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Teresa Meroni e la marcia delle donne

Chi era Teresa Meroni? Quale fu il suo impegno di sindacalista e attivista per la pace durante il periodo della Grande Guerra? Rispondere a queste domande significa approfondire non solo la storia personale che la portò in Val di Bisenzio, ma anche indagare le condizioni socio-economiche che caratterizzavano quel territorio di precoce industrializzazione posto a Nord di Prato.

Legata al lombardo Battista Tettamanti da una “scandalosa” relazione che sarà sancita da matrimonio civile solo nel 1930 (tra l’altro dopo la nascita dell’unico figlio Vladimiro), la Meroni nacque a Milano nel 1885 da una famiglia operaia e subito, da giovanissima, si iscrisse al Partito Socialista da poco nato a Genova. L’attività politica e sindacale che svolse nel comasco accanto a Tettamanti, a cui nel 1915 fu affidata la segreteria della Lega Laniera di Vaiano,  avrebbe posto le premesse alle battaglie condotte successivamente in Val di Bisenzio. La sua vicinanza profonda al mondo contadino e operaio del comasco maturò in lei una forte consapevolezza del fatto che i diritti dei contadini e degli operai sarebbero stati conquistati solo grazie alla rivoluzione (Teresa era una seguace del socialismo rivoluzionario alla Sorel).

Giunta in vallata appena trentenne Teresa Meroni si trovò di fronte a una situazione socio-economica diversa da quella a cui era abituata nel comasco: in Val di Bisenzio le fabbriche tessili erano legate al ciclo della lana “meccanica” o rigenerata e le famiglie contadine seguivano il modello della mezzadria toscana. Erano tempi difficili, ma c’era la speranza di un miglioramento della vita quando si lasciava la campagna per andare a vivere in città. Speranza che andò esaurendosi con l’entrata in guerra dell’Italia, avvenuta il 24 maggio 1915.

All’inizio della Prima Guerra Mondiale Tettamanti fu richiamato alle armi nel 171° battaglione della milizia territoriale e Teresa Meroni si trovò a sostituirlo, assumendo la guida della Lega Laniera di Vaiano. Si trattò di un fatto epocale, perché la Meroni prima di allora non faceva parte nemmeno del Consiglio Direttivo della Lega, come del resto nessun’altra donna. Da allora si distinse per la sua strenua attività di pacifista, tant’è vero che il commissario Luigi Morelli, in una testimonianza del 19 luglio 1917, affermò che la donna per mesi cercò di “catechizzare le donne e i ragazzi, e indurli a fare una dimostrazione contro la guerra”.

In effetti i sospetti del commissario di pubblica sicurezza non erano infondati: il 2 luglio 1917 da Luicciana, piccola frazione di Cantagallo, partì una marcia di quattrocento donne alla volta di Prato. Il gruppo di protesta passò davanti ai principali stabilimenti produttivi di Vernio. Decisero di unirsi alla manifestazione le “fabbrichine” del tappetificio Peyron a Mercatale e anche quelle contadine per lo più provenienti da Gricigliana, che erano entrate in fabbrica per colmare l’assenza degli uomini richiamati al fronte. L’intenzione delle scioperanti era di raggiungere Prato, così da allargare anche alla città laniera la protesta sociale contro una guerra ritenuta ingiusta e per rivendicare condizioni di vita e di lavoro dignitose. La Prefettura decise di intervenire con un reparto di cavalleggeri, ma le donne scelsero di proseguire comunque, nonostante il pericolo delle cariche.

Il corteo, che si ingrossò nei pressi di Coiano, riuscì a superare lo sbarramento dei cavalleggeri nei pressi di San Martino, dove però una decina di donne fu arrestata. La marcia riuscì comunque a raggiungere le carceri, dove furono liberate alcune donne fermate. Una volta giunta in prossimità della stazione ferroviaria, la protesta fu bloccata dalla polizia e il corteo si disperse per le vie del centro. L’agitazione però non si fermò qui: fino al 9 luglio si protrassero episodi e sommosse diffuse dalla Val di Bisenzio sino alle porte di Pistoia, e infine tutto si concluse con l’arresto di 56 persone.

Prato '50 Teresa Meroni parla alle operaie tessiliTeresa Meroni fu ritenuta (a ragione) responsabile delle agitazioni avvenute. Rimase in carcere tre mesi ma, una volta uscita, riprese la sua propaganda politica, soprattutto in favore della conquista dei diritti femminili. Per questo motivo fu allontanata dalla Val di Bisenzio e spedita al confino in Garfagnana, dove sarebbe rimasta fino alla fine della guerra.

La protesta, prettamente di stampo politico, per le autorità fu allarmante per il fatto che a guidarla fosse stata una “rivoluzionaria di professione”, ritenuta pericolosa “per le sue idee socialistiche rivoluzionarie, antimilitaristiche, maniacali”. Come ricordano Annalisa Marchi e Alessandro Cintelli, l’idea mazziniana di donna paragonabile a un “angelo della famiglia” era quanto mai una sbiadita immagine rispetto a quella dipinta dalla vita della Meroni: “dal punto di vista delle autorità di polizia, a ragione Teresa risultava un’agitatrice estremamente pericolosa perché la sua opera di propaganda scardinava i punti fondanti della mentalità del tempo, giustificando nell’immaginario collettivo l’idea che le donne potessero mettersi a capo della rivolta contro la guerra” e pretendere un ruolo che non fosse subalterno come quello che le donne avevano avuto sino a quel momento.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano: 

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Letizia Magnolfi si è laureata in Scienze Storiche nel 2012, con una laurea magistrale in Storia delle Dottrine Politiche. Ha collaborato con la Fondazione CDSE di Vaiano per la realizzazione della mostra 1944: l’ultimo anno di guerra a Schignano (aprile 2011) e ha recentemente vinto un concorso fotografico intitolato Immaginare…ascoltare, ricreare il lavoro, sempre a cura della Fondazione. Attualmente sta svolgendo un tirocinio di formazione presso la Rete Civica del Comune di Prato.

Tra le sue pubblicazioni:
A  proposito dell’USIA. Il ruolo dei mezzi di comunicazione negli anni ’60 della guerra fredda, Instoria, N. 42, Giugno 2011 (LXXIII)
Dal movimento Demau al femminismo di Oggi. Cosa è rimasto?, Instoria, N.41, Maggio 2011 (LXXII)




Il Palio e la Liberazione di Siena

Se a Siena c’è un modo per rendere omaggio ad una persona o ad evento è dedicargli un Palio. Fra tutte le dediche, quella più ricorrente, dal 1945 fino a quest’anno, è stata la Liberazione della città dal nazifascismo, avvenuta il 3 luglio 1944 ad opera delle truppe del Corpo di spedizione francese. L’iconografia del drappellone, chiamato comunemente Palio, cioè allo stesso modo della corsa di cavalli di cui è il premio, ha subito notevoli cambiamenti nel corso dei secoli. Ha tuttavia mantenuto una costante. Poiché i Palii si svolgono in onore della Madonna di Provenzano (2 luglio) e della Madonna Assunta (16 agosto), l’immagine della Vergine non può mancare e deve essere raffigurata in alto.

