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Le aziende “ausiliarie” di Prato e il proficuo rapporto tra Unione Industriale e Croce Rossa

Risulta ormai storicamente provato che la I Guerra Mondiale rappresenti una grande opportunità di sviluppo per il comparto industriale pratese. La produttività, non solamente quella delle ditte tessili, non scende mai sotto i livelli di guardia, anzi, per alcuni comparti strettamente legati alle commesse belliche, si assiste a una vera e propria crescita esponenziale degli ordini e del fatturato. Questo accade nonostante i documenti riportino continue lamentele da parte dei dirigenti del Comitato per la Mobilitazione Industriale (creato ad hoc come emanazione del Ministero della Guerra, per monitorare lo stato di salute delle industrie e il livello della produzione per l’esercito) riguardo la qualità delle stoffe di Prato: si denuncia in generale il fatto che nelle coperte da campo e nel panno grigio-verde destinato alla confezione delle divise, venga inserita una troppo bassa percentuale di lana vergine a fibra lunga, solo il 35-40%, a fronte di ingenti quantità di blousses, lana rigenerata e del famoso “rinforzo” – quelle fibre artificiali a basso costo necessarie per tenere insieme la lana meccanica pratese a fibra corta. Anche in tempo di guerra gli industriali pratesi non mancano di applicare tutte le astuzie del caso per cercare di ottenere un maggior guadagno! Nonostante questa continua lotta tra gli imprenditori e il Comitato, a Prato non manca mai il sostegno economico dello Stato, concretizzato nel costante afflusso di commesse belliche alle aziende della città laniera.

Parallelamente non bisogna sottovalutare le generali condizioni di vita e di lavoro in cui la popolazione italiana viene a trovarsi a partire dal 1915: il richiamo al fronte degli uomini, spesso unica fonte di reddito familiare, e il carovita, generato dall’improvviso aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, mettono a dura prova l’intera popolazione. Se a questo si aggiunge il malcontento per la disomogeneità delle condizioni di lavoro che esisteva fra i vari lanifici pratesi, si può facilmente capire come la situazione nel pratese fosse una vera e propria polveriera pronta ad esplodere.
È da questo sostrato di tensioni che ha origine l’imponente sciopero del 1916 organizzato dai circa 400 operai dal lanificio Forti della Briglia, in Val di Bisenzio. L’agitazione nasce per richiedere la “tariffa unica”, cioè l’adeguamento della paga per il lavoro a cottimo in tessitura su tutto il territorio pratese. Quelli concessi dalla ditta Forti erano forse i salari più bassi di tutto il distretto, ed è per questo che la protesta parte proprio dalla Briglia, allargandosi poi a tutta la città di Prato. La serrata degli industriali è tremenda, i Forti non vogliono cedere, tanto che vengono sospesi i sussidi alle famiglie dei richiamati in guerra e si minaccia lo sfratto delle mestranze coinvolte nello sciopero. Solo dopo mesi di agitazioni, sotto la minaccia sindacale dello sciopero generale, anche l’Unione Industriale si adopera per la ricomposizione del conflitto e gli operai ottengono la tanto agognata tariffa unica, una prima, importantissima vittoria.

forti 1L’eco di questi concitati avvenimenti arriva anche al governo nazionale, che immediatamente, cercando di operare affinché agitazioni del genere non risuccedano, il 10 novembre 1916, con decreto ministeriale, dichiara “fabbriche ausiliarie” le quattro più grandi aziende pratesi: il Fabbricone, il lanificio Forti, la cimatoria Campolmi e il lanificio Cangioli. Essere fabbrica ausiliaria, non implicava solo un cambiamento dal punto di vista produttivo, perché di fatto si è obbligati a lavorare esclusivamente a fini bellici, ma anche e soprattutto una generale militarizzazione delle maestranze, esonerate sì dall’arruolamento, ma obbligate a sostenere determinati ritmi e condizioni lavorative.

 Nel corso della guerra, quasi tutte le ditte che raggiungono le dimensioni di “media impresa”, ottengono lo status di fabbrica ausiliaria: oltre le quattro grandi aziende sopra citate, vengono militarizzati il lanificio Romei, la Calamai Brunetto, il lanificio Cavaciocchi, la Magnolfi, il polverificio Nobel ecc…

 Alla fine del conflitto la città di Prato aveva prodotto coperte da campo e casermaggio e panno grigio-verde per un valore di 177.943,038 lire.

In questo quadro di complessiva prosperità delle aziende pratesi, risulta più facile comprendere l’importanza assunta dall’Unione Industriale nei confronti di tutti i fenomeni di assistenzialismo e beneficenza; anche grazie alle commesse statali, l’associazione degli industriali riesce ad accantonare ingenti somme per il “fondo di beneficenza”; in quest’ottica risulta per loro quasi naturale rivolgersi alla Croce Rossa perché questo fondo sia ben destinato e risulti utile sostegno alle vittime di guerra.

forti 3A Prato, al momento della costruzione degli ospedali militari da parte della Croce Rossa si assiste a una miriade di gesti di solidarietà da parte degli industriali, sia a livello privato, che come Unione: c’è chi offre la propria vettura con autista, come il Cangioli e il Canovai, chi si impegna a fornire quantitativi sempre crescenti di borra (lo scarto lanuginoso della filatura cardata) usata per riempire i materassi delle lettighe, come la fabbrica Forti, chi regala coperte (quasi tutti i lanifici) e chi contribuisce con pane e pasta per i ricoverati, come il pastificio Ciampolini, erede di Antonio Mattei, il famoso “Mattonella”. Da parte sua l’Unione Industriale non è da meno, in quanto finanzia la costruzione dei due ospedali territoriali di Croce Rossa con un investimento iniziale di 10.000 lire e continuerà a contribuire fino al 1918, con un contributo mensile di 3.500 lire al mantenimento dei vari reparti ospedalieri.
Questo proficuo e duraturo rapporto tra Unione Industriale e Croce Rossa in una situazione di emergenza come risulta essere quella bellica, non manca di essere sottolineato con continui e solenni ringraziamenti da parte dell’ente benefico: alla fine del conflitto il Comitato Centrale della CRI farà richiesta del diploma di benemerenza per l’U.I.P., che riceverà la Medaglia d’Argento.

Una vicenda particolare e degna di nota è quella che riguarda il rapporto tra Croce Rossa e il Fabbricone, il lanificio Kössler, Mayer & Klinger, l’unica azienda tessile pratese a capitale austro-tedesco. Come è facilmente intuibile, il Fabbricone, proprio per la natura dei suoi proprietari e per la presenza di quadri e tecnici di nazionalità austriaca e tedesca, è oggetto di una pesante campagna diffamatoria da parte dei nazionalisti pratesi, che ne avrebbero addirittura voluto lo smantellamento. Di fatto, però, i 1200 telai e i 1500 operai impiegati sono una risorsa non trascurabile per il Comitato per la Mobilitazione Industriale, che di fatto ignora queste remore iniziali e dichiara ausiliaria la più grande azienda tessile pratese. Anche la Croce Rossa, probabilmente influenzata dal clima di sospetto cittadino nei confronti di questo “gigante produttivo straniero” si trova in difficoltà a gestire i rapporti con il Fabbricone, che come molte altre ditte pratesi vuole rendersi utile e offrire sostegno all’ente benefico. I dirigenti della fabbrica, oltre a donazioni pecuniarie e di materiale tessile, addirittura offrono alla CRI parte dei loro locali per l’allestimento di ospedali e punti di pronto soccorso; il Comitato della CRI, dopo aver inizialmente accettato la generosa offerta, si vede costretto a rifiutare e compiere un passo indietro, anche in considerazione dell’atteggiamento negativo di una parte importante della società civile pratese, che arrivò a raccogliere centinaia di firme contro detta iniziativa in un documento intitolato “Viva l’Italia! Abbasso l’Austria!”.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano:

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.




Teresa Meroni e la marcia delle donne

Chi era Teresa Meroni? Quale fu il suo impegno di sindacalista e attivista per la pace durante il periodo della Grande Guerra? Rispondere a queste domande significa approfondire non solo la storia personale che la portò in Val di Bisenzio, ma anche indagare le condizioni socio-economiche che caratterizzavano quel territorio di precoce industrializzazione posto a Nord di Prato.

