Inchiesta su Luigi Oretti, fasc. 2, sfasc. 4; cfr. anche p. 97, per le accuse anonime.

[viii] “La requisizione di circa 80 pezzi tra catinelle e brocchetti di metallo,” è menzionata anche nell’anonima “Relazione sulla situazione di Fiesole durante l’invasione teutonica (4 agosto – 1 settembre 1944),”Guerra e lotta di liberazione a Fiesole e nel suo territorio, a cura di S. Nannucci, Studio GE9, Firenze1985, 47. Il documento non è stato rintracciato.

[ix] Silvio Boninsegni, che fece da interprete alla conversazione tra Hesserlich e Oretti, ricordava come il comandante disse al segretario “che se non si fossero trovati i carabinieri sarbbero stati fucilati gli ostaggi”. Ferrara, invece, senza citare tali fonti, scrisse di Hesserlich: “Sembra che le sue parole siano state: ‘O saranno fucilati gli ostaggi civili, o saranno fucilati i carabinieri’”.

[x] Guerra e lotta, cit., 47.

[xi] Idem, p. 26. Il documento si trova nell’archivio dell’ISRT. Nel suo verbale del 27 settembre 1944, Oretti raccontava del comandante tedesco: “mi mostrò 8 o 10 moschetti, una cinquantina di bombe a mano e numerosi caricatori dicendomi: ‘so bene a che cosa servivano queste armi; come a Firenze, sarebbero state distribuite per tirare alle nostre spalle’”; Nelson, cit., 10.

[xii] Roma, Archivio storico dell’Arma dei Carabinieri, filza 749.6, cartella 318, protocollo 318/6 (1944), allegato 2: Processo verbale di interrogatior di Belli Teresa, 16 ottobre 1944.




La 22° Brigata Garibaldi “Lanciotto” e la battaglia di Cetica (29 giugno 1944)

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Aligi Barducci “Potente”, comandante militare della Brigata “Lanciotto”

Il 24 maggio del 1944, dalla fusione dei raggruppamenti partigiani “Checcucci”, “Romanelli”, “Lanciotto” e “Fabbroni”, si costituiva formalmente la 22° Brigata Garibaldi “Lanciotto” agli ordini della Delegazione Toscana del Comando Generale delle Brigate Garibaldi[1]. La nuova formazione, intitolata al nome di “Lanciotto Ballerini”, leggendario comandante partigiano caduto nel gennaio 1944 a Valibona in uno scontro con i fascisti della “Muti”, accorpava le quattro preesistenti formazioni che nei mesi precedenti avevano operato tra Monte Morello, Monte Giovi, il Mugello e l’appennino tosco-romagnolo. Dopo i rastrellamenti nazifascisti e la dispersione subita in aprile sul Falterona, molte di queste bande erano riparate di nuovo su Monte Giovi, tra Mugello e Valdisieve, dove potevano contare sul riparo e l’estesa solidarietà della popolazione locale. L’idea di accorpare queste bande ponendole sotto un comando unificato – un’ipotesi già discussa nella prima metà di aprile nel corso di un incontro avvenuto tra i capi della resistenza mugellana nella fabbrica Stefanini di Borgo San Lorenzo – presupponeva però l’abbandono di Monte Giovi, non adatto al concentramento di una nuova grande unità partigiana, per trasferirsi in un’area più idonea, individuata dopo qualche discussione nel massiccio del Pratomagno[2]. Il 23 maggio, un gruppo di circa duecento partigiani guidati da Aligi Barducci “Potente” – già membro della banda di Alfredo Bini, poi raggruppamento “Romanelli”, e al quale era stato affidato unanimemente il compito di organizzazione militare della nuova formazione – lasciava Monte Giovi diretto sul Pratomagno, dove già alcuni partigiani guidati dallo stesso Bini e da Giulio Bruschi “Berto” erano stati inviati per predisporre il terreno.

Qualche giorno dopo l’arrivo di Potente in Pratomagno la formazione ebbe il riconoscimento ufficiale da parte della Delegazione toscana del comando delle Brigate Garibaldi[3]. I quattro raggruppamenti originari divennero le quattro compagnie costitutive: la “Checcucci” ne fu la I con Bruno Bertini “Brunetto” comandante militare e “Cecco” commissario politico, la “Fabbroni” la II con Lazio Cosseri comandante e Vasco Palazzeschi “Mara” commissario, la “Romanelli” la III con “Bini” comandante e “Zio” commissario e, infine, la “Lanciotto” la IV con Renzo Ballerini comandante e Pietro Corsinovi “Pietrino” commissario. Il comando militare della brigata fu affidato invece a “Potente”, cui si affiancarono Giulio Bruschi “Berto” commissario politico e Rindo Scorsipa “Mongolo” Capo di Stato Maggiore. La dislocazione sul Pratomagno della formazione vide le quattro compagnie schierarsi sul massiccio a copertura dei versanti del Casentino e del Valdarno secondo il seguente schema: la prima compagnia tra la Consuma e Strada in Casentino, la seconda tra Strada e Poppi, la terza tra Castelfranco e Reggello e la quarta tra Reggello e la Consuma[4]. Il comando della Brigata venne invece installato ben nascosto, tra i faggeti posti al margine di una radura tra l’Uomo di Sasso e il Varco di Gastra, in quota al rilievo.

L’arrivo della Lanciotto diede così luogo sul massiccio a un’alta concentrazione partigiana, considerato peraltro che nel settore più meridionale agivano altre formazioni autonome come la “Mameli” e “La Teppa”, nonché il gruppo di paracadutisti inglesi operanti dietro le linee nemiche del “Long Range Desert Group”, mentre tra il Casentino e il Pratomagno aretino erano attestai anche i partigiani della 23° Brigata Garibaldi “Pio Borri”[5].

Dai primi di giugno e a partire soprattutto dalla liberazione di Roma, il rapido avanzare del fronte di guerra spinge le diverse formazioni lì attestate ad accelerare l’organizzazione e il loro consolidamento, intensificando l’attività militare e di disturbo nei riguardi delle unità tedesche presenti nell’area. Per impedire che il Pratomagno possa divenire «un luogo di rifugio e di sosta per i nazifascisti in ritirata o, peggio ancora, un caposaldo di resistenza atto a contrastare l’offensiva alleata» in direzione di Firenze, il comando della “Lanciotto” decide di portare alcune squadre della I e II compagnia a Cetica, considerata la «porta d’accesso al Prato Magno»[6]. Nel paese, «un agglomerato di case in pietra» ai piedi del massiccio dove termina la carrozzabile proveniente dal Casentino, si installano in pianta stabile e nello stupore della popolazione locale gli uomini della Lanciotto: «la gente di Cetica» – avrebbe poi scritto nelle sue memorie Fernando Gattini “Lupo”, allora membro del distaccamento “Adriano Gozzoli” della II compagnia – «sapeva che queste montagne ospitavano un gran numero di partigiani, ma non pensava che un giorno ci saremmo accasermati proprio in paese, come fossimo forze regolari. Perciò, nel vederci arrivare in massa, spavaldi e sicuri del fatto nostro, non hanno nascosto la propria meraviglia e una certa apprensione»[7].