Fatta questa premessa, superflua per i senesi, ma non per tutti gli altri, vediamo la rassegna dei Palii dedicati alla Liberazione.

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Il sindaco Ciampolini con gli Alleati

Il 2 luglio del 1945 si tornò a far correre il Palio dopo un’ interruzione quinquennale causata dagli eventi bellici. Vinse la Lupa con Mughetto e Lorenzo Provvedi detto Renzino. Il drappellone non aveva una dedica, ma il pittore Bruno Marzi, probabilmente anche su consiglio del sindaco Carlo Ciampolini, nominato dal Cln e dalle autorità militari alleate, non poté sottrarsi ad un esplicito riferimento alla nuova stagione politica in cui cavalli e fantini tornavano a percorrere i tre giri di Piazza del Campo. Nella parte bassa del dipinto appare un drago, dalle unghie intrise di sangue e dal corpo cosparso di croci uncinate, che striscia fuori da una delle porte di Siena, trafitto a morte da una lancia con i colori francesi e statunitensi. Al di sopra, nel cielo del campanile del Duomo, sventolano le bandiere delle potenze vincitrici e il tricolore italiano. Da notare la mancanza di riferimenti al fascismo da poco abbattuto, così come alla Resistenza. Assenze che diverranno una costante nell’iconografia successiva, quasi che la dittatura, la Repubblica di Salò e la lotta partigiana contro di esse non fossero esistite.

Il 20 agosto dello stesso anno, sotto una pressione popolare che portarono alla dimissioni della giunta poi rientrate, venne organizzato un Palio straordinario per celebrare la pace. Vinse il Drago con Folco e Gioacchino Calabrò detto Rubacuori. Il pittore Dino Rofi riprese il tema delle bandiere dei vincitori a fare da sfondo e rappresentò una Nike classicheggiante che incede sicura sul globo terrestre recando in mano ramoscelli d’olivo. Come è noto ad ogni senese, mai dedica fu meno azzeccata dal punto di vista della storia paliesca. Alla fine della corsa i contradaioli del Bruco, inveleniti per non aver vinto, si impadronirono a forza di cazzotti del drappellone e lo fecero a pezzi. Poi, per riparazione, ne fecero dipingere una copia a loro spese, che finalmente venne consegnata al Drago.

Il 2 luglio del 1954 la realizzazione del drappellone fu affidata ad Enea Marroni. Vinse l’Onda con Gaudenzia e Giorgio Terzi detto Vittorino. Il pittore offrì una rappresentazione della Liberazione che qualcuno definì disneyana per la sua gioiosità un po’ fumettistica. Un sorridente vessillifero con la Balzana, stemma della città, si affaccia fra i merli del Palazzo Pubblico gettando di sotto la bandiera con la croce uncinata. In secondo piano il solito motivo delle bandiere delle potenze vincitrici, dispiegate dall’allegoria della Libertà che vola fra il Duomo, la basilica di S. Domenico e la Torre del Magia.

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Il drappellone del 2 luglio 1954

Il 2 luglio del 1964 il Palio della Liberazione lo vinse il Drago con Arianna e Giuseppe Vincenzio detto Peppinello. La realizzazione era stata affidata ad un tandem di artisti, Plinio Tammaro ed Ezio Pallai, i quali, forse memori delle critiche ricevute dal drappellone di dieci anni prima, scelsero un’interpretazione drammatica dell’evento. A simboleggiare il sangue e la sofferenza che aveva richiesto, una figura umana vista di spalle, collocata di fronte ad una porta cittadina e ad una barricata, alza le braccia verso l’immagine della Madonna, spezzando così la fitta rete metallica che la imprigiona.

Il 2 luglio del 1974, il pittore del drappellone, Enzo Bianciardi, decise di raffigurare alcuni momenti del Palio, dal corteo storico, alla corsa, all’esultanza dei contradaioli vittoriosi. Proprio quest’esultanza trascolora, in secondo piano, nella gioia dei senesi liberati dagli Alleati, come si comprende dalla data 1944 scritta su di loro. A vincere fu il Valdimontone con Pancho e Ettore Alessandri detto Bazzino.

Nel 1984 non ci fu dedica, probabilmente sotto l’influenza della cultura politica del Psi craxiano che guardava con un certo fastidio alle celebrazioni resistenziali, considerate vuote, ripetitive, lontane dallo spirito di innovazione politica e costituzionale di cui il partito si faceva interprete, e comunque troppo ad appannaggio degli alleati-concorrenti del Pci nel governo della città.

La dedica alla Liberazione tornò il 2 luglio 1994 nel palio vinto dalla Pantera con Uberto e con Massimo Coghe detto Massimino. Il pittore Leo Lionni scelse di nuovo, come tema centrale, la folla festante per la vittoria, assiepata intorno al cavallo vittorioso. La folla si confonde, sullo sfondo, con un’altra che manifesta gioiosamente per la fine della guerra, fra bandiere francesi e uno striscione rosso recante la data 1944.

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Il drappellano del 2 luglio 2014

Nel drappellone del 2 luglio del 2004, vinto dalla Giraffa con Donosu Tou (scosso) e Alberto Ricceri detto Salasso, il pittore Emanuele Luzzati realizzò invece una grande costruzione fantastica , una sorta di totem di animali tratti dagli stemmi delle Contrade e che culmina con l’immagine della Madonna circondata da teste di cavallo. In questo sogno di figure che rimandano al mondo fantastico dell’infanzia, l’unico riferimento alla Liberazione è affidato ad una scritta sull’aureola della Vergine.

Ed infine il Palio del 2 luglio 2014, vinto da Drago con Oppio e con Alberto Ricceri detto Salasso. La pittrice Rosalba Parrini ha rappresentato la Torre del Mangia, inserita da un lato fra teste di cavallo, colte nella concitazione dell’attesa fra i canapi, e dall’altro lato da un lungo nastro rosso che sostiene l’immagine della Madonna. Vicino alla Vergine una colomba, simbolo della riconquistata libertà, vola via da una gabbietta aperta. Il nastro rosso nasce in basso, da una Piazza del Campo in parte coperta dalla mappa della provincia di Siena. Sulla mappa, anch’essa di colore rosso, campeggiano alcune stelle gialle che indicano le zone in cui combatterono le formazioni partigiane. Dopo settanta anni, è il primo riferimento esplicito alla Resistenza e al suo ruolo nella Liberazione che si può leggere in un drappellone.




L’VIII Armata britannica nel Chianti

Per l’VIII Armata di Sua Britannica Maestà, la traversata del Chianti venne subito dopo il ciclo di combattimento culminato con l’ingresso tra le rovine di Arezzo il 16 luglio 1944, e subito prima dell’altro ciclo, che portò alla liberazione di Firenze, iniziatosi il 13 agosto.

