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Da vicino nessuno è normale. Appunti su una storia dei Manicomi Criminali in Italia

Tra gli Ospedali Pischiatrici Giudiziari (OPG) che dal 1 aprile di questo anno sono in fase di graduale dismissione e saranno sostituiti dalle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza Detentive (REMS) vi è quello di Montelupo Fiorentino in provincia di Firenze. L’OPG si trova nella Villa Medicea dell’Ambrogiana, costruita alla fine del cinquecento come residenza di caccia dei Medici; nell’ottocento, una volta abbandonata dai Medici e dagli Asburgo-Lorena, l’imponente struttura divenne prima una struttura sanitaria per “dementi acuti”, poi uno stabilimento di correzione femminile, per poi passare nel 1886 a Manicomio Criminale. Quello di Montelupo fu la seconda struttura di questo tipo nata in Italia dopo l’unità. Molti furono i rei folli che scontarono la loro pena nella struttura, alcuni famosi come Giovanni Passannante, l’anarchico che tentò di attentare alla vita di Umberto I di Savoia nel 1878. In questo articolo Valerio Entani tratteggia le fasi salienti di una storia dei manicomi criminali italiani.

La stultifera navis.

Racconta Michel Foucault nel suo celebre Storia della follia nell’età classica che fino al Rinascimento il lebbroso aveva un ruolo fondamentale nella società, poiché incarnava il prototipo del malato; ma soprattutto era il simbolo di tutto il male nella società e fungeva da memento mori per chi era ancora sano. L’allontanamento e la segregazione dei malati in luoghi di cura lontani dalle città non solo era necessario per motivi sanitari, ma soprattutto aveva una valenza rituale nell’allontanare dalla società il male come paura atavica dell’uomo. Dal rinascimento in poi la lebbra inizia ad essere debellata come malattia endemica, le strutture sanitarie di cura rimangono inattive e nella società rimane vacante un ruolo fondamentale. Per Foucault è il folle che prende progressivamente questo ruolo nella società moderna.

Simbolo di questo processo è una immagine letteraria che ancora oggi viene citata: la stultifera navis. Nella tradizione letteraria, questa nave attraversava i fiumi della Renania e i canali fiamminghi carica di folli che venivano scacciati dalle città. Questo loro vagabondare era un vero e proprio processo di esclusione sociale e Foucault spiega che “il gesto che li scaccia, la loro partenza e il loro imbarco non possono venire spiegati solo con l’utilità sociale o con la sicurezza dei cittadini. Altri significati più vicini al rito erano certamente presenti (…)”. Nella lettura antropologica foucoltiana il folle è il simbolo delle paure più ataviche dell’uomo, dalla morte fino alla paura del diverso; la nave dei folli quindi “simbolizza tutta un’inquietudine, apparsa improvvisamente all’orizzonte della cultura europea verso la fine del medioevo. La follia e il folle diventano personaggi importanti nella loro ambiguità: minaccia e derisione, vertiginosa irragionevolezza del mondo e meschino ridicolo degli uomini”.

Foucault ci insegna che la categoria del folle ha racchiuso dentro di sé una molteplicità di declinazioni che andavano dal malato mentale tout court, al povero, al dissociato sociale fino al ribelle, ovvero tutte quelle categorie sociali che andavano contro il progetto di buon governo della società.

È per questo motivo e per la necessità di esclusione che nacquero i manicomi che ebbero, in alcuni casi, lo stesso ruolo anche i carceri.

Erving Goffman nel suo Asylums chiama questi luoghi istituzioni totali ovvero “luoghi di residenza e di lavoro di gruppi di persone che, tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo, si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato”. Le istituzioni si impadroniscono delle vite dei loro ospiti e ne amministrano il tempo in una sorta di “azione inglobante” che viene rappresentata dall’impedimento concreto dello scambio sociale e dell’uscita verso il mondo esterno. Chi vive dentro le istituzioni totali viene risucchiato in una specie di non-luogo al di fuori del mondo, dove lo spazio e il tempo seguono percorsi indipendenti e paralleli e dove soprattutto, viene negato il diritto di esistere come essere umano.

In questo contesto, il rapporto tra chi ospita e chi viene ospitato, ovvero tra carceriere e carcerato o tra psichiatra e malato, diventa un vero e proprio rapporto di potere tra governatore e governato, dove l’uso della forza e della violenza diventano prassi. La pratica e l’uso della violenza non solo, sono alla base dei rapporti di forza all’interno delle istituzioni totali ma, riescono a distruggere il degli internati i quali si ritrovano assoggettati totalmente al potere dell’istituzione stessa.

Franco Basaglia nella postfazione al libro di Goffman, scrive che nei manicomi “la violenza è drammaticamente palese, dato che la malattia è essa stessa giustificazione in atto di ogni sopraffazione ed arbitrio: se il malato è incurabile e incomprensibile, l’unica azione possibile è oggettivarlo nella realtà istituzionale, nella cui azione distruttiva egli dovrà identificarsi”.

La chiusura degli Ospedali Psichiatrici.

La lettura dei testi di Foucault e di Goffman influenza a partire dagli anni ’60 il movimento antistituzionale che si sviluppa in Italia a favore della chiusura dei manicomi. Franco Basaglia con il suo esperimento dell’ospedale psichiatrico di Gorizia e di Trieste diventa il capofila di questo movimento che vede l’appoggio di intellettuali e politici. Basaglia è il primo ad abbattere il muro che circonda il manicomio sia concretamente che idealmente. Seguendo il filone interpretativo di Foucault e di Goffman, lo psichiatra accentua l’aspetto più prettamente sociale e quindi più politico della malattia mentale. Gli ospedali psichiatrici per Basaglia sono “istituzioni della violenza” dove tra malato e psichiatra si instaura un “rapporto di sopraffazione e di violenza fra potere e non potere, che si tramuta nell’esclusione da parte del potere del non potere: la violenza e l’esclusione sono alla base di ogni rapporto che si instauri nella nostra società” (L’ istituzione negata, 1968). Il movimento antistituzionale in questo è molto simile ai movimenti di contestazione giovanili che si sviluppano attorno al 1968; il vero nemico da combattere è l’autorità ovvero, l’autorità del padre, del potere, della scuola e in questo caso dello psichiatra e dell’Ospedale Psichiatrico. L’autorità era per Basaglia la vera causa dell’annientamento umano del malato mentale: “una organizzazione basata sul solo principio di autorità, il cui scopo primo sia l’ordine e l’efficienza, deve scegliere tra la libertà del malato ed il buon andamento del ricovero. È stata sempre l’efficienza e il malato è stato sacrificato in suo nome” (L’istituzione negata, 1968). Basaglia definisce rivoluzionario l’uso dei nuovi farmaci psichiatrici che hanno “concretamente reso evidente allo psichiatra di non trovarsi di fronte ad una malattia, ma ad un uomo malato, egli non può continuare a considerarlo come un elemento da cui la società deve essere protetta” (L’istituzione negata, 1968), e che hanno mostrato alla psichiatria questa contraddizione. Lo psichiatra veneto è ancora più chiaro nell’affermare che “questa società tenderà sempre a difendersi da ciò che le fa paura e ad imporre il suo sistema di restrizioni e di limiti alle organizzazioni delegate a curare i malati mentali: ma lo psichiatra non può continuare ad assistere alla distruzione del malato a lui affidato, reso oggetto, ridotto a cosa […]” (L’istituzione negata, 1968).

Questa visione politicizzata, dalla spiccata interpretazione sociologica, riesce a permeare tra gli anni ’60 e gli anni ’70 grossi strati dell’opinione pubblica e della classe dirigente. Ed è in questo clima di rivolta contro il sistema e l’autorità che l’ospedale psichiatrico diventa un simbolo dello sfruttamento e per questo deve essere abbattuto ed annientato.

Nel 1978, per la prima volta nel mondo, uno Stato decide per legge la chiusura degli Ospedali Psichiatrici; è l’Italia con la legge 180 del 1978 che porta il nome di Orsini, suo primo firmatario ma che è conosciuta con il nome del suo ispiratore morale ovvero Legge Basaglia.

Il cono d’ombra tra follia e criminalità.