Legata al lombardo Battista Tettamanti da una “scandalosa” relazione che sarà sancita da matrimonio civile solo nel 1930 (tra l’altro dopo la nascita dell’unico figlio Vladimiro), la Meroni nacque a Milano nel 1885 da una famiglia operaia e subito, da giovanissima, si iscrisse al Partito Socialista da poco nato a Genova. L’attività politica e sindacale che svolse nel comasco accanto a Tettamanti, a cui nel 1915 fu affidata la segreteria della Lega Laniera di Vaiano,  avrebbe posto le premesse alle battaglie condotte successivamente in Val di Bisenzio. La sua vicinanza profonda al mondo contadino e operaio del comasco maturò in lei una forte consapevolezza del fatto che i diritti dei contadini e degli operai sarebbero stati conquistati solo grazie alla rivoluzione (Teresa era una seguace del socialismo rivoluzionario alla Sorel).

Giunta in vallata appena trentenne Teresa Meroni si trovò di fronte a una situazione socio-economica diversa da quella a cui era abituata nel comasco: in Val di Bisenzio le fabbriche tessili erano legate al ciclo della lana “meccanica” o rigenerata e le famiglie contadine seguivano il modello della mezzadria toscana. Erano tempi difficili, ma c’era la speranza di un miglioramento della vita quando si lasciava la campagna per andare a vivere in città. Speranza che andò esaurendosi con l’entrata in guerra dell’Italia, avvenuta il 24 maggio 1915.

All’inizio della Prima Guerra Mondiale Tettamanti fu richiamato alle armi nel 171° battaglione della milizia territoriale e Teresa Meroni si trovò a sostituirlo, assumendo la guida della Lega Laniera di Vaiano. Si trattò di un fatto epocale, perché la Meroni prima di allora non faceva parte nemmeno del Consiglio Direttivo della Lega, come del resto nessun’altra donna. Da allora si distinse per la sua strenua attività di pacifista, tant’è vero che il commissario Luigi Morelli, in una testimonianza del 19 luglio 1917, affermò che la donna per mesi cercò di “catechizzare le donne e i ragazzi, e indurli a fare una dimostrazione contro la guerra”.

In effetti i sospetti del commissario di pubblica sicurezza non erano infondati: il 2 luglio 1917 da Luicciana, piccola frazione di Cantagallo, partì una marcia di quattrocento donne alla volta di Prato. Il gruppo di protesta passò davanti ai principali stabilimenti produttivi di Vernio. Decisero di unirsi alla manifestazione le “fabbrichine” del tappetificio Peyron a Mercatale e anche quelle contadine per lo più provenienti da Gricigliana, che erano entrate in fabbrica per colmare l’assenza degli uomini richiamati al fronte. L’intenzione delle scioperanti era di raggiungere Prato, così da allargare anche alla città laniera la protesta sociale contro una guerra ritenuta ingiusta e per rivendicare condizioni di vita e di lavoro dignitose. La Prefettura decise di intervenire con un reparto di cavalleggeri, ma le donne scelsero di proseguire comunque, nonostante il pericolo delle cariche.

Il corteo, che si ingrossò nei pressi di Coiano, riuscì a superare lo sbarramento dei cavalleggeri nei pressi di San Martino, dove però una decina di donne fu arrestata. La marcia riuscì comunque a raggiungere le carceri, dove furono liberate alcune donne fermate. Una volta giunta in prossimità della stazione ferroviaria, la protesta fu bloccata dalla polizia e il corteo si disperse per le vie del centro. L’agitazione però non si fermò qui: fino al 9 luglio si protrassero episodi e sommosse diffuse dalla Val di Bisenzio sino alle porte di Pistoia, e infine tutto si concluse con l’arresto di 56 persone.

Prato '50 Teresa Meroni parla alle operaie tessiliTeresa Meroni fu ritenuta (a ragione) responsabile delle agitazioni avvenute. Rimase in carcere tre mesi ma, una volta uscita, riprese la sua propaganda politica, soprattutto in favore della conquista dei diritti femminili. Per questo motivo fu allontanata dalla Val di Bisenzio e spedita al confino in Garfagnana, dove sarebbe rimasta fino alla fine della guerra.

La protesta, prettamente di stampo politico, per le autorità fu allarmante per il fatto che a guidarla fosse stata una “rivoluzionaria di professione”, ritenuta pericolosa “per le sue idee socialistiche rivoluzionarie, antimilitaristiche, maniacali”. Come ricordano Annalisa Marchi e Alessandro Cintelli, l’idea mazziniana di donna paragonabile a un “angelo della famiglia” era quanto mai una sbiadita immagine rispetto a quella dipinta dalla vita della Meroni: “dal punto di vista delle autorità di polizia, a ragione Teresa risultava un’agitatrice estremamente pericolosa perché la sua opera di propaganda scardinava i punti fondanti della mentalità del tempo, giustificando nell’immaginario collettivo l’idea che le donne potessero mettersi a capo della rivolta contro la guerra” e pretendere un ruolo che non fosse subalterno come quello che le donne avevano avuto sino a quel momento.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano: 

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Letizia Magnolfi si è laureata in Scienze Storiche nel 2012, con una laurea magistrale in Storia delle Dottrine Politiche. Ha collaborato con la Fondazione CDSE di Vaiano per la realizzazione della mostra 1944: l’ultimo anno di guerra a Schignano (aprile 2011) e ha recentemente vinto un concorso fotografico intitolato Immaginare…ascoltare, ricreare il lavoro, sempre a cura della Fondazione. Attualmente sta svolgendo un tirocinio di formazione presso la Rete Civica del Comune di Prato.

Tra le sue pubblicazioni:
A  proposito dell’USIA. Il ruolo dei mezzi di comunicazione negli anni ’60 della guerra fredda, Instoria, N. 42, Giugno 2011 (LXXIII)
Dal movimento Demau al femminismo di Oggi. Cosa è rimasto?, Instoria, N.41, Maggio 2011 (LXXII)




La settimana rossa in Toscana (7-13 giugno 1914)

La Settimana rossa fu un moto a carattere popolare, antimilitarista e insurrezionale che attraversò l’Italia dal 7 al 13 giugno 1914, alla vigilia del primo conflitto mondiale, il Paese, allora, sembrò sull’orlo di una rivoluzione sociale.

Durante tutta l’età giolittiana l’agitazione antimilitarista fu al centro delle principali attività dei partiti e dei movimenti della estrema sinistra. L’antimilitarismo unì in un unico fronte quelle forze sovversive, dai repubblicani agli anarchici, dai socialisti ai sindacalisti rivoluzionari, che all’epoca erano profondamente divise per contrasti ideologici e programmi politici. La critica al militarismo, insieme all’anticlericalismo e alla profonda avversione alla monarchia dei Savoia, fu alla base di una stagione unitaria ed eccezionale di lotte radicali nella storia della sinistra italiana.

La monarchia dei Savoia aveva costruito la propria egemonia durante il processo di unificazione dell’Italia proprio utilizzando le forze armate. L’esercito si era distinto nella battaglia al banditismo nel Mezzogiorno d’Italia, nella repressione dei moti popolari in Sicilia e in Lunigiana nel 1893-1894 e in quelli per il “caro-pane” del 1898. Nei primi anni del Novecento l’esercito si era ancora reso protagonista, inoltre, per alcune efferate stragi di contadini e operai durante scioperi e proteste. Per tutte le forze della sinistra i militari rappresentavano uno dei maggiori ostacoli alla rivoluzione sociale e all’avvento di una nuova società. Ancora di più, le gerarchie militari si erano fatte conoscere all’epoca per i disastri delle imprese coloniali e per una serie di scandali finanziari e di corruzione che avevano fortemente minato la loro credibilità.

Augusto Masetti

La recente Guerra italo-turca del 1911-1912 aveva gettato benzina sul fuoco, non solo per la sua conduzione e l’altro numero di vittime – che aveva causato tra la popolazione e tra gli stessi soldati italiani – ma anche per la netta opposizione di una parte consistente delle forze popolari che vedevano in questa guerra l’ennesima riprova dell’aggressività e voracità del capitalismo italiano. In tutta Italia, da parte dei leader della sinistra rivoluzionaria e anarchica, si erano lanciate parole d’ordine di fuoco contro la guerra e si incitavano i militari alla diserzione e al boicottaggio. Il soldato Augusto Masetti, di idee anarchiche, durante una rassegna militare sparò, in segno di ribellione contro l’impresa libica, ad un alto ufficiale ferendolo gravemente. Masetti fu subito preso dal fronte antimilitarista a simbolo ed eroe. Intorno al suo nome gli anarchici, le componenti repubblicane, socialiste e sindacaliste rivoluzionarie che avevano preso le distanze dagli esponenti politici che approvarono l’invasione della Libia – come il deputato socialista Leonida Bissolati –, avevano avviato una campagna di generale mobilitazione che, con l’andar del tempo, si era alimentata di altri casi di vittime delle ingiustizie militari come quello dell’anarchico Antonio Moroni.