Nei cimiteri militari britannici di Arezzo e di Firenze sono sepolti – rispettivamente – 1.266 e 1.632 caduti: totale quasi 3.000 cadaveri di ragazzi biondicci di capelli e con la pelle chiara degli Inglesi e dei Neozelandesi, oppure con la pelle color oliva scuro e gli occhi nerissimi degli Indù e a volte anche con il barbone nero e il turbante dei Sikh. Si calcolava che i feriti fossero, in genere, tre volte più dei morti. In paragone, quel mesetto che durò l’avanzata da Arezzo a Firenze attraverso il Chianti fu come un respiro, relativamente ai giorni di bufera che l’avevano preceduto e l’avrebbero seguito. Anche se fu un respiro pagato con qualcosa come 10.000 “casualties”: il termine tecnico inglese per indicare il complesso dei morti accertati, degli scomparsi e dei feriti.

Neanche l’avanzata nel Chianti, però, fu una piacevole escursione. A parte qualche sparatoria nei boschi ogni tanto con le retroguardie nemiche, c’era l’incubo delle mine, che i tedeschi avevano seminato dappertutto: magari dietro l’uscio di una casa perché chi vi entrava saltasse in aria oppure, con lugubre umorismo teutonico, sotto un cadavere perché chi lo voleva seppellire, lo andasse a raggiungere nell’altro mondo. E ogni tanto le belle sventole delle granate, perché un osservatore nascosto chissà diavolo dove, aveva scorto col cannocchiale la polvere sollevata da una nostra colonna di automezzi.

Un’estate toscana è sempre bruciata dal sole e molto calda. Ma quella del 1944 fu ancora più rovente del solito: per quei poveri ragazzi biondicci e con la pelle chiara, in battle-dress khaki e con l’elmetto a bacinella degli inglesi, doveva essere un supplizio farsi arrostire da quel sole feroce.

Chi scrive era allora uno scalcinato 2nd Leutenent I.F. (sottotenente delle Forze Italiane) e gironzolava in jeep sul fronte, col suo diretto superiore: un capitano inglese di cittadinanza, ma ebreo egiziano di stirpe, e quindi scaltro come solo un ebreo levantino può esserlo. L’uomo giusto al posto giusto, insomma, visto che lui ed io appartenevamo a un’unità di Intelligence Service, camuffata col nome fasullo di Psychological Warfare Branch (forse per buttare un po’ di polvere negli occhi ai “servizi” dei cugini americani?). L’ordine per noi era di tallonare, con la nostra jeep, la prima avanguardia di carri armati per il caso che ci fosse da scoprire “a caldo” qualcosa di interessante abbandonato dai nemici nella fretta di ritirarsi. I cingoli dei carri armati sollevavano veri “geyser” di polverone e lo gettavano sulla faccia, ridotta a un mascherone di sudore e sudiciume. E quelle sventole maledette delle granate arrivavano sempre più fitte e vicine, a mano a mano che si andava avanti. Infine, come Dio volle, arrivammo a una cittadina, che assomigliava a Pompei, tanto era ridotta in rovine dai bombardamenti aerei e di artiglieria e tanto era spopolata di abitanti: San Casciano in Val di Pesa.

Acquattata dentro le rovine di un ristorante, che ancora oggi esiste, c’era una compagnia di neozelandesi, che aspettava buio per scendere a dare un assalto verso il Ponte dei Falciani. Il relativo respiro che avevamo avuto durante la traversata del Chianti era finito. Eravamo daccapo in ballo. E bisognava ballarlo, sperando nel buon Dio perché ci facesse arrivare alla fine della danza senza buchi nella pelle.

L’articolo, scritto nel 2005 dal prof. Giorgio Speni per la rivista “inChianti” n. 2 di quell’anno, è stato gentilmente concesso da Gabriella Congedo.




La liberazione di Grosseto

E’ una Resistenza breve, quella di Grosseto, primo capoluogo di provincia liberato, dopo Roma, il 15 giugno 1944. Tanto breve il tempo della lotta armata, quanto lungo il cammino dell’antifascismo, erede di una tradizione democratica pre-fascista. I fasciscoli dei sovversivi grossetani negli anni del regime documentano i percorsi dell’emigrazione politica, il confino, le presenze nella rete europea dell’antifascismo, tra Brigate internazionali in Spagna e Resistenze.

Il 9 settembre, a Grosseto, la prima riunione, interrotta da un bombardamento alleato, aveva creato le condizioni per la costituzione del Comitato di Liberazione. Ce ne consegna una vivace narrazione Aristeo Banchi, “Ganna”, uno dei protagonisti (1993). La direzione provinciale del Comitato fu di lì a poco trasferita a Casteldelpiano; infatti “la città, stremata dalle  incursioni dell’aviazione americana, era quasi spopolata, la gente sfollata, scarsi gli interlocutori”.  Questo descrive una Resistenza che ha i luoghi caldi nelle zone interne, dove le formazioni partigiane avevano le basi nelle macchie in collina e nei boschi del Monte Amiata. A determinarne i caratteri in questa subarea toscana furono, è ovvio, molti fattori, non ultimi la morfologia della zona e le grandi opzioni strategiche degli eserciti, che “fecero sentire le loro conseguenze sul territorio molto prima che esso diventasse teatro di combattimenti terrestri” (Perona, 2009).

A Grosseto operava la formazione di orientamento comunista intitolata a Vittorio Alunno, caduto nella guerra civile spagnola, a Campillo, il 17 febbraio 1938, nome-simbolo della lunga durata dell’antifascismo locale. Le sue azioni furono circoscritte al “servizio informazioni, sottrazione di armi” per le formazioni collegate al Comando Militare di Grosseto. Unica azione segnalata dalla relazione della banda, il sabotaggio di un ponte sull’Ombrone, nel maggio 1944, fino a quando, gli ultimi giorni, fu necessario proteggere dall’esercito tedesco l’acquedotto e la centrale elettrica, prima di quella che è definita “l’unica, ma epica lotta finale” del 15 giugno.

Grosseto stava sulla linea della “ritirata aggressiva” dell’esercito tedesco. Rapida tra Roma e Grosseto – la V^ armata avanzò di 140 chilometri tra 4 e 16 giugno, più lenta dopo, se “il ritmo dell’avanzata alleata venne rallentato a 30 chilometri nella settimana tra il 16 e il 23 giugno e successivamente a 30 chilometri in tre settimane” (Von Senger, Etterling, 1968). Dalla storia in buona parte già scritta della guerra ai civili ingaggiata dall’alleato occupante, ricaviamo elementi utili a rappresentare la sofferenza di un territorio che ne sperimentò la ferocia.

civili con americani

Popolazione civile e soldati alleati (AUSSME)

Ancora la relazione della Alunno fornisce notizie essenziali sugli ultimi due giorni. La notte tra 14 e 15 Ganna, assunto il comando, “consegna le armi ai patrioti e prende possesso del Comune e degli altri edifici più importanti”. La mattina del 15, SS tedesche provenienti dall’Aurelia Sud si scontrano con i partigiani e lasciano a Grosseto “sei partigiani morti, dodici morti tedeschi e trenta prigionieri” e una  bandiera bianca, orgogliosamente issata  dai grossetani per segnalare agli alleati l’avvenuta liberazione.

