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Sulle tracce della Grande Guerra a Grosseto

La dimensione di «grande cesura» rappresentata dalla prima guerra mondiale rappresenta ormai un paradigma storiografico consolidato: per dimensioni, durata, numero di vittime e caratteristiche del conflitto (una guerra di posizione senza battaglie campali risolutive, e la prima guerra industriale) essa rappresentò un evento senza precedenti, destinato ad influire sull’intera storia del XX secolo.

Per l’Italia la prima guerra mondiale si configurò come la prima grande prova dopo l’unità. Non fu, certamente, il primo conflitto armato: altri ve ne erano state, quelli coloniali tra il 1896 e il 1912 in Africa Orientale e Libia, senza dimenticare il coinvolgimento nella cosiddetta «ribellione dei boxer» in Cina nel 1900-1901. Ma si era trattato di conflitti minori, non paragonabili allo sforzo necessario nel 1915-18. Per la prima volta, dunque, l’intera comunità nazionale fu coinvolta in un cimento collettivo che, essendo peraltro la prima guerra totale della storia, richiese sacrifici senza precedenti anche alla popolazione civile, quel fronte interno che assumeva ora un’importanza non così inferiore a quello di battaglia.

Cattura9Questi aspetti macroscopici rappresentano lo sfondo sul quale si sviluppa la mostra virtuale Sulle tracce della Grande Guerra a Grosseto. Storie di guerra, di prigionia, di coraggio di abbattimento, realizzata dall’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea. Scopo fondamentale della mostra è quello di tenere insieme, di riunire la dimensione nazionale (e globale) del conflitto con quella locale; di mostrare gli effetti della guerra su un territorio strategicamente periferico (perché lontano dal fronte) ma che, come qualunque altra “periferia”, ne subì le conseguenze umane, sociali, economiche e politiche. La mostra si articola su tre sezioni fondamentali (oltre ad una introduttiva): Al fronte¸ La guerra e il territorio e Il dopoguerra e la memoria, a loro volta articolate in più sotto-sezioni che evidenziano specifici temi, come la propaganda, la corrispondenza dei combattenti, la questione dei profughi, il ruolo delle donne e della cittadinanza, le memorie e i monumenti, la toponomastica cittadina. Questo museo virtuale si avvale di una varietà di fonti e riferimenti, da quelle più tradizionalmente storiografiche come la documentazione d’archivio (in particolare proveniente dall’Archivio di Stato di Grosseto) o le memorie, edite ed inedite, di singoli reduci; e poi la stampa dell’epoca, materiale fotografico prodotto autonomamente o reperito in rete, fino ai contributi di cittadini che hanno messo a disposizione le proprie collezioni di memorie ed immagini. La realizzazione della mostra ha dunque richiesto uno sforzo autenticamente multimediale, con la consapevolezza di dover utilizzare strumenti vecchi e nuovi della ricerca storiografica per la realizzazione di uno strumento agile e fruibile per qualunque utente. La dimensione digitale della ricerca lascia inoltre spazio per futuri contributi ed integrazioni, alcuni dei quali già in cantiere.

rimembra_grLa dimensione locale della guerra ha oggi, quando ricorre il centenario da quei tragici avvenimenti, la funzione decisiva di ricondurre ad un orizzonte intelligibile un evento che rischia altrimenti, per le sue stesse dimensioni, di risultare incomprensibile. E di finire così fagocitato, come troppo spesso avviene, nella retorica degli anniversari, con toni variamente più luttuosi oppure celebrativi, ma lasciando intatta una memoria che troppo spesso si affida (nel caso della prima guerra mondiale) ai topoi del sacrificio, della pietà per i morti, infine della vittoria. La mostra virtuale vuole invece dare un nome, e quando possibile un volto, ai caduti, ai feriti e mutilati; ricordare la tragedia dei profughi provenienti dalle zone di combattimento (oltre 1.500 quelli che giunsero in territorio grossetano); il coinvolgimento della cittadinanza nella Croce Rossa o nei comitati «pro patria» che si occupavano di raccogliere denaro e beni di prima necessità per i combattenti; l’assistenza ai reduci durante e dopo la guerra; il ruolo di alcuni istituti peculiari del territorio, come il Centro Militare Veterinario (CEMIVET), tuttora esistente, da cui partirono per il fronte cavalli e muli destinati alle operazioni militari; il peso morale e politico di avvenimenti quali la cerimonia per la sepoltura del milite ignoto, nel 1921, la realizzazione del parco della rimembranza nel 1926 e la denominazione di strade e piazze, inquinate dalla retorica nazionalista e, poi, dalla propaganda fascista.

mutilati_chiedono_il_pane_al_GovernoIl quadro complessivo offerto dal territorio grossetano rispecchia alcuni dati acquisiti dell’epoca: ad esempio la contrapposizione tra interventisti e neutralisti, assai forte soprattutto in alcuni centri di consolidata tradizione radicale e risorgimentale (su tutti Massa Marittima), le problematiche lavorative – in particolar modo in agricoltura – legate alla partenza di tanti uomini, da cui emerse un ruolo sociale della donna senza precedenti, e quelle di natura economica per la crisi causata dal conflitto, con il forte carovita e la scarsità di beni di prima necessità. Ma sono ovviamente emerse le specificità: si pensi al fenomeno del rifiuto della guerra e della diserzione, che produsse una manifestazione notevole come la «Banda del Prete», o alla vicenda delle tenute lorenesi (quindi austriache) di Alberese e Badiola, confiscate dallo stato italiano e al centro, nel dopoguerra, di un aspro conflitto tra l’Opera Nazionale Combattenti e l’Associazione Combattenti grossetana.

Le problematiche specifiche di una “periferia” si proiettano dunque sullo sfondo della guerra italiana e mondiale: e così come la vicenda di tanti giovani maremmani finiti a combattere su fronti lontanissimi (dall’Africa ai Balcani alla Manciuria), danno vita ad un dialogo fecondo con la «grande storia» di cui, infine, anch’esse fanno parte.




Vittorio Meoni, la ricerca continua della libertà

Vittorio Meoni è nato l’11 dicembre del 1922 da una famiglia di insegnanti. La prima fase della sua vita fu segnata dai continui spostamenti dei genitori. A Colle di Val d’Elsa, città del padre, a Siena, a Prato, a Firenze per l’Università di Scienze Politiche. La sua storia è conosciuta, forse soprattutto, per il drammatico episodio che lo ha visto tra i protagonisti dell’eccidio di Montemaggio. Tuttavia, l’intera vita di Vittorio merita di essere osservata con attenzione, poiché è attraversata senza interruzione da un filo sottile ma evidente, quello della ricerca della libertà. Molte volte ha avuto la possibilità di parlare dell’esperienza da partigiano, dell’impegno politico, della Cremona, del carcere.

In più di un’occasione ha voluto mettere le sue memorie nero su bianco, ma il racconto più compiuto è probabilmente quello riportato in maniera chiara e lineare in La libertà è come l’aria (Effigi edizioni). Qui è Vittorio stesso a parlare, senza vergogna, della sua adesione ai GUF (Gruppi Universitari Fascisti), dai quali però venne espulso in seguito a un’osservazione fatta a voce alta all’Università e a un interrogatorio dal quale venne congedato “per assoluta e dichiarata mancanza di fede fascista”. Abbracciò pienamente l’antifascismo, interprete del forte risentimento e dalla povertà che mordeva la popolazione. Fu per lui una “vera e propria rivoluzione culturale, maturata nell’ambiente cattolico fiorentino, caratterizzato dalla presenza e dall’opera di alcuni sacerdoti e di personaggi-simbolo come Giorgio La Pira”. Anche durante il secondo convegno giovanile alla Casa fiorentina della GIL (Gioventù Italiana del Littorio), Vittorio non mancò di manifestare pubblicamente il proprio dissenso. Prese infatti la parola, criticando il sistema corporativo e la sua antidemocraticità. Questa volta le conseguenze furono più gravi, poiché, dopo un altro interrogatorio poliziesco, venne trasferito al carcere delle “Murate”, dove rimase per circa due mesi. Non fu l’unica esperienza di detenzione. Anche dopo la notizia della caduta del fascismo, nel 25 luglio del 1943, Vittorio venne preso e torturato a “Villa Triste” e di nuovo trasferito al carcere delle “Murate”. Intanto, i tedeschi avevano cominciato anche a Firenze il rastrellamento sistematico degli ebrei.

Vittorio Meoni oggi

Vittorio Meoni in una foto recente

Una volta libero, decise di darsi alla macchia, scelta di cui mise al corrente soltanto il padre, con cui condivideva gli ideali antifascisti: “Pensai che l’unico modo di raggiungere una formazione partigiana era quello di andare a Colle, dove sapevo che c’erano amici e persone che si stavano organizzando per iniziare la lotta armata contro la Repubblica Sociale. […] Partimmo in tre: con me c’erano Mauro Rolandi e un certo Bargi (detto Ciclamino)”.