La domenica del 7 giugno 1914 – festa dello Statuto, giorno caro all’Italia monarchica e liberale – in tutta Italia furono convocate congiuntamente dalle forze dell’estrema sinistra centinaia di manifestazioni antimilitariste. Le parole d’ordine erano semplici ed efficaci: libertà per Masetti e Moroni, solidarietà alle vittime delle ingiustizie militari e la soppressione delle famigerate compagnie di disciplina. Il ministro Salandra, all’epoca capo gabinetto, vietò tutte le manifestazioni molte delle quali furono comunque svolte. Ad Ancona, al termine di un infuocato comizio in forma privata presso la sede del PRI, chiamata comunemente “Villa rossa”, tra gli intervenuti Pietro Nenni – allora direttore del settimanale repubblicano «Il Lucifero» – e il leader anarchico Errico Malatesta rientrato in Italia da meno di un anno dopo un lungo esilio a Londra, i dimostranti tentarono di forzare i cordoni della polizia e di penetrare nell’attigua Piazza Roma, dove la banda militare stava intonando la “Marcia reale”. Seguirono dei violenti scontri tra le forze dell’ordine e i dimostranti nel corso dei quali alcuni carabinieri, presi dal panico, aprirono il fuoco indiscriminatamente sui manifestanti uccidendone tre, un anarchico e due repubblicani e ferendone molti altri.

La notizia dell’eccidio si propagò rapidamente in tutta Italia. Il giorno seguente in molte località fu proclamato lo sciopero generale e iniziarono i moti della cosiddetta Settimana rossa, che ben presto si allargano a tutta la Romagna e alle Marche. L’agitazione, in molte località, prenderà un aspetto d’insurrezione spontanea e popolare, coinvolgendo centri urbani importanti come Genova, Milano, Parma, Firenze, Napoli, Bari e Roma. In queste giornate vi furono assalti agli edifici pubblici, saccheggi, sabotaggi delle linee ferroviarie e ripetuti scontri con le forze dell’ordine. Complessivamente vi furono 13 morti, uno tra le forze dell’ordine, molte centinaia di feriti e diverse migliaia d’arresti tra i dimostranti.

In Toscana lo sciopero si affermò a Firenze, Pisa, Livorno, Massa, Carrara, Viareggio, Pietrasanta e Pescia mentre altre province come Grosseto, Arezzo o città come Lucca furono toccate solo marginalmente dall’agitazione. Gli incidenti più gravi accaddero a Firenze dopo il comizio in Piazza Indipendenza quando un consistente gruppo di scioperanti si diresse verso il centro città. Nei pressi della Manifattura tabacchi i dimostranti venuti a contatto con alcuni agenti di Pubblica sicurezza tentarono di disarmarli e nel parapiglia venne ucciso dalle guardie un operaio mentre molti altri rimasero feriti. La città nelle ore successive vide moltiplicarsi gli incidenti causati dai continui scontri tra operai e forze dell’ordine che con la forza solo a tarda notte riportare la calma in città.

Sotto la pressione della direzione del PSI, la Confederazione generale del lavoro (CGdL), il maggior sindacato italiano, proclamò uno sciopero generale di protesta per il 9 giugno, ottenendo però che modi e tempi dell’astensione dal lavoro rispondessero alle direttive approvate dal Consiglio nazionale nell’aprile 1913, le quali circoscrivevano ad un limite massimo di 48 ore la durata di un eventuale sciopero generale. Questo modo di condurre l’agitazione attirò sulla dirigenza riformista della Confederazione l’accusa di diserzione della causa proletaria da parte di molti esponenti della sinistra socialista, primo fra tutti Benito Mussolini, in quel frangente direttore dell’«Avanti!».

Fu soprattutto in Romagna, e in particolare nel Ravennate, dove più forte era il radicamento delle organizzazioni politiche e sindacali popolari e dove maggiore era il grado di politicizzazione delle masse e maggiore, di conseguenza, l’attesa della “palingenesi sociale”, che lo sciopero prese i contorni di una vera e propria rivolta, al punto che il presidente del Consiglio Antonio Salandra, intervenendo il 12 giugno alla Camera, avrebbe addirittura sostenuto l’esistenza di un “concerto criminoso” all’origine delle sollevazioni popolari romagnole e marchigiane, un autentico piano rivoluzionario volto al sovvertimento delle istituzioni monarchiche e statali.

Le organizzazioni della sinistra dal PSI alla CGdL, dagli anarchici all’USI non riuscirono però a dare un orientamento e uno sbocco politico alla protesta. La direzione del PSI, pur avendo lavorato per portare la CGdL alla decisione dello sciopero generale, che in molte località era già stato indetto dalle Camere del lavoro – soprattutto quelle a guida sindacalista rivoluzionaria –, non volle assumersi la responsabilità politica di guidare il moto di protesta. Il 10 giugno la CGdL tramite il suo segretario Rinaldo Rigola, diramò l’ordine di cessazione dell’agitazione mentre lo stesso giorno il Sindacato dei ferrovieri proclamava l’astensione generalizzata dal lavoro. Le manifestazioni terminarono tra il 12 e 14 giugno e il governo Salandra potette tirare un sospiro di sollievo. Le elezioni amministrative indette per la fine di giugno si tennero regolarmente e il PSI ottenne un importante successo conquistando la maggioranza in più di 300 comuni, tra i quali Milano e Bologna, e in quattro amministrazioni provinciali.

La Settimana rossa lasciò uno strascico di polemiche tra l’ala riformista e quella rivoluzionaria del PSI, mentre gli anarchici attaccarono entrambe le componenti ed in particolare la CGdL, accusandola di aver tradito il movimento. Errico Malatesta dovette rifugiarsi a Londra per sfuggire alla polizia e Luigi Fabbri, altro esponente di spicco del movimento anarchico, trovò asilo a Lugano.

La Settimana rossa, sicuramente, ebbe un ruolo nel determinare l’atteggiamento della Corona nella decisione di rinunciare ad entrare subito in guerra nell’agosto del 1914. L’opinione pubblica, le classi dirigenti e le forze popolari non erano ancora pronte ad affrontare la scelta drammatica della partecipazione italiana al primo conflitto mondiale. Era assai diffuso il timore che la scelta di entrare in guerra potesse, in quel momento, scatenare forti reazioni delle masse popolari mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza della corona e l’integrità dello Stato. Ci vollero più di dieci mesi, di acceso confronto e scontro tra interventisti e neutralisti, per portare l’Italia nel coacervo della Prima Guerra Mondiale.

 




Firenze davanti alla guerra

Dal 2 agosto 1914 al 24 maggio 1915 le manifestazioni a favore e contro la guerra si distinsero a Firenze per tre elementi: un progressivo intensificarsi della violenza, un continuo ripetersi e una larga diffusione nel tessuto cittadino.

Il fronte interventista era ben radicato tra la borghesia, una parte dell’aristocrazia e una folta schiera di intellettuali e personalità pubbliche. A dicembre il gruppo nazionalista rinunciò addirittura alla campagna elettorale delle elezioni comunali per dedicarsi esclusivamente alla propaganda interventista «per agitare e tener desto con comizi, conferenze, dimostrazioni lo spirito pubblico contro i neutralisti di ogni colore. […]”». Sul fronte opposto il neutralismo si radicò profondamente nelle zone popolari ad alta concentrazione operaia, come San Frediano, Porta alla Croce, S. Lorenzo, S. Spirito.

I loggiati di piazza Vittorio Emanuele (oggi piazza della Repubblica) divennero, secondo “Il Nuovo Giornale”, «la palestra più comoda per le diatribe fra neutralisti e interventisti».