Le carte del CLN provinciale documentano l’immediata nascita di istituzioni democratiche con diverse componenti politiche, che non danno conto della preponderanza comunista relativa non a tutto il territorio, ma certo alla composizione del Comando militare. Fonte eccellente per contestualizzare questi accadimenti sono quattro lettere al Duce di Alessandro Pavolini, che si aggiungono alla fonte di parte tedesca, le Militar Kommandantüren, per uno sguardo incrociato sul clima di quei giorni. Nicla Capitini Maccabruni (1985) ne estrae tracce utili a inquadrare la condizione di Grosseto. Il 18 giugno Pavolini così la rappresentava “…estenuata dal mitragliamento, pervasa dal ribellismo bene armato dal nemico e favorito dal terreno con forze fasciste e repubblicane esigue, le uccisioni dei fascisti e dei militi avevano già progressivamente ridotta la zona di nostro effettivo dominio, imponendo il ripiegamento e la concentrazione delle forze. A un dato momento, sotto la spinta di ribelli in parte a carattere militare […] in parte a carattere insurrezionale e comunista, la provincia, capoluogo compreso, è caduta in mano agli avversari, e l’esodo dei fascisti e delle ultime autorità è avvenuto  [il 12 giugno]  fra aggressioni e inseguimenti”. La situazione di Grosseto nel linguaggio dello scrivente è “pessima”, con effetti di “contagio morale” verso le altre province, “lo squagliamento” dei carabinieri, di reparti dell’esercito e persino di parte della GNR, e “un acuirsi della sfiducia germanica”. Nel messaggio al Duce: il tentativo di mascherare con la speranza di una ripresa lo sfascio e la difficile relazione con i tedeschi via via che la linea del fronte arretrava. Uno dei tanti, inutili appelli al centro a soccorrere la periferia, nella cronaca dei mesi della RSI.

Singolarità grossetana fu il pieno riconoscimento del ruolo del CLN da parte dell’AMG, il rispetto di nomine e poteri delle amministrazioni. Immediata la creazione di un organo di stampa del Comitato “Etruria libera”, che riprese in parte il titolo del repubblicano “Etruria nuova”; rapido l’avvio della ricostruzione, sia istituzionale che fisica (altissimo era il numero dei senza-casa), con un impegno forte sul versante delle inchieste sui crimini fascisti e delle pratiche per l’epurazione. Accanto alle rappresentazioni del clima positivo, autentico per molti aspetti, non si possono ignorare le faticose relazioni con il governo e, in capo a pochi anni, l’attacco al Sindaco Lio Lenzi, lo scioglimento, seppure subito rientrato, del consiglio comunale, con decreto prefettizio del 20 aprile 1949 per il rinvenimento nel Palazzo comunale di armi. La legalità costituzionale e democratica, anche se faticosamente, si affermò, ma le macerie della guerra totale e le ferite della guerra civile non passarono in fretta.




12 giugno 1944: la strage di San Leopoldo

La strage di San Leopoldo, località prossima a Marina di Grosseto, è parte dei tragici eventi che accompagnarono la ritirata delle truppe germaniche lungo il litorale tirrenico, dopo la liberazione di Roma. Furono rastrellamenti, rappresaglie e azioni determinate a liberare le vie di comunicazione utili per la ritirata e colpire le formazioni partigiane. L’opera di repressione nella zona costiera fu di competenza del LXXV Corpo d’Armata tedesco. I fatti di Marina di Grosseto furono preceduti dalla strage di Roccalbegna, l’11 giugno, da rastrellamenti nella zona di Castiglione della Pescaia e nella frazione di Buriano, dove i tedeschi intendevano far terra bruciata intorno alla banda “Gruppo Tirli” del “Raggruppamento Monte Amiata”.

Casa sfollati

Casa delle famiglie sfollate a San Leopoldo

La mattina del 12 giugno 1944 un graduato e due militari tedeschi, incaricati di minare e far saltare il ponte sulla Fiumara di San Leopoldo, si recarono presso il casello del genio civile, dove viveva la famiglia del responsabile Fortunato Falzini. Sul posto si trovava anche una famiglia di sfollati, quella dei Lari, mentre a poca distanza vi era il podere dei Botarelli. I tedeschi gli ordinarono l’allontanamento dalla zona, malgrado   un regolare permesso di residenza per il controllo del livello delle acque che gli era stato concesso da un ufficiale tedesco. Difficile capire come la situazione degenerò. Secondo la ricostruzione del prefetto di Grosseto Amato Mati del 14 giugno 1945, i tedeschi aprirono il fuoco e uccisero Falzini e Giuseppe e Livio  Botarelli, padre e figlio. Al rumore degli spari, altri  tentarono la fuga lungo l’argine ma furono ugualmente colpiti: Olga e Giancarlo Lari, madre e figlio, uccisi sul posto, Roma Madioni, deceduta qualche giorno dopo per le ferite. Sopravvisse un altro ferito, Armando Lari, che aveva cercato scampo all’interno di una botola. Nel complesso furono sei le vittime civili. Ma non è questa l’unica versione che ci consegnano le carte. La relazione stilata dal sindaco di Grosseto Lio Lenzi il 22 luglio 1944 descrive un rastrellamento di reparti di SS, arrivate lì per minare il ponte sulla chiusa e poi la visita nella casa di Botarelli, dove l’avrebbero ucciso dopo aver mangiato e bevuto.

Cisterna dove sarebbero state uccise 5 persone da una bomba a mano lanciata dai tedeschi

Le altre cinque vittime sarebbero state uccise da una bomba a mano, gettata nella cisterna sotterranea dove avrebbero cercato rifugio, terrorizzate dalla morte di Botarelli. I morti furono seppelliti nell’argine del fossato di San Giovanni, mentre i feriti furono curati sul posto da un milite della CRI, a Grosseto prima di esser trasferiti. Al di là dell’esatta ricostruzione dei fatti, la presenza di civili sul posto fu probabilmente interpretata dai militari come trasgressione all’ordine di sfollamento della zona per ragioni strategiche. Dall’ottobre 1943, su dirette disposizioni di Hitler, era stata infatti disposta l’evacuazione della popolazione costiera per una profondità di 5 Km nel tratto Livorno-Napoli, per motivi strategico-militari. I civili dovevano lasciare il posto alle forze tedesche, perché fosse approntata la linea di difesa costiera utile a fronteggiare l’eventuale sbarco degli Alleati.

Nel caso di San Leopoldo, nell’unica ricostruzione storica finora pubblicata (Fulvetti, 2009), l’elemento scatenante la violenza potrebbe essere stato l’eccessivo numero di persone riparate presso il casello. Rimase e rimane tuttora ignota l’identità dei militari tedeschi autori della strage. Tra i familiari delle vittime, subito dopo la Liberazione, cominciarono a circolare accuse di complicità nei confronti di alcuni fascisti locali: otto persone, sospettate di aver sollecitato l’eccidio, ma prosciolte in istruttoria per l’impossibilità di avvalorare tali sospetti con elementi concreti.