Sotto la guida di Velio Menchini (detto “Pelo”), Vittorio fece le sue prime azioni partigiane a Casole d’Elsa e a Montieri (in entrambi i casi vennero assalite le caserme dei carabinieri, per procurarsi le armi necessarie), poi sul Montemaggio (per compiere azioni di sabotaggio sulla via Cassia e sulla linea ferroviaria Siena-Firenze). Fu in quest’ultimo luogo che i repubblichini uccisero con un plotone d’esecuzione diciannove compagni. Era il 18 marzo del 1944. Di quella triste pagina della nostra storia Vittorio è l’unico sopravvissuto, anche se gravemente ferito, per essere scappato appena prima che i fascisti riuscissero a premere il grilletto. Ne ha scritto dettagliatamente nella Memoria su Montemaggio (Anpi Siena, 1975).

Di nuovo dietro le sbarre, venne fatto uscire quando la Liberazione di Roma spinse i repubblichini impauriti a scarcerare decine di detenuti politici. Si mise dunque a disposizione del Corpo di Spedizione Francese che liberò Colle. A quel punto, aveva provato sulla sua pelle cos’era la paura e il freddo e la lontananza dagli affetti. Nonostante la Toscana fosse finalmente libera dall’oppressione fascista, sempre per quel filo di cui dicevo all’inizio, si arruolò come volontario nell’esercito di liberazione italiano. In particolare, prese parte al Gruppo di Combattimento “Cremona”, che operava in Romagna, a fianco dell’VIII Armata Britannica, un’esperienza che può essere attentamente letta in Dal fazzoletto rosso alle stellette. 1944-1945: l’esperienza dei volontari senesi nei Gruppi di Combattimento (Nuova Immagine, 2005).

Vennero in seguito il trasferimento a Roma per partecipare alla Commissione di Direzione Nazionale del PCI, il rientro a Siena, le drammatiche giornate del ’48, i processi che la Resistenza senese dovette subire, la difficile scelta di non accettare la candidatura a sindaco. Anche in questi casi, per usare le parole di Ivan Tognarini, “Vittorio è stato (ed è, auguriamoci ancora per tanti e tanti anni) uno spirito libero, una coscienza critica, una persona che, senza mai scadere nell’alterigia, nella boria, nella tracotanza, è stata ed è rimasta rigorosamente e coraggiosamente coerente con le proprie idee”.

Oggi, all’età di quasi 93 anni, il suo impegno e la sua grande partecipazione non sono ancora finiti. È infatti il Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea, nonché dell’Anpi provinciale di Siena. Con mente lucida, nel 2015 come allora, non perde occasione per raccontare la sua storia e insegnare a tutti che “la libertà è come l’aria, ne apprezzi tutto il valore quando ti manca”.




Profughi e accoglienza a Livorno: l’impegno per i Balcani negli anni ’90

La presenza di profughi, rifugiati e richiedenti asilo in Italia rappresenta oggi uno dei temi più discussi nel dibattito pubblico. L’arrivo, il transito e la permanenza nel nostro paese di persone in fuga da contesti di conflitto bellico e di emergenza umanitaria ha provocato attenzione e preoccupazione crescenti. I temi dell’accoglienza, della sicurezza, della protezione sono all’ordine del giorno e il confronto su tali questioni suscita accesi contrasti e conflitti.

5_mostar_giu94Nel pensare a questi argomenti, però, rimaniamo spesso schiacciati dal presente e dal lessico della contingenza, dimenticando che anche in passato la società italiana ha affrontato e gestito ondate migratorie di persone che avevano perso tutto e che cercavano nel nostro paese un’approdo sicuro. Poco più di 20 anni fa, agli inizi degli anni ’90, la regione balcanica è stata teatro di un sanguinoso conflitto, terribile e prolungato, la guerra civile della ex Jugoslavia, che ha suscitato un’ondata di mobilitazione in tutta Italia, proprio con le parole d’ordine dell’accoglienza e dell’aiuto verso le vittime di quella sciagura.

A Livorno, come in molte altre città italiane, l’impegno per l’emergenza umanitaria balcanica si è andato concretizzando con gradualità, attraverso un percorso molto singolare. In una prima fase erano stati organizzati a livello istituzionale degli incontri di sensibilizzazione e conoscenza della situazione, il primo in apertura di decennio con la partecipazione dello storico sloveno Joze Pirjevec, il secondo nel marzo 1992 con la presenza di alcune donne pacifiste provenienti da Belgrado e Zagabria. Se inizialmente si era cercato di capire le ragioni della guerra, nel ’92 si allacciarono direttamente rapporti con il movimento pacifista jugoslavo, che rimaneva completamente assente dalla rappresentazione mediatica del conflitto.

3_unita_mag94Ma il salto di qualità nell’impegno dal basso verso la regione balcanica avvenne a Livorno nel 1994, grazie all’iniziativa dei detenuti del carcere della Gorgona. Questi infatti decisero di aderire al progetto nazionale Arci “Adotta la pace”, devolvendo una giornata del loro lavoro penale ad alcune famiglie vittime del dramma jugoslavo: il progetto consisteva nel versare la somma di lire 70.000 al mese ad una famiglia vittima della guerra o della discriminazione etnica. Luciano De Majo scrisse un articolo per l’Unità, intitolandolo «La Gorgona adotta la pace». Fu l’inizio di una gara di solidarietà tra molti cittadini livornesi a contribuire con donazioni e materiali utili, che furono poi portati a Mostar e a Sarajevo da una comitiva di volontari. Ma «chi si frugò per primo – ci ha detto giustamente Alfio Baldi, allora presidente dell’Arci di Livorno – furono i detenuti».

Il viaggio dei volontari in una ex Jugoslavia ancora in stato di guerra, dove i cecchini seminavano morte e non tutti vedevano di buon occhio questi “viaggi di pace”, fu un’esperienza molto forte, al pari di molti altri viaggi analoghi che partirono in quegli anni dall’Italia. «Dall’inizio delle ostilità in Slovenia e Croazia alla guerra in Kosovo, sono almeno 20.000 i cittadini italiani che si attivano nella solidarietà verso le popolazioni della Ex-Jugoslavia e dell’Albania», hanno scritto Marco Abram e Marzia Bona dell’Osservatorio Balcani-Caucaso in uno studio dedicato alle reti di solidarietà che attraversarono l’Adriatico negli anni ’90.

E in effetti l’emozione lasciata dal dramma della ex Jugoslavia non si spense nel giro di poco tempo, ma determinò poi una forte apertura nei confronti di un’altra crisi balcanica, quella dell’Albania e del secondo flusso di profughi che arrivò nel 1997: i primi albanesi che arrivarono a Livorno furono accolti nelle strutture prefabbricate prima usate dagli operai impegnati nella costruzione della variante, all’uscita di Montenero, pochi chilometri a sud della città. Furono subito attivati corsi di alfabetizzazione per aiutare i nuovi arrivati ad ambientarsi e potersi muovere nella società italiana.

La situazione dei profughi e la realtà concreta dell’accoglienza è profondamente condizionata dall’attivazione a livello sociale di movimenti d’opinione e di solidarietà, così come dalla reazione delle istituzioni. Per riflettere su questi temi, l’Istoreco Livorno insieme all’ISSM-CNR di Napoli hanno organizzato una giornata di studio il 22 ottobre 2015, presso la sede dell’Istoreco. L’obiettivo è di restituire una profondità storica alla realtà dell’immigrazione di richiedenti asilo, focalizzandosi su alcuni flussi significativi avvenuti già a partire dal 1945, passando per gli anni novanta e i conflitti nei Balcani e arrivare a delineare gli sviluppi più recenti. In particolare vogliamo concentrarci sulle modalità istituzionali con cui i governi italiani hanno scelto di gestire questi flussi, sulla storia e i percorsi dell’accoglienza, sulle diversità esistenti sia tra passato e presente, sia nei diversi movimenti di immigrazione di profughi avvenuti negli stessi periodi storici.

6_jugo_giu94Allo stesso tempo vogliamo capire quali sono state nel tempo le reazioni della società all’arrivo dei profughi, in che modo si sono attivati circuiti di solidarietà e se ci sono state forme di discriminazione. Di cosa parliamo quando parliamo di accoglienza, a livello nazionale e a livello locale? Chi sono stati i soggetti che hanno avuto in carico la responsabilità di occuparsene? Chi erano e chi sono i profughi? Da dove vengono e perché si trovano a passare dall’Italia? In che modo la politica migratoria italiana si è intrecciata alla politica migratoria europea, ieri e oggi?

Oltre a ragionare sul contesto nazionale e internazionale, crediamo inoltre sia importante riflettere sulle esperienze locali, ricostruendo ciò che è successo a Livorno e in Toscana a cominciare dall’esodo dei giuliani dopo la seconda guerra mondiale fino ai giorni nostri per mettere a confronto l’esperienza storica dell’accoglienza con l’attuale “modello toscano”, che nel contesto nazionale presenta originalità e peculiarità utili da approfondire.




Egemonia e potere: 40 anni di governo comunista in provincia di Grosseto.