Lazio Berto Mara

Da sinistra a destra: Lazio Cosseri, Giulio Bruschi “Berto” e Vasco Palazzeschi “Mara” sul Pratomagno

Durante tutta la loro permanenza a Cetica si sviluppa con gli abitanti un profondo rapporto di solidarietà, non nuovo in un’area, quella del Pratomagno, dove gli uomini della “Lanciotto”, forti di un controllo del territorio e delle vie di comunicazione apparentemente incontrastato, instaurano secondo alcuni una sorta di «piccola repubblica» partigiana, intervenendo in soccorso e a protezione della popolazione locale[8]. Il 24 giugno, la II compagnia guidata da Lazio Cosseri assalta in località Quorle, non distante da Cetica, il magazzino di un commerciante speculatore asportandovi circa 120 quintali di zucchero che la formazione subito distribuisce agli abitanti di Cetica, Montemignaio, Strada[9]. Sopratutto a Cetica, il rapporto tra partigiani e abitanti è secondo Gattini solidale:

Non c’è famiglia che non si dia da fare per noi, per rappezzare il nostro precario abbigliamento, per confezionare fazzoletti rossi con il nome della formazione ricamato a mano, per farci mangiare in casa, insieme a loro. Gli abitanti del paese vivono con noi un mese di intensa comunione ideale e pratica, contribuendo come pochi altri alla lotta contro il fascismo. Purtroppo, come è accaduto ad altri, pagheranno duramente la loro generosità.[10]

L’attività partigiana nella zona è infatti in rapida ascesa dai primi di giugno con attacchi mirati che si susseguono a danno di tedeschi e fascisti e che contribuiscono a innalzare il livello di tensione. Le azioni di disturbo dirette in particolare dagli uomini della “Lanciotto” sullo snodo viario della Consuma mettono a repentaglio i collegamenti tedeschi tra Valdarno e Casentino. A queste vanno poi sommandosi la cattura e il sequestro a danno degli occupanti di uomini e mezzi. Il 23 giugno, sempre effettivi della II compagnia della “Lanciotto” riescono a catturare  un colonnello e un capitano tedeschi, fermati in auto in compagnia della loro interprete, Fiorenza, una nobildonna fiorentina che li ha ospitati nella propria villetta di Rifiglio, presso Strada. Durante il trasporto dei prigionieri, però, l’alto ufficiale era riuscito a liberarsi e ad avere la meglio su “Giorgio”, il partigiano russo che lo scortava, salvo poi venir ucciso dai partigiani per evitarne la fuga[11]. L’azione aveva creato seri problemi al comando della Brigata, facendo temere una immediata  reazione tedesca[12]. Stando al parere del parroco di Strada don Bozzo, un’incursione analoga compiuta il 26 nei pressi di Strada e conclusasi con il fermo e la requisizione di un’auto della Todt sarebbe stata alla base dell’attacco tedesco a Cetica del 29 giugno[13]. In realtà, anche dopo questo episodio, altri scontri tra unità della “Lanciotto” e reparti tedeschi erano continuati a susseguirsi fino al 29. Il 27, ad esempio, la compagnia di Lazio Cosseri aveva attaccato le postazioni tedesche a Strada «paese abbandonato dai tedeschi due giorni prima e in questo frattempo occupato dai partigiani per un’intera notte»[14], innescando così per rappresaglia la presa in ostaggio di una quarantina di civili, più tardi rilasciati[15]. Ma a quella data il comando della 10° Armata tedesca era già in allarme per la cattura, avvenuta il 26 tra Arezzo e Anghiari a opera dei partigiani della 23° Brigata “Pio Borri”, del colonnello von Gablenz responsabile del Koruck 594 (il comando preposto alla sicurezza delle retrovie), circostanza questa che di fatto determina da lì in poi un sensibile inasprimento tra Pratomagno, Valdarno e Val di Chiana della repressione tedesca contro civili e partigiani. Dal 27 gli uomini del 2° Battaglione del 3° Reggimento Brandenburg avviano infatti un massiccio rastrellamento tra Montemignaio e Cetica[16]. All’alba del 29 giugno (lo stesso giorno in cui in Val di Chiana unità della Herman Goering danno avvio alle operazioni di rastrellamento sfociate tragicamente nei massacri di Civitella, Cornia e S. Pancrazio) i reparti del Brandenburg giungono a Cetica. Allora – è riassunto nel diario della Brigata,

  le vedette del 1° dis.[taccamento] della 2° [compagnia] segnalano spostamento di uomini vestiti in borghese ed armati provenienti da Strada e diretti a Cetica. Erano tedeschi, frammisti con italiani, travestiti da partigiani, che volevano distruggere il centro di resistenza partigiana. La 2° ingaggia battaglia con tedeschi potentemente armati. La 2° è dislocata a S. Maria di Cetica, a Calognole, ed al Mulino, dove due partigiani rimangono feriti. I tedeschi vista la resistenza opposta chiamano in aiuto i mortai; mentre la 1° giunge di rinforzo schierandosi sul ciglione della conca di Cetica. I tedeschi cominciano a subire le prime perdite; però ricevono rinforzi, ma i partigiani rinforzata dalla 4° cp. Continuano il combattimento sebbene vi siano delle perdite tra i nostri. Il nemico posto di fronte a serie difficoltà prese le donne ed i borghesi e gli fece marciare davanti, cosa questa che costrinse i partigiani di desistere dal fuoco, e di ripiegare di poco. I tedeschi giunti in Cetica, si trattengono un’ora circa e danno fuoco a tutte le abitazioni, fucilano prima tre innocenti borghesi. Tentarono fra tanto di raggiungere il mulino per distruggerlo, per toglierci la possibilità di macinare il grano, ma ciò gli fu vietato, poiché si riprese il combattimento. Quando i tedeschi ripiegarono su Strada, i partigiani, osservando le loro mosse, li precedettero, e fra Rifiglio e Pagliericcio tesero loro una imboscata che costò ai tedeschi gravi perdite.[17]

Lupo e Mara

Luglio 1944. Sulla sinistra: Fernando Gattini “Lupo”, membro del distaccamento “Adriano Gozzoli” della II compagnia della Brigata “Lanciotto” impegnato il 29 giugno nella battaglia di Cetica

Il conflitto tra i due contendenti è piuttosto duro e assume la forma di un vero e proprio scontro frontale, inconsueto per chi come i partigiani della “Lanciotto” è abituato a operare con attacchi a sorpresa, come è nella pratica della guerriglia. Se l’imparità di fuoco è evidente, gli uomini di “Potente” dimostrano però d’aver conseguito un grado di preparazione e di organizzazione militare non trascurabile, considerata la recente costituzione della Brigata e l’endemica mancanza di armamenti, alla quale gli attesi aviolanci alleati previsti in quelle settimane sul Pratomagno non hanno per il momento saputo porre riparo. L’effetto sorpresa ricercato dai tedeschi con lo stratagemma dei soldati camuffati da partigiani è infatti prevenuto dalle sentinelle della “Lanciotto” presenti lungo la via d’accesso al paese che riescono tempestivamente ad avvisare a Cetica il comando di compagnia e sul Passo di Gastra quello di Brigata. Nel poco tempo a disposizione si cerca di porre al riparo i civili mentre i tre distaccamenti delle due compagnie presenti a Cetica vengono disposti a semicerchio a monte dell’abitato. Solo lo scudo che i tedeschi si fanno dei civili rastrellati durante il loro avvicinamento attenua il potenziale di fuoco dei partigiani, i quali, ben nascosti «fra le macchie, dietro le capanne» al limitare del paese, «si mordono le mani» perché costretti a sparare «a raffiche irregolari» per non colpire gli ostaggi, assistendo quindi semi-impotenti all’incendio del paese da parte degli occupanti[18]. Riescono tuttavia a circoscrivere l’azione degli assalitori, cercando di impegnarli verso altre direzioni e ponendo in salvo così il prezioso mulino di Cetica. L’abitato principale, tuttavia, è ridotto in macerie e alla fine della giornata si contano 13 civili (tutti uomini) uccisi dai tedeschi tra quanti erano stati presi in ostaggio. Un prezzo certamente alto, ma – hanno ragione di credere gli uomini della “Lanciotto” – ben diverso da quanto sarebbe potuto accadere in conseguenza di un ipotetico sganciamento delle compagnie partigiane: «a Cetica», avrebbe scritto più tardi Lazio Cosseri, «non accadde quello che di solito accadeva quando i tedeschi entravano come belve in un paese inerme, radunando donne, vecchi, bambini che trucidavano senza pietà». Ciò in questo caso non si verificò «perché i partigiani non abbandonarono mai il paese»[19]. Fu proprio all’iniziativa personale di Lazio, particolarmente scosso dal brutale colpo inflitto a Cetica dai tedeschi, che allora si dovette un’estemporanea e ardita controffensiva lanciata verso gli assalitori. Alla sera del 29, postosi alla guida di una quindicina di compagni divisi in due squadre, il comandante della II compagnia si diresse rapidamente sulla strada di Pagliericcio tra Cetica e Montemignaio lungo la quale dopo l’azione stavano ritirandosi i tedeschi . Qui Lazio riuscì a tendere un’imboscata a un gruppo in ripiegamento provocando – stando ai resoconti partigiani – l’uccisione di più di 50 soldati e portando a questo modo – sempre secondo le relazioni ufficiali partigiane – il numero complessivo dei caduti nelle file nemiche a 65[20]. In realtà, il bilancio delle perdite, rispetto alle soventi poco attendibili ricostruzioni ex post, fu probabilmente più attenuato, da entrambe le parti. Le fonti tedesche infatti al termine dell’operazione del 29 giugno registrano la morte di soli 2 soldati del battaglione Brandenburg e il ferimento di altri 5 a fronte dell’uccisione di ben 45 «banditi»[21]. Solo 10 invece i caduti accertati nelle file della “Lanciotto” secondo i rapporti della Brigata[22].