La Legge 180 chiude quindi gli Ospedali Psichiatrici in Italia ma lascia aperte diverse problematiche sia culturali (il rapporto tra società e malattia mentale) che strutturali ed organizzative (le leggi attuative regionali tardano ad arrivare). La180 però presenta anche un vero e proprio cono d’ombra poiché non tocca il problema dei malati mentali che hanno commesso un reato, i rei folli.

Si tratta di una questione complessa perché mette insieme il concetto di follia con quello di reato e deve fare i conti sia con le pratiche di cura che con la giustizia. Nel corso del tempo, il problema è stato risolto con il dare più importanza alla pena o alla pericolosità del reo invece che alla cura del malato mentale; ne è la prova il fatto che la gestione dei rei folli è sempre stata di competenza delle varie Amministrazioni Penitenziarie e non degli enti preposti alla cura dei malati.

La storia dei rei folli è quindi una storia di esclusione totale, esclusione dalla società, esclusione dal sistema penitenziario consono ed esclusione dal sistema sanitario. Questo, nel corso del tempo, ha portato a conseguenze drammatiche che hanno costruito un sistema di cura e di detenzione spesso inadeguato con strutture fatiscenti e atteggiamenti disumani: un vero e proprio cono d’ombra organizzativo, legislativo ed umano dove i rei folli una volta entrati affogavano nell’oscurità.

Ma il problema dei rei folli ha radici ben più lontane. Nella seconda metà dell’Ottocento in Italia si sviluppa un vivace dibattito sul diritto penale. Si formano due scuole di pensiero: la prima, quella classica con Francesco Carrara e, la seconda, quella positiva con Cesare Lombroso. La prima adottava il concetto del libero arbitrio e quindi ogni uomo colpevole di un reato era responsabile in prima persona delle proprie azioni; il grado di colpevolezza e la misura della pena erano così proporzionalmente determinati dalla gravità del reato compiuto. La seconda scuola di pensiero invece, seguendo le teorie di Lombroso, credeva che alcuni condizionamenti esterni (come la fisiognomica o cause sociali) potessero influenzare un soggetto nel compiere un reato; la responsabilità individuale del reato non esisteva e la pena aveva una funzione prettamente rieducativa e di prevenzione sociale.

È da questo ultimo tipo di approccio che nasce il primo Manicomio Criminale, quello di Aversa nel 1876. L’istituzione accoglieva i cosiddetti rei folli e di fatto sanciva la nascita del binomio tra follia e pericolosità sociale, nel quale persone colpevoli di reato e mentalmente disturbate, venivano isolate dalla società per la loro cura ma soprattutto per preservare gli altri carcerati e la società stessa. Il codice Zanardelli del 1889, per la prima volta dall’unità, mise ordine nel caos giuridico italiano. Pur non parlando mai di manicomio criminale il codice introdusse il concetto della non imputabilità per vizio totale di mente (in questo caso il reo se considerato pericoloso era affidato ad un manicomio provinciale) e stabilì inoltre, nel caso di seminfermità di mente, una diminuzione della pena. Anche se con il nuovo “Regolamento generale degli Stabilimenti carcerari e dei riformatori” (Regio Decreto numero 260 del 1 febbraio 1891) venne formalizzata la nascita dei manicomi giudiziari, nel mondo penitenziario rimaneva molta confusione poiché queste strutture che raccoglievano i rei folli non riuscivano ad essere troppo diversi dai carceri comuni. Nascono così gli altri Manicomi Giudiziari in Italia: nel 1886 nasce il Manicomio di Montelupo Fiorentino, nel 1892 quello di Reggio Emilia, nel 1923 quello di Napoli e infine nel 1925 quello di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina).

La prima vera svolta per quanto riguarda la gestione della malattia mentale si ha nel 1904 con la legge numero 36 “Disposizione sui manicomi e sugli alienati”. Venne infatti istituito sia il manicomio comune sia quello criminale ma soprattutto venne introdotto il concetto di pericolosità sociale del malato di mente comune e soprattutto del malato mentale criminale. Nel primo articolo infatti si legge:

debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi. Sono compresi sotto questa denominazione, agli effetti della presente Legge, tutti quegli Istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati gli alienati di qualunque genere”.

Il considerare la malattia mentale pericolosa per la società porta a diverse conseguenze sul piano culturale e pratico. Se il folle, in quanto tale, diventa pericoloso per la società è lecito e moralmente giustificabile, applicare tutti quei meccanismi di esclusione che portano il malato fuori dalla società stessa; nel caso in cui il folle sia anche reo questo processo è ancora più facile perché la colpa criminale offre una giustificazione ancora più forte. Questa nuova concezione però induce le istituzioni manicomiali a porre in secondo piano tutti quegli aspetti medici e psichiatrici atti alla cura del malato per dare maggiore importanza alle pratiche di costrizione e di isolamento, utili appunto a rendere il malato meno pericoloso. Questa nuova concezione del malato mentale pericoloso per la società si traduce nell’obbligo da parte delle autorità preposte di trascrivere sul casellario giudiziario del malato i trattamenti medico-psichiatrici; questi così valgono come una condanna a vita, allo stigma perpetuo e al difficile reinserimento del malato nella società una volta dimesso.

Con il fascismo venne nuovamente aggiornato il diritto penale. Nel 1930 il cosiddetto Codice Rocco, introdusse per la prima volta il concetto (ancora in uso) del doppio binario, caratterizzato dalla presenza di due sanzioni distinte tra di loro: la pena e la misura di sicurezza. La pena è commisurata alla gravità del reato commesso, mentre la misura di sicurezza si basa sul concetto di pericolosità sociale del soggetto. Le due categorie vengono così parallelamente applicate. Per quanto riguarda la gestione dei rei folli il Codice Rocco decise che il ricovero nel manicomio giudiziario dovesse essere applicato solo se l’infermo di mente era considerato pericoloso per la società. Questo significò principalmente due cose: da una parte, ancora una volta la malattia mentale era considerata pericolosa per la società e quindi era giustificabile isolare il malato di mente; dall’altra il codice sottolineava che la tutela della collettività e della società stessa fosse ben più importante della salute e della cura del malato mentale. A riguardo infatti, il codice penale legalizzava un vero e proprio paradosso che dava più importanza alla misura di sicurezza rispetto alla pena; questo spesso creava un prolungamento della misura di sicurezza in manicomio anche una volta terminata la pena detentiva.

La situazione dei carceri e quindi dei manicomi criminali rimane praticamente invariata fino al secondo dopoguerra quando a partire dagli anni ’60, sotto l’influenza del movimento anti manicomiale, si sviluppò nell’opinione pubblica la necessità di riformare e rendere più umane le carceri e quindi anche i manicomi criminali.

La prima vera svolta che toccò il mondo della psichiatria fu la legge Mariotti, la numero 431 del 18 marzo 1968, che cercò di riformare il sistema di cura della malattia mentale ma che non toccò il mondo dei rei folli. La vera novità di questa legge era la cancellazione definitivamente dell’obbligo di annotare su casellario giudiziario il ricovero psichiatrico; la legge Mariotti così, distrusse per sempre il binomio tra malattia mentale e delinquenza ma non riuscì a cancellare l’idea della pericolosità sociale della malattia mentale.

A partire dagli anni ’70 l’opinione pubblica iniziò però ad interessarsi ai problemi dei malati mentali anche nelle carceri italiane; alcuni ex detenuti psichiatrici denunciarono le condizioni disumane dei manicomi criminali e soprattutto la popolazione fu fortemente colpita da un tragico fatto di cronaca. Nel dicembre 1974 nel Manicomio Criminale di Pozzuoli, Antonietta Bernardini legata nel suo letto di contenimento morì a causa di un incendio scoppiato nella sua cella. La tragedia fu l’occasione per riaccendere un forte dibattito sulla riforma dei manicomi criminali in Italia.

Questo nuovo clima di critica verso il sistema carcerario psichiatrico aveva tuttavia già portato ad un significativo cambiamento, infatti, il 23 aprile del 1974 la Corte Costituzionale con la sentenza numero 110 si esprimeva a favore della revoca della misura di sicurezza prima del periodo minimo stabilito per legge. Questo significava non permettere la permanenza nel manicomio criminale oltre la pena, come spesso era consuetudine succedere. Era un primo passo verso la demolizione del binomio tra malattia mentale e pericolosità sociale che tuttavia cessò definitivamente solo con la Legge Gozzini nel 1986.