Grosseto e la sua provincia sono stati governati per tutto il secondo dopoguerra dal PCI; un governo egemonico, protagonista della modernizzazione e autore delle più importanti scelte politiche, economiche e sociali che ancora oggi caratterizzano questa provincia. Sin dalle prime consultazioni elettorali post-Liberazioe il PCI risultò partito di maggioranza relativa nel capoluogo e in molti comuni della  provincia di Grosseto. Amministrò con giunte di coalizione, mantenendo un’alleanza con il Partito Socialista che, al di là di brevi parentesi di cui si dirà più avanti, non venne rotta dall’inaugurazione dei governi nazionali e in qualche caso locali di centro-sinistra. Caso che ha una sua singolarità, l’ inaugurazione del  sostegno a una giunta a guida repubblicana già nei primi anni ‘70. Tema rilevante è il rapporto con la Democrazia Cristiana, partito egemone a livello nazionale, soggetto localmente rilevante in certi momenti storici, soprattutto nella fase di attuazione della Riforma Fondiaria.

Osservando la società grossetana tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 è facile notare una fitta trama di associazioni e di gruppi fortemente connotati da una più antica tradizione repubblicana, garibaldina, anarchica che mostra chiaramente un carattere identitario ribelle e sovversivo.

In questo contesto si svilupparono facilmente le idee socialiste e soprattutto quelle comuniste. Nel 1921 quando la frazione comunista decise la scissione dal Partito Socialista Italiano anche a Grosseto vennero immediatamente fondate numerose sezioni comuniste. Una sentita tradizione sovversiva della zona rendeva ancora forte l’attaccamento ideologico delle masse operaie e contadine locali al partito socialista; i comunisti non erano invece riusciti né a fare proselitismo né a strutturare il partito e nelle elezioni politiche del maggio 1921 i socialisti risultarono il primo partito in provincia; i comunisti non riuscirono a eleggere nessun deputato. Da lì a poco, sotto la spinta delle violenze fasciste, le sezioni comuniste si svuotarono velocemente e i pochi militanti rimasti si organizzarono in partito clandestino.

Dunque, da cosa deriva il consenso dei comunisti nel secondo dopoguerra?

È sicuramente fondamentale il periodo clandestino durante il regime, in cui il partito assume un ruolo dominante nella compagine antifascista. I comunisti grossetani, infatti continuarono sotto il fascismo la propria attività politica, tanto che un protagonista dell’epoca, Aristeo Banchi, detto Ganna, così descriveva la fortuna che i comunisti raccolgono in quegli anni:

“Il fatto che molti comunisti fossero arrestati e continuamente perseguitati nelle forme più diverse, attirò l’attenzione e la simpatia di molti, per lo più giovani, di tendenze politiche diverse e appartenenti alla media borghesia cittadina: studenti, impiegati, artigiani e commercianti. Il comportamento di questi uomini, tenaci, entusiasti della loro attività antifascista, onesti nel lavoro e nella vita, li fece riflettere e cominciarono ad interessarsi della loro attività e vollero conoscere questo Partito Comunista, che era riuscito, a differenza degli altri partiti che erano spariti, a dare speranza per periodi migliori” (Aristeo Banchi, Si va pel mondo).

Ma il consenso verso i comunisti si accrebbe senza dubbio durante i difficili anni della Resistenza, quando il Partito comunista ebbe un ruolo predominante nella guerra partigiana; è in quei pochi mesi che vanno dall’8 settembre 1943 alla Liberazione nel giugno del 1944 che il Partito Comunista iniziò a costruire la propria egemonia nella provincia di Grosseto.

Una volta liberata, la provincia visse un periodo di grande fermento sociale ed economico con le numerose proteste dei contadini che chiedevano la terra e quelle dei minatori che volevano migliorare le proprie condizioni di lavoro ed economiche. È in questo contesto che il partito comunista locale riesce a legarsi con le masse popolari del territorio creando una solida e indissolubile base elettorale e di consenso per il futuro. Per i comunisti grossetani le lotte ebbero una duplice importanza, poiché, da una parte, furono il luogo dove si formò politicamente ed umanamente la classe dirigente che dopo pochi anni prenderà in mano il partito, e dall’altra, le lotte rappresentarono un’opportunità di crescita di consenso. Grazie ad un attento e duro lavoro di propaganda i comunisti grossetani riuscirono a mettersi alla guida di quelle battaglie; era grazie al lavoro di massa, come si diceva all’epoca, che il PCI riuscì a guidare le proteste e a condurle, attraverso le parole d’ordine che il partito stesso decideva, verso il voto comunista.

È necessario sottolineare che le lotte sociali in quei primi anni della Repubblica rappresentarono per un partito di massa come il PCI la vera e propria ragione d’essere: grazie a queste il PCI aumentava la propria forza e il proprio radicamento sociale. Ma non bisogna dimenticare che il PCI a Grosseto era anche un partito di governo che, fin dalla Liberazione, iniziò ad amministrare la quasi totalità degli enti locali. Non potendo prescindere dalle masse popolari e dalle proteste, questi due aspetti costringevano il PCI ad avere un duplice e parallelo modus operandi: da una parte, dovendo governare localmente il territorio, era obbligato a mantenere basso lo scontro sociale verso gli enti locali ma dall’altra parte, continuava a dirigere i movimenti di protesta e il conflitto sociale convogliando il malcontento contro il governo nazionale democristiano. La vera sfida che il PCI dovette affrontare nelle province come Grosseto, dove aveva un ruolo di governo, era quella di riuscire ad avere il monopolio della critica sociale subordinata alla propria idea politica.

Ma la costruzione del consenso comunista nel grossetano doveva passare anche da una capillare organizzazione territoriale e da una forte militanza.

Il PCI, fin dal primo congresso di Lione, aveva scelto una forma di organizzazione non verticistica ma basata su un forte rapporto con il territorio attraverso le federazioni, le sezioni e le cellule. Quest’ultime rappresentavano una vera e propria novità del movimento operaio italiano ed avevano lo scopo di propagare e diffondere le idee del partito sul territorio; con le cellule il partito poteva riuscire a conquistare e a coinvolgere le masse popolari. Il segretario della Federazione comunista Grossetana Guglielmo Nencini, nel Comitato Federale del 28 ottobre 1944 (uno dei primi dopo la liberazione di Grosseto) così riassumeva l’importanza dell’organizzazione cellulare del partito:

“La cellula è il tipo di organizzazione che più di ogni altro permette una intensa vita di partito, una più facile e continua opera di chiarificazione ideologica ed è quella che permette una maggiore tutela del partito contro ogni frazionismo o scissionismo. Ma non basta: la cellula è lo strumento più perfetto e potente di penetrazione politica nella massa popolare, è l’organismo che meglio di ogni altro permette al partito di orientare, guidare le classi popolari e quindi di stringerle attorno alla classe operaia in un blocco unitario veramente inscindibile” (Fondo Nencini, Isgrec).

Fin dalla Liberazione, nella provincia di Grosseto furono aperte numerose sezioni comuniste tanto che il PCI ben presto ottenne una enorme e capillare diffusione territoriale. Ogni paese, ogni città, aveva una sezione; soltanto a Grosseto fino alla prima metà degli anni ’80 si contavano ben 5 sezioni cittadine e altre 15 sparse per tutto il territorio comunale; mentre in provincia si contavano all’incirca altre 135 sezioni per un totale di circa 155 in tutta la Federazione. La nascita, e spesso la costruzione, delle sezioni comuniste era possibile grazie alle sottoscrizioni dei militanti che raccoglievano denaro o che spesso mettevano a disposizione del partito le proprie competenze o il proprio lavoro per la costruzione materiale delle sedi. sottoscrizione sedeLa vecchia sede della Federazione provinciale di Grosseto venne realizzata grazie alla sottoscrizione e al lavoro volontario dei militanti comunisti; una volta ultimata, venne inaugurata nel 1957 da Palmiro Togliatti. Stessa cosa avvenne per la Casa del Popolo di Bagno di Gavorrano che venne inaugurata nel 1973 da Pietro Ingrao.

Ovviamente l’organizzazione e la diffusione sul territorio non poteva reggere senza la militanza di migliaia di grossetani che accrebbero e favorirono l’egemonia comunista in provincia. I militanti comunisti, nei loro luoghi di lavoro e nei loro paesi di residenza donavano volontariamente e con passione il proprio tempo libero al partito, per migliorarne l’organizzazione, per le campagne elettorali e per le Feste de l’Unità.

La rigida morale comunista del primo dopoguerra obbligava i militanti ad una vita sobria e completamente donata alla causa comunista. Questi avevano il dovere, come si legge nell’articolo 9 dello Statuto del PCI del 1951, oltre a “partecipare regolarmente alle riunioni e a svolgere attività di partito secondo le direttive dell’organizzazione”, ad avere rapporti di lealtà e fratellanza con gli altri militanti; vigilare sulle buone sorti del partito e mantenere una “vita privata onesta, esemplare”. Il militante comunista, quindi, doveva dare l’esempio morale anche nella propria vita privata e aveva l’obbligo di “esercitare la critica e l’autocritica per il miglioramento della sua attività e di quella del partito” attraverso anche una continuo miglioramento della propria “conoscenza della linea politica e la propria capacità di lavorare per la sua applicazione”.

