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Conoscere, viaggiando: il Treno della Memoria 2019

Rivelando una grande ed organizzazione, che mostra chiaramente il grande dispendio di energie – morali, organizzative ed economiche – dedicate dalla Regione Toscana e dalla Fondazione Museo della Deportazione e della Resistenza di Prato, la mattina del 20 gennaio alle 12:30 circa, dalla stazione di Firenze, ha avuto inizio l’ XI edizione del Treno della Memoria, dedicato questo anno a Primo Levi, di cui ricorre il centenario della nascita (avvenuta il 31 Luglio 1919).

Il treno porta oltre 600 persone a visitare i campi di Auschwitz e di Birkenau (Auschwitz 2), di cui 555 studenti del triennio delle scuole superiori (ogni docente ne accompagna 8) e 3 del Parlamento Regionale che hanno l’occasione unica di fare questo percorso di formazione etica, ancor prima che storica, insieme a studiosi, rappresentanti delle associazioni (Aned, Anei, Anpi, Arcigay, Sinti e Rom) ed ex deportati. Infatti partecipano al viaggio Andra e Tatiana Bucci, deportate ancora bambine (a 4 e 6 anni); Silva Rusich, figlia di Sergio, deportato politico a Flossenbuerg ed esule istriano; a Cracovia ci raggiungerà Vera Vigevani Jarach, testimone di due storie: esule in Argentina per le leggi razziste del fascismo e madre di Franca, una desaparecida durante la dittatura di Videla.

Il lungo viaggio in treno, circa 22 ore, è stato esso stesso un’importante occasione di conoscenza, perché nel vagone ristorante si sono tenuti 5 workshop – organizzati in particolare dal dott. Luca Bravi del Museo della deportazione – con i portavoce delle varie comunità, nei quali i ragazzi hanno avuto occasione di incontrare, dialogare, ascoltare e porre domande alle varie categorie di vittime della Shoah. Stessa dinamica si svolgerà nel corso del viaggio di ritorno.

[In allegato sono riportate le sintesi dei 5 workshop]




Se a parlare sono gli studenti: un percorso di democrazia attiva per i 70 anni della Costituzione

Quest’anno, grazie al prezioso sostegno della Regione Tosca­na, l’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea ha voluto celebrare il 70° anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione con un progetto importante e ambizioso, che si è concluso questo 12 novembre. È passato già un anno dall’avvio della fase organizzativa: non è facile pensare un percorso che coinvolga tante persone e si esplichi in fasi così diverse; sono fondamentali il gioco di squadra e molto brainstorming. Se da una parte è difficile, dall’altra, come tutte le grandi scommesse, è incredibilmente coinvolgente. Già la scelta del nome, Costituzione: la nostra carta d’identità 1948-2018, voleva racchiudere tutto questo: una sfida, un progetto importante, cui avrebbero partecipato infine centinaia di persone: studenti, insegnanti, docenti universitari, collaboratori ISRT, …

Con la convinzione profonda che la scuola sia un luogo di crescita, anche emotiva, abbiamo ritenuto fondamentale che gli insegnanti si appassionassero per poi appassionare i loro studenti. Quindi, la prima fase si è svolta tra febbraio e marzo 2018, con un corso di formazione aperto a insegnanti di scuole secondarie di secondo grado, dal titolo Costituzione e storia dell’Italia repubblicana. I percorsi degli italiani in un Paese in trasformazione. Tre incontri presso Le Murate PAC, sulla storia della Repubblica alla luce del testo costituzionale, durante i quali vari relatori hanno illustrato le trasformazioni culturali, economiche e politiche della penisola dall’uscita dal secondo conflitto mondiale a oggi. Il corso è stata la prima tappa del progetto che fin da subito aveva come scopo quello di fare degli studenti i veri protagonisti, al centro di un lavoro di approfondimento e riflessione sui valori costituzionali e sulla più recente storia nazionale. Durante il corso, tutti i docenti sono stati invitati a svolgere attività sulla Costituzione e sui grandi princìpi in essa contenuti, a partire dalla primavera e poi al rientro per il nuovo anno scolastico, secondo le loro inclinazioni e possibilità.
L’obiettivo finale: una giornata, il 12 novembre, dedicata interamente agli studenti, un convegno didattico, durante il quale i ragazzi avrebbero presentato il lavoro fatto.