Ma l’attenzione creata sulla malattia mentale in generale e sul mondo dei rei folli in particolare, portò al varo nel 1975 della legge 354 che pose le basi, anche se non in maniera così determinante, ad una riforma dei Manicomi Criminali. Infatti, la legge oltre a cambiare il nome alle strutture in OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) obbligava tali strutture ad avere almeno uno psichiatra nel proprio organico. Questo stava a significare che dopo decenni, il malato mentale che doveva scontare una pena detentiva, iniziava ad essere anche curato e non solo custodito.

Chiaramente la legge 354 non pose fine agli innumerevoli problemi all’interno del mondo carcerario psichiatrico; ne sono la prova le innumerevoli leggi mai approvate per la chiusura degli OPG e le commissioni di inchiesta che denunciavano le condizioni disumane di queste strutture.

L’attuale chiusura degli OPG è stata preceduta da una importante commissione parlamentare d’inchiesta sulle “condizioni di vita e di cura all’interno degli OPG” del 2011. La relazione a cura dei senatori Saccomanno e Bosone è molto chiara e decisa nel giudizio: gli OPG sono strutture fatiscenti e inadatte alla cura del malato mentale criminale. Si legge infatti che sono “gravi e inaccettabili le carenze strutturali e igienico-sanitarie rilevate in tutti gli OPG” anche perché tutte le strutture “presentano un assetto strutturale assimilabile al carcere o all’istituzione manicomiale, totalmente diverso da quello riscontrabile nei servizi psichiatrici italiani”. Una vera e propria isola anacronistica dove ancora vengono mantenuti i meccanismi e le problematiche tipiche degli ospedali psichiatrici. In effetti la commissione continua nel descrivere la carenza numerica del personale incaricato dell’assistenza socio-sanitaria ma soprattutto sottolinea la presenza di pratiche di contenzione fisica ed ambientale:

[…] se da un punto di vista giudico, la coercizione o contenzione fisica in psichiatria viene da taluni giustificata da una rigorosa interpretazione dello stato di necessità […], le modalità di attuazione osservate negli Opg lasciano intravedere pratiche cliniche inadeguate e, in alcuni casi, lesive della dignità della persona, sia per quanto attiene alle azioni meccaniche, sia talora per i presidi psicofarmacologici di uso improprio […]”.

La relazione della commissione continua nel descrivere numerose scene di degrado trovate nei vari OPG italiani e per questo auspica la chiusura di quelle strutture inadatte e fatiscenti e propone un’alternativa e un vero e proprio superamento delle strutture.

Solo tre anni dopo le conclusioni di quella Commissione di inchiesta il Parlamento licenzierà la legge 81 che sancisce la definitiva chiusura degli OPG.

La chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.

Lo scorso 31 marzo quindi sono stati chiusi definitivamente tutti gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari in Italia e con essi si è chiuso idealmente un percorso iniziato nel 1978 con quella riforma Basaglia.

Attualmente la legge prevede di sostituire gli OPG con le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza Detentive, i cosiddetti REMS, ovvero strutture che ospiteranno al massimo 20 detenuti, provviste di particolari misure contro l’evasione e dove gli ospiti potranno essere seguiti dal punto di vista psichiatrico; inoltre la legge prevede che siano presentati dalle Regioni e dalle USL progetti individuali di cura e di riabilitazione dei malati per ottenere misure alternative al REMS stesso

Il problema è che oggi la situazione in Italia è ancora incerta: gli OPG ancora ospitano pazienti, poche sono le REMS già attive e molte sono già sovraffollate.

La decisione di chiudere gli OPG viene certamente da lontano ed ha scopi senza dubbio positivi, tuttavia, questo processo, se non governato in modo adeguato, rischia di aprire nuove problematiche invece di risolverne. Il problema infatti è di cadere, come avvenne con l’applicazione della 180, in soluzioni ideologizzate o di riproporre una lunga transizione prima di creare una vera e concreta alternativa.

E’ chiaro che in questo momento è prevista una fase di transizione, così come è chiaro che sia giusto chiudere gli OPG, in quanto strutture che ledono i diritti delle persone ospitate; tuttavia rimangono molti dubbi ed è pertinente e necessario trovare una soluzione adeguata sia dal punto di vista psichiatrico che giudiziario e sociale.

E’ evidente che la questione meriterebbe un dibattito approfondito da parte della politica e della cultura di questo Paese, perché il rischio di stigmatizzazione e di pregiudizio è ancora forte; solo con un approccio multidisciplinare e concreto è possibile trovare una soluzione che rappresenti il bene del detenuto psichiatrico e della società.




Storie di confino: il poggibonsese Angiolo Corsi

La letteratura che riguarda il confino di polizia può annoverare contributi di personaggi di primissimo livello del panorama antifascista, sia politico sia culturale. Tra le testimonianze più importanti ci sono quelle di Carlo Levi, Cesare Pavese e Leone Ginzburg, ma i numeri riguardanti i confinati durante il fascismo furono importanti e influenti (circa 15 mila persone) e non interessarono solo gli antifascisti ma tutti coloro i quali erano ritenuti particolarmente pericolosi per l’ordine pubblico.

Anche in provincia di Siena furono effettuate numerose assegnazioni al confino, dal 1926 in poi, che cercarono di colpire l’ossatura delle strutture clandestine del partito comunista e, in misura minore, del partito socialista e del movimento anarchico. Tra le diverse forme di limitazione della libertà (carcere, confino, internamento, ammonizione, sorveglianza speciale, diffida), il confino riguardò 129 antifascisti per una condanna a 380 anni complessivi. Secondo quanto riportato da Rineo Cirri (L’antifascismo senese nei documenti della polizia e del Tribunale Speciale 1926-1943), nel complesso furono 699 le persone che tra il 1926 e il 1943 subirono un deferimento al Tribunale speciale; “ad ognuno di questi antifascisti sono collegate vicende umane, storie dolorose di famiglie e di gruppi di persone con le loro sofferenze, i loro dolori e i loro drammi ma anche le speranze di una parte della popolazione di vivere in una società più giusta”.

corsi

Angiolo Corsi

Alcuni personaggi di primo piano della lotta antifascista e anche del periodo di ricostruzione democratica in provincia di Siena hanno raccontato in libri, memorie e diari le proprie esperienze al confino, e tra gli altri Fortunato Avanzati “Viro” e Mauro Capecchi “Faro”. Per ricostruire le biografie e i percorsi personali e politici di altri militanti è invece necessario ricorrere ad altri tipi di fonte, come le note giudiziarie, gli atti dei Tribunali speciali, le carte di prefetture e i verbali di carabinieri e poliziotti. In questo contributo il personaggio di cui si racconteranno le vicissitudini è Angiolo Corsi, nato nel 1905 a Poggibonsi, di professione falegname.

Corsi fu arrestato per la prima volta il 26 luglio 1932 a Poggibonsi, all’età di 27 anni; la scheda  personale nel Casellario Politico Centrale del 28 agosto 1932 riporta queste informazioni: “Cicatrice sopracciglio sinistro, mancante falange mano, abbigliamento solito: da operaio. E’ di regolare condotta morale e immune da pendenze e precedenze penali. In precedenza non aveva mai dato luogo a rilievi in line apolitica né di nutrire sentimenti contrari al regime. Essendo venuto a risultare che faceva parte del comitato federale comunista costituitosi clandestinamente in Poggibonsi ed era in relazione con funzionari e fiduciari del partito stesso, distribuiva la stampa sovversiva e distribuiva materiale di propaganda. Raccoglieva gli oboli per il soccorso alle vittime politiche e loro famiglie e prendeva parte alle riunioni clandestine del partito. Funzionava anche da corriere per il collegamento e trasporto di stampa sovversiva tra Empoli- Poggibonsi e Siena. Per tale reato pende tuttora provvedimento penale a di lui carico. Esercita il mestiere di falegname, da cui trae i mezzi di sussistenza.

Nonostante questi dettagliati indizi a suo carico, Corsi fu prosciolto per insufficienza di prove. L’arresto successivo avverrà nell’aprile del 1934 per “compartecipazione a organizzazione comunista” e l’8 giugno sarà condannato a cinque anni di reclusione di cui due di libertà vigilata. Fu condotto al carcere di Roma il 10 febbraio 1935 e, dopo la sentenza del 5 aprile 1935, la condanna fu confermata ma gli saranno condonati due anni.