Purtroppo non è possibile descrivere uno scenario organico per quanto riguarda le iscrizioni dei militanti poiché mancano molti dati nell’archivio della Federazione comunista, conservato presso l’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea; tuttavia è possibile affermare che il numero degli iscritti in provincia di Grosseto rispecchiava le medie delle altre province toscane.

L’egemonia comunista non aveva bisogno solo di una forte base sociale su cui fondare la propria organizzazione, ma necessitava anche di rapporti stabili con le altre forze politiche locali. Infatti, senza una solida politica delle alleanze, il partito non avrebbe potuto mantenere la propria posizione.

Manifestazione comunista a ribolla (anni '50)

Manifestazione comunista a ribolla (anni ’50)

Osservando i risultati elettorali del PCI nelle varie elezioni amministrative, si notano due tendenze distinte. La prima mostra, dagli anni ’50 fino alle elezioni regionali del 1970, un sostanziale consolidamento del consenso elettorale del PCI, a scapito chiaramente sia delle opposizioni (DC, Psdi, Pli, Pri), che del principale alleato di sinistra ovvero il PSI. La seconda tendenza, che riguarda il periodo dal 70 fino alle fine del 90, mostra invece una lenta e parziale erosione del consenso elettorale comunista a favore degli alleati socialisti. Questa perdita di voti però non si traduce in una diminuzione di consenso e l’egemonia comunista rimane ben salda; piuttosto la lieve crisi elettorale va imputata alla crescente fortuna politica che il PSI vive in quegli anni.

Il PCI, quindi, costruì il proprio potere locale sull’alleanza strategica con il PSI, creando una sostanziale continuità di governo e dando alle istituzioni locali una forte stabilità politica. Questa alleanza non solo aveva radici ideologiche, ma si basava su un preciso accordo elettorale politico e programmatico che tra le altre cose prevedeva una ferrea e rigida distribuzione, sia delle cariche politiche elettive, che delle cariche di nomina politica nei vari enti locali e collaterali. Nella distribuzione di questi vari incarichi il PCI, forte del suo peso elettorale, faceva valere la propria egemonia ed aveva la meglio sugli alleati socialisti, creando così non pochi malcontenti. Leggendo i verbali dei Comitati federali comunisti di quegli anni è facile trovare numerose notizie a riguardo ma bisogna tenere ben presente che le nomine politiche all’interno degli Enti Locali erano una pratica diffusa, considerata normale ed erano soprattutto permesse dalla legge.

Spesso però le alleanze politiche locali venivano influenzate dalla politica nazionale, come nel caso dell’unificazione socialista del 1966 che portò all’allontanamento del PSI dalle giunte locali. Nel 1967, i socialisti uscirono dalla Giunta provinciale e i comunisti dettero vita ad monocolore con il Presidente Palandri; stessa dinamica avvenne nelle altre amministrazioni locali compreso il Comune di Grosseto. Nel comunicato stampa che i comunisti grossetani diffusero in quell’occasione si legge della grande preoccupazione comunista nel constatare che

“la gravità di questa decisione che avviene con motivi estranei ai problemi e agli impegni programmatici di quelle assemblee elettive nelle quali, da 20 anni e con un sensibile lavoro unitario, la collaborazione tra PCI e PSI ha consentito il conseguimento di estesi successi nell’interesse della città e delle masse popolari” (Archivio PCI-PDS, Isgrec).

Per i comunisti grossetani la crisi dell’alleanza con il PSI era palesemente influenzata dalla politica nazionale ma metteva in serio pericolo la stabilità stessa dei governi locali:

“il disimpegno del PSI-PSDI unificati non è altro che il primo passo di una politica che obbiettivamente può portare le amministrazioni pubbliche grossetane a serie difficoltà, con la conseguenza immediata di sacrificare e ritardare soluzioni urgenti ed inderogabili e con il pericolo di aprire la via a gestioni commissariali in ossequio agli obbiettivi e alla volontà della DC di cancellare la posizione di potere delle forze di sinistra” (Archivio PCI-PDS, Isgrec).

Il PCI, nonostante l’unificazione socialista e la crisi che ne scaturì, rimase al governo con le proprie forze e quando nel 1970 la riunificazione naufragò, i socialisti grossetani rientrarono in tutte le amministrazioni locali e la crisi poté dirsi conclusa. Se il rapporto con i socialisti fu continuo e costruttivo, ben diverso fu il rapporto politico con le altre formazioni democratiche locali.

X Congresso Provinciale del PCI (1972)

X Congresso Provinciale del PCI (1972)

Con il Partito repubblicano italiano, ad esempio, non ci fu mai una vera e propria alleanza politica-elettorale, nonostante il dialogo portato avanti dai comunisti dagli anni ’70 e che vide l’entrata dei repubblicani nell’amministrazione Valentini del Comune di Grosseto negli anni ’80.

Nonostante questo, il massimo punto di avvicinamento politico tra PCI e PRI, sia a livello politico, ma soprattutto mediatico, si ebbe nel 1974, durante le elezioni amministrative del Comune di Monte Argentario, quando Susanna Agnelli, eletta consigliera comunale per il PRI, ottenne l’astensione dei comunisti per varare la propria giunta. Quella di Monte Argentario, con l’astensione comunista a favore dell’amministrazione Agnelli, fu la prima esperienza di maggioranza alternativa all’alleanza social-comunista.

La crisi a livello nazionale che si andò a creare tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 tra il PCI e il PSI ebbe degli echi anche in provincia. Nel 1976 Aldo Tonini, Segretario provinciale del PSI, nel suo discorso durante il XXXI Congresso Provinciale descriveva i rapporti tra il PSI e il PCI “sempre tranquilli e senza problemi” pur tuttavia sottolineando un malcontento:

“in virtù della politica del compromesso storico che il PCI persegue ad ogni livello, nella ricerca costante di un rapporto privilegiato con la DC si verificano contrasti e tensioni all’interno della maggioranza di sinistra. In tempi anche recenti autorevoli esponenti comunisti locali hanno affermato che le difficoltà che di volta in volta sorgono nei rapporti tra PSI e PCI all’interno delle maggioranze sono dovute alla riottosità dei socialisti di fronte ad ogni ipotesi di allargamento delle maggioranze stesse e persino alla chiusura ed agli ostacoli verso ogni tentativo di realizzare un rapporto nuovo con le minoranze” (Archivio PCI-PDS, Isgrec).

Quando poi, sulla scia dei successi elettorali nazionali, il PSI migliorò i propri risultati elettorali locali, la crisi tra i due alleati si fece ancora più palese soprattutto perché il PSI iniziò a chiedere sempre più peso e potere politico. A riguardo può essere utile la posizione democristiana che, dopo anni di isolamento, negli anni ’80 iniziò a cercare di scalzare il potere comunista, proponendo un accordo con i socialisti. Hubert Corsi, durante il Congresso provinciale della Democrazia Cristiana del 22 febbraio 1981, nel suo discorso da Segretario provinciale lamentava l’atteggiamento frontista e la chiusura politica del PCI, affermando che il PCI “è stato abile a cedere certe posizioni [al PSI], talora anche contro la logica elettorale, pur di coinvolgerlo in un’alleanza di carattere generale” in modo da soddisfare “le crescenti aspettative di potere” ottenendo in cambio “certezze e potere”; il PSI di contro, nella lettura democristiana “è stato abile a cercare di trarre dalle difficoltà del tradizionale alleato, il maggiore vantaggio; assicurandosi posizioni di forza superiore alla propria forza elettorale”.

Tra minacce di maggioranze alternative e miraggi pentapartitici, la crisi tra PCI e PSI si rese ancora più palese quando nel 1988 problemi di natura giudiziaria coinvolsero membri socialisti della giunta comunale.

In quella situazione però furono chiari almeno due aspetti: da una parte le opposizioni e i socialisti non avevano una forza tale per rappresentare una vera alternativa al governo comunista; dall’altra invece, ancora una volta, risultò evidente, a Grosseto e in provincia, come il PCI fosse l’unica forza egemonica.




“Tombolo paradiso nero”, il film che gli Usa non volevano vedere

«Un sabato scorso aprimmo il televisore – channel 7 – e sentimmo annunciare, come una primizia, il film Incontri della fatalità. Primo attore quell’Aldo Fabrizi che fu l’eroico Prete di Città aperta. Vediamo. Un film nostrano è sempre, un po’, un “bagno di italianità”. Ma trasecolammo. Quegli Incontri della fatalità non erano altro che il rimaneggiamento dell’ignobile film Tombolo. Non c’era altro “documentario” da presentare a quegli eterni “contenti e gabbati” che sono gli italo-americani? Evidentemente no». Con questo articolo del 27 febbraio 1954 il giornale dei cattolici italo-americani Il Crociato-The Crusader sferrava il suo attacco al film Tombolo, paradiso nero, prodotto qualche anno prima, nel 1947, dalla Incine. Edito a Brooklyn e collegato alla National Catholic Welfare Conference (la conferenza episcopale statunitense), il settimanale dei cattolici newyorkesi era solo una delle molte voci che Oltreoceano si erano alzate duramente contro la pellicola italiana.