Lapide Cetica partigiani

Cippo in memoria dei caduti partigiani durante la battaglia di etica del 29 giugno 1944 (www.pietredellamemoria.it)

Ad ogni modo, quella che fu da lì ricordata come la “battaglia” di Cetica, seppur difficile da descriversi come un completo successo partigiano, ebbe tuttavia grande rilievo ai fini dell’ulteriore sforzo di organizzazione della Brigata “Lanciotto” in vista delle più decisive prove cui sarebbe andata incontro successivamente, quando, col progressivo avvicinamento tra luglio e agosto del fronte di guerra alla linea dell’Arno, la formazione, col concorso delle altre Brigate e sotto il comando di “Potente”, si costituì in Divisione “Arno” contribuendo in modo capitale alla liberazione di Firenze. Qualche giorno dopo gli scontri di Cetica, infatti, in una riunione convocata da “Potente” al valico di Gastra tra tutti i comandanti e i commissari politici di compagnia della Brigata, si provvide alla ricostruzione dei fatti del 29 giugno e, ai fini di un utile ammaestramento per il futuro, a una disamina critica dei limiti e delle manchevolezze di quell’azione. Per quanto l’urto frontale dell’attacco tedesco non era riuscito a scompaginare completamente le forze della “Lanciotto” attestate a Cetica, che anzi erano state in grado di riorganizzarsi in breve tempo contrattaccando tempestivamente, diversi limiti erano emersi nel coordinamento tra i comandi delle diverse compagnie e a causa dell’eccessiva improvvisazione di alcuni di questi. In tal senso, emblematica era stata l’azione a sorpresa intrapresa dalla II compagnia di Lazio su decisione personale di quest’ultimo e in completo disaccordo col suo commissario “Mara”. Il dibattito sulle presunte responsabilità dei singoli o dei comandi si fece a tratti polemico, stando che diversi tra i convenuti erano convinti che «con le forze presenti a Cetica sarebbe stato possibile non solo resistere ai tedeschi, ma assestare un duro colpo al nemico e impedire o almeno limitare i danni al paese»[23]. Anche per questo, a riparazione delle supposte omissioni e manchevolezze, si decise di stanziare subito 100.000 lire distogliendole dalle casse della Brigata in favore dei sinistrati di Cetica e di distribuire loro quanto era rimasto in riserva in termini di alimenti e indumenti. Sulle responsabilità militari, spettò invece a “Potente” dire la parola definitiva, auspicando per l’avvenire un ulteriore potenziamento dei collegamenti tra i comandi e facendo osservare «con paterna dolcezza» a Lazio le imprudenze da lui commesse «nel predisporre lo schieramento senza curare la difesa alle spalle» lanciandosi all’attacco in un momento inopportuno[24].

Dalla condivisa consapevolezza degli errori commessi a Cetica per difetto d’organizzazione o eccessiva avventatezza – non diversamente da quanto nelle stesse settimane avveniva di analogo sui Monti Scalari entro la neocostituita 22° bis Brigata Garibaldi “Sinigaglia” a conclusione del sofferto esame dei limiti tattici e organizzativi scontati nel corso della “battaglia” di Pian d’Albero[25] – si presentava anche per la “Lanciotto” un’utile, seppur travagliata, occasione per riconsiderare alcuni aspetti operativi e strutturali che erano stato decisi, spesso in modo precario e poco organico, nel corso di un rapido e accidentato processo costitutivo tipico di una grande formazione partigiana in via di sviluppo. In sostanza, il successo che la Divisione “Arno” di Potente avrebbe in seguito ottenuto nei difficili frangenti della battaglia di Firenze richiese il superamento dei limiti che, come nel caso di Cetica,  avevano caratterizzato al pari di altre Brigate le prime fasi di vita e attività  della “Lanciotto”.

[1] La data del 24 maggio è indicata come atto fondativo della brigata nella relazione ufficiale della stessa (cfr. ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, relazione generale della XXII Brigata Lanciotto). Altre testimonianze fanno risalire invece l’atto ufficiale di costituzione della formazione all’8 giugno e a una riunione tenutasi all’Uomo di Sasso, sul Pratomagno, tra tutti i comandanti militari e politici dei raggruppamenti (ivi, b. 3, Relazione di Alessandro Pieri “Stella” presentata all’ANPI provinciale di Firenze nel maggio 1945, p. 17 e V. Palazzeschi, Mara. Dall’antifascismo alla Resistenza con la 22° Brigata “Lanciotto”, La Pietra, Milano 1986, p. 66).

[2] Giuseppe Maggi “Beppe” in Più in là. Ventitré partigiani sulla lotta nel Mugello, a cura del Circolo La Comune del Mugello e del Centro di documentazione di Firenze, La Pietra, Milano 1975, p. 47; L. Tagliaferri, Monte Giovi nella Resistenza, in AA.VV., Monte Giovi: se son rose fioriranno…Mugello e Valdisieve dal fascismo alla Liberazione, Edizioni Polistampa, Firenze 2012, p. 411.

[3] G. ed E. Varlecchi, Potente. Aligi Barducci, comandante della Divisione Garibaldi “Arno”, a cura di M. Augusta e S. Timpanaro, Libreria Feltrinelli, Firenze 1975, p. 85.

[4] ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”.

[5] G. Verni, Appunti per una storia della Resistenza nell’aretino, in I. Tognarini (a cura di), Guerra di stermino e Resistenza. La provincia di Arezzo 1943-1944, ESI, Napoli 1990, pp. 98-173 (in particolare pp. 142 e sgg.); A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Badiali, Arezzo 1957; C. Biscarini, Soldati nell’ombra. 1944. Operazioni speciali nelle province di Siena, Arezzo, Livorno, Grosseto, La Spezia, Effigi, Arcidosso (GR) 2011.

[6] V. Palazzeschi, Mara, cit., p. 72.

[7] F. Gattini, Le nostre giornate, La Pietra, Milano 1980, pp. 113-114.

[8] V. Palazzeschi, Mara, cit., p. 73.

[9] ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”, 24 maggio 1944.

[10] F. Gattini, Le nostre giornate, cit., p. 115.

[11] L. Cosseri (a cura di), Lazio. Ribelle tra i ribelli, Aska, Firenze, 2004, pp. 185-187.

[12] F. Gattini, Le nostre giornate, cit., p. 122.