Grande è stata la soddisfazione nel ricevere un elevato numero di adesioni e proposte da molti di loro, che stimolati dal corso hanno voluto continuare in classe. A partire dalla fine di marzo, ho assunto il ruolo di tutor e mi sono occupata di fornire agli insegnanti materiali utili e spunti per lavorare con i ragazzi; coordinare le informazioni, gestire i tempi di lavoro, dare il mio supporto. È stato importante per me creare con ogni singolo docente un rapporto di dialogo e scambio di idee e opinioni, incoraggiare i loro progetti.
Sono stati mesi intensi, talvolta tutti insieme in corsa con i tempi della scuola e dei ragazzi: ci sono stati dubbi e perplessità ed è stato in quei momenti che ho capito davvero l’importanza della collaborazione, del fare rete, di stabilire relazioni, per far funzionare al meglio il progetto. Nove le classi coinvolte, 15 docenti, quasi 300 studenti. Con l’arrivo dell’estate ci siamo dati tutti dei compiti per le vacanze e a settembre, al rientro a scuola, i ragazzi avevano lavorato davvero al progetto, avevano intervistato le loro famiglie, raccolto fotografie, materiale documentario di vario tipo.
A ottobre sono stata chiamata da alcuni insegnanti ad andare nelle classi: ho chiesto ai ragazzi di raccontarmi il percorso fatto e ho dato loro dei consigli su come raccontarlo alle quasi 300 persone, coetanei e non, che li avrebbero ascoltati il giorno del convegno. Ho percepito la loro emozione ma anche la voglia di dimostrarmi che ci avevano messo la testa in quel percorso.

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Il 12 novembre, al cinema-teatro La Compagnia di Firenze, tutte le classi che in quei mesi avevo seguito più o meno da vicino si sono presentate in sala, accompagnate dagli insegnanti. Anche quel giorno il mio ruolo era quello di supportarli, di rendere tutto un po’ più semplice. Come ho già detto, per me è stato un cammino soprattutto emotivo: sentire la passione degli insegnanti mi ha dato grande positività, e le ragazze e i ragazzi che ho conosciuto hanno confermato l’importanza di un percorso come quello, dimostrandomi la loro voglia di far bene.
Il giorno del convegno seguivo i loro interventi dalla regia e li vedevo salire sul palco pieni di emozione, ma soprattutto di senso di responsabilità. Si rendevano conto che nei venti minuti a loro concessi per dire il lavoro fatto, erano rappresentanti e testimoni di un percorso importante. Rappresentanti della loro classe e, forse, della loro intera generazione. Hanno avuto modo di parlare ed esprimere le loro idee su temi fondanti come l’uguaglianza, l’uguaglianza di genere, il lavoro, l’ambiente, a partire dalla Costituzione fino all’oggi, al mondo in cui vivono immersi, del quale sono custodi in prima linea.
Alla fine della giornata ho provato molta soddisfazione, perché nonostante i tempi stretti, e le tante piccole preoccupazioni tipiche di quando si organizzano eventi così grandi, tutto è andato nel modo migliore. I ragazzi sono stati davvero i protagonisti, come avevamo voluto all’inizio di tutto, quando il progetto era ancora agli albori. Hanno parlato da un palco, persino cantato una canzone sull’articolo 36 della Costituzione; ci hanno fatto vedere video montati da loro e interviste; hanno mostrato fotografie e statistiche con dati da loro raccolti. Si sono emozionati ma hanno continuato a parlare, sostenuti dagli applausi di incoraggiamento dei loro compagni.

In quel cinema, per una giornata, 300 persone compresa me hanno vissuto un’esperienza un po’ unica: quella di ritrovarsi con intenti comuni e ideali comuni, a parlare insieme, ascoltarsi con pazienza e confrontarsi.
Un vero modello di democrazia.
Il bilancio della mia esperienza non può che essere positivo e di incoraggiamento a continuare a coinvolgere prima di tutto i giovanissimi, che hanno il diritto di conoscere la loro Storia e il dovere di tramandarla.