Un soldato della Divione Buffalo a Tombolo in compagnia di una "segnorina"

Un soldato della Divione Buffalo a Tombolo in compagnia di una “segnorina”

Del resto il film del regista Giorgio Ferroni scoperchiava una realtà che, in patria come al di là dell’Atlantico, non poteva non dar fastidio nelle stanze dei bottoni del potere politico. Nell’immediato dopoguerra, il caso Tombolo, località che identifica la vasta pineta tra Livorno e Pisa, era assurto a emblema nazionale delle conseguenze più deleterie dell’occupazione americana. Dall’ultimo anno di guerra lo scalo portuale livornese aveva assunto una centralità logistico-strategica per le operazioni belliche nello scacchiere Mediterraneo: dopo essere divenuta una ghost town per i massici bombardamenti e il forzato sgombero del cento imposto dai tedeschi (12 novembre 1943), con la liberazione (19 luglio 1944) la città si era dunque ripopolata immediatamente soprattutto di soldati angloamericani. In un rapporto alleato del luglio 1945 si affermava che in quei mesi tra i 50mila e gli 80mila militari si erano ammassati in città (su una popolazione residua, al momento della liberazione, di appena 20mila livornesi). La massiccia presenza di truppe, che si protrasse fino al dicembre 1947 e che portò Livorno a divenire anche un immenso magazzino-emporio di materiale bellico di ogni tipo, richiamò dal Sud del paese già liberato migliaia di individui in cerca di fortuna.

In tale contesto, la pineta di Tombolo divenne il simbolo del degrado prodotto dalla “lunga liberazione”. Una sorta di terra di nessuno – spesso al di fuori del controllo perfino della Military Police (MP) – in cui stanziavano disertori, trafficanti, contrabbandieri, prostitute. Nell’estate 1948, un delegato della Santa Sede in visita alla città la descriveva come «una piccola Napoli» e «sotto alcuni punti di vista, peggio di Napoli», denunciando specialmente le conseguenze che la realtà di Tombolo provocava sull’infanzia. «Le truppe alleate (bianchi e neri) – scriveva il rappresentante pontificio – soltanto da pochi mesi hanno lasciato la zona! E i giovani, i ragazzi, i bimbi? Hanno formato la legione degli sciuscià. […] Sono stati ladri a sette anni, ruffiani nell’età delle favole, contrabbandieri nell’età dell’asilo».

Intorno a Tombolo si creò ben presto una leggenda, alimentata da romanzi (come Dopo l’ira di Silvano Ceccherini e Tombolo città perduta di Gino Serfogli, cronista di «nera» del quotidiano social comunista «La Gazzetta di Livorno») e inchieste giornalistiche che contribuirono a dare della pineta un’immagine tetra, di luogo di perdizione. Nel novembre 1946 era ad esempio la popolarissima «La Domenica del Corriere» a dedicare una copertina al rastrellamento delle «segnorine», sciuscià e disertori della Quinta Armata operato dalla MP a Tombolo. Inchieste apparvero su «L’Europeo» o su «Crimen».

La copertina della "Domenica del Corriere" dell'ottobre 1946

La copertina della “Domenica del Corriere” dell’ottobre 1946

Non stupisce che, con un tale concentrato di ingredienti paradigmatici, Tombolo e Livorno attirassero le attenzioni di registi e produttori cinematografici. La “pineta proibita” regalava lo scenario letterario e traslato della discesa agli inferi delle miserie del dopoguerra. Lo spazio avventuroso che questo contesto offriva, permetteva al cinema neorealista di attingere alla cronaca «per riadattare al nuovo orizzonte del dopoguerra vecchi codici di genere: gangster movie, spy story, noir, western e, soprattutto, commedia e melodramma». Non a caso l’intreccio di Tombolo, paradiso nero trasse spunto da un fatto di cronaca raccontato da Indro Montanelli sul “Nuovo Corriere della Sera” del 10 aprile 1947 nell’articolo Vive a Tombolo un uomo che si fa ricco con l’onestà. Il giornalista toscano figurò perfino tra gli sceneggiatori del film di Ferroni, prestandosi ad acconciare al grande schermo la storia di Giovanni R., ex vicebrigadiere che, tornato a casa, in Ciociaria, dopo aver servito tre anni in Libia, aveva trovato la propria abitazione distrutta da una bomba, la moglie morta sotto le macerie e l’unica figlia dispersa. Nel film Aldo Fabrizi impersonava l’ex brigadiere che nel suo viaggio nella «selva oscura» di Tombolo alla ricerca della figlia perduta (Adriana Benetti) riusciva – sacrificando la sua stessa vita – a salvare la figlia, riportandola sulla retta via e assicurandole un avvenire di amore e onestà.

Ma questa sorta di mito omerico moderno fu, come detto, osteggiato dalle alte sfere di governo. Approdato nel maggio 1947 a capo dell’ufficio che aveva in mano le chiavi della cinematografia nazionale, Giulio Andreotti aveva del resto fatto capire in poco tempo quale sarebbe stata la sua linea di governo. Il giovane Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo si sarebbe battuto, in un raccordo stretto con gli uffici vaticani, per «un cinema politicamente e sessualmente innocuo». Tombolo, paradiso nero faceva luce su certe conseguenze dell’occupazione alleata che non erano per niente in linea con la virata atlantica a cui, proprio nei mesi dell’uscita del film, stava lavorando il governo De Gasperi. Nel film di Ferroni non c’era alcuna celebrazione del ruolo salvifico degli americani: anzi veniva in rilievo l’impatto violento della cultura americana con i valori della tradizione italiana, la corruzione delle «segnorine», la degradazione a cui giungevano molti soldati statunitensi, soprattutto neri, che sceglievano la diserzione. Non a caso un altro film ambientato a Tombolo l’anno successivo, Senza pietà di Alberto Lattuada, non trovò calda accoglienza nelle stanze del potere democristiano e presso il pubblico statunitense. Qui oltre a presentare i topoi classici della disgregazione di valori del dopoguerra imposti dalla “lunga liberazione”, si proponeva la storia d’amore tra un soldato nero (John Kitzmiller, protagonista anche di Tombolo, paradiso nero) e una bianca (Carla Dal Poggio) che era ancora ritenuto un tabù nella società americana.

Il manifesto del film riadattato per l'estero

Uno dei manifesti che accompagnò l’uscita del film

Il film di Ferroni non trovò particolari ostacoli (salvo qualche taglio di poco conto imposto dalla censura) a ricevere il nulla osta alla proiezione in patria (concesso da Andreotti il 24 ottobre 1947), ma assai più complesso fu l’iter per la sua esportazione. Nel corso 1950 la Incine fu costretta a ripresentare il film alla Direzione generale della cinematografia in versione rivista «ai soli fini dell’esportazione avendone mutato il titolo in “Verso la vita”» e apportando «alcuni tagli e modifiche al montaggio del film». Le prime proiezioni negli Stati Uniti del film nella sua versione integrale avevano suscitato un esplicito malcontento sulla stampa Usa.

Nel gennaio 1950 il ministero degli Affari Esteri aveva inviato al Servizio informazione e spettacolo della Presidenza del Consiglio dei ministri una nota con oggetto Film “Tombolo” a New York in cui si riferiva sulla cattiva accoglienza della prima visione del film nei cinema della Grande Mela da parte della stampa: il New York Herald Tribune pur riconoscendo i meriti di Fabrizi («ottimo attore») bollava il film come un povero dramma giallo male ideato e peggio congegnato. Sulla stessa linea il più influente New York Times, sulle cui colonne però ci si soffermava anche su altri aspetti: a far problema non era tanto la mediocre qualità del film quanto la non onorevole parte che in esso avevano «i negri americani soldati in uniforme». «Non ci può essere scusa per così allegro travisamento dei fatti – commentava il critico del quotidiano americano -, ma è ancora più difficile comprendere come il sig. Kitzmiller e gli altri negri consentirono a partecipare a un così aperto e scurrile attacco non solo alla loro razza ma anche all’uniforme del loro paese».

Eppure anche nella sua versione “epurata” il film, come si è visto, continuò a trovare una pessima accoglienza al di là dell’Atlantico. Non stupisce quindi che a poche settimane dall’attacco del giornale cattolico Il Crociato-The Crusader il deputato Odo Spadazzi, si premurasse di rivolgere un’interrogazione al Presidente del Consiglio che aveva per oggetto la versione televisiva di Tombolo. Nel suo intervento del maggio 1954 Spadazzi chiedeva se non fosse «urgente e doveroso – a tutela della dignità della Nazione e degli italiani – disporre l’immediato ritiro del film in questione, anche nelle edizioni rielaborate ed accertare le responsabilità dell’ente e dei funzionari che, con colpevole leggerezza, autorizzarono l’esportazione del film, rassicurando l’opinione pubblica che non sarà ulteriormente permessa la denigrazione della Patria ad opera degli stessi italiani».