[13] Per l’episodio cfr. ISRT, Fondo ANPI, b. 2, fasc. Brigata “Lanciotto”, relazione di Lazio Cosseri, Cetica, 26 giugno 1944. Per il giudizio di Bozzo cfr. G. Bozzo, Giorni di lacrime e di sangue. Dal diario personale del tempo d’emergenza nell’alto Casentino, Libreria Salesiana Firenze, 1946, p. 44.

[14] ISRT, Fondo ANPI, b. 2, fasc. Brigata “Lanciotto”, relazione di Lazio Cosseri, Cetica, 27 giugno 1944.

[15] G. Bozzo, Giorni di lacrime e di sangue, cit., pp. 12-20.

[16] G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, pp. 118-119.

[17] ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”, 29 giugno 1944.

[18] ISRT, fondo Alessandro Pieri, Cetica, dattiloscritto, p. 4.

[19] L. Cosseri (a cura di), Lazio, cit., p. 191.

[20] Ivi, p. 192; ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”, 29 giugno 1944.

[21] Bundesarchiv-Militärarchiv, Friburg, RH 2/663, Ic-Meldung, 30 giugno 1944.

[22] 12 caduti e 23 feriti sarebbero le perdite partigiane secondo il già citato diario della Brigata. Altre fonti interne indicano invece 10 caduti e 6 feriti, cfr. ISRT, fondo Alessandro Pieri, Cetica, cit., p. 5; G. ed E. Varlecchi, Potente, cit., pp. 204-205.

[23] F. Gattini, Le nostre giornate, cit., p. 129.

[24] G. ed E. Varlecchi, Potente, cit., p. 234.

[25] M. Barucci, Sulla strada per Firenze. La Brigata Sinigaglia e la strage di Pian d’Albero 20 giugno 1944, Pacini editore, Pisa 2018, pp. 150-152.




Facibeni, Bartoletti, Nesi: la Madonnina del Grappa nella luce del Concilio

«Niente di meno indicato richiederebbe il ricordo del Padre, che un ripetersi cordiale dei suoi fatti e del suo esempio, senza approfondire e senza tener d’occhio gli aspetti positivi della realtà, che cambia e si evolve di suo. Ora mi pare che uno dei valori più schietti e più esigenti dello spirito del Padre sia proprio quello di adattare le linee del suo pensiero e della sua esperienza ad una situazione in atto, evitando la pura celebrazione di ciò che fu, di ciò che fece. Per questo io credo che gli ex allievi abbiano una grande responsabilità: essi traggono dalla esperienza di lavoro e di casa riflessioni vive. Pertanto essi dovrebbero esser quasi la consulta permanente, il vivaio fecondo di riflessioni sulla possibilità di inserire sempre più l’eredità del Padre nei problemi e nelle attese del nostro tempo. Ciò obbligherebbe oltretutto gli stessi ex allievi ad avere un impegno ed un atteggiamento di presenza nel mondo di oggi ed eviterebbe loro il rischio tremendo di esser stati tratti per distaccarsene dal popolo, piuttosto che esser stati tratti dal popolo per restarvene inseriti, con una capacità maggiore di arricchimento spirituale, in una elevazione del bene comune» (Nesi, 1964). In questa riflessione che don Alfredo Nesi consegnò nel 1964 alla rivista dell’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa in occasione del sesto anniversario della morte di don Giulio Facibeni, si avvertono insieme l’eco del rinnovamento conciliare, allora di quotidiana attualità, e la particolare prospettiva con la quale il sacerdote guardava all’eredità lasciata dal Padre, come don Facibeni veniva chiamato a Firenze. Alfredo Nesi, intimo amico di don Lorenzo Milani, era nato a Lastra a Signa (Firenze) il 18 luglio 1923, e dopo aver condotto la sua formazione sacerdotale al seminario Cestello ed essere stato ordinato presbitero nel 1946, era entrato nell’Opera Madonnina del Grappa nel 1947. Da quell’anno e fino al 1954 era stato a Rovezzano dove, da subito, aveva coniugato l’esperienza sacerdotale e pastorale con quella educativa e socio-culturale dando avvio a scuole professionali e di avviamento al lavoro. Dal 1954 al 1958 svolse attività a Rifredi accanto a don Facibeni, perfezionando poi i suoi studi in teologia alla pontificia università Angelicum di Roma fino al 1962. Quando scrisse queste riflessioni su Facibeni sulle pagine de «Il Focolare», don Nesi si trovava già da due anni a Livorno, dove era stato chiamato dal vescovo Andrea Pangrazio come parroco nel quartiere Corea: da lì sarebbe poi fiorita la sua innovativa esperienza dell’Istituzione Sperimentale del Villaggio Scolastico.

don-alfredo-nesi

Don Alfredo Nesi

Quella di don Nesi – che fu certamente tra i più originali interpreti dell’eredità di Facibeni – era una prospettiva che mirava a non cristallizzare in un esercizio di pura memoria il pensiero e l’esperienza del fondatore dell’Opera, ma ad aggiornarle in maniera costantemente aderente ai “segni dei tempi”. Questa continua tensione alla revisione dei fondamenti su cui basare l’azione pastorale e spirituale dei sacerdoti dell’Opera diviene di particolare rilievo soprattutto se letta attraverso il filtro dell’azione di monsignor Enrico Bartoletti, figura di assoluta centralità per l’Opera negli anni successivi alla morte di Facibeni.

Don Nesi non a caso vedeva in monsignor Bartoletti, come chiaramente ebbe modo di esplicitare, «il vero costruttore dell’eredità di don Facibeni» (Nesi, 1996, p. 34). Una costruzione che tendeva a riadattare e ridisegnare la missione dell’Opera secondo le nuove architetture del rapporto Chiesa-modernità che il Concilio aveva tracciato. Un processo che in don Nesi era molto chiaro, quando sosteneva che «le normative tanto precise, le indicazioni sistematiche date e lasciate da don Bartoletti-vescovo ai Preti dell’Opera costituirono, in chiave tipicamente facibeniana, anche la lettura del Concilio Vaticano II» (Ibidem). D’altra parte, l’importanza che Bartoletti ricoprì per mantenere unita la comunità dei sacerdoti è stata più volte confermata da tutti i sacerdoti dell’Opera che ancora oggi, il 5 marzo, in occasione dell’anniversario della scomparsa di Bartoletti, organizzano un incontro di preghiera e ricordo. Tutto questo fa anche emergere alcuni tratti del percorso biografico di Bartoletti ancora poco messi in luce dalla storiografia e che rivelano il profondo, e poco conosciuto, legame tra due figure chiave del cattolicesimo novecentesco toscano e, più precisamente, italiano.

In primo luogo, è da evidenziare che dopo la morte di don Facibeni, il gruppo dei sacerdoti guardò a Bartoletti come al punto di riferimento insostituibile per mantenere l’Opera sulla linea e nel carisma indicati dal Padre. Più ancora, si può affermare che Bartoletti esercitò sui sacerdoti quel «carisma della paternità» (Nesi, 1996, pp. 153-164) prima così profondamente praticato da Facibeni verso i suoi sacerdoti: una paternità fatta di una intensa capacità di ascolto, della sensibilità di saper sentire con gli altri, di una dedizione senza stanchezze e senza riserve anche quando i superiori incarichi avrebbero forse consigliato di desistere.