1. Equilibrio_europeo_1914Nonostante l’imposizione salandrina di tenere comizi “privati” con invito in modo da evitare manifestazioni in luoghi pubblici e, dunque, disordini, questi scoppiavano lo stesso all’uscita di  tali ritrovi. Così accadde dopo una conferenza del professor Della Torre sul poeta e pubblicista dalmata Arturo Colautti. I partecipanti, in maggioranza studenti, si recarono in piazza Duomo cantando l’inno di Mameli e inneggiando alla guerra. L’urto con i socialisti «si tradusse in una vera e propria battaglia a colpi di bastone, pugni e calci». Dopo ripetute cariche, disposti i cordoni di truppa, e eseguiti alcuni arresti la situazione tornò lentamente alla normalità [ACS, MI, DGPS, DAGR, A5G, b. 94, f. 212 (Firenze), sf. 1, rapporto del Prefetto Cioja, 1-12-1914].

Talora furono i giornali oggetto di violenze popolari. All’uscita della conferenza dell’ex podestà di Fiume Icilio Baccich nel salone dell’Unione liberale a cui avevano partecipato circa 400 uditori, tra cui molte personalità pubbliche cittadine, alcuni di questi si recarono sotto «La Nazione», la cui redazione fu circondata e presa d’assalto, quasi in un improvviso chiarivari.  L’urto con la polizia e «plotoni di guardie e di carabinieri» si consumò in piazza Vittorio Emanuele, con numerose cariche delle forze dell’ordine e arresti di massa, tra cui quello di Francesco Giunta e Ezio Maria Gray, future personalità di spicco fasciste, e del giornalista del «Nuovo Giornale», Orazio Pedrazzi, che descrisse l’esperienza drammatica dell’arresto e della camera di sicurezza. Alla vista dei fermi, una signora plaudì all’azione della polizia provocando la reazione dell’avvocato Eugenio Coselschi – futuro creatore dei CAUR fascisti – che la accusò di essere tedesca, mentre la folla invase la birreria «Mucke» al suono dell’inno di Mameli causando altre colluttazioni e altri arresti fino a mezzanotte.

A partire dalla primavera gli scontri si fecero sempre più frequenti, spontanei e gravi (anche per la diffusa detenzione delle armi) e si allargarono ad altre parti della città. La commemorazione della partenza dei Mille fu un nuovo pretesto per altri disordini: il 6 maggio gli studenti dell’istituto tecnico Galileo Galilei imposero l’esposizione della bandiera e la sospensione delle lezioni prima nel loro istituto poi in altri.

3. cpc terzaghiIl 17 maggio «La Nazione» scriveva»: «[…] le dimostrazioni patriottiche non si contano più. Ad ogni momento echeggiano in piazza Vittorio Emanuele, che è affollatissima, applausi e grida entusiastiche. Vengono lanciati palloncini con appese bandierine tricolori». In quei giorni il ministro delle Colonie, Martini, annotava sul suo diario: «se non ci sarà la guerra esterna ci sarà la guerra civile» e la stampa si chiedeva: «si va dunque alla guerra contro lo straniero o alla guerra civile?».

Anche gli atti vandalici o offensivi nei confronti di cittadini tedeschi (o presunti tali) o contro tutto ciò che era riconducibile alla Germania e all’Austria vanno letti alla luce di un dissenso verso la guerra, anche trasversale ai due opposti schieramenti: fu danneggiata una farmacia di proprietà di tale Hans Klatzsch (o Klotzsch) [ACS, MI, DGPS, Ufficio riservato 1911-1915 C. 2, b. 83A, consultato in copia presso ISRT, Nota della prefettura di Firenze, 22-8-1914]; alla stazione alcune famiglie di tedeschi furono prese di mira da studenti che fecero una dimostrazione patriottica creando tafferugli bloccati dalle forze dell’ordine; il signor Carlo Strauss fu oggetto di un incidente e tacciato di essere una spia; il console tedesco Oswald fu inseguito da un gruppo di interventisti al grido «Va fuori d’Italia, va fuori straniero!»; alcuni studenti ruppero il vetro dell’ufficio Loyd germanico che esponeva nelle vetrine telegrammi provenienti da Berlino e fotografie di soldati tedeschi [ACS, MI, DGPS, DAGR, A5G, b. 96, f. 212 (Firenze), sf. 10, ins. 1, rapporto del prefetto Cioja, 21-3-1915].

Le autorità pubbliche controllarono in modo ferreo Firenze e la sua provincia, soprattutto i gruppi di socialisti (per esempio Michele Terzaghi o il giornale socialista «La Difesa») e gli anarchici (soprattutto a Empoli e Montelupo), ma la miccia era ormai innescata.

5. gambrinusIl musicista Castelnuovo-Tedesco, cui era stato dato l’incarico di scrivere il canto patriottico Fuori i barbari!, in un suo libro di memorie avrebbe ricordato la sera della vigilia così: «Quando lo suonai quella sera in casa Corcos, suscitò l’entusiasmo generale; Ugo e i Rotigliano mi trascinarono fuori, mi portarono in piazza Vittorio Emanuele; al Caffè Gambrinus, dove ogni sera si adunavano i dimostranti, cacciarono l’innocua orchestrina del caffè che stava suonando, e mi misero lì, sopra un palco, al pianoforte, ad insegnare il canto alla folla! Era il 23 maggio 1915, proprio alla vigilia della dichiarazione di guerra: il giorno dopo l’Italia entrava in guerra a fianco degli Alleati, e poche settimane dopo i soldati cantavano il mio inno marciando verso le trincee».

Camilla Poesio ha conseguito il dottorato di ricerca nel 2009 presso l’Università Ca’ Foscari Venezia. Ha ricevuto due premi per la tesi di dottorato e una segnalazione per il suo secondo libro. È attualmente ricercatrice post dottorato presso l’Università Ca’ Foscari Venezia in cooperazione con la Fritz Thyssen Stiftung fino al 2016. Ha svolto attività di ricerca presso enti di ricerca pubblici e privati sia in Italia sia all’estero (Università Ca’ Foscari, Universität Bielefeld, Frei Universität Berlin, Fondazione Salvatorelli, Deutsches Historisches Institut in Rom). I suoi ambiti di ricerca sono la storia dell’Italia e della Germania del XX secolo in prospettiva comparata e transnazionale, i rapporti fra fascismo italiano e nazismo, i diritti umani, l’uso della violenza, la memoria pubblica e privata. Ha scritto il capitolo su Firenze e Provincia nel volume curato da Fulvio Cammarano, Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, Le Monnier, Firenze, 2015.




Gli anarchici apuani di fronte alla Grande Guerra

Nelle settimane precedenti allo scoppio del conflitto mondiale i rapporti fra le forze della sinistra avevano assunto nella provincia apuana caratteri di vero e proprio antagonismo. Nel continuo gioco di contrasti e di ricomposizione delle alleanze che attraversava da anni l’organizzazione operaia, il ‘blocco rosso’ aveva infatti conosciuto una spiccata curvatura antisocialista, complici alcuni avvenimenti che avevano finito per alimentare tensioni fra le diverse tendenze fino a ridurne il potenziale sovversivo temuto dalle autorità. I sospetti di un larvato supporto degli anarchici al trionfo repubblicano nel voto comunale di Carrara del luglio 1914 si erano saldati con l’eco di furibonde accuse di parte socialista in occasione dell’elezione a deputato del repubblicano Eugenio Chiesa, impostosi nel novembre del ’13 per poche schede sul leader del PSI massese Francesco Betti. Sommate alla crescente insofferenza verso gli eccessi sindacalisti dell’anarchico Alberto Meschi, che con la Camera del lavoro carrarese era stato fra i protagonisti del congresso fondativo dell’USI del 1912, le polemiche elettorali contribuirono così a determinare nella calda estate del ’14 una dolorosa scissione nel movimento operaio con la creazione a Massa di un nuovo organismo camerale confederale da parte dei socialisti. I contrasti fra gli scissionisti da un lato e gli anarchici e i repubblicani dall’altro, sfociati in diversi casi in scontri anche mortali, non si attenuarono neppure di fronte ai problemi sollevati dall’avvento della guerra, con la prosecuzione fino al termine dell’anno di feroci dispute. Una scia di risentimenti che si saldava con la pesantissima crisi di un settore come quello marmifero che da luglio dovette fare i conti anche con il blocco dei commerci prodotto dal conflitto, capace di mettere in ginocchio l’economia di una realtà dipendente per intero dalle attività estrattive.