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Il Don Bosco di Alessandrini tra fascismo e universalismo cristiano, in “Immagine. Note di storia del cinema”, 10, luglio-dicembre 2014.




Sulle tracce della memoria

La guida pubblicata nel 2015 dall’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia e curata dagli storici Matteo Grasso, Michela Innocenti, Chiara Martinelli e Francesca Perugi, è dedicata ai percorsi della memoria novecenteschi nella provincia di Pistoia.
Pubblicata in occasione del 70° anniversario della Liberazione, con il finanziamento della Regione Toscana, propone a turisti, scuole e appassionati alcuni itinerari da percorrere per conoscere i luoghi e le vicende della seconda guerra mondiale e della Resistenza. Un grande museo all’aperto per valorizzare il territorio pistoiese con particolare attenzione al valore didattico ed educativo, oltre che utile strumento di promozione turistica del territorio. Sono presentati una serie di luoghi simbolo che fanno parte della memoria storica locale tramite un pratico volume di consultazione per cittadini, storici e studenti, utilizzabile anche come supporto per varie realtà associative, enti pubblici e uffici scolastici regionali presenti nel territorio e segnalati all’interno di ogni percorso.
La Fortezza Santa Barbara a PistoiaL’opera è suddivisa in cinque itinerari ideali, percorribili in alcuni casi a piedi, in bicicletta o con altri mezzi di trasporto, e toccano monumenti, lapidi, targhe, cippi disseminati in provincia di Pistoia. A colori, corredata di mappe e fotografie, unisce notizie sul contesto storico e naturalistico della zona.
Punto di partenza la città capoluogo, oggetto del primo itinerario, spostandosi poi verso la Montagna pistoiese (secondo itinerario), la Valdinievole, la Svizzera pesciatina e il Padule di Fucecchio (terzo e quarto itinerario), fino alla Piana pistoiese, comune di Montale e dintorni (quinto itinerario).
Nel corso degli ultimi anni, gli Istituti storici della Resistenza in Toscana hanno realizzato studi, siti web, pubblicazioni e ricerche riguardo i luoghi della memoria dall’antifascismo alla Resistenza. La guida pistoiese s’inserisce in questo percorso memorialistico e si evidenzia come strumento utile per legare storia e territorio: l’obiettivo principale è quello di avere una visione d’insieme della regione e conservarne il ricordo del passato per le future generazioni.
A tal proposito possiamo ricordare il progetto avviato dall’Istituto Storico della Resistenza di Livorno attraverso il sito “Luoghi della Memoria”: in ogni luogo è stato collocato un cartello riconoscibile per la sua grafica; a ogni cartello è collegata una sezione del sito; in ogni sezione è possibile trovare materiali aggiuntivi per approfondire i temi affrontati. Si tratta di una pratica guida per chi voglia andare a visitare fisicamente i luoghi dove sono conservate le tracce lasciate dagli uomini e dalle donne dell’antifascismo e della Resistenza. Tutti i cittadini, gli studenti e i visitatori possono lasciare i loro commenti e inviare dei materiali aggiuntivi: “Luoghi della Memoria” è un sito aperto e vivo, come aperta e viva deve rimanere la memoria dei fatti narrati.
Oltre all’Istituto livornese, anche quello lucchese ha avviato un importante percorso che potremmo definire di “memoria condivisa” con la mappatura dei luoghi più significativi in cui rimangono tracce lasciate dagli uomini e dalle donne che hanno partecipato alla Resistenza antifascista. Si tratta di un percorso multimediale: una piccola targa lasciata su questi “luoghi della memoria”, grazie a uno smartphone o a un tablet puntato su un QR Code, introduce a una pagina web con le principali informazioni e approfondimenti su quanto avvenuto in quel luogo negli anni della seconda guerra mondiale. Oppure, al contrario, partendo da un luogo indicato sulla cartina geografica scoprire la storia e la memoria celati dietro quel luogo.
Riguardo all’eccidio del Padule di Fucecchio è inoltre presente online un’utile mappa interattiva con l’indicazione di ogni luogo connesso alla strage: targhe, lapidi, cippi, giardini, parchi e musei (www.eccidiopadulefucecchio.it/mappa).

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge quotidianamente attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti storici legati al periodo contemporaneo.
Attualmente collabora con l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia sia attraverso la partecipazione a progetti sia come membro del consiglio direttivo e come membro del comitato di redazione della casa editrice.
Lavora inoltre per l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che pubblica il mensile Orizzonti. Precedentemente ha svolto un tirocinio annuale per la valorizzazione storico-artistica di Villa La Quiete a Firenze.
Fra le pubblicazioni ricordiamo Guerra e Resistenza. Vicende partigiane per uno della «Bozzi», la storia personale di Doriano Monfardini e alcuni saggi riguardanti la resistenza europea sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. Ha altresì partecipato a presentazioni di libri, tra i quali La gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, a conferenze e a incontri su temi riguardanti la storia locale.




Le aziende “ausiliarie” di Prato e il proficuo rapporto tra Unione Industriale e Croce Rossa

Risulta ormai storicamente provato che la I Guerra Mondiale rappresenti una grande opportunità di sviluppo per il comparto industriale pratese. La produttività, non solamente quella delle ditte tessili, non scende mai sotto i livelli di guardia, anzi, per alcuni comparti strettamente legati alle commesse belliche, si assiste a una vera e propria crescita esponenziale degli ordini e del fatturato. Questo accade nonostante i documenti riportino continue lamentele da parte dei dirigenti del Comitato per la Mobilitazione Industriale (creato ad hoc come emanazione del Ministero della Guerra, per monitorare lo stato di salute delle industrie e il livello della produzione per l’esercito) riguardo la qualità delle stoffe di Prato: si denuncia in generale il fatto che nelle coperte da campo e nel panno grigio-verde destinato alla confezione delle divise, venga inserita una troppo bassa percentuale di lana vergine a fibra lunga, solo il 35-40%, a fronte di ingenti quantità di blousses, lana rigenerata e del famoso “rinforzo” – quelle fibre artificiali a basso costo necessarie per tenere insieme la lana meccanica pratese a fibra corta. Anche in tempo di guerra gli industriali pratesi non mancano di applicare tutte le astuzie del caso per cercare di ottenere un maggior guadagno! Nonostante questa continua lotta tra gli imprenditori e il Comitato, a Prato non manca mai il sostegno economico dello Stato, concretizzato nel costante afflusso di commesse belliche alle aziende della città laniera.

Parallelamente non bisogna sottovalutare le generali condizioni di vita e di lavoro in cui la popolazione italiana viene a trovarsi a partire dal 1915: il richiamo al fronte degli uomini, spesso unica fonte di reddito familiare, e il carovita, generato dall’improvviso aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, mettono a dura prova l’intera popolazione. Se a questo si aggiunge il malcontento per la disomogeneità delle condizioni di lavoro che esisteva fra i vari lanifici pratesi, si può facilmente capire come la situazione nel pratese fosse una vera e propria polveriera pronta ad esplodere.
È da questo sostrato di tensioni che ha origine l’imponente sciopero del 1916 organizzato dai circa 400 operai dal lanificio Forti della Briglia, in Val di Bisenzio. L’agitazione nasce per richiedere la “tariffa unica”, cioè l’adeguamento della paga per il lavoro a cottimo in tessitura su tutto il territorio pratese. Quelli concessi dalla ditta Forti erano forse i salari più bassi di tutto il distretto, ed è per questo che la protesta parte proprio dalla Briglia, allargandosi poi a tutta la città di Prato. La serrata degli industriali è tremenda, i Forti non vogliono cedere, tanto che vengono sospesi i sussidi alle famiglie dei richiamati in guerra e si minaccia lo sfratto delle mestranze coinvolte nello sciopero. Solo dopo mesi di agitazioni, sotto la minaccia sindacale dello sciopero generale, anche l’Unione Industriale si adopera per la ricomposizione del conflitto e gli operai ottengono la tanto agognata tariffa unica, una prima, importantissima vittoria.

forti 1L’eco di questi concitati avvenimenti arriva anche al governo nazionale, che immediatamente, cercando di operare affinché agitazioni del genere non risuccedano, il 10 novembre 1916, con decreto ministeriale, dichiara “fabbriche ausiliarie” le quattro più grandi aziende pratesi: il Fabbricone, il lanificio Forti, la cimatoria Campolmi e il lanificio Cangioli. Essere fabbrica ausiliaria, non implicava solo un cambiamento dal punto di vista produttivo, perché di fatto si è obbligati a lavorare esclusivamente a fini bellici, ma anche e soprattutto una generale militarizzazione delle maestranze, esonerate sì dall’arruolamento, ma obbligate a sostenere determinati ritmi e condizioni lavorative.

 Nel corso della guerra, quasi tutte le ditte che raggiungono le dimensioni di “media impresa”, ottengono lo status di fabbrica ausiliaria: oltre le quattro grandi aziende sopra citate, vengono militarizzati il lanificio Romei, la Calamai Brunetto, il lanificio Cavaciocchi, la Magnolfi, il polverificio Nobel ecc…

 Alla fine del conflitto la città di Prato aveva prodotto coperte da campo e casermaggio e panno grigio-verde per un valore di 177.943,038 lire.