Per altro verso emerge quanto l’ininterrotto esercizio praticato da Bartoletti nel meditare, aggiornare e reinterpretare la spiritualità di Facibeni abbia agito in profondità nel suo percorso di sacerdote, di vescovo e di vescovo tra i vescovi. Don Nesi, che dal 1954 al 1958 partecipò direttamente all’attività dell’Opera a Rifredi, sostiene che Bartoletti «visse con don Facibeni un’autentica comunione di spirito, di idee» (Nesi, 1996, p. 12). E d’altra parte lo stesso Bartoletti confidava, durante un incontro con i sacerdoti dell’Opera, di aver vissuto «i momenti più decisivi e importanti» della sua vita, «accanto al Padre» (Ai sacerdoti dell’Opera, 1980, p. 21). Nel discorso di commemorazione tenuto alla Madonnina del Grappa nel febbraio 1974 – fondamentale per comprendere l’ottica con la quale l’allora segretario della Cei guardava all’eredità di Facibeni – Bartoletti parlava del fondatore dell’Opera in termini di «profezia»: lo descriveva come «un dono, un carisma profetico, un profeta della continuità». «Vero profeta» perché il suo messaggio si poneva «in continuità di tradizione e di vita» e si inseriva, perciò, «in tal modo nel solco storico della vita della Chiesa, nel suo cammino, nel suo pellegrinaggio, nel suo itinerario nel mondo». Profeta soprattutto perché nel suo messaggio si potevano «cogliere fondamentali linee di vita sacerdotale, di vita pastorale e di vita cristiana per il nostro mondo di oggi». Traghettare l’Opera fiorentina nel post-Concilio significava per Bartoletti «capire questa profezia», per essere «sospinti a realizzarla, non in forme che ricopino soltanto quello che il Padre ha fatto, ma che, cogliendone invece lo spirito, lo sappiano inserire nelle nuove mutate situazioni, quelle situazioni, del resto, che egli già prevedeva e sentiva cogliendone i problemi e cercandone concretamente le soluzioni» (Bartoletti, 1982, pp. 298-299).

Monsignor Enrico Bartoletti con Paolo VI

Monsignor Enrico Bartoletti con Paolo VI

Sembra opportuno qui richiamare quanto sostenuto da Luigi Sartori a proposito di Bartoletti: secondo il teologo egli fu chiamato a vivere, nel corso di tutta la sua esperienza sacerdotale, una teologia di tipo «sapienziale». Una teologia cioè che diveniva un quotidiano esercizio di verifica e scoperta della verità, in quanto ogni situazione ed ogni evento costituivano per lui dei “segni dei tempi” e quindi erano «luogo della Parola, luogo teologico, da interpretare ulteriormente con operazione veramente teologale» (Sartori, 1988, p. 28). In questo senso si può affermare che Bartoletti trovò nell’Opera della Madonnina del Grappa un particolare «luogo teologico» in cui esercitare le sua capacità ermeneutiche: egli riteneva che Facibeni incarnando un carisma autenticamente «ecclesiale, presbiterale e missionario» avesse offerto alla Chiesa alcune intuizioni che sarebbero giunte a maturazione solo con il Concilio Vaticano II. E lo diceva, con estrema chiarezza, ai sacerdoti dell’Opera: «Se si ripensa a questi tre aspetti […] dello spirito del Padre, allora si capisce come appare chiaro l’averlo definito – sia pure con tutti i limiti necessari – un profeta dei tempi nuovi». Perché, argomentava in un incontro del 1971, «è su queste linee, in fondo, che il rinnovamento della Chiesa, della sua vita, di quella dei sacerdoti e della loro pastorale, viene prospettato e dal Concilio e dalla necessità dei tempi nuovi». Sulle linee cioè «della ricostruzione di una vera unità ecclesiale completa, che non sia né puramente presbiterale, né puramente sezionale (per esempio di giovani o di altri)» (Bartoletti, 1980, pp. 88-91).

Ma è nella proposta di un’autentica spiritualità sacerdotale sostanziata nella necessità che i sacerdoti dell’Opera si impegnassero a vivere una vera vita comunitaria che Bartoletti vedeva una delle intuizioni più innovative e anticipatrici di Facibeni: la «vita comune» e la «comunità di vita» tra i sacerdoti furono auspicate esplicitamente dalla costituzione conciliare Lumen Gentium (28) e nei decreti Presbyterorum Ordinis (8 e 9) e Christus Dominus (30,1). Pierluigi d’Antraccoli ha notato quanto Bartoletti sentisse la necessità di favorire la comunione del presbiterio come l’aspetto dominante della sua missione di vescovo: nei suoi discorsi e nelle sue omelie si ritrovano innumerevoli riferimenti a questo punto; e ne parlava sempre con trepidazione, con profonda umiltà, ma anche con fermezza (D’Antraccoli, 1978, pp. 50-51). Per questo l’intuizione facibeniana era per lui tanto significativa: il Padre aveva raccolto intorno a sé un gruppo di sacerdoti, lo aveva curato con amore, e, specialmente negli ultimi anni della sua vita, aveva dedicato molto tempo a fornirgli delle Regole di vita, evitando formule che fossero «eccessivamente strutturate». Erano stati anni di incertezze, di passi indietro, ma anche di forte confronto con altre esperienze come con la Missione de France, con la Comunità del Prado di padre Chevrier e monsignor Ancel. Tutto ciò era segno per Bartoletti che «ante tempus», don Facibeni aveva «concepito la vita presbiterale come vita comune». Non soltanto come vita di comunione o di partecipazione, ma proprio «come vita comune presbiterale, in modo da ottenere una struttura non tipicamente “religiosa”, ma di comunione presbiterale, quale si addice ai preti» (Bartoletti, 1980, pp. 88-91). Concetti tanto chiari anche in don Nesi quanto affermava che i preti di don Facibeni non erano chiamati ad essere una congregazione religiosa, ma «restando preti secolari, a vivere una vita apostolica» in cui la gente poteva «riconoscere subito la vicenda stessa del vangelo»; e solo una «vita comune dei preti» poteva favorire, finalmente, «la crescita di un laicato di collaborazione, di animazione, di comunicativa» (Nesi, 1996, p. 49). Una tale concezione, secondo Bartoletti, era assolutamente innovativa: se si eccettua una certa consonanza con le idee di San Filippo Neri, non aveva riscontri «non soltanto nelle attuali forme canoniche, ma neppure nella storia del diritto canonico» (Bartoletti, 1980, pp. 88-91).

Da qui lo sforzo costantemente profuso perché questa comunità di vita tra i sacerdoti si realizzasse davvero: un impegno che si tradusse in indicazioni dettagliate su come vivere concretamente la spiritualità sacerdotale, ma anche in chiari ammonimenti a non deviare dal carisma facibeniano.

lessi_enrico-bartoletti_testimone_paoline_92h98_origNon si sbaglia nel dire che la distanza tra la realtà dei fatti e l’ideale perseguito rimase sempre piuttosto notevole: lo si percepisce nello scorrere gli appunti degli incontri e nel ripercorrere le fasi di attrito e di crisi che in alcuni momenti hanno contraddistinto la vita dell’Opera e le relazioni tra i sacerdoti dopo la morte di Facibeni. Bartoletti ne era assolutamente consapevole: ma questo non gli impediva di considerare comunque di grande significato “teologico sapienziale” l’esperienza vissuta con l’Opera dopo la morte del Padre: si trattava di un esempio concreto di fraternità e comunità tra sacerdoti che era probabilmente quanto di più vicino alla sua idea di comunione del presbiterio egli avesse potuto sperimentare nella sua attività di prete e vescovo. Lo si avverte anche dal modo affettuosamente ironico con cui l’allora vescovo di Lucca raccontava quell’esperienza al suo clero diocesano: durante un’assemblea presbiterale – ricorda don Pietro Gianneschi che di Bartoletti fu segretario particolare per quasi sedici anni – il presule fece accenno, senza in realtà nominarli, ai preti dell’Opera con una frase molto significativa: «Il Concilio ha auspicato che i preti vivano una vita di comunità: certamente non è una esperienza facile. Lo verifico costantemente seguendo un gruppo di preti intelligenti, ma che rimangono… tanti “galli nel pollaio”».