Il 20 febbraio 1937 gli venne concesso l’indulto, revocato però solo due mesi dopo dal Tribunale di Siena. Le notizie successive risalgono poi al 25 luglio 1940, quando una nota riservata della prefettura di Siena, firmata dal prefetto, dispose la scarcerazione e il foglio di via alla volta di Avellino; questa volta Corsi fu accusato per avere pronunciato frasi disfattiste sulla posizione dell’Italia in guerra.

Il Foglio di via obbligatorio di Corsi

Il Foglio di via obbligatorio di Corsi

Il comune scelto fu quindi Teora (Avellino), dove Corsi giungerà il 27 luglio 1940. Lì ebbe diversi problemi nel rapportarsi alle autorità locali del regime; appena giunto a Teora scrisse, infatti, al questore di Avellino per richiedere il rimborso di 25 lire per il viaggio effettuato da Avellino alla volta di Teora dai suoi familiari più stretti (moglie e figlio). La lettera riporta evidenti errori grammaticali, ma contiene una puntuale lamentela sui torti subìti, sui quali Corsi aveva informato anche Questura di Siena e comune di Poggibonsi.

Il questore di Avellino, Vignali, risponde in modo molto seccato con una nota al podestà di Teora in cui dice: “Il soprascritto Angelo Corsi ha fatto pervenire alla R. Questura di Siena un esposto con il quale, usando una forma alquanto altezzosa, chiede di essere rimborsato delle spese che la moglie ha sostenuto per il tratto di viaggio da Avellino a Teora e cerca di polemizzare e di fare ricadere la colpa al Municipio di Poggibonsi e alla R. Questura di Siena. […] Si prega di richiamare il C. a tenere un comportamento più corretto e a scrivere, sempre che gli capiterà di scrivere ad autorità costituite, con la forma dovuta e senza alterigia.

Il 9 ottobre 1941 Corsi chiese di essere trasferito ad altra località (la richiesta fu però respinta) e il 9 gennaio 1942 lo stesso Corsi chiese 35 lire per la risolatura delle scarpe, ormai consumate e non adatte al rigido inverno dell’Appennino. Il questore Vignali respinse anche questa richiesta. L’assegnazione al confino terminò il 22 febbraio 1942 e così Corsi potè far ritorno a Poggibonsi, dove non terminerà la sua attività politica.

Corsi, infatti, ricoprì un ruolo nevralgico nell’organizzazione dei primi gruppi di combattimento in Valdelsa, occupandosi anche del reclutamento e della formazione dei giovani più vicini alle strutture clandestine del P.C.I., come testimonia un giovane collega del Corsi, Fortunato Fusi, ricordandone le vicende.

Dalle notizie fornite dai colleghi falegnami della ditta Lucita di Poggibonsi e dalle memorie di Treves Frilli, figura di riferimento del C.L.N. e del P.C.I. a Poggibonsi, emerge un carattere molto aspro e diretto, che procurerà a Corsi diversi grattacapi anche nella quotidianità della vita politica del dopoguerra, come è rintracciabile nella corrispondenza tra Corsi e i dirigenti locali del P.C.I. a Poggibonsi negli anni Cinquanta e Sessanta.

Quella di Angiolo Corsi, pur rappresentando solo una tessera del mosaico che può ricomporre la storia dell’antifascismo popolare, è una vicenda indicativa e sintomatica di come la scelta della militanza antifascista non badava a spese, a costo di dover subire il carcere o il confino.




Agguato a Montechiaro

Il 29 luglio 1944, verso le 14.00, tre giovani partigiani erano seduti ai bordi di un campo, accanto alla Croce di Montechiaro, una località posta ai piedi della collina di Vinacciano, vicino Pistoia. Aspettavano qualcuno di loro conoscenza, ma, improvvisamente, dal boschetto posto sopra la strada, sbucò un nutrito gruppo di tedeschi. I tre furono falciati dal fuoco nazista: Marcello Capecchi, seppur ferito, riuscì a mettersi in salvo; Giuseppe Giulietti fu ferito gravemente e si trascinò fino alle case più vicine, dove venne finito a freddo dai nazisti; Silvano Fedi fu immediatamente fulminato da una raffica di mitra al petto. I primi due erano capisquadra e il terzo il comandante delle Squadre Franche Libertarie.

Nel giugno del 1944 la formazione si era dovuta occupare di una faccenda piuttosto spinosa: alcuni ladri, detti la “banda del Ponte” (riferendosi al Ponte alla Pergola, da dove veniva la maggior parte di loro), avevano compiuto dei furti nella zona di Silvano. Il 29 giugno quattro di loro furono catturati dai tedeschi e, tre, furono fucilati. Il 17 luglio Silvano li «processò». Li perdonò a patto di restituire la refurtiva e di impegnarsi nella lotta antinazifascista.

Perché parlare di questo episodio? Perché sembra strettamente correlato alla morte di Silvano. Nel dopoguerra, prima velatamente e poi sempre più esplicitamente, quelli della banda del Ponte sono stati accusati di essere i delatori che causarono la morte di Silvano: il 29 luglio Fedi li stava aspettando alla Croce perché dovevano restituire la refurtiva. Questa è sicuramente un’ipotesi plausibile, ma non è la sola e, noi crediamo, nemmeno la più probabile.

disegno silvanoIl 24 luglio Silvano aveva avuto un incontro con rappresentanti del PCI e del PdA per concordare le azioni delle bande in vista del passaggio del fronte. Già il 25 aveva iniziato a riposizionare le sue squadre e, il 29 luglio, quasi tutte erano dislocate nei dintorni di Vinacciano. Quindi, fissando «un appuntamento nei pressi di Montechiaro con diverse persone», doveva sentirsi al sicuro.

In un documento depositato presso l’ISRT si legge che tale appuntamento era «a carattere informativo», ma ci risulta difficile credere che si possa definire in tal modo l’incontro per la restituzione della refurtiva. Inoltre, da vari documenti risulta che Silvano avesse addosso le carte della formazione. Perché avrebbe dovuto portare con sé documenti così importanti e compromettenti ad un appuntamento con dei rapinatori?

È pensabile che uno dei più importanti comandanti partigiani del pistoiese, il 29 luglio, coi tedeschi in ritirata e il fronte dietro la collina, passi il pomeriggio ad aspettare che dei ladruncoli riportino su un barroccio radio, fisarmoniche e prosciutti (i soldi, quelli non spesi, li avevano in parte già restituiti)? E perché farli andare fino a Montechiaro quando la refurtiva doveva tornare nella zona dalla quale i ladruncoli provenivano?

Ma non è tutto. Se fosse stato così lampante che i responsabili della morte di Silvano e Giuseppe erano quelli della banda del Ponte, i partigiani avrebbero potuto trovarli (li conoscevano tutti molto bene) e giustiziarli, e nessuno avrebbe avuto niente da eccepire.

Invece non venne torto nemmeno un capello ai ladri. Non solo, ma almeno due di loro, che avevano militato nella formazione di Fedi prima dei furti, furono ripresi in formazione fino alla Liberazione.

A questo punto, o si immagina un gigantesco complotto per eliminare Silvano, in cui erano coinvolti i suoi stessi uomini, o l’ipotesi della delazione da parte dei ladri non regge.

Se l’incontro era veramente «a carattere informativo», dobbiamo pensare ad un confronto di natura politica o militare che presuppone la presenza di antifascisti di altro orientamento politico (che effettivamente erano presenti quel giorno nella zona) e allunga di molto la lista dei sospetti.

Allora chi furono i responsabili della delazione? Dai documenti che abbiamo trovato finora, non siamo stati in grado di stabilirlo, ma, se non altro, possiamo mettere in dubbio in maniera documentata alcune ipotesi improbabili.

 

Roberto Aiardi, nato a Pistoia nel 1945, ha lavorato prima come maestro elementare, poi al museo civico e, infine, ai servizi sociali del comune di Pistoia. Attualmente in pensione, dal 2007 si è dedicato alla ricerca storica sul periodo della Resistenza a Pistoia.