 




“Mille non sono tornati”

È appena uscito (Novembre 2018), a cura di GD edizioni di Sarzana, il saggio Mille non sono tornati di Ezio Della Mea e Enzo Menconi,  che si colloca nell’ambito delle celebrazioni per la fine della Prima Guerra Mondiale.

Il volume, completo di un’appendice di mappe e di un CD con un data base, è di facile consultazione: i caduti sono suddivisi per frazione di nascita e/o domicilio e se ne raccontano le vicessitudini militari, l’eventuale prigionia, le circostanze del ferimento e della morte, e della inumazione. Esso ricorda tutti i caduti carraresi durante la Grande Guerra, 960 uomini ed una donna, Argentina Dell’Amico.

Lei ha una storia particolare, che merita di essere raccontata: il suo nome compare alla base di un piccolo obelisco che ricorda i caduti. Inizialmente si era pensato ad una crocerossina ma ulteriori ricerche hanno permesso di accertare che ella è morta durante la Seconda Guerra Mondiale, il 20 gennaio 1945, nella zona di Minucciano, in Garfagnana, dove si era recata con altre donne di Carrara per scambiare il sale con farina e altri prodotti. Lì viene a sapere del bombardamento di Carrara e decide di tornare a casa per verificare le condizioni dei suoi familiari. Trovandosi a ridosso della Linea Gotica, rimane uccisa dagli spari dei militari tedeschi.

L’idea di questo saggio è frutto di un’assenza, quella a Carrara, a differenza delle altre città italiane, di un ricordo dei suoi caduti durante la Prima Guerra Mondiale” afferma il coautore Ezio della Mea. Solo recentemente la Regione Toscana ha stanziato il finanziamento per il restauro di una lapide della Grande Guerra nel cimitero di Gragnana, perché eccessivamente deteriorata.

Ed è proprio dalle lapidi che la ricerca alla base di questo libro è iniziata, attraverso la loro ricognizione nei 13 cimiteri carraresi, dopo lo spoglio al Ministero della Difesa dell’albo d’oro dei caduti del ’15-’18. E qui scopriamo che solo in Toscana essi sono stati 46.162, “uomini a cui si deve guardare con rispetto e come ammonimento per il futuro, senza qualsivoglia esaltazione retorica e bellicistica”, scrive Enzo Menconi nella Prefazione.

Le forze combattenti andavano dai 18 (17 se partivano come volontari) ai 43 anni, ma accanto a loro c’erano gli operai militarizzati (dai 12 ai 60 anni). Inoltre, dopo Caporetto, fu necessario richiamare dalle leve di mare soldati per la leva di terra.

Nelle trincee del Carso, sulla Bainsizza, sull’altopiano di Asiago, sul Pasubio, sul Grappa, sul Piave, sull’Isonzo ma anche nella penisola balcanica e in Libia caddero circa 700.000 italiani. 800 erano di Carrara […] Oltre il 50% di quei soldati erano lavoratori del marmo”, scrive Enzo Menconi. Di questi 321, circa il 40 %, sono morti per malattia (prevalentemente broncopolmonite dovuta alle alquanto insalubri condizioni in trincea), 60 muoiono in prigionia (di cui 15 non si sa dove), i restanti per le ferite riportate.

Un esempio dei prigionieri deceduti in mano nemica, è Nicoli Bruno (classe 1895) sepolto a Mauthausen (nome divenuto tristemente noto in epoca nazista), poiché spirato a seguito di una malattia.