Non sarebbe corretto asserire che don Nesi fu tra i sacerdoti dell’Opera quello che con le sue realizzazioni più si mantenne fedele al carisma del Padre: certamente però don Nesi è stato tra quelli che più si è impegnato, anche dopo la morte di Bartoletti, a ripresentare con costanza all’Opera la lettura bartolettiana dell’eredità di don Facibeni. Si tratta, in fondo, di una sorta di doppia paternità e di doppia eredità per l’Opera che, pur in una concretizzazione non priva di difetti, ha permesso al gruppo di sacerdoti di don Facibeni di vivere un’esperienza di vita comunitaria tra preti secolari che ha indubbie caratteristiche di originalità nel panorama del cattolicesimo italiano. Se ne rendeva conto don Nesi nel 1996 quando guardandosi indietro così sintetizzava tutte le fatiche e le soddisfazioni nel dare consistenza all’intuizione facibeniana: «Questo gruppo di Preti, che ora può cominciare a prendere il titolo di comunità, proprio perché può distinguersi dalle troppe ed uggiose comunità di ogni tipo e di ogni pizzicore, è stato profondamente toccato da don Facibeni. Ma oggi, dopo anni di passione, di tensione, comunque di fedeltà alla Madonnina del Grappa, quei Compreti, sono in Diocesi di Firenze, senza dubbio alcuno, un esempio di intesa e di reciproca collaborazione, che può davvero costituire, ora che finalmente si parla di vita comune tra i preti secolari, un riferimento concreto di una realtà in atto» (Nesi, 1996, p. 29).




Primo Levi e l’arte

La più importante opera di Primo Levi non è quella legata alla letteratura bensì quella legata all’arte” sostiene il professor Paolo Coen della Università di Teramo.

Comunque, si dice che non sono molte le citazioni di opere d’arte nelle opere di Levi, né che lo scrittore sembri troppo attratto dal mondo artistico; tuttavia due cose smentiscono tale affermazione: 1) a un certo punto, per passatempo – Levi ha sempre lavorato con le mani, aggiustando ad esempio i giocattoli dei figli – ha cominciato a costruire con i fili di rame ricoperti di vernice, provenienti dalla Siva, l’azienda chimica per cui lavorava, degli animali – una farfalla, un gufo, un coccodrillo – che poi regalava agli amici o teneva in casa. Questo passatempo, nella raffigurazione della farfalla, può presentare analogia con la raccolta L’angelica farlalla (1966) di straordinaria elevatezza e, al tempo stesso, profondità.

Il tema che sta alla base di questa raccolta è quello della «permutazione delle specie e delle forme» L’«angelica farfalla» è una citazione da Dante: «O superbi cristiani, miseri lassi, / che, della vista de la mente infermi, / fidanza avete ne’ ritrosi passi, / non v’accorgete che noi siam vermi, / usati a formar l’angelica farfalla, / che vola a la giustizia sanza schermi?». Siamo in Purgatorio X, 121-26, nella cornice in cui i superbi purgano il loro peccato per ascendere al premio eterno. Ora su questa possibile duplicità si costruisce la raccolta di racconti di cui stiamo parlando: si può andare verso il basso o verso l’alto, a seconda della scelta che si è fatta. E l’umano e il bestiale, in questo accidentato percorso, si corrispondono e talvolta si fondono, creando ircocervi difficilmente distinguibili.

paolo-coen-arte-e-musei-della-shoah-per-imt-alti-studi-lucca-1-638“il gufo è il mio autoritratto’ diceva scherzosamente Levi. E in effetti con quegli occhiali enormi, i capelli un po’ a punta e la barbetta, nell’ultimo periodo della sua vita, Levi un po’ assomigliava a un gufo. Doveva trovarlo divertente, visto che i gufi ricorrono spesso nella sua opera. Andando a cercare immagini per il lavoro su Una stella tranquilla se ne trovano diversi, a partire da quelli che Levi disegnava al computer. Levi si paragona a un gufo anche quando racconta del periodo in cui scrisse Se questo è un uomo. Era il 1946 e Levi lavorava ad Avigliana, un po’ fuori Torino, in una fabbrica di vernici. Scrisse il libro in treno, nelle pause dal lavoro e soprattutto di notte, nella foresteria della fabbrica, dove il suo ticchettare alla macchina da scrivere veniva considerato parecchio strano dai colleghi. «Ero il gufo notturno che batteva alla macchina da scrivere», disse Levi. E per un bel po’ di tempo la sua scrittura sarebbe rimasta così, un’attività notturna (o almeno serale), a cui si dedicava dopo il lavoro, dopo che aveva “cambiato pelle”, passando da chimico a scrittore. Ma il gufo più importante e è un altro, è una specie di maschera.

Appartiene a una serie di “sculture” che Levi fabbricava con il filo di rame. Questo era la materia prima del suo lavoro di chimico: il filo di rame, infatti, è un conduttore elettrico, ma per essere usato deve prima essere trattato con una vernice isolante, quella che appunto si produceva alla Siva, la fabbrica in cui lavorava Levi. Più o meno come succede in molti suoi racconti, anche qui la materia prima è fornita dal lavoro di chimico e dalle esperienze vissute in quella veste per poi trasformarsi in arte, in libri o, in questo caso, in strani manufatti.

C’e’ una foto in cui Levi “indossa” la maschera da gufo che è diventata piuttosto simbolica. Così pare acquisire valore allegorico, un buon modo per rappresentare la complessità della figura di Primo Levi, e in particolare la differenza tra il Levi pubblico e il Levi privato, tra il Levi a cui abbiamo accesso noi tramite i suoi libri e quello che invece rimane intimo e nascosto. Nel 1986, Mario Monge, suo concittadino, l’ha fotografato mentre «indossa» una di questi animali di fronte all’obiettivo, proprio un anno prima della morte.

Una di queste foto è diventata la copertina del saggio, di ben 700 pagine, Primo Levi. Di fronte e di profilo (Guanda) di Marco Belpoliti. Il libro presenta un titolo suggestivo che richiama le foto segnaletiche e in copertina ha una foto di Levi che mostra una maschera in filo di rame a forma di gufo. Belpoliti non nasconde la struttura che sostiene la sua opera ma anzi la ostenta, come l’architettura del Centre Pompidou a Parigi.

 Ma l’opera d’ arte più famosa di Levi è il Memoriale italiano  del Blocco 21 di Auschwitz1,

Progettato dallo Studio architetti: BBPR (Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Gian Luigi Banfi, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers) voluto dall’’A.N.E.D. del quale è tuttora proprietà. Inaugurato anni ’80 e arricchito di significato dagli affreschi di Mario Samonà, dai testi di Primo Levi, dalle musiche di Luigi Nono, con la regia di Nelo Risi

Il gruppo degli architetti progettisti è lo stesso del Museo al Deportato  di Carpi, inaugurato nel 1973, una struttura frutto dell’impegno civile di artisti che furono anche testimoni degli avvenimenti che rappresentavano. Essi si sono avvalsi della collaborazione di  Renato Guttuso. Nel museo sono conservati suggestivi graffiti di alcuni grandi pittori come Picasso Longoni Léger, e ovviamente Guttuso che hanno commentato a loro modo la deportazione sulle pareti del museo.

 Il Memoriale 21, voluto realizzato all’interno della camerata in una baracca del campo, è dedicato ai deportati italiani nei Lager nazisti.

Originariamente il blocco 21 fu il reparto chirurgico, dove i deportati furono sottoposti a operazioni sommarie e raccapriccianti esperimenti. Poi quelle mura furono affidate all’Italia, perché vi allestisse il suo padiglione della memoria: Auschwitz, Blocco 21. Esso ha la forma di un tunnel di tela e armatura di metallo, sollevata da un impalcato e tesa attraverso i vuoti spazi della baracca.  Assume la forma di una ossessiva spirale a elica che avvolge il cammino del visitatore in un percorso unitario e ossessivo lungo ottanta metri che rappresenta e rievoca la spirale di violenza nella quale i deportati furono travolti. Attraversandola, come in un brutto sogno, si rivivono i momenti della disperazione, della presa di coscienza, della volontà di sopravvivenza e della vittoria sul male.