Ilic Aiardi, nato a Pistoia nel 1971, laureato in biologia, lavora come docente di scienze naturali presso il Liceo Statale «Forteguerri» di Pistoia.

 




Una Repubblica conciliare

L’egemonia comunista sulle amministrazioni cittadine pistoiesi, indiscussa dal dopoguerra, si incrinò nel 1967 quando fu eletto presidente della Provincia il socialista Vincenzo Nardi in alleanza con la Dc. L’amministrazione tuttavia apparve subito debole e la votazione del bilancio mise a repentaglio la tenuta della maggioranza, a tal punto che il prefetto minacciò una gestione commissariale in caso di mancata approvazione.

Di fronte a questa situazione le vicende politiche della città imboccarono una strada inconsueta: il 30 dicembre il bilancio fu approvato all’unanimità, con il voto favorevole di DC, PSI e PCI (sebbene quattro consiglieri del PCI fossero assenti). L’inedita alleanza si trasformò in un accordo pragmatico destinato a risolvere positivamente due emergenze del territorio: l’imminente dismissione della Saca, l’azienda di trasporto pubblico, e una delle cicliche crisi delle Officine Meccaniche Ferroviarie Pistoiesi (OMFP), il maggiore stabilimento industriale della Provincia.

Sebbene la maggioranza provinciale continuasse ad essere formata da DC e PSU, il PCI garantì un appoggio anche futuro alla giunta di centrosinistra per la risoluzione di precisi problemi amministrativi e i tre partiti avviarono permanenti consultazioni.

manifesto dcTra i sostenitori del PCI l’intesa con il centrosinistra suscitò non poche perplessità: l’accordo fu osteggiato dal PSIUP, che affisse manifesti accusando il PCI di aver tradito la volontà dei lavoratori, e nel complesso tutta la base del partito accettò con difficoltà la collaborazione coi cattolici. Neppure per la DC l’accordo risultò pacifico, tanto che il capogruppo alla Provincia, l’avvocato Turco, scelse di spiegarne approfonditamente la natura ai propri elettori in una lettera a mons. Carlo Migliorati, direttore dell’organo della Curia diocesana «La Vita Cattolica», nella quale negò l’esistenza di una nuova maggioranza: «non era in atto alcuna collusione – scrisse – ma solo un tentativo aperto e coraggioso di porre il PCI davanti al dovere di assumersi le proprie responsabilità».

La direzione nazionale della DC approvò l’inedito accordo di Pistoia dopo che i dirigenti locali chiarirono il sostegno puramente tecnico del PCI; ma intanto intorno a questo tentativo, primo in tutta la nazione, di accordo tra i nemici per antonomasia iniziò a crescere l’attenzione mediatica.

La stampa locale conferì all’esperimento politico l’appellativo di Repubblica conciliare connotandolo come frutto della stagione di dialogo tra cattolici e marxisti inauguratasi dopo il Concilio Vaticano II. In prima linea contro la Repubblica conciliare si schierò il quotidiano «La Nazione» che per penna del suo direttore Enrico Mattei scrisse: «Qualcuno domanderà, ma perché vi scalmanate tanto? Forse Annibale è alle porte? É così pericoloso il fatto che la Dc ed il Pci collaborino insieme sul piano amministrativo? Non sarà pericolosa questa collaborazione ma… Annibale non è alle porte, è già entrato, circola fra noi!». La preoccupazione era condivisa dal settimanale «La Vita Cattolica» che scrisse che forse una gestione commissariale non sarebbe stata poi un male. Il timore della curia era infatti che gli elettori della DC non avrebbero compreso, né tanto meno appoggiato l’accordo, e perciò avrebbero potuto far mancare in futuro il sostegno al partito cattolico. Anche il giornale del dissenso cattolico pistoiese, il «Cineforum», prese posizione contro questa intesa politica, in un’inedita comunanza di vedute con «La Nazione» e con «La Vita Cattolica». Le accuse avanzate però furono antitetiche dato che, secondo «Cineforum», l’accordo non avrebbe dovuto limitarsi ad un susseguirsi di intese su singole “cose concrete”, perché altrimenti sarebbe apparso come una semplice volontà da parte dei due partiti di mantenere il potere nelle loro mani, bensì avrebbe dovuto essere un confronto con «spirito nuovo» su temi di fondo: un reale esperimento di «Repubblica conciliare».

A livello nazionale il periodico dell’ala sinistra della DC, «Politica», cercò di difendere l’accordo come un encomiabile tentativo di uscire dal vicolo cieco dell’approvazione del bilancio; era un merito dell’accordo di «aver raggiunto l’intesa non su equivoche formule di abbracci ideologici o “conciliari”, ma su precisi punti programmatici che interessano i problemi della Provincia». «La Stampa», quotidiano torinese, definì invece l’accordo “bizzarro”: «l’embrione di una repubblica conciliare nascente da locali mezzadrie» e sostenne che «simili accordi costituiscono un’effettiva spartizione del potere». In seguito su «l’Unità» si volle precisare che la base fondamentale dell’accordo era prima di tutto «la necessità di qualificare l’Amministrazione ponendola in diretto collegamento con il vasto movimento dei lavoratori. […] Cosa c’entri la “repubblica conciliare” lo sanno solo i fabbricatori di formule e di aria fritta».

I protagonisti politici dell’accordo quindi si guardarono bene dal connotare la collaborazione amministrativa come frutto di un dialogo tra cattolici o marxisti, o come il principio di un avvicinamento politico tra DC e PC, furono i detrattori a definirlo “Repubblica conciliare” contribuendo così ad attirare la curiosità del grande pubblico e decretarne la fine. La dirigenza nazionale della DC infatti, guidata dall’on. Piccoli, non appena vide il sostegno tecnico del PCI trasformarsi sui mass-media nazionali in un esempio di nuova maggioranza alla prova, ne sancì la fine: il 15 luglio del 1969 con un telegramma ordinò che la giunta provinciale fosse sciolta e la segreteria provinciale della DC per disciplina accettò la direttiva romana.

Francesca Perugi è ricercatrice presso l’ISRPt e membro della redazione dei Qauderni di Farestoria. Ha curato la mostra e l’omonimo numero monografico di QF “Cupe vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti”.




Firenze, luglio ’45: il ritorno della bellezza

«Il San Giorgio di Donatello! Quale perdita più dolorosa poteva subire Firenze?», esclamò il “monument man” Frederick Hartt quando, nell’agosto del 1944, si scoprì che l’esercito tedesco, nella sua ritirata verso Nord, aveva requisito centinaia di opere d’arte custodite nelle ville toscane e provenienti dagli Uffizi, dal Bargello, da Palazzo Pitti.

Da quel momento iniziò un lavoro congiunto, almeno nelle fasi iniziali, tra Soprintendenza fiorentina e ufficiali della MFAA (Monuments Fine Art and Archives subcommission, la commissione dell’esercito alleato per la salvaguardia delle opere d’arte), per capire intanto la possibile ubicazione delle opere, in un’Italia divisa in due e con il Nord ancora molto lontano da una definitiva liberazione dalle truppe tedesche.

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Luglio 1944: soldati tedeschi trasportano a Nord il dipinto di Botticelli “Pallade e il Centauro” degli Uffizi, prelevato da villa Bossi Pucci a Montagnana (Montespertoli) [Archivio Museo Casa Siviero]

Con i tedeschi in ritarata, infatti, il più grande pericolo per le opere d’arte mobili non fu costituito solo dai bombardamenti alleati e dalle mine tedesche, ma anche dalle requisizioni che i nazifascisti iniziarono a compiere sistematicamente avanzando verso Nord: centinaia di opere furono prelevate dai vari rifugi e, lungo una rincorsa per tutta Italia, scortate in depositi in Alto Adige e in alcuni casi in Austria e Germania.

A tali ritiri, effettuati per motivi diversi (sincera protezione delle opere, tesaurizzazione di beni in vista della imminente fine della guerra, illecite sottrazioni destinate a singoli collezionisti), si aggiunsero furti di intere collezioni di famiglie ebree o “nemiche”.