A Carrara sono morti anche 88 soldati non carraresi, perché vi erano due ospedali militari. Le cause del decesso riportate nelle cartelle cliniche recitano principalmente congelamento, oltre che ferite. Alcuni sono stati fucilati per i disturbi psichici dovuti ai traumi di guerra, come Arnaldo Bruschi. Egli era stato riformato alla leva e ritenuto idoneo solo ai servizi sedentari, ma, chiamato per la mobilitazione generale del marzo 1917, viene inviato come soldato nella compagnia zappatori. La sua morte è stata oggetto di plurime falsificazioni: sul sito OnorCaduti è riportato che è morto in azione sul Carso il 24 agosto, mentre l’ufficiale alla matricola del distretto militare di Massa trascrive nel Foglio Matricolare di Bruschi che egli “è morto per ferita da arma da fuoco non in combattimento” in analogia a quanto certificato nell’atto di morte del registro del reggimento. Le due annotazioni nascondono una tragica verità: il testimone, tenente Ilio Panzani, riferisce che quel 24 agosto il soldato Bruschi tentava di “scaricare l’arma”, gesto dovuto allo squilibrio mentale causato dalle fatiche precedenti e dalle traumatizzanti impressioni subite. Bruschi viene così condotto al posto di medicazione, con l’indicazione di qualche giorno di riposo. Ma i segni di squilibrio mentale proseguono ed un generale, presente sul posto, ne ordina la fucilazione. Il tenente Panzani, però, al termine della sua relazione scrive che il soldato Bruschi, nel periodo passato alle sue dipendenze “tenne sempre un’ottima condotta e mai ebbi a lamentarmi di lui per nessun motivo”.

Analogamente fucilato, il caporale Ferrari Luigi, ferito da arma da fuoco nei combattimenti di San Michele a Monfalcone. Condannato per diserzione di fronte al nemico, fu eseguita la pena della fucilazione alla schiena. Nessuna lapide lo ricorda, ma dopo la fine della guerra, gli è stata conferita la medaglia commemorativa nazionale. Citando de André: “ora che è morto la patria si gloria / d’una medaglia alla memoria”.

I soldati provenienti da Carrara combatterono principalmente sul Carso, a quota 83, vicino a Monfalcone, in una località non a caso chiamata Monte Calvario.

Ma diamo un nome e una storia ad alcuni di questi soldati. Ci piace ricordare i  fratelli Tusini (Alessandro e Lorenzo) deceduti a distanza di 8 giorni uno dall’altro. Alessandro muore il 26 giugno 1916 in combattimento sull’altopiano di Asiago; Lorenzo il 2 luglio colpito al cuore da un proiettile negli stessi luoghi dove, pochi giorni prima, era caduto il fratello minore.

Tristemente analoga la sorte dei fratelli Papini di Colonnata, Olinto (01.05.1892 – 24.10.1915) e Rodolfo (31.10.1894 – 01.11.1915) deceduti a distanza di 8 giorni uno dall’altro. Il primo, mentre tentava con il suo reggimento, il 90°, di guadagnare quota 1100, viene ferito all’addome da arma da fuoco e muore in ospedale a Tolmino il 24 Ottobre. La sua salma è stata poi trasferita a Caporetto. Il secondo, nel 12° reggimento di fanteria nella brigata Casale, avanza con i compagni sulla linea alle falde del Podgora, sui trinceramenti nemici, superando una prima linea, difesa tenacemente dagli avversari; il giorno dopo viene espugnata la seconda linea e il 28 ottobre, nonostante le avverse condizione meteorologiche, anche la terza. Ma Rodolfo il 1° Novembre sul Podgora, colpito da arma da fuoco durante un combattimento, cade. La salma attualmente giace al sacrario militare di Oslavia, senza una lapide che lo ricordi. I due fratelli, morti quasi nella stessa settimana, non sono mai stati neppure inumati vicini.

Diversamente i fratelli Pantera di Bergiola Foscalina sono sepolti uno accanto all’altro nel sacrario di Redipuglia (loculo 27347 e 27346), mentre a Borgiola una lapide li ricorda. Andrea è deceduto il 17 settembre 1917 in un ospedale da campo a seguito delle ferite da schegge di shrapnel; Emilio è morto il 12 Gennaio a Trieste nel 1920 a seguito di una malattia contratta quando ormai la guerra stava finendo.

Concludiamo rendendo onore al più giovane dei caduti: Galeotti Ercole. Aveva soltanto 14 anni e 7 mesi. Era operaio del Genio Militare della Prima Armata ed è morto per malattia nel piccolo ospedale da campo di Salò il 22 Ottobre 1918.