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Particolare della lapide in memoria delle vittime, collocata nei pressi del pattinodromo di Marina di Grosseto

Se solo da alcuni anni questo frammento di storia è riemerso ed entrato nella memoria collettiva ufficiale, mentre era solo patrimonio di ricordi di singoli, testimoni diretti o indiretti, è certo a causa dell’assenza del percorso della giustizia, esito processuale dell’istruttoria. Quanto alla storiografia, poco o nulla era stato scritto nell’ambito degli importanti studi sulle stragi nazifasciste in Toscana, che ci sono stati consegnati dal gruppo di specialisti dell’Università di Pisa e da quanti furono coinvolti dalla Regione Toscana nell’attuazione di una legge (“Per salvare la memoria delle stragi nazifasciste in Toscana”). Uno straordinario vuoto di fonti scritte ha ostacolato le insistenti ricerche, promosse dall’Istituto storico grossetano e sollecitate anche dal Comune di Grosseto. A lungo nulla è emerso dalle carte del Comitato di Liberazione nazionale, nulla dalla corposa documentazione presente nell’Archivio di Stato su fascismo, guerra e Resistenza. Solo fascicoli personali dei sospettati, frutto della prima istruttoria del CLN grossetano, hanno fatto una prima luce sull’accaduto, lasciando però insoddisfatto il desiderio di giungere a una cronaca certa e a una definitiva interpretazione delle responsabilità, dirette e indirette.

La lapide sul luogo della strage

La lapide in memoria delle vittime sul luogo della strage

Rimane indiscutibile il quadro interpretativo generale: la strategia deliberatamente attuata in applicazione delle direttive dei Comandi tedeschi ha lasciato una scia di sangue anche a San Leopoldo, alla vigilia della Liberazione della città di Grosseto, avvenuta tre giorni dopo, quando ormai le autorità civili e militari fasciste l’avevano abbandonata.

Il progetto nazionale di Atlante delle stragi nazifasciste, ormai in fase conclusiva, rivela qui un sovrappiù di utilità. Si aggiungerà alla restituzione di memoria che si è tradotta da qualche anno in un cippo e nel 71° anniversario della strage, in un pannello che trasformerà finalmente la Chiusa di San Leopoldo in un luogo da inserire tra gli itinerari della memoria.




La settimana rossa in Toscana (7-13 giugno 1914)

La Settimana rossa fu un moto a carattere popolare, antimilitarista e insurrezionale che attraversò l’Italia dal 7 al 13 giugno 1914, alla vigilia del primo conflitto mondiale, il Paese, allora, sembrò sull’orlo di una rivoluzione sociale.

Durante tutta l’età giolittiana l’agitazione antimilitarista fu al centro delle principali attività dei partiti e dei movimenti della estrema sinistra. L’antimilitarismo unì in un unico fronte quelle forze sovversive, dai repubblicani agli anarchici, dai socialisti ai sindacalisti rivoluzionari, che all’epoca erano profondamente divise per contrasti ideologici e programmi politici. La critica al militarismo, insieme all’anticlericalismo e alla profonda avversione alla monarchia dei Savoia, fu alla base di una stagione unitaria ed eccezionale di lotte radicali nella storia della sinistra italiana.

La monarchia dei Savoia aveva costruito la propria egemonia durante il processo di unificazione dell’Italia proprio utilizzando le forze armate. L’esercito si era distinto nella battaglia al banditismo nel Mezzogiorno d’Italia, nella repressione dei moti popolari in Sicilia e in Lunigiana nel 1893-1894 e in quelli per il “caro-pane” del 1898. Nei primi anni del Novecento l’esercito si era ancora reso protagonista, inoltre, per alcune efferate stragi di contadini e operai durante scioperi e proteste. Per tutte le forze della sinistra i militari rappresentavano uno dei maggiori ostacoli alla rivoluzione sociale e all’avvento di una nuova società. Ancora di più, le gerarchie militari si erano fatte conoscere all’epoca per i disastri delle imprese coloniali e per una serie di scandali finanziari e di corruzione che avevano fortemente minato la loro credibilità.

Augusto Masetti

La recente Guerra italo-turca del 1911-1912 aveva gettato benzina sul fuoco, non solo per la sua conduzione e l’altro numero di vittime – che aveva causato tra la popolazione e tra gli stessi soldati italiani – ma anche per la netta opposizione di una parte consistente delle forze popolari che vedevano in questa guerra l’ennesima riprova dell’aggressività e voracità del capitalismo italiano. In tutta Italia, da parte dei leader della sinistra rivoluzionaria e anarchica, si erano lanciate parole d’ordine di fuoco contro la guerra e si incitavano i militari alla diserzione e al boicottaggio. Il soldato Augusto Masetti, di idee anarchiche, durante una rassegna militare sparò, in segno di ribellione contro l’impresa libica, ad un alto ufficiale ferendolo gravemente. Masetti fu subito preso dal fronte antimilitarista a simbolo ed eroe. Intorno al suo nome gli anarchici, le componenti repubblicane, socialiste e sindacaliste rivoluzionarie che avevano preso le distanze dagli esponenti politici che approvarono l’invasione della Libia – come il deputato socialista Leonida Bissolati –, avevano avviato una campagna di generale mobilitazione che, con l’andar del tempo, si era alimentata di altri casi di vittime delle ingiustizie militari come quello dell’anarchico Antonio Moroni.

La domenica del 7 giugno 1914 – festa dello Statuto, giorno caro all’Italia monarchica e liberale – in tutta Italia furono convocate congiuntamente dalle forze dell’estrema sinistra centinaia di manifestazioni antimilitariste. Le parole d’ordine erano semplici ed efficaci: libertà per Masetti e Moroni, solidarietà alle vittime delle ingiustizie militari e la soppressione delle famigerate compagnie di disciplina. Il ministro Salandra, all’epoca capo gabinetto, vietò tutte le manifestazioni molte delle quali furono comunque svolte. Ad Ancona, al termine di un infuocato comizio in forma privata presso la sede del PRI, chiamata comunemente “Villa rossa”, tra gli intervenuti Pietro Nenni – allora direttore del settimanale repubblicano «Il Lucifero» – e il leader anarchico Errico Malatesta rientrato in Italia da meno di un anno dopo un lungo esilio a Londra, i dimostranti tentarono di forzare i cordoni della polizia e di penetrare nell’attigua Piazza Roma, dove la banda militare stava intonando la “Marcia reale”. Seguirono dei violenti scontri tra le forze dell’ordine e i dimostranti nel corso dei quali alcuni carabinieri, presi dal panico, aprirono il fuoco indiscriminatamente sui manifestanti uccidendone tre, un anarchico e due repubblicani e ferendone molti altri.