In questo quadro di complessiva prosperità delle aziende pratesi, risulta più facile comprendere l’importanza assunta dall’Unione Industriale nei confronti di tutti i fenomeni di assistenzialismo e beneficenza; anche grazie alle commesse statali, l’associazione degli industriali riesce ad accantonare ingenti somme per il “fondo di beneficenza”; in quest’ottica risulta per loro quasi naturale rivolgersi alla Croce Rossa perché questo fondo sia ben destinato e risulti utile sostegno alle vittime di guerra.

forti 3A Prato, al momento della costruzione degli ospedali militari da parte della Croce Rossa si assiste a una miriade di gesti di solidarietà da parte degli industriali, sia a livello privato, che come Unione: c’è chi offre la propria vettura con autista, come il Cangioli e il Canovai, chi si impegna a fornire quantitativi sempre crescenti di borra (lo scarto lanuginoso della filatura cardata) usata per riempire i materassi delle lettighe, come la fabbrica Forti, chi regala coperte (quasi tutti i lanifici) e chi contribuisce con pane e pasta per i ricoverati, come il pastificio Ciampolini, erede di Antonio Mattei, il famoso “Mattonella”. Da parte sua l’Unione Industriale non è da meno, in quanto finanzia la costruzione dei due ospedali territoriali di Croce Rossa con un investimento iniziale di 10.000 lire e continuerà a contribuire fino al 1918, con un contributo mensile di 3.500 lire al mantenimento dei vari reparti ospedalieri.
Questo proficuo e duraturo rapporto tra Unione Industriale e Croce Rossa in una situazione di emergenza come risulta essere quella bellica, non manca di essere sottolineato con continui e solenni ringraziamenti da parte dell’ente benefico: alla fine del conflitto il Comitato Centrale della CRI farà richiesta del diploma di benemerenza per l’U.I.P., che riceverà la Medaglia d’Argento.

Una vicenda particolare e degna di nota è quella che riguarda il rapporto tra Croce Rossa e il Fabbricone, il lanificio Kössler, Mayer & Klinger, l’unica azienda tessile pratese a capitale austro-tedesco. Come è facilmente intuibile, il Fabbricone, proprio per la natura dei suoi proprietari e per la presenza di quadri e tecnici di nazionalità austriaca e tedesca, è oggetto di una pesante campagna diffamatoria da parte dei nazionalisti pratesi, che ne avrebbero addirittura voluto lo smantellamento. Di fatto, però, i 1200 telai e i 1500 operai impiegati sono una risorsa non trascurabile per il Comitato per la Mobilitazione Industriale, che di fatto ignora queste remore iniziali e dichiara ausiliaria la più grande azienda tessile pratese. Anche la Croce Rossa, probabilmente influenzata dal clima di sospetto cittadino nei confronti di questo “gigante produttivo straniero” si trova in difficoltà a gestire i rapporti con il Fabbricone, che come molte altre ditte pratesi vuole rendersi utile e offrire sostegno all’ente benefico. I dirigenti della fabbrica, oltre a donazioni pecuniarie e di materiale tessile, addirittura offrono alla CRI parte dei loro locali per l’allestimento di ospedali e punti di pronto soccorso; il Comitato della CRI, dopo aver inizialmente accettato la generosa offerta, si vede costretto a rifiutare e compiere un passo indietro, anche in considerazione dell’atteggiamento negativo di una parte importante della società civile pratese, che arrivò a raccogliere centinaia di firme contro detta iniziativa in un documento intitolato “Viva l’Italia! Abbasso l’Austria!”.

Luisa Ciardi si è laureata in storia contemporanea all’Università di Firenze con una tesi sulla storia sociale d’impresa. Ha frequentato il master di archeologia industriale presso l’Università di Padova e attualmente lavora presso la Fondazione CDSE della Valdibisenzio e Montemurlo. Le sue ricerche spaziano dalla storia locale alla storia dell’industria, alla storia della seconda guerra mondiale, con un particolare interesse per la storia orale. è membro dal 2012 di AISO (Associazione Italiana di Storia Orale).

Tra le sue pubblicazioni si ricordano:

Il lanificio Silvaianese. Un’azienda a misura di famiglia e di territorio (1945-1989) , Prato, Pentalinea, 2011.

La Spiga e la Spola: contadini e operai nella Vaiano degli anni ’50, in Alle origini del Comune di Vaiano (1949-1951), Catalogo della mostra, a cura di A. Cecconi, Prato, CDSE della Valdibisenzio, 2011.

I pratesi, contadini, operai, imprenditori. L’etica del lavoro a Prato nel passaggio fra agricoltura e industria, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.

Il fiuto dei Bardazzi per la lana. La famiglia vaianese e la rete di finanziamento informale alle industrie della Valle, in “Microstoria. Rivista toscana di storia locale”.




Il sindacato apuo-versiliese tra riformismo e azione diretta (1900 – 1915)

Il movimento operaio italiano, finita l’illusione di una impossibile alleanza tra capitale e lavoro a cui Giuseppe Mazzini ed i suoi adepti si erano dedicati con cura, lasciatosi alle spalle definitivamente il periodo insurrezionalista della cosiddetta “propaganda attraverso i fatti”, dopo vari travagli interni, polemiche, scissioni, unità più fittizie che reali, riesce ad intravvedere nell’organizzazione politica lo strumento di lotta più efficace per il raggiungimento dei propri obiettivi. Nel 1891 a Capolago, una cittadina del Canton Ticino,  gli anarchici danno vita alla Federazione Italiana del Partito Socialista Anarchico Rivoluzionario, con lo scopo specifico di poter meglio inserirsi fra i lavoratori e diffondervi la propaganda rivoluzionaria. Un anno dopo, a Genova, viene costituito il Partito dei Lavoratori Italiani (nel 1895 trasformerà la sua denominazione in Partito Socialista Italiano), avvenimento, quest’ultimo, che segue in campo politico la definitiva separazione tra le due anime che avevano travagliato, per lungo tempo, il movimento operaio: la riformista e la rivoluzionaria. Al tentativo di alcuni delegati al suddetto congresso di Genova di giungere ad un a riappacificazione, Camillo Prampolini fa efficacemente osservare, rivolto agli anarchici,  che “noi siamo essenzialmente due partiti diversi, percorriamo due vie assolutamente opposte, fra noi non ci può essere comunanza”.

Anche in campo sindacale le due tendenza mostrano la impossibilità di una qualsiasi coesistenza all’interno di uno stesso organismo. Nel 1906 sorge la Confederazione Generale del Lavoro (CGL) e al suo interno appaiono immediatamente due componenti: la maggioritaria, che accetta i principi del gradualismo e si spartisce i ruoli col Partito Socialista (la lotta politica spetta a quest’ultimo e le rivendicazioni economiche al sindacato) e la minoritaria che insiste invece sull’efficacia dell’azione diretta antistatale e antilegalitaria di un sindacato che deve bastare a se stesso, non avendo bisogno di appoggiarsi ad alcun partito per attuare il suo progetto di trasformazione radicale della società.

 L’inconciliabilità delle due posizioni è così evidente che la fittizia unità non può durare a lungo. Infatti, dopo un breve periodo, caratterizzato da aspri confronti, convegni contrapposti, tentativi unitari e inevitabili successive scissioni, l’anno 1912, con la nascita dell’Unione Sindacale Italiana (USI), contraddistinta dai principi del sindacalismo rivoluzionario e dell’anarco-sindacalismo, occasionalmente uniti per contrapporsi al riformismo della CGL, l’anno 1912, dicevo,  segna l’inevitabile chiarimento tra le due correnti.

Il movimento operaio di Carrara e della Versilia è ben inserito all’interno di questo clima e partecipa attivamente sia alle lotte che alle polemiche, fornendo un suo contributo significativo ed una testimonianza che è utile ricordare anche alla luce di avvenimenti che hanno caratterizzato la vita sindacale di questo ultimo periodo e che dimostrano come l’azione diretta nelle lotte sociali  sia comunque apportatrice di migliori risultati, se non immediati, almeno in prospettiva, rispetto alla via burocratica e compromissoria.

meschi Nel 1901 sorge a Carrara la Camera del Lavoro il cui statuto riproduce i principi riformistici usciti dal primo congresso delle Camere del Lavoro, tenutosi a Parma nel 1893. Per i riformisti, compito fondamentale del sindacato è quello del miglioramento delle condizioni economiche e sociali degli operai, con particolare attenzione ai giovani ed alle donne, attraverso la stipulazione dei contratti di lavoro. Viene sancita inoltre l’estraneità delle associazioni operaie da ogni questione politica. In particolare, per i sindacalisti socialisti di Carrara, la Federazione di mestiere, aderente alla Federazione Nazionale Edile, è l’organismo più avanzato e maggiormente capace di attuare il programma sindacale, rispeto alla Camera del Lavoro, alla quale viene attribuito un ruolo subalterno. Per repubblicani e anarchici, anch’essi aderenti al nuovo organismo, la Camera del Lavoro è vista, non tanto come organizzazione economica di classe, quanto come strumento di lotta politica. E’ inevitabile,  pertanto,  di fronte a due posizioni così distanti tra loro,  che, prima o poi,  si giunga ad uno scontro. L’occasione viene offerta dalle elezioni per il rinnovo delle cariche all’interno della Camera del Lavoro nel gennaio 1902. Il responso vede vincitrice la corrente anarco-repubblicana che ne assume così il controllo.