Si rende vero onore a lui e a tutti i caduti se ci si impegna per un futuro diverso in una patria che veramente ripudia la guerra.

Questo libro è un monumento cartaceo ai caduti di una guerra di cui questo anno si celebra la fine, da alcuni vista come la quarta guerra di indipendenza e comunque l’ultima di unificazione nazionale. Tuttavia esso “non è e non vuol essere la celebrazione di una vittoria o il rinnovo di antiche contrapposizioni […] ma un piccolo contributo alla ricerca di quel comune legame di civiltà che unisce oggi i popoli di Europa, quel legame che le guerre, i totalitarismi e i nazionalismi non sono riusciti a cancellare”, afferma con vibrante convinzione Menconi.

La storia è un vaccino, ma, come i vaccini, ha bisogno di richiami.




La rete dei piccoli paesi

Emilio Lussu e Nuto Revelli

Lussu e Revelli sono uomini di straordinario profilo nel nostro Novecento. In modo diverso tra loro, anche per età, sono stati significativi della Resistenza, della battaglia contro le guerre, e figure di alto valore morale. Li ho conosciuti entrambi, ma solo di Emilio – che aveva 52 anni più di me – sono stato amico. Nuto lo ho incontrato sulla strada delle fonti e della storia orale, Emilio nella sinistra socialista sarda e nel PSIUP. Di entrambi ammiro i libri che hanno scritto Emilio come grande testimone e protagonista, Nuto oltre che come testimone e protagonista anche come ricercatore capace di restituire la coralità delle voci contadine. Grandi libri i loro, tradotti in tante lingue. Un pezzo dell’ Italia che ci piace sia conosciuta nel mondo. La rete dei piccoli paesi, che è un coordinamento informale tra soggetti che hanno interesse a scambiarsi esperienze, li coinvolge  entrambi.

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Panorama di Armungia con nuraghe in alto (foto di Simone Mizzotti)

Armungia

La rete è nata infatti, nella forma attuale, dopo che l’Associazione Nazionale Bianchi Bandinelli che si occupa del patrimonio culturale ha dato un premio all’Associazione Casa Lussu riconoscendone la attività di “tutela come impegno civile”. Era il 2016, ho collaborato con Casa Lussu di Armungia (in provincia di Cagliari, il paese natale di Emilio Lussu) a realizzare un convegno-festa per il premio che coinvolgesse varie realtà simili a Casa Lussu, ovvero realtà in cui il lavoro culturale cerca di dare nuova vita a paesi a rischio tracollo demografico. Armungia ha oggi circa 400 abitanti tanti anziani e pochi bambini. Qui Tommaso Lussu, nipote di Emilio, romano, è tornato, riabitando la casa degli antenati (conservata in stile tradizionale) e dedicandosi alla tessitura a mano imparata sul posto da una donna novantenne , grande tessitrice alla maniera antica. Il suo ritorno con la compagna Barbara (nipote della tessitrice) ha avviato ad Armungia un piccolo processo di ripresa di iniziative, un lento ri-orientamento di una realtà rassegnata alla marginalità e allo spopolamento. Il premio è stato del 2016 e nel 2018 si è tenuto il terzo festival Un caffè ad Armungia che mette insieme progetti culturali di qualità,  esperienze di vari piccoli paesi e varie artigianalità. Ad Armungia c’è un museo del paese e un Museo di Emilio e Joyce Lussu, tracce di una storia culturale significativa, ma – senza la vitalità portata dalla nuova iniziativa – anche quei musei rischiavano di essere dei morti-viventi.