La notizia dell’eccidio si propagò rapidamente in tutta Italia. Il giorno seguente in molte località fu proclamato lo sciopero generale e iniziarono i moti della cosiddetta Settimana rossa, che ben presto si allargano a tutta la Romagna e alle Marche. L’agitazione, in molte località, prenderà un aspetto d’insurrezione spontanea e popolare, coinvolgendo centri urbani importanti come Genova, Milano, Parma, Firenze, Napoli, Bari e Roma. In queste giornate vi furono assalti agli edifici pubblici, saccheggi, sabotaggi delle linee ferroviarie e ripetuti scontri con le forze dell’ordine. Complessivamente vi furono 13 morti, uno tra le forze dell’ordine, molte centinaia di feriti e diverse migliaia d’arresti tra i dimostranti.

In Toscana lo sciopero si affermò a Firenze, Pisa, Livorno, Massa, Carrara, Viareggio, Pietrasanta e Pescia mentre altre province come Grosseto, Arezzo o città come Lucca furono toccate solo marginalmente dall’agitazione. Gli incidenti più gravi accaddero a Firenze dopo il comizio in Piazza Indipendenza quando un consistente gruppo di scioperanti si diresse verso il centro città. Nei pressi della Manifattura tabacchi i dimostranti venuti a contatto con alcuni agenti di Pubblica sicurezza tentarono di disarmarli e nel parapiglia venne ucciso dalle guardie un operaio mentre molti altri rimasero feriti. La città nelle ore successive vide moltiplicarsi gli incidenti causati dai continui scontri tra operai e forze dell’ordine che con la forza solo a tarda notte riportare la calma in città.

Sotto la pressione della direzione del PSI, la Confederazione generale del lavoro (CGdL), il maggior sindacato italiano, proclamò uno sciopero generale di protesta per il 9 giugno, ottenendo però che modi e tempi dell’astensione dal lavoro rispondessero alle direttive approvate dal Consiglio nazionale nell’aprile 1913, le quali circoscrivevano ad un limite massimo di 48 ore la durata di un eventuale sciopero generale. Questo modo di condurre l’agitazione attirò sulla dirigenza riformista della Confederazione l’accusa di diserzione della causa proletaria da parte di molti esponenti della sinistra socialista, primo fra tutti Benito Mussolini, in quel frangente direttore dell’«Avanti!».

Fu soprattutto in Romagna, e in particolare nel Ravennate, dove più forte era il radicamento delle organizzazioni politiche e sindacali popolari e dove maggiore era il grado di politicizzazione delle masse e maggiore, di conseguenza, l’attesa della “palingenesi sociale”, che lo sciopero prese i contorni di una vera e propria rivolta, al punto che il presidente del Consiglio Antonio Salandra, intervenendo il 12 giugno alla Camera, avrebbe addirittura sostenuto l’esistenza di un “concerto criminoso” all’origine delle sollevazioni popolari romagnole e marchigiane, un autentico piano rivoluzionario volto al sovvertimento delle istituzioni monarchiche e statali.

Le organizzazioni della sinistra dal PSI alla CGdL, dagli anarchici all’USI non riuscirono però a dare un orientamento e uno sbocco politico alla protesta. La direzione del PSI, pur avendo lavorato per portare la CGdL alla decisione dello sciopero generale, che in molte località era già stato indetto dalle Camere del lavoro – soprattutto quelle a guida sindacalista rivoluzionaria –, non volle assumersi la responsabilità politica di guidare il moto di protesta. Il 10 giugno la CGdL tramite il suo segretario Rinaldo Rigola, diramò l’ordine di cessazione dell’agitazione mentre lo stesso giorno il Sindacato dei ferrovieri proclamava l’astensione generalizzata dal lavoro. Le manifestazioni terminarono tra il 12 e 14 giugno e il governo Salandra potette tirare un sospiro di sollievo. Le elezioni amministrative indette per la fine di giugno si tennero regolarmente e il PSI ottenne un importante successo conquistando la maggioranza in più di 300 comuni, tra i quali Milano e Bologna, e in quattro amministrazioni provinciali.

La Settimana rossa lasciò uno strascico di polemiche tra l’ala riformista e quella rivoluzionaria del PSI, mentre gli anarchici attaccarono entrambe le componenti ed in particolare la CGdL, accusandola di aver tradito il movimento. Errico Malatesta dovette rifugiarsi a Londra per sfuggire alla polizia e Luigi Fabbri, altro esponente di spicco del movimento anarchico, trovò asilo a Lugano.

La Settimana rossa, sicuramente, ebbe un ruolo nel determinare l’atteggiamento della Corona nella decisione di rinunciare ad entrare subito in guerra nell’agosto del 1914. L’opinione pubblica, le classi dirigenti e le forze popolari non erano ancora pronte ad affrontare la scelta drammatica della partecipazione italiana al primo conflitto mondiale. Era assai diffuso il timore che la scelta di entrare in guerra potesse, in quel momento, scatenare forti reazioni delle masse popolari mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza della corona e l’integrità dello Stato. Ci vollero più di dieci mesi, di acceso confronto e scontro tra interventisti e neutralisti, per portare l’Italia nel coacervo della Prima Guerra Mondiale.

 




All’alba della Costituzione italiana

Il 2 giugno 1946, all’indomani del ventennio fascista ed a poco più di un anno dalla Liberazione e dalla conclusione del conflitto sul nostro suolo, il popolo italiano fu chiamato a scegliere tramite referendum tra la monarchia e la repubblica e contemporaneamente ad eleggere i deputati all’Assemblea Costituente.

Le cronache dell’epoca raccontano che gli italiani sfidando la calura di una domenica di fine primavera – inizio estate, in modo composto, disciplinato e tradendo emozione attendono pazientemente all’esterno dei seggi il loro turno.

L’affluenza alle urne sarà vicina al 90% e ciò testimonia la grande voglia di partecipazione e di esprimere il proprio voto in modo libero.

Il referendum fu favorevole all’istituto repubblicano che conseguì il 54% dei consensi contro il 46% raggiunto dalla monarchia. A sua volta le consultazioni per l’Assemblea Costituente si caratterizzarono per il successo dei cosiddetti “partiti di massa” (DC, PCI, PSIUP) che ottennero ben 426 seggi su 556 a disposizione, cioè i ¾ del totale.

Tra coloro che furono eletti in Assemblea ci furono anche Calogero Di Gloria, Palmiro Foresi, Abdon Maltagliati e Attilio Piccioni, tutti candidati nella circoscrizione elettorale Firenze – Pistoia la quale annoverò anche Sandro Pertini e Teresa Mattei.

Ma chi erano i costituenti eletti. Di che cosa si occuparono in Assemblea?

Di GloriaCalogero Di Gloria nasce a La Spezia nel 1917, uomo di raffinata cultura, professore di storia e materie letterarie nei principali istituti cittadini, autore di poesie e padre fondatore della “Brigata del Leoncino”, associazione culturale cittadina organizzatrice di eventi, manifestazioni, momenti di approfondimento su tutte le forme dell’arte e delle scienze. Con le elezioni del 2 giugno 1946 sarà eletto nelle liste del PSIUP nella circoscrizione elettorale Firenze – Pistoia

In sede assembleare intervenne in materia di rapporti civili, sull’ordinamento di Regioni, Province e Comuni ed infine sull’architettura istituzionale del futuro Stato repubblicano.