La vicenda di Carrara non lascia immune la vicina Versilia, ove lo scontro si presenta di lì a poco. Infatti il 19 gennaio 1902, organizzato dalla Lega Marmisti di Pietrasanta, si tiene il primo congresso delle leghe operaie della Versilia e Lunigiana, allo scopo di costituire una federazione regionale tra le leghe marmisti, comunque aderenti alla federazione nazionale. Al convegno partecipano in forze gli anarchici di Carrara cercando di costituire una Federazione Regionale autonoma autonoma dalla riformista “Edilizia”. Durante il tumultuoso dibattito, il segretario dell’Edilizia, Quaglino,  esce dalla sala del congresso, seguito dai rappresentanti di molte Leghe ci Carrara e della Versilia, annullando perciò l’intento degli anarchici che in questo primo scontro coi socialisti devono rinunciare ai loro intenti. Ma questo è solo il primo tentativo di “irruzione” in Versilia da parte della Camera del Lavoro di Carrara; altri due ne seguiranno con alterne sorti nel 1908 e nel 1912.

 Nel 1908 la simpatia che la Camera del Lavoro di Carrara riscuote fra i cavatori dell’alta Versilia è determinato dall’atteggiamento assunto dal Comitato Provinciale Edile (CPE), nuova denominazione assunta dal sindacato controllato dai socialisti, sulla vertenza per il rinnovo del contratto di lavoro dei cavatori. Alla richiesta dei lavoratori di aumenti salariali e riduzione di orario di lavoro, la controparte padronale oppone un rifiuto, giustificato, secondo lei, dalla crisi del commercio del marmo. Il CPE di Seravezza, che evidentemente ritiene valide le obiezioni degli industriali,  in riunioni in cui è presente anche la Camera del Lavoro di Carrara, tenta di convincere le leghe a recedere dalle loro richieste. Gli industriali, forti della posizione conciliante del CPE, sono intransigenti nel ribadire le loro posizioni cosicché i lavoratori sono costretti a dichiarare lo sciopero. Il sindacato riformista giudica l’agitazione un movimento inconsulto e rifiuta ogni solidarietà ai cavatori che praticamente sono costretti a subire le controproposte padronali. Il CPE giustifica il suo atteggiamento con obiezioni formalistiche, rifacendosi ai deliberati del congresso operaio della Versilia e Lunigiana del 21 gennaio 1908, ove, fra l’altro, veniva deciso di far obbligo ad ogni sezione di sottoporre ogni questione agli organi dirigenti del sindacato prima di iniziare ogni agitazione e proclamare ogni sciopero. Nella stessa assemblea veniva inoltre stabilito che nel  caso in cui una sezione mancasse a questo dovere, sarebbe stato possibile negare a questa la solidarietà e l’aiuto dell’organizzazione dirigente, quando le agitazioni non fossero ritenute giustificate. L’episodio lascia qualche traccia all’interno delle leghe versiliesi ed anche preoccupazione nel CPE. I lavoratori più ricettivi alla propaganda anarco-sindacalista cominciano a nutrire seri dubbi sull’efficacia del comportamento del sindacato riformista ed alcune leghe danno la loro adesione alla Camera del Lavoro di Carrara. Il fatto è significativo perché mostra quali atteggiamenti possano derivare da una concezione burocratica della gestione sindacale, che non è disponibile ad avallare richieste, seppur giuste in linea di principio, che non partano però dall’interno e con l’avallo dell’organizzazione centrale: una concezione cioè di un sindacalismo, seppur teoricamente democratico, pericolosamente inquinato però di formalismo. E’ comprensibile pertanto la disaffezione ed  il conseguente abbandono del CPE da parte di molti lavoratori versiliesi. Con la sola eccezione dell’agitazione dei cavatori dell’alta Versilia nell’estate 1910, che, con l’appoggio del CPE, ottengono miglioramenti salariali e riduzioni d’orario, la Federazione Edilizia sembra perdere quella dinamicità che aveva posseduto in passato. I lavoratori si rivolgono altrove per trovare l’appoggio, l’incoraggiamento ed il sostegno, anche materiale,  alle loro rivendicazioni. Mi riferisco al Sindacato dell’Azione Diretta ed alla sua emanazione  territoriale, la CdL di Carrara, che è guidata dal 1911 da Alberto Meschi e che riuscirà ad espandere la sua influenza oltre che sulla Garfagnana e Viareggio, anche sulla Versilia “storica”. Il motivo di tutto ciò può essere in parte spiegato dalla concezione settoriale che privilegiava i sindacati di mestiere a scapito dell’attività di una Camera del Lavoro che volevano limitata territorialmente mentre  molti lavoratori vedevano con  simpatia la scelta del  sindacato libertario di favorire la costituzione di una unica Camera del Lavoro estesa su tutta la regione del marmo. Un altro possibile motivo della crisi del sindacato riformista può essere attribuito alla  sua diffidenza ed alla successiva dissociazione da quelle azioni di lotta che nascevano spontaneamente dagli operai suscitando negli stessi la convinzione di essere lasciati soli nella lotta contro il padronato.

 L’episodio che determina il progressivo allontanamento delle leghe dall’influenza del CPE e l’adesione al sindacato dell’azione diretta è la totale mancanza di appoggio e di solidarietà alle richieste dei cavatori del Monte Altissimo nel 1912. L’obiettivo reale dei lavoratori in questa vertenza è la riunificazione delle paghe e della normativa di tutti i cavatori della regione del marmo e lo sciopero v iene proclamato nella primavera del 1912. La solidarietà della CdL di Carrara non si fa attendere, anche perché le richieste dei lavoratori dell’Altissimo sono in linea con la sua battaglia qualificante: eliminazione delle disparità di trattamento fra i lavoratori. I motivi del mancato appoggio del Sindacato Provinciale Edile (SPE) possono così venir riassunti: un accordo della controparte non può essere disdetto prima della scadenza (ma i lavoratori fanno osservare che la controparte aveva promesso lo stesso trattamento dei lavoratori di Carrara e con quella lotta volevano appunto la equiparazione delle paghe); questa agitazione era vista come azione di disturbo di altri obiettivi cari al sindacato riformista: la costituzione di una Cassa di Mutuo Soccorso per i malati e quella per le famiglie delle vittime delle cave.

 Lo sciopero viene autonomamente proclamato il 4 maggio e dura compatto sei mesi, favorito anche dalla solidarietà della CdL di Carrara che agli scioperanti ha trovato lavoro altrove. La vertenza viene definitivamente sistemata con un accordo  favorevole agli operai l’8 novembre. Nello stesso periodo il panorama sindacale è arricchito da due altre importanti iniziative: la battaglia per le pensioni operaie e quella per le otto ore. Sul primo argomento Alberto Meschi interviene con un articolo pubblicato dal periodico di Carrara “La Battaglia” e lo incanala in un preciso ambito sindacale considerandolo una conquista operaia, fiducioso dell’appoggio  della classe operaia unita. Gli operai di Carrara ottengono questo diritto dopo oltre dieci giorni di sciopero. Pure la vertenza per la conquista generalizzata delle otto ore di lavoro tiene impegnati gli operai dell’intera regione del marmo in una serrata lotta nei primi mesi del 1913. Fino ad allora i marmisti di Carrara, non addetti alle cave, erano impegnati in media otto ore e trentasette minuti, mentre i segatori lavoravano dodici ore consecutive, in Versilia,  invece, con una paga inferiore, gli operai avevano un orario di lavoro ancora più lungo. Quindi la lotta per una riduzione d’orario è sentita dai lavoratori  versiliesi che rispondono senza esitazione agli appelli ed alle sollecitazioni che vengono dalla CdL di Carrara, assente anche in questo caso il SPE di Seravezza. Dopo un mese di inutili riunione con la controparte padronale il 15 marzo 1913 viene proclamato lo sciopero accompagnato da agitazioni e comizi. La vertenza si conclude con la vittoria dei lavoratori che ottengono l’applicazione del nuovo orario di otto ore con l’intervallo di un’ora.

Questa è l’ultima importante vertenza prima della Grande Guerra che porta di conseguenza il ristagno del commercio del marmo. I primi a pagarne le conseguenze sono i lavoratori che si vedono inesorabilmente negare quel lavoro così necessario per il loro sostentamento, mentre i generi di prima necessità subiscono un sensibile aumento di prezzo. Così un intenso periodo di lotte e di conquiste sindacali termina con l’avvio di tanti giovani lavoratori a difendere i confini di una patria che, a fronte di grandi sacrifici richiesti, ha sempre concesso poco a coloro che hanno avuto la sventura di appartenere alle classi subalterne.