Se all’annuncio della dichiarazione di guerra austriaca tali divisioni non impedirono la convocazione a Carrara di un «grande comizio contro la guerra» su basi unitarie in cui il sindaco Eumene Fontana intervenne con il compagno di partito Edgardo Starnuti, il socialista Alberto Malatesta, il sindacalista Tullio Masotti e Meschi, la mobilitazione dei primi giorni costituì comunque un episodio isolato e fino all’anno nuovo seguì  una sostanziale stasi di iniziative pubbliche di segno antinterventista.

Dopo il consolidarsi della dichiarazione governativa di neutralità (3 agosto), la conseguente separazione dal campo dei contrari alla guerra dell’interventismo di sinistra si materializzò localmente nella torsione verso l’intervento dell’intero stato maggiore repubblicano: sulla scia del deputato Chiesa l’amministrazione comunale si associò senza incertezze alla posizione sancita dai vertici del partito. Gli anarchici dal canto loro tardarono a costruire iniziative spiccatamente antinterventiste e apparvero impegnati in maggior misura in azioni contro la gravissima crisi economica o in vertenze aperte dal periodo anteriore al conflitto che impedivano per il momento di far emergere in maniera chiara la tematica antibellica, anche perché ad esse continuavano spesso a partecipare, dietro la comune copertura della CdL carrarese, gli stessi repubblicani. Un’opposizione diretta ispirata ai principi antiautoritari e antimilitarsisti propri della contestazione libertaria alla guerra, pur non del tutto assente, si limitava a qualche sporadica dichiarazione alla stampa militante dei circoli più noti, mancando di momenti di presenza scenica pubblica destinati invece, in una terra proletaria come quella apuana, alla protesta di stampo economico. Anche il foglio della CdL «Il Cavatore», fondato da Meschi nel 1911 come organo camerale, dopo un’editoriale di condanna allo scoppio del conflitto interamente giocato sul filo di un acceso antipatrottismo, tenne verso il tema una linea defilata e quasi disinteressata. Mentre l’impegno di segno neutralista da parte dei socialisti apuani non era venuto mai meno e aveva continuato ad intensificarsi in parallelo con la politica del partito, i ritardi nel processo di affermazione di un’opposizione frontale e propriamente politica al conflitto da parte degli anarchici apuani non hanno risparmiato talora a Meschi sospetti di titubanze e ambiguità, parzialmente accreditati in passato anche dal maggior storico del movimento operaio apuano Lorenzo Gestri; ove si tengano tuttavia in debito conto le posizioni parallelamente assunte a livello nazionale dall’USI e dal suo leader Armando Borghi, il caso di altre realtà camerali sovversive con forti componenti interventiste e le difficoltà del  movimento libertario nei primi drammatici mesi della neutralità italiana, gli atteggiamenti assunti dall’“uomo di pietra” finiscono invero per non essere privi di una loro coerenza, chiaramente riaffermata peraltro anche dall’intensa azione da lui svolta nelle ultime settimane prima dell’ingresso italiano nei combattimenti, in cui spicca fra l’altro un intenso tour accesamente antimilitarista destinato a toccare in aprile molte località della Toscana tirrenica.

Del resto con l’avvio del 1915 lo stesso atteggiamento degli anarchici parve risentire positivamente di quel processo di maggiore definizione della propaganda attiva sul tema del conflitto iniziato in ambito libertario dalla fine dell’anno e culminato nel convegno nazionale pisano contro la guerra del 24 gennaio, che vide una folta partecipazione di gruppi  apuani. In sede di discussione Meschi, illustrata la disperata situazione economica carrarese, si dimostrò fra i più oltranzisti, giungendo a ventilare «la proposta di un moto insurrezionale immediato». A testimoniare il mutato clima, furono avviate manovre preparatorie destinate a sfociare in un’iniziativa della sua CdL che suonerà come un’applicazione decisa degli strumenti d’azione indicati dall’ordine del giorno finale antiguerresco approvato a Pisa in cui si era auspicato fra l’altro l’inizio di agitazioni e movimenti contro gli effetti economici del conflitto quali mezzi utili ad alimentare nel popolo uno spirito rivoluzionario capace di opporsi ai rischi di guerra e di sostenere un eventuale sciopero generale insurrezionale. Dopo che a fine febbraio la CdL approvò un ordine del giorno che, denunciato il peggioramento della crisi, non escludeva gravi agitazioni e per la prima volta, accanto ai soliti attacchi al governo, non risparmiava critiche al comune, il 10 marzo ricorreva allo strumento forte dello sciopero generale, accompagnato da un comizio in piazza Alberica. Anche se la piattaforma prescelta sembrava perpetuare ancora una volta l’ambiguità di precedenti iniziative, enfatizzando più le conseguenze sul tessuto economico locale del conflitto (disoccupazione e caro viveri) che le ragioni di fondo che le producevano e ammettendo ancora una volta la partecipazione del sindaco al pubblico comizio (poi vietato), la giornata si tradusse in una grande protesta antimilitarista di massa; come avrebbe sintetizzato il corrispondente dell’«Avvenire Anarchico» lo sciopero che «doveva essere per la disoccupazione si è cambiato in una imponente manifestazione contro la guerra». Gli slogan della folla, i cartelloni issati e confiscati e i manifesti affissi fin dal mattino non lasciarono dubbi sul significato politico assunto dall’iniziativa, sfociata rapidamente in una clima insurrezionale con urla di «Abbasso la guerra», sassaiole, cariche di soldati a cavallo e comparsa di barricate nelle vie del centro storico; 5 appartenenti alla forza pubblica rimasero feriti causando il conseguente arresto nelle ore successive di alcuni militanti anarchici.

Tale giornata, che finì per divenire il momento di maggiore mobilitazione avvenuto nella provincia apuana nei mesi della neutralità italiana rappresentò uno spartiacque, e con le divisioni lasciate sul campo costituì un momento di chiarificazione politica, con una marcata e non più ricomposta spaccatura, anche da parte anarchica, con i repubblicani. Del resto se l’amministrazione repubblicana si impegnò a condannare con un manifesto il tentativo di assoggettare la protesta ad una discussione «vana e pericolosa», privilegiando un tema che rompeva l’unità e la concordia, con l’intensificarsi, come in gran parte del paese, di una spirale di scontri di piazza sulla questione del conflitto i mutati equilibri divennero ancor più evidenti; così ad esempio militanti libertari parteciparono con i socialisti alla contestazione organizzata contro il parlamentare Chiesa, giunto in città la sera del 17 aprile con l’accusa di essere un «deputato interventista di un Collegio neutralista», e conclusasi a colpi di randello e con una ventina di arresti e diversi feriti. O ancora furono parte attiva nel boicottare il ‘maggio radioso’ degli interventisti carraresi, il cui tentativo di tenere una dimostrazione ufficiale a sostegno dell’ingresso in guerra sotto la statua di Mazzini con l’immancabile caricatura di Giolitti fu impedito e sopraffatta dall’arrivo di circa 450 neutralisti armati di bastone.

E tuttavia la percepibile avversione popolare alla guerra aveva a lungo faticato a trovare un coerente sbocco politico, anche per le divisioni fra libertari e socialisti che, a differenza di altre realtà, resero difficili momenti ufficiali di vera protesta unitaria, per quanto confinati ad un terreno di lotta legalitario quale quello imposto dal PSI e subito dagli anarchici. Pure questo aspetto, oltre alle urgenze quotidiane di una crisi economica gravissima e alla natura essenzialmente sindacale e proletaria del movimento anarchico locale, parve pertanto contribuire ad un neutralismo più sociale che politico, destinato a infondere alla protesta contro la guerra un profilo che finì per intrecciarsi in modi non sempre codificabili con problemi come la disoccupazione ed il carovita.

 

Marco Manfredi ha conseguito nel 2005 il titolo di Dottore di Ricerca presso l’Università di Pisa. Dal 2007 al 2009 è stato borsista postodottorato al Dipartimento di Scienze della Politica dell’Università di Pisa, mentre dall’anno accademico 2009-2010 è stato Professore a contratto di Storia Contemporanea. I suoi interessi di studio riguardano in prevalenza la storia politica e la storia della cultura del primo Ottocento e la storia delle classi subalterne, con particolare attenzione al movimento anarchico. A quest’ultimo riguardo ha vinto nel 2007 la Borsa di ricerca Pier Carlo Masini con il progetto di ricerca Linguaggio, simbologia, rituali. La cultura dei militanti anarchici in età giolittiana, e nel 2006 la Borsa di ricerca Lorenzo Gestri.
Ha scritto il capitolo su Massa Carrara nel volume curato da Cammarosano, Abbasso alla guerra!