Se nel senese e nel pisano si registrarono solo casi isolati di requisizioni o furti, nell’area fiorentina l’estate del 1944 fu un momento cruciale per i ritiri e le razzie di opere d’arte. Tra la fine di giugno e l’inizio del luglio 1944 dalla villa di Montagnana nel comune di Montespertoli furono sottratti centinaia di quadri della Galleria Palatina e degli Uffizi (come il Bacco di Caravaggio e Pallade e il centauro di Botticelli). A fine agosto fu la volta della villa medicea di Poggio a Caiano, dove furono prelevate in più giorni 58 casse contenenti sculture come la Venere dei Medici degli Uffizi e le più note sculture rinascimentali del Bargello, come il San Giorgio di Donatello e il Bacco di Michelangelo.

Già dall’agosto 1944, il soprintendente alle Gallerie fiorentine Giovanni Poggi e gli uomini della MFAA lavorarono senza sosta per capire dove potevano trovarsi le opere requisite: la ricerca comportò l’indispensabile azione diplomatica dell’arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa, e le sue indagini attraverso i canali del Vaticano. Nell’autunno del 1944 iniziarono a trapelare le prime informazioni sulla possibile presenza in Alto Adige dei depositi e finalmente nel maggio 1945 furono individuati i due rifugi: si

Alto Adige, Campo Tures, Castello di Neumelans. Filippo Rossi e Deane Keller davanti alle opere del Bargello, maggio-giugno 1945

Alto Adige, Campo Tures, Castello di Neumelans. Filippo Rossi e Deane Keller davanti alle opere del Bargello, maggio-giugno 1945

trovavano oltre Bolzano, uno a San Leonardo in Passiria e l’altro a Campo Tures a Neumelans. Al castello di Neumelans a Campo Tures furono ritrovate le opere asportate da Poggio a Caiano, Poppi, Dicomano e Soci, mentre nel deposito di San Leonardo in Passiria si trovavano i dipinti prelevati a Montagnana. La resa nazista era oramai già avvenuta quando gli ufficiali tedeschi consegnarono le chiavi e gli accurati inventari dei due depositi.

La settimana dopo arrivarono a Campo Tures da Firenze anche Frederick Hartt e Filippo Rossi, direttore della Galleria degli Uffizi, non solo per accertarsi dell’effettivo ritrovamento delle opere dei musei fiorentini, ma anche per organizzare le non semplici operazioni per il “ritorno a casa” delle opere. Dopo aver scartato la possibilità di un trasporto con autocarri, fu scelta la via del treno, nella speranza di un’imminente riattivazione dei collegamenti ferroviari tra Centro e Nord Italia.

Il 10 luglio 1945 il primo ministro sudafricano Jan Smuts scoprì finalmente all’imbocco nord della Grande Galleria dell’Appennino la targa commemorativa dell’opera di ricostruzione della Direttissima fatta dagli uomini del Railway Construction Engineers. Dieci giorni dopo, un convoglio ferroviario che trasportava, come stimò Filippo Rossi, «mezzo miliardo di opere d’arte», attraversò la Direttissima. Il 20 luglio 1945 da Bolzano erano partiti tredici vagoni con all’interno, tra gli altri capolavori, anche il San Giorgio; alle due di pomeriggio del 21 luglio il convoglio giunse a Firenze, alla stazione di Campo di Marte, accolto da Giovanni Poggi.

La cerimonia di restituzione delle opere d'arte a Firenze, 22 luglio 1945

La cerimonia di restituzione delle opere d’arte a Firenze, 22 luglio 1945

Il giorno seguente, il 22 luglio 1945, fu organizzata in piazza della Signoria la solenne cerimonia di restituzione delle opere, con la Loggia dei Lanzi stipata di dignitari alleati e italiani, il generale Edgar Hume e il sindaco di Firenze Gaetano Pieraccini. Insieme a loro, oltre alla folla esultante al passaggio del convoglio, che con le grida e gli applausi copriva il suono dei trombettisti in costume, si trovavano tutti coloro che, come Ugo Procacci, avevano trascorso gli anni della guerra a tutelare il patrimonio artistico e, gli ultimi mesi, con grande fatica, a ricollocare, ricostruire, restaurare. In vista di un’imminente riapertura di tutti i musei.

Sicuramente la cerimonia del luglio 1945 rimase un evento storico, e nella nota biografica che Procacci stilò, su richiesta di Pieraccini, per motivare la cittadinanza onoraria ad Hartt, ricordò con emozione quel giorno in cui «furono fatti i festeggiamenti per la riconsegna dei grandi tesori delle nostre gallerie», il giorno in cui Hartt «diceva, commosso fino alle lacrime, che quello era uno dei momenti più belli della sua vita».




Spaesamenti. Antifascismo, deportazioni e clero in provincia di Livorno

Sono ormai passati 70 anni dal 25 aprile 1945: gli studi storici non hanno mai smesso di indagare le vicende della Resistenza e della società italiana in tempo di guerra, questioni fondamentali per la comprensione del nostro paese oggi. Ogni tempo pone domande differenti al passato, segno del cambiamento degli strumenti concettuali e delle sensibilità interpretative.

Spaesamenti. Antifascismo, deportazioni e clero in provincia di Livorno, Ets, Pisa, 2015, pubblicato a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco), cerca di portare un contributo articolato e innovativo su temi poco frequentati dalla storiografia, partendo da alcune ricerche relative al territorio di Livorno. Il volume verrà presentato in occasione dell’inaugurazione della nuova sede dell’Istoreco il prossimo 21 luglio.

Lo spaesamento è la parola chiave che riunisce tutti i saggi, in primo luogo come disorientamento soggettivo, provato dalle persone a causa delle distruzioni e dei drastici cambiamenti imposti dalla guerra. Ma uno spaesamento vi fu anche in senso figurato: sia come alterazione oggettiva del paesaggio tradizionale che come negazione del concetto stesso di Paese, ormai in balia di forze militari straniere. In questa accezione Livorno rappresenta certamente un caso limite: nella seconda metà del 1943 la città venne completamente evacuata dai bombardamenti alleati e dall’esercito di occupazione nazista.

Spaesamenti_CopertinaTra il maggio e il novembre 1943 la guerra cambiò infatti radicalmente il volto della città. Col suo porto e le sue grandi industrie, il capoluogo pagò a caro prezzo la centralità logistico-strategica che aveva assunto nello scacchiere bellico del Mediterraneo divenendo un obiettivo militare d’eccellenza. Prima le tre grandi incursioni aeree angloamericane (28 maggio, 28 giugno, 25 luglio) che, bombardando a tappeto la città, distrussero buona parte del patrimonio urbanistico, poi il forzato sgombero del centro cittadino imposto dal Comando tedesco tra l’ottobre e il novembre generarono un esodo di massa che per intensità e modalità di attuazione non ebbe eguali in Toscana. Secondo alcune fonti alleate solo 20.000 dei circa 130.000 abitanti dell’anteguerra, si trovavano in città al momento dell’arrivo delle truppe liberatrici il 19 luglio 1944; mentre, stando alle cifre dell’Ufficio tecnico del Comune, degli edifici del centro, poco più dell’8% rimase illeso. La provincia fu così privata del capoluogo, la sua popolazione completamente rimescolata.

I saggi contenuti nel volume curati da quattro giovani storici (Stefano Gallo, Matteo Caponi, Enrico Acciai e Gianluca della Maggiore) e dal direttore Istoreco, Catia Sonetti, partono da questa riflessione per declinare domande differenti che toccano molteplici aspetti della società livornese nel corso della guerra. Il faticoso tentativo di organizzare una rete clandestina antifascista nel territorio provinciale (Gallo), la storia della deportazione di un nucleo di famiglie ebraiche rifugiate al Gabbro, nelle colline livornesi (Acciai), la ricostruzione delle giornate a ridosso del 25 luglio ’43 a Rosignano, piccola città-fabbrica della costa (Caponi), lo straordinario resoconto del vissuto quotidiano di Ivo Michelini, un internato militare in Germania (Sonetti), lo sfollamento del clero della diocesi di Livorno impegnato nella ricerca di salvezza fisica ma anche nel dare sostegno spirituale alle comunità (della Maggiore). Si tratta di lavori che pongono nuove domande alla nostra storia, proponendo altrettante piste di ricerca per la storia locale e non solo.