Mediante un’armatura lignea la spirale tende una banda continua di tela, sulla quale sono rappresentate le immagini del fascismo, dell’antifascismo, della Resistenza, della deportazione e dello sterminio, dipinte da Samonà e commentate dalle parole di Primo Levi.

Dilatata nelle tre dimensioni, scandita dalle viste alterne della baracca e dei dipinti, la spirale ricompone l’incubo doloroso, coniugando spazio architettonico e pittura per trovare una comunicazione immediata e universale.

Si tratta inoltre della prima opera d’arte vivente in cui i testimoni potevano mettersi a sedere.

E sono alcune di queste immagini, come ad esempio la falce e martello o il volto di Antonio Gramsci, elementi comunisti insopportabili nella Polonia post patto di Varsavia post Solidarnosc, tornata fortemente cattolica e nazionalista, che sono stata la prima fonte dello smantellamento del Blocco 21. A tanti anni di distanza, la vicenda ricorda Tilted Arc, il capolavoro di Richard Serra distrutto per ragioni politiche. Tilted Arc  era una controversa opera d’arte minimalista, creata sotto forma di istallazione pubblica da Richard Serra e collocata in Foley Federal Plaza in Manhattan dall’1981 al  1989. Essa era lunga 120 piedi e alta 12, con una superficie non finita ricoperta di acciaio COR-TEN. I critici ne contestarono la bruttezza, ritenendo che esssa deturpasse quel sito della città. Dopo un acceso dibattito pubblico, la scultura fu rimossas per volere della corte federale e non è stata mai più esposta.

Distrutto, in qualche senso lo è anche il blocco 21, perché spostare un’opera d’arte dal suo contesto originale, dal contesto di Primo Levi, significa appunto sottrarne ogni alito di vita e, insieme, ogni possibilità di lettura.

Gli elementi rappresentati facevano parte di un tutt’uno storico dall’ omicidio Matteotti alla Shoah.

image003Il blocco 21 è un’opera city specificy, che non potrebbe né dovrebbe avere una collocazione in un altro luogo. Invece è stata sbarrata. Dal 2011, una porta chiusa, anche nel giorno del settantesimo anniversario della Shoah, sbarrata anche per gli storici e gli studiosi, impedisce di vedere “il «Memoriale ai deportati caduti nei campi di sterminio nazisti”. La parte italiana è stata chiusa d’ imperio con una decisione unilaterale dalla direzione del museo, per divergenze, per così dire, di filosofia: ritengono che un’opera di quel tipo – artistica e figlia del tempo – gli anni Settanta – in cui è stata concepita, non sia compatibile con l’approccio didascalico che hanno inteso dare al museo. Dopo il crollo del Muro, infatti, alcuni dei padiglioni di Auschwitz, affidati alle varie nazioni, iniziano ad essere ripensati, anche in base a nuove prospettive storiografiche. In Italia, qualcosa si muove a fine 2007, quando il governo Prodi stanzia 900 mila euro per il restauro del Blocco 21 mentre gli intellettuali si interrogano se il Memoriale sia o non sia troppo figlio degli anni Settanta, se puntando di più sull’antifascismo non finisca per trascurare la Shoah. L’A.N.E.D. lo difende. Ma chiude il discorso il Museo di Auschwitz: l’arte non basta, serve un allestimento didattico. Un esempio, il padiglione francese, rinnovato nel 2005. Tra rinvii e ricorsi si arriva al 2011, quando il Museo chiude il Blocco dell’Italia, che rischia di essere sostituita da un altro Paese.

 «Davanti al pericolo di smantellamento, anche se non siamo d’accordo, abbiamo accettato di riportare il Memoriale in Italia», racconta Dario Venegoni, presidente dell’A.N.E.D. .

Fino all’annuncio che l’opera andrà a Firenze, in base alla Risposta all’interrogazione scritta presso il Senato n. 4-05184 Fascicolo n. 123.

Resta da capire cosa ne sarà del Blocco ancora chiuso. Firenze ha individuato la sede della sua nuova esposizione negli spazi di EX3, centro d’arte attualmente vuoto.

 Qui il Memoriale del blocco 31 troverà collocazione all’interno dell’EX3 proprio accanto a piazza Bartali, quasi a ricongiungere in questo progetto di memoria collettiva anche l’impegno del grande ciclista, riconosciuto “giusto tra le nazioni” da Yad Vashem. I

Il luogo non è di certo il massimo, perché a ricordare l’olocausto c’e’ solo il nome della Piazza. L’edificio, uno strano parallelepipedo grigio antracite, più adatto ad un hangar di aviazione che a un museo della memoria, è lo spazio Ex3 del quartiere Gavinana, area semiperiferica e non troppo valorizzata, piena di centri commerciali.

Non è dato sapersi come, nell’interno ancora vuoto, la spirale del fu Blocco 21 troverà collocazione, ma di certo la location è del tutto decontestualizzata e la migliore opera d’arte di Primo Levi non si meritava una fine così.

Contenti saranno forse gli studenti, costretti dai docenti a visitare questo luogo della memoria, che poi potranno pranzare al Mc Donald’s e fare un po’ di shopping, dimentichi di cultura, arte, passato e perciò anche del loro futuro. A meno che istituzioni ed enti culturali interessati riescano a costituire un ampio (lo spazio c’è) e strutturato centro di documentazione, didattica e ricerca, capace di dare contestualizzazione al nuovo museo del Blocco 21, restituendo, per quanto possibile fuori dal suo contesto, la forza del messaggio artistico e culturale di Levi, pur lontano dall’ambiente era stato pensato.




Una protesta piccola piccola: i disordini per l’imposta sul vino a Barberino Val d’Elsa (1919-20)

Il 1919, primo anno di pace dopo «l’inutile strage», si presentò agli occhi della popolazione italiana carico di aspettative e speranze. La guerra si era conclusa vittoriosamente ma aveva aperto e rivelato notevoli problematiche tra le maglie del tessuto sociale del Paese. In particolare, nell’immediato dopoguerra i problemi posti dalla riconversione economica si sovrapposero alle richieste della popolazione facendo emergere la fragilità dello Stato liberale sia sul piano delle relazioni interne, con una vera e propria crisi istituzionale, sia nel più generale rapporto tra istituzioni e società. L’apice della tensione sociale prodotta dalla fine della guerra mostrò la sua immagine nell’estate di quel primo e tanto agognato periodo di pace. La questione annonaria, ancora una volta, costituì uno dei temi principali dello scontro politico-sociale nelle vie e nelle piazze di un paese uscito altresì vincitore dalla guerra. In questo contesto la Toscana si distinse proprio come la regione dove i moti si manifestarono con un’intensità e un vigore unico nel panorama della penisola sconvolta dalle rivolte[1].

A Barberino Val d’Elsa – piccolo centro valdelsano che all’indomani della Grande guerra poteva contare una popolazione di 5.862 abitanti, situato a metà strada tra Firenze e Siena, tra le valli d’Elsa e di Pesa –, le prime avvisaglie del malcontento sociale si manifestarono verso la fine dell’estate 1919. Alfredo Bazzani, agente della locale fattoria Guicciardini – che due mesi prima, nel pieno delle proteste del «bocci-bocci», si era compiaciuto per il fallimento dello “scioperissimo” indetto in difesa delle rivoluzioni in Russia e Ungheria –, il 17 settembre, scrivendo alla contessa Guicciardini, esprimeva le sue più vive preoccupazioni perché «i contadini colla nuova tassa sul vino sono agitatissimi, e male si giunge a persuaderli»[2].