Lucca e la Prima guerra mondiale

Nell’anno della neutralità italiana – dal 2 agosto 1914 al 24 maggio 1915 – anche la provincia di Lucca, come il resto d’Italia, fu percorsa da dibattiti e tensioni che coinvolsero, sul tema della guerra, le forze politiche, le correnti culturali, la popolazione.

Nell’occasione si evidenziarono anche le diverse identità di una provincia davvero composita. La “Lucchesia”, la Versilia, la Valle del Serchio, la Garfagnana (che allora però era in provincia di Massa), la Valdinievole (Pescia e Montecatini, che ora sono però in provincia di Pistoia), presentarono infatti le loro realtà a volte comuni, ma spesso anche alquanto difformi, per specificità locali.

Un primo dato comune è che non si ebbero intorno a questa discussione quei picchi di violenza che, soprattutto se andiamo alla conclusione, si presentarono in altre parti d’Italia, sì da configurare, a detta di alcuni storici, situazioni di vero e proprio conflitto civile. Nella nostra provincia sono in evidenza in questo senso solo alcuni limitati episodi, tra cui spicca la violenta manifestazione neutralista che impedì il comizio di Cesare Battisti a Viareggio (31 gennaio 1915), “risolta” comunque con qualche contuso e danni materiali, presenza moderata delle forze dell’ordine e soprattutto senza vittime (che invece si verificarono in situazione simile, un mese dopo, a Reggio Emilia).

Si presenta qui il problema di valutare gli orientamenti dello spirito pubblico sui temi della guerra. Come è noto fin dagli studi di Vigezzi, l’indagine promossa nell’aprile del 1915 dal Governo – e quasi subito ritirata – su quali fossero gli orientamenti dell’opinione pubblica nel caso di intervento dell’Italia in guerra, non annovera la risposta del prefetto di Lucca. Non è comunque difficile ipotizzare una situazione in linea con l’andamento nazionale: il punto di partenza era certamente una diffusa approvazione dell’orientamento neutralista, che ondeggiava dalla esplicita opposizione alla guerra alla speranza che l’Italia potesse rimanerne fuori; le ragioni dell’intervento, che maturarono soprattutto in settori sociali specifici (borghesia urbana, professionisti, studenti) si fecero strada, mentre affioravano voci in tale direzione sull’orientamento della politica governativa e sull’andamento segreto dei lavori diplomatici, creando un senso di progressiva ineluttabilità dell’intervento; e se l’adesione entusiastica non sembrò affatto coinvolgere le maggioranze, si diffuse l’impressione di una accettazione “rassegnata” (come dice Vigezzi) del sacrificio come necessario e, a quel punto, magari anche nobile e doveroso. Ed ecco che, nelle fasi finali, indipendentemente dal permanere ed anzi dall’accentuarsi della contrapposizione e dello scontro, la società civile mise in atto una partecipe mobilitazione a sostegno dello sforzo economico ed umano che anche la provincia di Lucca, come per il resto d’Italia si preparava a sostenere.

 

Queste valutazioni non possono comunque prescindere dal quadro politico che orientava l’opinione pubblica rappresentandone al contempo un termometro attendibile. A questo livello si svolse un dibattito davvero intenso, più articolato e complesso di quanto non si sia soliti rappresentare.

A sinistra, l’“Estrema” (socialisti, repubblicani, sindacalisti, anarchici, sinistra radicale) conobbe la spaccatura di quella unità che aveva avuto il suo momento più significativo nel corso delle agitazioni della “settimana rossa”, che per la verità scossero soprattutto la Versilia e che invece interessarono assai modestamente Lucca.

Il partito socialista fu la roccaforte del neutralismo militante, soprattutto per la battaglia condotta da Luigi Salvatori, sulle piazze versiliesi e sul suo periodico, “Versilia”: voce di un “neutralismo assoluto” che giunse fino alla (inascoltata) richiesta ai vertici nazionali del partito, nei giorni caldi di maggio, di uno sciopero nazionale contro la guerra. Nel resto della provincia, se si segnalò una vivace attività dei socialisti a Pescia, la stessa area socialista non rimase immune da divisioni nel capoluogo, dove si ebbero ampie adesioni alle ragioni dell’intervento, come testimonia la vicenda del principe del foro Francesco Bianchi, già distaccatosi dalla linea del partito ai tempi della guerra di Libia ed ora strenuo fautore dell’interventismo democratico.

La divisione attraversò anche il gruppo sindacalista, con l’“interventismo rivoluzionario” di Alceste De Ambris. A Viareggio questa prospettiva conquistò Lorenzo Viani, che divenne così l’elemento rilevante, per quanto sostanzialmente isolato, della divisione che percorse anche il campo anarchico.

Maggioritaria fu invece la professione interventista dei repubblicani, variamente rappresentati in provincia. In Versilia, la voce più stentorea fu quella di un “non politico”: quella del poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, animatore e guida della cosiddetta “Repubblica di Apua”. In tutta la provincia era questo il settore più intensamente legato all’eroica epopea del volontariato democratico garibaldino, che veniva ora rievocata e rinnovata.

Muovendo la nostra attenzione verso il centro politico, troviamo l’area per lo più connotata come “democratica”: radicale, laica, massone, con aspirazioni di governo, sia a livello, sia a livello locale (con esperienze  specie in Versilia, durature a Pietrasanta e più frammentarie a Viareggio). E’ un settore che subisce nel 1913 il colpo dell’alleanza tra i liberali moderati e i cattolici promossa dal patto Gentiloni, con significativi contraccolpi negativi anche sul piano amministrativo (la sconfitta di Pietrasanta, per esempio); ma che ha anche i suoi punti di forza: a Pescia per esempio nella figura di Ferdinando Martini, ministro delle colonie di Salandra. La posizione sulla guerra di questo settore, laico massone e filofrancese, si viene precisando (con l’eccezione neutralista di Barga) in direzione dell’intervento, dove con maggiore, dove con minore impazienza, dove più, dove meno precocemente.

A destra dei democratici si estende il grande centro liberale, moderato, monarchico, governativo, le cui posizioni riflettono le incertezze, le divisioni e i “tentennamenti” della linea di governo nazionale.

Abbiamo tutta un’area che si ispira a giolittiani di stretta osservanza, quali sono il deputato versiliese  Giovanni Montauti e quello garfagnino Ernesto Artom, che predicano finché possibile la prudenza della via diplomatica. Va anche detto che a questi livelli, l’alleanza inaugurata con i cattolici preme sulla via del neutralismo.

Ma è proprio al cuore della provincia che i liberali si muovono con maggiore libertà incalzando in senso opposto Salandra, sicché a Lucca “l’orologio dell’interventismo” è anticipato rispetto al resto della provincia. E non certo per le pressioni del gruppo nazionalista, nel capoluogo presente con una attività che non ha eguali in provincia, ma con una forza non in grado di incidere al di là delle pubbliche prese di posizione. Forse invece per una certa qual “vocazione” nazionale della classe dirigente lucchese, evidenziatasi per esempio nel maggio 1914, quando l’intera città era scesa in difesa dei suoi studenti, colpiti dalla polizia del prefetto Cotta e dalla magistratura per la loro dimostrazione in favore degli italiani di Trieste.

Rimane da dire dell’altro corno della politica cittadina: quello dei cattolici, di cui va sottolineata in generale l’adesione alle linee del neutralismo dettato da Benedetto XV, rinforzata dalla particolare coerenza del loro leader più prestigioso, sul piano culturale, oltre che politico: appunto Lorenzo Bottini. Sicché, analizzando la parabola di questo neutralismo, si potrà arrivare alla conclusione – solo apparentemente paradossale – che proprio dentro il gruppo dirigente della società lucchese, i liberali più interventisti di tutta la provincia convissero con i cattolici più neutralisti.

Si presentarono, in provincia, tutti i diversi motivi di fondo del neutralismo cattolico: quello filoaustriaco e filotriplicista dell’intransigentismo (forse più rappresentato a Viareggio, a quanto risulta dalla linea dell’“Eco Versiliese”); quello della partecipazione all’interesse nazionale (inalberato contro l’internazionalismo “disfattista” dei socialisti): la pace è nell’interesse nazionale, in nome del quale i cattolici professano a più riprese di essere anche pronti all’eventualità della guerra; e terzo, il neutralismo di principio, quello etico, che parla più direttamente alla popolazione e organizza le mobilitazioni di preghiera per la pace.