“A lungo – scrive Daniele Menozzi, ordinario di storia contemporanea presso la Scuola Normale di Pisa, nell’introduzione al volume – gli studi storici sulla Resistenza nel nostro paese, a differenza di quanto al contempo accadeva in diverse storiografie europee, si sono concentrati sulla lotta armata condotta dalle bande partigiane. Negli ultimi due decenni si è però assistito ad un mutamento di indirizzo. Una crescente attenzione è stata rivolta ad indagare fenomeni che di volta in volta, a seconda degli autori, sono stati definiti con diverse categorie: “Resistenza civile”, “Resistenza passiva”, “Resistenza non armata”, “Resistenza non violenta” o più semplicemente e genericamente “lotta non armata nella Resistenza”. Un sintagma, quest’ultimo, utilizzato per sottolineare l’unità del processo resistenziale in tutte le sue dimensioni, con l’intento di evitare il ricorso a scelte linguistiche che potrebbero, anche involontariamente, introdurre elementi di divisione e di gerarchizzazione nelle varie forme dell’impegno contro la barbarie nazifascista”.

Michelini

Ivo Michelini da militare. Fonte: archivio privato famiglia Michelini.

“Senza dubbio – continua Menozzi – un contributo a questi nuovi orientamenti è venuto dal diffondersi della consapevolezza, maturata sulla base della considerazione delle tragedie che hanno percorso il Novecento, che la pratica della violenza bellica ha comportato, per il livello degli strumenti di distruzione messi in campo, drammi, orrori, distruzioni terribili. In questa chiave si è profilata la tendenza a valorizzare sul piano storico i comportamenti di coloro i quali, individualmente e collettivamente, hanno deciso di manifestare la loro intenzione di opporsi all’aggressione e all’oppressione senza ricorrere all’uso delle armi. Ovviamente la pratica di questa linea storiografica non voleva dire sminuire il significato della scelta compiuta da quanti, offrendo una testimonianza alta della loro disponibilità al sacrificio, avevano in coscienza ritenuto che non vi era altra strada per sottrarsi agli ordini delle dittature che intraprendere la lotta armata. Si trattava soltanto di indagare in maniera più estesa e diffusa la varietà di forme che aveva assunto la Resistenza per restituire, con un evidente intento pedagogico nei confronti di un presente in cui minacce di guerra si facevano di nuovo incombenti, le modalità con cui si era ritenuto di poter reagire alla violenza senza cedere ai suoi stessi metodi”.

“Il volume collettaneo che l’Istoreco ha deciso di pubblicare in occasione del settantesimo anniversario della Liberazione – conclude lo storico della Normale – si inserisce perfettamente in questo nuovo filone di studi sulla Resistenza, fornendo una serie di originali apporti conoscitivi su diverse manifestazioni dell’opposizione al nazifascismo che si sono verificate nella provincia di Livorno. […] Proprio saggi come quelli qui raccolti evidenziano che le fonti disponibili possono aprire una nuova stagione di ricerche che, private delle connotazioni politico-ideologiche a lungo coltivate dalla storiografia resistenziale, assumono un particolare rilievo per il nostro presente. Mostrano infatti che la democrazia italiana non è stata costruita soltanto sulle armi degli alleati e dei partigiani, ma anche sulla base di un passaggio di larghi strati popolari dal consenso al rifiuto del totalitarismo. Un atteggiamento che si è poi declinato nella storia repubblicana, a partire dal processo costituzionale, in forme politiche diverse e molteplici, ma di cui – anche per evitare pericolosi sbandamenti che le odierne propagande politiche non ci risparmiano – gli studi storici sono chiamati a tener ben viva la memoria”.

 




7 luglio 1944: le donne salvano Carrara

Il 7 luglio del 1944, nelle strade di Carrara, compare un bando di sfollamento: il comando tedesco ordina che di lì a due giorni venga evacuata la città, a esclusione delle famiglie degli operai impiegati nell’Organizzazione Todt che stanno fortificando le difese della futura Linea Gotica occidentale. Le forze di occupazione vogliono una città deserta, che non dia problemi amministrativi né di ordine. Soprattutto, vogliono fare il deserto attorno alle prime forme nascenti del movimento partigiano. Le cose, però, non andranno secondo i piani delle autorità nazifasciste: a fermarle saranno le donne di Carrara.

La città apuana, in quel momento, ospita migliaia di sfollati provenienti dai territori limitrofi: la zona costiera tra La Spezia e Marina di Massa, infatti, deve restare sotto il controllo tedesco per respingere eventuali sbarchi delle forze alleate. Alle spalle di Carrara, inoltre, il naturale catenaccio delle Alpi Apuane viene individuato come elemento strategico: una difesa naturale per stabilire l’ultimo baluardo contro l’avanzata dell’esercito di liberazione. Così, da settembre del ‘44 ad aprile del ‘45, il fronte si stabilirà lungo la Linea Gotica.

Nei mesi precedenti i comandi nazisti ordinano di «pulire» il territorio dalla presenza di civili, per trasformarlo in una gigantesca no man’s land che consenta alle loro truppe di muoversi liberamente, ricevere rifornimenti e approntare le difese. E’ la strategia della «terra bruciata», che oltre alle stragi porta anche una lunga serie di ordini di evacuazione: per la Provincia di Apuania si tratta di prelevare e trasferire oltre duecentomila persone verso la bassa padana; per la popolazione significa lasciare tutto ciò che non si riesce a racchiudere in un’unica valigia.

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Francesca Rola con i partigiani della “Ulivi”

La Resistenza apuana, in quel momento, è ancora in stato embrionale: il movimento partigiano ha messo radici dapprima nelle colline dell’alta Lunigiana, ideale rifugio per le tattiche della guerriglia; sui monti di marmo, invece, si vanno formando i primi gruppi ancora disorganizzati ma che, già il 14 luglio, riusciranno ad assaltare con successo la caserma di polizia del «Colombarotto», nel pieno centro di Carrara. Non hanno ancora, però, la forza di scendere in città, assumerne il controllo e costringere il nemico a scendere a patti, cosa che avverrà qualche mese dopo, l’11 novembre del 1944. In altri termini, in quel momento non possono essere i partigiani della formazione garibaldina «G. Ulivi» a salvare Carrara fermando il piano di evacuazione.

L’occasione, però, può essere propizia per due motivi: saggiare la forza e la capacità organizzativa del nemico, per vedere se è davvero in grado di deportare decine di migliaia di persone in un solo giorno; verificare la presa popolare del movimento resistenziale sui cittadini carraresi. Il Cln e i Gruppi di difesa della donna (Gdd) cominciano a mobilitarsi: appaiono per le strade di Carrara dei volantini che invitano gli apuani alla disobbedienza. Si attiva anche un passaparola che sfugge alle maglie della polizia fascista: «non abbandonare la città» è la parola d’ordine che corre di casa in casa. Il giorno previsto per lo sfollamento, il 9 luglio, passa senza che accada nulla e il movimento prende corpo e coraggio: all’avanguardia c’è un ristretto nucleo composto da militanti come Ilva Babboni, Francesca Rola, Sandra Gatti, Nella Bedini, Renata Bacciola, Lina Boldi, Lina Del Papa, Dorina Mazzanti, Mercede Menconi, Odilia Brucellaria, Renata Brizzi. Preparano cartelli con scritte «Noi non vogliamo sfollare» o «Non ci muoviamo dalla città»: l’obiettivo è una grande dimostrazione davanti al comando tedesco.

La mattina dell’11 luglio, un martedì, qualcosa si muove. Le militanti vanno per le vie e le case a chiamare a raccolta le donne di Carrara. Attorno alle 9.30 si ritrovano nella Piazza delle Erbe dove si tiene il mercato ortofrutticolo. Serve un gesto, qualcosa che coinvolga le altre donne che tengono le ceste del mercato, provenienti perlopiù da Massa e Montignoso, e che trasformi un piano ristretto in una manifestazione di popolo: rovesciano le ceste. Un atto spregiudicato e, al contempo, simbolico: la donna che rovescia e rovina del cibo è un attacco diretto al suo ruolo nella società di quegli anni, e il tutto avviene non nell’intimità del nucleo familiare, né tra un ristretto nucleo di avanguardiste. Il rovesciamento, non solo delle ceste ma del ruolo della donna, avviene alla luce del sole, ben visibile a tutti e ottiene lo scopo prefissato. Il corteo, ora composto da centinaia di donne e ragazzi, compie un altro passaggio cruciale: lascia lo spazio pubblico femminile per definizione, il mercato, e si dirige verso la via Garibaldi (odierna via 7 luglio) per invadere un luogo pubblico-militare esclusivamente maschile, il comando tedesco. Questo è presidiato da soldati nazisti e militi fascisti repubblicani che, immediatamente, sbarrano i due ingressi alla strada con mezzi pesanti precludendo tutte le vie di fuga. Le manifestanti, cui si mescolano partigiani in borghese con le armi nascoste sotto dei camici lunghi, urlano, cantano, si sdraiano a terra e si scagliano contro i soldati nemici che gli puntano contro le armi – tra cui due mitragliatrici – pronti a far fuoco. Alcune vengono arrestate e tradotte in caserma, ma la loro furia non si ferma e, infine, l’ordine di evacuazione viene sospeso.