Barberino 1908

Barberino Val d’Elsa ai primi del Novecento (Archivio Mario Forconi)

La tassa sul vino a cui l’agente faceva riferimento era rappresentata dal Regio decreto n. 1635 del 2 settembre 1919. L’Imposta straordinaria sul vino prevedeva che ogni «piccolo proprietario coltivatore, colono, mezzadro od affittuario[3] del fondo da cui il vino stesso prov[enisse]» ne avrebbe dovuto fare denuncia al comune di residenza in modo tale che questo avesse poi provveduto ad applicare l’imposta sullo stesso prodotto. Già duramente colpite da un’invasione di fillossera – un piccolo parassita della vite che provoca in breve tempo gravi danni alle radici e la conseguente morte della pianta attaccata – che aveva danneggiato irrimediabilmente la produzione vinicola, le comunità rurali iniziarono a osteggiare fortemente la tassa, nonostante questa prevedesse l’esenzione di 3 ettolitri per famiglia – quantitativo tuttavia ritenuto insufficiente per il fabbisogno annuo delle famiglie. A Barberino il turbamento della popolazione iniziò a farsi più evidente verso la fine di quell’anno quando Cesare Cianferoni, assessore anziano del comune e membro della locale commissione annonaria, comunicò al sindaco Giovanni Chiostri che, in occasione della riscossione dell’imposta, «contadini tutti ed agenti del Comune si riuniscono nel Capoluogo per fare protesta solenne energica contro [il] provvedimento [di] requisizione e [la] tassa [sul] vino»[4].

La protesta assunse una caratteristica peculiare per la sua capacità di coinvolgere verticalmente strati diversi della popolazione: in un primo momento infatti – visto il danno economico che inevitabilmente si sarebbe ripercosso sulle casse dei grandi proprietari terrieri – fu spalleggiata dalla classe dirigente locale, tanto che la stessa Commissione rappresentante le autorità municipali del mandamento di San Casciano, i proprietari e i coloni produttori, deliberò di «opporsi con energia» alla disposta requisizione del 50% del vino prodotto[5]. Va sottolineato però che il connubio tra élite locali e popolazione durò poco. Il protrarsi della protesta, con l’inedita partecipazione dei coloni che fino a quel momento erano rimasti assolutamente ai margini della vita politica – spinti probabilmente dalle agitazioni contadine che nella zona stavano contestando gli agrari per i ritardi nell’attuazione dei nuovi patti colonici[6] –, fece mutare radicalmente gli atteggiamenti della classe dirigente, e se in un primo momento il malcontento della popolazione fu quantomeno spalleggiato, quando questa diede adito nel marzo 1920 ad una

agitazione gravissima restituendo in segno di protesta le cartelle relative al pagamento dell’imposta stessa, appendendole alla porta dell’esattoria municipale in presenza di tre impotenti agenti di pubblica sicurezza[7]

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Fascicolo contenente documentazione riguardante affari annonari (Archivio storico del Comune di Barberino Val d’Elsa)

l’amministrazione comunale decise di passare a politiche più energiche. Ciò che colpì di questa prima protesta a Barberino Val d’Elsa fu l’ostinatezza dei coloni che, anche se ammoniti dal sindaco – «nessuno dimentichi i propri doveri, ciascuno ricordi la necessità di mantenere la calma e di rispettare la legge»[8] –, e sotto la minaccia d’attuare «atti esecutivi»[9], proseguirono nelle agitazioni adducendo come principale motivazione la seguente istanza

Venuti a conoscenza della imposta sul vino protestano contro quale tassa ingiusta, facendo osservare alla S. V. Ill.ma che il raccolto del vino non è capitale ricavato dal commercio, ma è retribuzione ricavata dal lavoro manuale di tutta la famiglia colonica, facendo osservare a questa imposta si aggiunge ancora maggiore lamento su la requisizione del vino a prezzo di calmiere anch’esso gravato dalla tassa succitata. È puramente ingiusto quel Decreto Prefettizio ove vieta il libero commercio sul vino[10].

Vedendosi, per la prima volta, esautorato nella propria “autonomia politico-gestionale”, e temendo un degenerare delle azioni di protesta che altrove stavano infiammando la regione[11], il sindaco decise di richiedere al prefetto l’invio dei carabinieri per ripristinare la «quiete pubblica continuamente turbata»[12] e l’insediamento di uno «sbarramento». Ancora nell’ottobre 1920 c’erano «circa trecento morosi»[13] e si organizzavano opposizioni collettive ai pignoramenti previsti, per la verità poi mai attuati visto lo stanziamento di un presidio fisso di «sbarramento» dei carabinieri[14] che verso la fine dell’anno portò al «rinsavimento dei morosi»[15].

[1] Cfr. R. Bianchi, Pace, pane, terra. Il 1919 in Italia, Odradek, Roma 2006; Id., Bocci-Bocci. I tumulti annonari nella Toscana del 1919, Olschki, Firenze 2001.

[2] Archivio Massimiliano Majoni, Fondo aggregato Marcella Guicciardini Majoni, b. 135.1, Alfredo Bazzani alla Contessa Marcella Guicciardini, 17 settembre 1919.

[3] Si consideravano «piccoli proprietari coltivatori, coloni, mezzadri o affittuari, agli effetti del presente decreto, tutti coloro che attendono personalmente alla coltivazione dei vigneti propri o presi a colonia, a mezzadria o in affitto»: cfr. Regio decreto n. 1635, 2 settembre 1919, Che istituisce un’imposta straordinaria sul vino prodotto nella raccolta dell’anno 1919 e su quello delle annate precedenti.

[4] Archivio Storico Comunale di Barberino Val d’Elsa (d’ora in poi ASCB), b. C-73, f. Cat. 2, Cesare Cianferoni al Sindaco Chiostri, 29 dicembre 1919.

[5] Ivi, b. C-75, f. Cat. 2, Delibera di una Commissione del mandamento di San Casciano Val di Pesa, 2 gennaio 1920; Sulle polemiche che opposero produttori, commercianti ed industriali della provincia alle autorità prefettizie in merito ai vari provvedimenti sul vino cfr. Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea 1915-1922, b. 149, f. Firenze.

[6] Ivi, Ministero degli interni, Direzione generale di Pubblica sicurezza, Affari generali e riservati, Ordine pubblico, C-1, 1920, b. 51-A, f. Firenze e provincia, sf. Agitazione agraria.

[7] Cfr.ASCB, b. C-75, f. Cat. 6, n. 1162/6, Sindaco di Barberino al Questore, 29 marzo 1920.

[8] Ivi, Comune di Barberino al Prefetto, 22 marzo 1920; Sindaco Chiostri alla cittadinanza, 23 marzo 1920.

[9] Ivi, n. 1162/6, Sindaco di Barberino al Questore, 29 marzo 1920.

[10] Ivi, b. C-75, f. Cat. 6, istanza presentata dai coloni del Comune all’Intendenza di Finanza di Firenze, 22 aprile 1920.

[11] Per un quadro della situazione cfr. M. Toscano, Lotte mezzadrili in Toscana nel primo dopoguerra (1919-1922), «Storia contemporanea», 8 (1978), n. 5-6, pp. 877-950.

[12] ASCB, b. C-76, f. Cat. 18, n. 1914/18, Sindaco Chiostri al Prefetto di Firenze, 31 maggio 1920.

[13] Ivi, n. 3563/6, Sindaco di Barberino a destinatari vari, 22 ottobre 1920.

[14] Ivi, b. C-80, f. Cat. 11, Maresciallo dei Carabinieri di Tavarnelle a Sindaco Chiostri, 7 luglio 1922.

[15] Ivi, n. 4104/18, Sindaco di Barberino al Cavalier Barile, Commissario di Pubblica Sicurezza di Firenze, 7 dicembre 1920.