Ma – anche qui una distinzione interna – se l’arcivescovo Marchi sospende la mobilitazione dei fedeli attorno a Pasqua, pronto ad invocare sull’esercito italiano la protezione del “dio delle vittorie”, è Bottini l’ultimo ad arrendersi. Lui, che già era stato contrario alla guerra di Libia per motivi di principio (applicando lo stesso principio che da un punto di vista clericale gli aveva fatto condannare la presa di Roma al Papa per rifiutare consenso alla “conquista di Tripoli al Sultano”), con motivazioni tutte politiche arriverà a salutare le dimissioni di Salandra (13-16 maggio): gli abbiamo voluto bene (aveva scritto: siamo disposti a farci guidare da lui come una moglie dal buon marito), ma la sua politica di guerra non la condividevamo. Si dà per vinto solo il 23 maggio: Alea iacta est.

 

 

 

 




Dalle trincee ai corridoi del manicomio

I corridoi e le stanze del Frenocomio San Girolamo di Volterra si riempirono, tra il 1916 e il 1919, di individui silenziosi, allucinati, amnesici, eccitati, alcolisti, dementi precoci, isterici, malati con sintomi strani (che includevano possessioni demoniache, regressioni all’infanzia, deliri), traumatizzati. Era la tormentata umanità dei soldati che avevano manifestato al fronte dei disturbi mentali in seguito a episodi traumatici o a causa del surmenage emotivo della guerra.

Le presenze di ricoverati registrate al Frenocomio di Volterra negli anni della Grande Guerra aumentarono vertiginosamente: in particolare nel 1918 i malati arrivarono a raddoppiare rispetto a quelli del 1915. L’Istituto volterrano, al pari degli altri istituti italiani mobilitati per la guerra, si inserì nel contesto dell’emergenza bellica delle nevrosi, fungendo da luogo di transito e smistamento dei soldati che avevano ricevuto una diagnosi psichiatrica al fronte: una volta riconosciuti malati di mente i soldati avevano davanti a sé due vie, essere rimandati al fronte o essere internati nelle strutture manicomiali italiane. Nel primo caso i soldati venivano sottoposti a cure di scarso effetto o anche dolorose come l’elettroterapia, per smascherare i numerosi simulatori o cercare di eliminare i disturbi psichici. In seguito alla riorganizzazione della macchina bellica post-Caporetto, nel gennaio 1918, fu creato il Centro di Prima Raccolta a Reggio Emilia, un centro diagnostico dove i medici decidevano se rispedire il malato al fronte o rinchiuderlo in manicomio. I soldati iniziavano allora un viaggio a scendere la penisola, ricoverati per brevi periodi in varie strutture psichiatriche: la meta finale di questo viaggio era l’ospedale psichiatrico della loro provincia d’origine, vicino alle famiglie. A Volterra i soldati, provenienti da ospedaletti da campo sul fronte, da istituti del Nord Italia o dal Centro di Prima Raccolta di Reggio Emilia, venivano ricoverati per brevi periodi, spesso senza neanche venire sottoposti ad una vera e propria terapia o a visite mediche, per poi essere mandati nel manicomio della loro provincia d’origine.

Il tema del legame tra guerra e follia era emerso insieme alla guerra moderna. Nei conflitti Russo- Giapponese, durante la guerra civile americana, si era osservata una moltiplicazione dei disturbi mentali legati agli eventi bellici. Alcuni storici, come Antonio Gibelli, interpretano questo fatto come una conseguenza della realtà alienante della guerra moderna, con la sua organizzazione da officina, l’utilizzo massiccio di nuove e sempre più distruttive armi, la concezione spersonalizzante dei soldati visti come meri ingranaggi della macchina bellica. La Grande Guerra rappresentò una cesura per la scienza psichiatrica, pesantemente ancorata alle convinzioni ottocentesche di organicismo ed ereditarietà nei disturbi.

Soldato ricoverato al S. ServoloMa torniamo nelle stanze sovraffollate del frenocomio volterrano durante la Grande Guerra. Il caso di C.B., soldato del 105° battaglione M. T., può esserci d’aiuto per comprendere un aspetto del rapporto medico-paziente durante la Grande Guerra. Il soldato fu ricoverato al S. Girolamo per i sintomi di un sordo-mutismo di origine isterica: questo ispirò nei medici un sentimento di ripulsa e disprezzo, come si può leggere persino nella cartella clinica. L’isteria, da secoli ritenuta una malattia esclusivamente femminile, veniva adesso riscontrata nell’ideale virile del guerriero: per questo molte volte i sintomi isterici venivano associati ad altre malattie o ignorati, mentre nei casi diagnosi isterica gli psichiatri osservavano con sdegno o con frustrante perplessità al crollare delle loro convinzioni. Stesso disarmato atteggiamento dei medici nell’osservare pazienti come L.G., ricoverato al S. Girolamo nel ’17, convinto di vedere diavoli e di esserne posseduto lui stesso, tanto da tentare di aprirsi la pancia per far uscire gli spiriti maligni: sin dal Medioevo le possessioni demoniache riguardavano soprattutto le donne. Come interpretare allora queste visioni nei virili soldati, così comuni in tutto l’esercito?

La Grande Guerra rappresentò un laboratorio per la scienza psichiatrica, poiché venivano velocemente demolite molte convinzioni ottocentesche. Nelle cartelle cliniche, soprattutto nei primi anni di guerra, si può trovare una ricerca ossessiva delle tare ereditarie del paziente o di predisposizioni organiche a sviluppare malattie mentali, spesso ignorando o dando poco peso ai traumi ricevuti in trincea; nell’intensa discussione tra gli psichiatri, che avveniva in tutti i Paesi coinvolti nel conflitto, assunse sempre più peso – anche se la questione rimase dibattuta – il trauma bellico come causa di molti disturbi. A Volterra, tra il 1918 e il ’19, i soldati, qualsiasi sintomo presentassero, venivano ammessi con la diagnosi di Demenza Precoce: un fatto che può essere interpretato come un gesto di resa dei medici di fronte all’impossibilità di penetrare i segreti delle nuove psicosi. Del resto gli psichiatri, che sin dal XIX secolo avevano dato il via ad un processo di istituzionalizzazione, di avvicinamento ai centri del potere statale e che sin dalla guerra in Libia avevano una presenza capillare all’interno dell’esercito, nel clima della mobilitazione generale si comportavano spesso più da soldati che da uomini di scienza, cercando di curare i malati per rispedirli a combattere.

In sede storiografica i disturbi psichici legati alla guerra sono stati visti come una fuga dall’incubo delle  trincee: tuttavia essi possono anche essere intesi come un riemergere in forma morbosa del proprio io sepolto dal nuovo status di soldato. È il caso, ad esempio di B.G., muratore romano ricoverato a Volterra nel 1918 che presentava un delirio allucinatorio in cui pensava di vedere il fratellino correre nei corridoi del manicomio, facendo arrabbiare la madre. La regressione infantile era diffusa tra i soldati, i quali tornavano alla condizione primaria dell’essere umano, quella del fanciullo. Altro modo molto diffuso di imporre il proprio essere e di ribellarsi allo stato di soldato era quello di spogliarsi della divisa: T.C. e M.A. prima di essere ricoverati a Volterra vennero trovati a correre nudi per le vie dei paesi vicino al fronte; non si erano solo spogliati del simbolo di un’identità imposta, ma avevano portato alla luce la parte più pura di sé, il proprio corpo. Oppure il caso del geniere P.D., molto legato alla moglie, il quale era affetto da allucinazioni e deliri di grandezza e gelosia che si esprimevano in una logorrea ininterrotta in cui insultava la moglie che vedeva tradirlo con i suoi superiori – spesso indicati come i veri nemici dei soldati – e in cui si vantava di possedere terre e bestiame: P.D.  trasformava quindi il suo amore per la moglie in una gelosia morbosa, mentre il delirio di grandezza celava la sua condizione subalterna nel suo paesino aquilano.

Infine occorre accennare ai moltissimi soldati ricoverati al S. Girolamo che si presentavano ostinatamente muti e silenziosi: la quiete della malattia era un’arma per combattere il fragore della guerra e tentare di riappropriarsi – follemente – di una tranquillità che era ormai perduta.