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Il murale che Carrara ha dedicato a Francesca Rola

Nei mesi successivi saranno emanati altri bandi di sfollamento in rapida successione, coi Gdd pronti a riprendere la contestazione. In ottobre saranno effettivamente evacuate Massa e Montignoso, con circa ventimila profughi che si riverseranno su Carrara, accolti in ogni spazio che la città può offrire tra cui abitazioni private, magazzini, fondi commerciali, cinema e teatri. La città apuana, però, non verrà più sfollata, consentendo al movimento partigiano di mettere salde radici e trovare sostegno nella popolazione, fino a divenire una delle forme resistenziali meglio organizzate del territorio.

La rivolta di Piazza delle Erbe rimane nella memoria come momento di emancipazione collettiva. Le donne carraresi, da quel momento, si sentono protagoniste dei destini non solo di un nucleo familiare, ma di un intero popolo. Non si tratta di «Resistenza civile» come qualcosa di diverso e complementare a quella partigiana e armata, né di allargare il concetto alla forma plurale delle «Resistenze» per comprenderne la variante di genere; si tratta, invece, dell’atto fondante della Resistenza apuana.




Teresa Meroni e la marcia delle donne

Chi era Teresa Meroni? Quale fu il suo impegno di sindacalista e attivista per la pace durante il periodo della Grande Guerra? Rispondere a queste domande significa approfondire non solo la storia personale che la portò in Val di Bisenzio, ma anche indagare le condizioni socio-economiche che caratterizzavano quel territorio di precoce industrializzazione posto a Nord di Prato.

Legata al lombardo Battista Tettamanti da una “scandalosa” relazione che sarà sancita da matrimonio civile solo nel 1930 (tra l’altro dopo la nascita dell’unico figlio Vladimiro), la Meroni nacque a Milano nel 1885 da una famiglia operaia e subito, da giovanissima, si iscrisse al Partito Socialista da poco nato a Genova. L’attività politica e sindacale che svolse nel comasco accanto a Tettamanti, a cui nel 1915 fu affidata la segreteria della Lega Laniera di Vaiano,  avrebbe posto le premesse alle battaglie condotte successivamente in Val di Bisenzio. La sua vicinanza profonda al mondo contadino e operaio del comasco maturò in lei una forte consapevolezza del fatto che i diritti dei contadini e degli operai sarebbero stati conquistati solo grazie alla rivoluzione (Teresa era una seguace del socialismo rivoluzionario alla Sorel).

Giunta in vallata appena trentenne Teresa Meroni si trovò di fronte a una situazione socio-economica diversa da quella a cui era abituata nel comasco: in Val di Bisenzio le fabbriche tessili erano legate al ciclo della lana “meccanica” o rigenerata e le famiglie contadine seguivano il modello della mezzadria toscana. Erano tempi difficili, ma c’era la speranza di un miglioramento della vita quando si lasciava la campagna per andare a vivere in città. Speranza che andò esaurendosi con l’entrata in guerra dell’Italia, avvenuta il 24 maggio 1915.

All’inizio della Prima Guerra Mondiale Tettamanti fu richiamato alle armi nel 171° battaglione della milizia territoriale e Teresa Meroni si trovò a sostituirlo, assumendo la guida della Lega Laniera di Vaiano. Si trattò di un fatto epocale, perché la Meroni prima di allora non faceva parte nemmeno del Consiglio Direttivo della Lega, come del resto nessun’altra donna. Da allora si distinse per la sua strenua attività di pacifista, tant’è vero che il commissario Luigi Morelli, in una testimonianza del 19 luglio 1917, affermò che la donna per mesi cercò di “catechizzare le donne e i ragazzi, e indurli a fare una dimostrazione contro la guerra”.

In effetti i sospetti del commissario di pubblica sicurezza non erano infondati: il 2 luglio 1917 da Luicciana, piccola frazione di Cantagallo, partì una marcia di quattrocento donne alla volta di Prato. Il gruppo di protesta passò davanti ai principali stabilimenti produttivi di Vernio. Decisero di unirsi alla manifestazione le “fabbrichine” del tappetificio Peyron a Mercatale e anche quelle contadine per lo più provenienti da Gricigliana, che erano entrate in fabbrica per colmare l’assenza degli uomini richiamati al fronte. L’intenzione delle scioperanti era di raggiungere Prato, così da allargare anche alla città laniera la protesta sociale contro una guerra ritenuta ingiusta e per rivendicare condizioni di vita e di lavoro dignitose. La Prefettura decise di intervenire con un reparto di cavalleggeri, ma le donne scelsero di proseguire comunque, nonostante il pericolo delle cariche.

Il corteo, che si ingrossò nei pressi di Coiano, riuscì a superare lo sbarramento dei cavalleggeri nei pressi di San Martino, dove però una decina di donne fu arrestata. La marcia riuscì comunque a raggiungere le carceri, dove furono liberate alcune donne fermate. Una volta giunta in prossimità della stazione ferroviaria, la protesta fu bloccata dalla polizia e il corteo si disperse per le vie del centro. L’agitazione però non si fermò qui: fino al 9 luglio si protrassero episodi e sommosse diffuse dalla Val di Bisenzio sino alle porte di Pistoia, e infine tutto si concluse con l’arresto di 56 persone.

Prato '50 Teresa Meroni parla alle operaie tessiliTeresa Meroni fu ritenuta (a ragione) responsabile delle agitazioni avvenute. Rimase in carcere tre mesi ma, una volta uscita, riprese la sua propaganda politica, soprattutto in favore della conquista dei diritti femminili. Per questo motivo fu allontanata dalla Val di Bisenzio e spedita al confino in Garfagnana, dove sarebbe rimasta fino alla fine della guerra.

La protesta, prettamente di stampo politico, per le autorità fu allarmante per il fatto che a guidarla fosse stata una “rivoluzionaria di professione”, ritenuta pericolosa “per le sue idee socialistiche rivoluzionarie, antimilitaristiche, maniacali”. Come ricordano Annalisa Marchi e Alessandro Cintelli, l’idea mazziniana di donna paragonabile a un “angelo della famiglia” era quanto mai una sbiadita immagine rispetto a quella dipinta dalla vita della Meroni: “dal punto di vista delle autorità di polizia, a ragione Teresa risultava un’agitatrice estremamente pericolosa perché la sua opera di propaganda scardinava i punti fondanti della mentalità del tempo, giustificando nell’immaginario collettivo l’idea che le donne potessero mettersi a capo della rivolta contro la guerra” e pretendere un ruolo che non fosse subalterno come quello che le donne avevano avuto sino a quel momento.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano: 

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Letizia Magnolfi si è laureata in Scienze Storiche nel 2012, con una laurea magistrale in Storia delle Dottrine Politiche. Ha collaborato con la Fondazione CDSE di Vaiano per la realizzazione della mostra 1944: l’ultimo anno di guerra a Schignano (aprile 2011) e ha recentemente vinto un concorso fotografico intitolato Immaginare…ascoltare, ricreare il lavoro, sempre a cura della Fondazione. Attualmente sta svolgendo un tirocinio di formazione presso la Rete Civica del Comune di Prato.

Tra le sue pubblicazioni:
A  proposito dell’USIA. Il ruolo dei mezzi di comunicazione negli anni ’60 della guerra fredda, Instoria, N. 42, Giugno 2011 (LXXIII)
Dal movimento Demau al femminismo di Oggi. Cosa è rimasto?, Instoria, N.41, Maggio 2011 (LXXII)