Rispetto all’ordinamento degli enti locali insisteva sulla necessità di rafforzare le province attraverso l’assegnazione di maggiori risorse economico – finanziarie ed espandendo i loro poteri di intervento, solo in questo modo avrebbero potuto rispondere efficacemente ai bisogni dei rispettivi territori.  In relazione all’architettura istituzionale evidenziava l’opportunità della creazione di un sistema bicamerale e la necessità di dare luogo ad un Senato elettivo, inoltre si dichiarava a favore dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica mentre l’esecutivo avrebbe dovuto distinguersi per efficacia, efficienza e la capacità di rispondere agli interessi del Paese. Il 10 agosto 1997 terminerà di vivere.

Pistoia 3Palmiro Foresi nasce a Livorno nel 1900 da padre di simpatie repubblicane mentre la madre morirà prima che lo stesso raggiungesse i due anni di vita. Si dedica agli studi liceali e universitari, conseguendo la laurea in fisica e giurisprudenza, insegnando matematica presso l’istituto privato “Giuseppe Guerrieri” con sede nella città labronica, assumendo successivamente l’incarico di assistente di diritto ecclesiastico presso l’università di Pisa.

In politica è ricordato tra l’altro per essere stato uno dei fondatori del PPI Livorno, mentre nell’ottobre 1944 è eletto segretario provinciale della DC pistoiese.  L’incarico di maggior prestigio sarà l’elezione alla Costituente con le consultazioni del 2 giugno 1946 con quasi 7000 preferenze. Nella medesima fece parte della Commissione per l’esame dei disegni di legge che vide la partecipazione di autorevoli personalità quali Piero Calamandrei e Nilde Jotti. Tra i suoi interventi e contributi si ricorda in particolare quello relativo alla stesura dell’articolo 45 che recita così: «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità. La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato».  Con esso si intendeva disciplinare l’impresa cooperativa e l’impresa artigiana cercando di tutelare la cooperazione con finalità di mutualità.

Foresi sarà poi rieletto anche nelle prime due legislature del Parlamento repubblicano e svolgerà anche un ruolo importante relativamente a vicende locali quali quella che vide contrapposte la Lazzi e la SACA, aziende di trasporto pubblico della provincia di Pistoia, inoltre sarà determinante per la risoluzione del contrasto tra imprenditori agricoli e lavoratori delle aziende ortovivaistiche e che si concluse con la firma del “Lodo Foresi” nel dicembre 1954. In seguito sarà Presidente dell’Ente Nazionale Previdenza ed Assistenza Statali, consigliere al comune di Roma e capogruppo della DC. Si spegnerà nel dicembre 1980.

Abdon Maltagliati nasce a Vellano (Pescia) il 7 novembre 1894 da famiglia di contadini poveri, condannato a 22 anni di carcere per i fatti di Empoli (ingiustamente accusato) e dal quale vi uscì nel 1932. Si rifugia inizialmente in Francia e successivamente in Unione Sovietica dove svolse il ruolo di direttore della Radio Italiana di Mosca, per poi rientrare nel novembre 1945 a Pistoia, dopo aver effettuato un esperienza anche nell’esercito sovietico. Segretario della Camera del Lavoro di Pescia, il 2 giugno 1946 sarà eletto nelle liste del PCI deputato alla Costituente dove si occupò principalmente dei temi del lavoro e dei lavoratori e pur non contribuendo a scrivere materialmente gli articoli riconducibili al principio lavorista cioè a quel principio che considera il lavoro come strumento di realizzazione della personalità di ciascun individuo. Il suo impegno e la sua attività saranno alquanto importanti nell’affermazione di quei principi precedentemente elencati. Cesserà di vivere il 10 novembre 1957.

Pistoia 4Attilio Piccioni nasce a Poggio Bustone in provincia di Rieti il 14 giugno 1892. Di professione avvocato sarà eletto per la lista della D.C. alle elezioni del 2 giugno 1946. Farà parte della Commissione dei 75 cioè quella che contribuirà alla stesura materiale del dettato costituzionale. Egli interverrà sul tema delle autonomie locali e in particolare sull’istituzione dell’ente Regione per il quale dichiara di essere a favore della sua creazione giudicata dallo stesso come baluardo per le libertà dei cittadini e per le libertà democratiche del Paese, affidando loro anche una potestà legislativa rispettosa comunque dell’ordinamento statale. Oltre al tema illustrato interverrà anche sulla formazione e la composizione della seconda Camera cioè del Senato, auspicando che questi sia su base regionale.

Sarà poi ricordato per aver svolto il ruolo di Ministro degli Esteri dal quale si dimetterà nel settembre 1954 a seguito del coinvolgimento del figlio Piero nello scandalo “Montesi”.  In seguito sarà rieletto al Parlamento ininterrottamente fino alla legislatura che si conclude anticipatamente nel 1976, anno in cui viene a mancare.

Filippo Mazzoni nasce a Pistoia nel 1972. E’ laureato in Storia e Scienze Politiche. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia di cui fa parte anche del Consiglio Direttivo. É autore della pubblicazione “La federazione comunista pistoiese dalla Liberazione al <<terribile>> 1956 (2003), ha collaborato assieme ad altri ricercatori alla stesura del volume “Pistoia fra guerra e pace” (2005) ed ha curato con P. L. Guastini e G. F. Marcucci “All’alba della costituzione italiana. I quattro costituenti pistoiesi (2008). É inoltre autore della pubblicazione “Una storia da non dimenticare. Ricostruzione storica dell’eccidio del 31 marzo 1944 alla Fortezza S. Barbara (2008 e ristampa 2015). Infine per conto della casa editrice Ibiskos ha pubblicato “Il terribile quindicennio (1969 – 1984). La storia delle stragi raccontate ai ragazzi” (2014). Con Stefano Bartolini ha curato il recupero dell’Archivio “Andrea Devoto” conservato presso il Polo delle Scienze Sociali dell’Università di Firenze, inoltra collabora con la rivista “QF – Quaderni di Farestoria” edita dall’Istituto.




Firenze davanti alla guerra

Dal 2 agosto 1914 al 24 maggio 1915 le manifestazioni a favore e contro la guerra si distinsero a Firenze per tre elementi: un progressivo intensificarsi della violenza, un continuo ripetersi e una larga diffusione nel tessuto cittadino.

Il fronte interventista era ben radicato tra la borghesia, una parte dell’aristocrazia e una folta schiera di intellettuali e personalità pubbliche. A dicembre il gruppo nazionalista rinunciò addirittura alla campagna elettorale delle elezioni comunali per dedicarsi esclusivamente alla propaganda interventista «per agitare e tener desto con comizi, conferenze, dimostrazioni lo spirito pubblico contro i neutralisti di ogni colore. […]”». Sul fronte opposto il neutralismo si radicò profondamente nelle zone popolari ad alta concentrazione operaia, come San Frediano, Porta alla Croce, S. Lorenzo, S. Spirito.