Marco Gualersi nel 2008 si è laureato a Pisa in Storia e civiltà con una tesi dal titolo “La follia e la Grande Guerra. Il caso del frenocomio di S. Girolamo di Volterra”. Collaboratore della Fondazione Memorie Cooperative, per la quale ha curato i volumi “Custodire il futuro. L’Archivio Storico di Unicoop Tirreno” (insieme ad Antonella Ghisaura ed Enrico Mannari) edito nel 2011 da Mind, e “Un’isola cooperativa. Cent’anni di cooperazione a Castagneto Carducci” (Bruno Mondadori, 2014).




La Giornata del Ricordo a dieci anni dalla prima celebrazione

A distanza di 10 anni dalla prima applicazione della legge istitutiva della Giornata del Ricordo, vale la pena di dare uno sguardo d’insieme a quella che all’inizio fu una sfida per la rete degli istituti storici della Resistenza, oggi è un patrimonio di molte esperienze, che ci consegna anche un’eredità di riflessioni sul rapporto storia-memorie-usi pubblici della storia. La storia di “dolore ed esilio” delle popolazioni del Confine orientale era considerata storia negata; la scena fu occupata allora da conflitti di memorie e usi politici delle vicende di tutta quell’area: foibe, violenze, l’abbandono delle terre che ne erano state teatro: il lungo esodo da Venezia Giulia, Istria e Dalmazia. Nel tempo il fenomeno nazionale della crescita delle date del calendario della memoria ha fatto riflettere sulla creazione di quelli che Giovanni De Luna ha definito “pilastri dell’albero genealogico della nazione”, avvenimenti del nostro passato che si sceglie di ricordare, lasciandone cadere nell’oblio altri. Quella che la Giornata del Ricordo ha voluto sottrarre al silenzio ormai non è più una storia negata. Si sono moltiplicate ricerche nuove, la letteratura e la memorialistica prima a circolazione soprattutto locale hanno raggiunto grande visibilità, scuola e istituzioni puntualmente rispettano il dettato della legge.

partenze

Partenze di profughi da Pola, 1947

Quella di cui si tratta non è questione locale e concentrata tra le prime violenze delle foibe istriane -1943 – e l’esodo, ma parte di un dramma che ha coinvolto milioni di europei durante e dopo la seconda guerra mondiale, “laboratorio” della storia complessa del Novecento: tra guerre, violenze, foibe, diplomazia. Guido Crainz, in un libricino pensato per la buona divulgazione, parlò di «un calvario che ha riguardato milioni di persone […] fra tensioni e conflitti di lungo periodo, l’incubo del nazismo, le macerie materiali e ideali della guerra e i processi traumatici di costruzione di un’Europa ‘divisa’» (Il dolore e l’esilio, 2005). Rimanendo entri i limiti cronologici del Novecento, la Grande Guerra aveva lasciato tensioni legate alla nazionalità, nelle zone di confine tra Italia e paesi slavi, cresciute con i processi d’italianizzazione forzata imposti dal fascismo. Alla deflagrazione della seconda guerra mondiale si accompagnarono gli orrori della guerra fascista nei Balcani (il “testa per dente” contro i partigiani slavi della famosa Circolare 3C Roatta), l’occupazione tedesca del Litorale Adriatico, le Resistenze antifasciste italiana e slava e l’esplosione delle violenze. In forma più o meno sotterranea, l’ombra di quegli eventi s’allunga fino alle strategie della tensione dell’Italia repubblicana.

Guardando alla diffusione delle conoscenze nella società e nella scuola, il bilancio è di una crescita quantitativa di sapere, in parte di coscienza critica, indispensabile per distinguere il lavoro di onesta divulgazione dalle incursioni della politica in argomenti delicati, ancora vivi nelle memorie e nelle implicazioni con le storie di tempi vicinissimi a noi. Sapevamo poco, prima del 2005, degli oltre cento centri nazionali di raccolta profughi, dei luoghi della memoria, del viaggio del piroscafo Toscana e delle traversìe dei profughi (dalle stime tra 200.000 e 350.000), accolti anche in Toscana, in centri di raccolta – il più noto Laterina (AR), la cui esistenza è documentata fino al 1963. Non disponiamo di dati certi sugli arrivi: da un censimento del 1956 si rilevarono 6.074 presenze.

confineA dare strumenti per far crescere le conoscenze ha agito la risorsa-rete nazionale degli istituti storici della Resistenza, collegata anche ad associazioni e centri culturali, come la Società di Studi fiumani di Roma. Essenziale il contributo dell’Istituto regionale del Friuli Venezia Giulia, dalla cartografia del “Confine mobile” all’abbondante storiografia; l’Istituto piemontese organizzò nel 2005 a Torino un corso di formazione, da cui gli istituti toscani riportarono un patrimonio di sapere, inizio del percorso, ancora in atto, di studio, elaborazione didattica, invenzione di iniziative originali di studio e divulgazione. Fu momento di svolta un triennio di lezioni e laboratori che coinvolsero un gran numero di insegnanti, iniziativa istituzionale, sostenuta dalla Regione Toscana e dalla Direzione scolastica regionale, coordinata dall’Istituto di Grosseto in collaborazione con l’ISRT, premessa al viaggio di studio di un gruppo di insegnanti, uno per ciascuna provincia.

L’itinerario del viaggio, seguendo le tappe dei luoghi di memorie dolorose e del “confine mobile”, completò la mappa delle conoscenze. A Trieste, alla Risiera di San Sabba, le tracce dell’orrore dei forni crematori nazisti, accanto a quelle della violenza del fascismo di Confine – Narodnj Dom e Sinagoga. Ma lo sguardo su Trieste era diretto a trovare segni di una città-incrocio tra due linee di confine: nord-sud, est-ovest, confronto e convivenza plurisecolare tra culture. A Gonars ci fu la scoperta del lungo silenzio italiano sul campo di concentramento fascista per slavi, quasi introvabile, a oltre sessant’anni privo di un memoriale. L’Istria e Basovizza mostrarono i segni di altri orrori: gli infoibamenti di italiani, nella fase di persecuzione slava di italiani, nel contesto di un conflitto tra Resistenze e fascismi, ma anche nazionale. In Istria, le campagne dell’interno testimoniavano l’abbandono, porte e finestre chiuse da decenni in città come Albona la definitiva e quasi totale estinzione della comunità italiana. A Padriciano fu ultima tappa del viaggio il Centro raccolta profughi, temporanea dimora di chi aveva scelto di partire, lasciando oggetti, che oggi invece di farsi osservare come indizi di vita passata suscitano una sensazione di morte.

Centro raccolta profughi di Padriciano (Trieste)

Centro raccolta profughi di Padriciano (Trieste)

Il racconto del viaggio è parte essenziale del ruolo che l’esperienza toscana ha avuto nel trasferimento di conoscenze e nella formazione culturale e civile nelle scuole toscane e in ambienti vari, non solo toscani. Un documentario, una mostra itinerante, la diffusione di strumenti didattici che ogni anno si sono affinati, “beni culturali durevoli”, che hanno impedito di disperdere l’eredità di un esperimento interessante, stimolando al contrario altro lavoro. Attualmente sono a fuoco altri temi di studio, altri itinerari, che hanno dilatato il tempo oggetto di interesse e di sperimentazione didattica fino all’epoca dell’esplosione delle nazioni nella ex-Jugoslavia, partendo dallo scoppio della Grande Guerra, come i viaggi a Sarajevo.

Un percorso durato dieci anni ha incrociato momenti storici e geo-politici diversi. Quello attuale richiede con urgenza la sottolineatura della lezione che i più riflessivi tra gli intellettuali nati e vissuti nelle terre di confine o esuli consegnano: il confine come luogo di confronto e non di scontro e negazione dell’altro, la diversità di culture come ricchezza, la conoscenza come mezzo necessario per misurarsi con memorie difficili e lutti non elaborati. Per questo abbiamo a cuore, tra le lezioni che una ricca e buona storiografia ha offerto, quella di Marta Verginella, storica italiana nell’Università slovena di Lubiana, doppia “identità”, in termini linguistici e culturali, per sensibilità vicina a protagonisti della grande letteratura di confine, come Claudio Magris. Conviene raccogliere le buone lezioni, proprio ora che il corso della storia presenta preoccupanti indizi di segno opposto, con forme inedite di violenza e rifiuto dell’altro, in cui l’Europa forse sperava di non doversi più imbattere.