I loggiati di piazza Vittorio Emanuele (oggi piazza della Repubblica) divennero, secondo “Il Nuovo Giornale”, «la palestra più comoda per le diatribe fra neutralisti e interventisti».

1. Equilibrio_europeo_1914Nonostante l’imposizione salandrina di tenere comizi “privati” con invito in modo da evitare manifestazioni in luoghi pubblici e, dunque, disordini, questi scoppiavano lo stesso all’uscita di  tali ritrovi. Così accadde dopo una conferenza del professor Della Torre sul poeta e pubblicista dalmata Arturo Colautti. I partecipanti, in maggioranza studenti, si recarono in piazza Duomo cantando l’inno di Mameli e inneggiando alla guerra. L’urto con i socialisti «si tradusse in una vera e propria battaglia a colpi di bastone, pugni e calci». Dopo ripetute cariche, disposti i cordoni di truppa, e eseguiti alcuni arresti la situazione tornò lentamente alla normalità [ACS, MI, DGPS, DAGR, A5G, b. 94, f. 212 (Firenze), sf. 1, rapporto del Prefetto Cioja, 1-12-1914].

Talora furono i giornali oggetto di violenze popolari. All’uscita della conferenza dell’ex podestà di Fiume Icilio Baccich nel salone dell’Unione liberale a cui avevano partecipato circa 400 uditori, tra cui molte personalità pubbliche cittadine, alcuni di questi si recarono sotto «La Nazione», la cui redazione fu circondata e presa d’assalto, quasi in un improvviso chiarivari.  L’urto con la polizia e «plotoni di guardie e di carabinieri» si consumò in piazza Vittorio Emanuele, con numerose cariche delle forze dell’ordine e arresti di massa, tra cui quello di Francesco Giunta e Ezio Maria Gray, future personalità di spicco fasciste, e del giornalista del «Nuovo Giornale», Orazio Pedrazzi, che descrisse l’esperienza drammatica dell’arresto e della camera di sicurezza. Alla vista dei fermi, una signora plaudì all’azione della polizia provocando la reazione dell’avvocato Eugenio Coselschi – futuro creatore dei CAUR fascisti – che la accusò di essere tedesca, mentre la folla invase la birreria «Mucke» al suono dell’inno di Mameli causando altre colluttazioni e altri arresti fino a mezzanotte.

A partire dalla primavera gli scontri si fecero sempre più frequenti, spontanei e gravi (anche per la diffusa detenzione delle armi) e si allargarono ad altre parti della città. La commemorazione della partenza dei Mille fu un nuovo pretesto per altri disordini: il 6 maggio gli studenti dell’istituto tecnico Galileo Galilei imposero l’esposizione della bandiera e la sospensione delle lezioni prima nel loro istituto poi in altri.

3. cpc terzaghiIl 17 maggio «La Nazione» scriveva»: «[…] le dimostrazioni patriottiche non si contano più. Ad ogni momento echeggiano in piazza Vittorio Emanuele, che è affollatissima, applausi e grida entusiastiche. Vengono lanciati palloncini con appese bandierine tricolori». In quei giorni il ministro delle Colonie, Martini, annotava sul suo diario: «se non ci sarà la guerra esterna ci sarà la guerra civile» e la stampa si chiedeva: «si va dunque alla guerra contro lo straniero o alla guerra civile?».

Anche gli atti vandalici o offensivi nei confronti di cittadini tedeschi (o presunti tali) o contro tutto ciò che era riconducibile alla Germania e all’Austria vanno letti alla luce di un dissenso verso la guerra, anche trasversale ai due opposti schieramenti: fu danneggiata una farmacia di proprietà di tale Hans Klatzsch (o Klotzsch) [ACS, MI, DGPS, Ufficio riservato 1911-1915 C. 2, b. 83A, consultato in copia presso ISRT, Nota della prefettura di Firenze, 22-8-1914]; alla stazione alcune famiglie di tedeschi furono prese di mira da studenti che fecero una dimostrazione patriottica creando tafferugli bloccati dalle forze dell’ordine; il signor Carlo Strauss fu oggetto di un incidente e tacciato di essere una spia; il console tedesco Oswald fu inseguito da un gruppo di interventisti al grido «Va fuori d’Italia, va fuori straniero!»; alcuni studenti ruppero il vetro dell’ufficio Loyd germanico che esponeva nelle vetrine telegrammi provenienti da Berlino e fotografie di soldati tedeschi [ACS, MI, DGPS, DAGR, A5G, b. 96, f. 212 (Firenze), sf. 10, ins. 1, rapporto del prefetto Cioja, 21-3-1915].

Le autorità pubbliche controllarono in modo ferreo Firenze e la sua provincia, soprattutto i gruppi di socialisti (per esempio Michele Terzaghi o il giornale socialista «La Difesa») e gli anarchici (soprattutto a Empoli e Montelupo), ma la miccia era ormai innescata.

5. gambrinusIl musicista Castelnuovo-Tedesco, cui era stato dato l’incarico di scrivere il canto patriottico Fuori i barbari!, in un suo libro di memorie avrebbe ricordato la sera della vigilia così: «Quando lo suonai quella sera in casa Corcos, suscitò l’entusiasmo generale; Ugo e i Rotigliano mi trascinarono fuori, mi portarono in piazza Vittorio Emanuele; al Caffè Gambrinus, dove ogni sera si adunavano i dimostranti, cacciarono l’innocua orchestrina del caffè che stava suonando, e mi misero lì, sopra un palco, al pianoforte, ad insegnare il canto alla folla! Era il 23 maggio 1915, proprio alla vigilia della dichiarazione di guerra: il giorno dopo l’Italia entrava in guerra a fianco degli Alleati, e poche settimane dopo i soldati cantavano il mio inno marciando verso le trincee».

Camilla Poesio ha conseguito il dottorato di ricerca nel 2009 presso l’Università Ca’ Foscari Venezia. Ha ricevuto due premi per la tesi di dottorato e una segnalazione per il suo secondo libro. È attualmente ricercatrice post dottorato presso l’Università Ca’ Foscari Venezia in cooperazione con la Fritz Thyssen Stiftung fino al 2016. Ha svolto attività di ricerca presso enti di ricerca pubblici e privati sia in Italia sia all’estero (Università Ca’ Foscari, Universität Bielefeld, Frei Universität Berlin, Fondazione Salvatorelli, Deutsches Historisches Institut in Rom). I suoi ambiti di ricerca sono la storia dell’Italia e della Germania del XX secolo in prospettiva comparata e transnazionale, i rapporti fra fascismo italiano e nazismo, i diritti umani, l’uso della violenza, la memoria pubblica e privata. Ha scritto il capitolo su Firenze e Provincia nel volume curato da Fulvio Cammarano, Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, Le Monnier, Firenze, 2015.