Paraloup e Soriano

A partire dalle iniziative  di Armungia, ci siamo messi in contatto con  Paraloup, che  è un rifugio di montagna che nel 1943 fu la sede iniziale della prima banda partigiana di Giustizia e Libertà, di cui facevano parte oltre Revelli anche Duccio Galimberti e Dante Livio Bianco. La Fondazione Revelli lo ha restaurato e fatto rivivere impegnandolo sui temi del riabitare la montagna. A Paraloup la rete dei piccoli paesi ha conosciuto anche il progetto di mettere on line le interviste di Nuto che hanno dato fondamento ai libri Il mondo dei vinti e L’anello forte.  Un altro incontro la rete lo aveva fatto a Soriano Calabro in provincia di Vibo Valenzia, un paese di maggiore consistenza demografica, ma in forte calo, che investe sui musei, sulla sua storia di terremoti ma anche sulla produzione alimentare e dolciaria di qualità. La Calabria è terra di piccoli paesi abbandonati, Vito Teti ne ha raccontato, in vari libri e anche in una costante militanza per il ritorno, nei blog e su Facebook. Riace è un paese simbolo dell’accoglienza e della integrazione progettata dei migranti. I piccoli paesi della Calabria e Paraloup avevano già una loro ‘rete del ritorno’, condividendo progetti di rivitalizzazione dei paesi e impegni per ‘restare paese’, resistendo allo svuotamento e alla desertificazione.

Monticchiello - Teatro povero - "Quarantanniquaranta", scena della Resistenza [2006]

Monticchiello – Teatro povero – “Quarantanniquaranta”, scena della Resistenza [2006]

Monticchiello

Nella nuova rete abbiamo coinvolto anche Monticchiello, una frazione di Pienza, luogo anche della battaglia di Monticchiello, episodio significativo della resistenza senese. Qui da  più di 50 anni è nato il Teatro Povero di Monticchiello che usa l’autodramma’, un teatro in cui i testi sono riflessioni sul destino della comunità e gli attori sono i membri di essa. Esso si è costituito in Cooperativa per difendersi dall’esodo e per creare condizioni di vivibilità per gli anziani e anche  di inclusione per migranti. È forse la realtà più consolidata della rete, anche se la sua situazione demografica resta sul confine. Qui  nel 1999 fu rappresentato l’autodramma Quota 300 (300 è  l’indicatore del crollo demografico e della perdita di tutti i servizi) in polemica con le amministrazioni pubbliche.   Nel tempo l’autodramma si è rivelato un modo di ‘porre il centro in periferia’ (una espressione di Adorno sulla scrittura di Benjamin, che abbiamo adottato a emblema della rete). Tutti gli anni, i protagonisti del teatro e con loro la gente dei posto e dei dintorni, diventano una frontiera dei temi caldi del mondo e del fronte delle piccole comunità. Infatti si tratti della memoria contadina, dell’agricoltura moderna, del capitalismo finanziario, del turismo invasivo, o dello spopolamento, a Monticchiello se ne discute. Il teatro ha un po’ il ruolo di assemblea ateniese. Al tempo stesso il teatro – come messa in scena della comunità – è uno dei modi diffusi nella rete per ‘farsi centro’ per ‘essere nella storia’.

Altavalle ed altri

Ed è così che succede anche in altri centri della rete: ad Altavalle, un paese del Trentino, nato dall’unificazione di due paesi, e anche a Introd, in Val d’Aosta. In entrambi i luoghi si fa teatro storico e comunitario sulla propria memoria e identità locale.

La rete è anche attraversata dai musei che, in questi contesti, diventano dei presidi utili per le politiche locali di rinascita. A Introd il Museo etnografico Maison Bruil fa rete tra i produttori del cibo locale e ne facilita la vendita e la certificazione, fa quindi comunità  locale come altrove fa il teatro. A Cocullo è invece la grande festa religiosa di San Domenico che si svolge col protagonismo dei ‘serpari’ esperti del territorio. Nella rete entrano anche interlocutori diversi, spesso attraverso dei giovani che, seguendo la traccia dei nonni e/o dell’infanzia,  tornano a vivere nei luoghi.E’ questo  il caso di Padru,  piccolo paese vicino a Olbia in Sardegna, dove  nella frazione Sa Pedra bianca è nata l’associazione Realtà virtuose che lavora sulla qualità ambientale e sulla memoria dell’uso del territorio, costruendo eventi e documentando anche la ‘fonosfera’, l’ambiente sonoro. Invece in provincia di Rieti il Comune di Flamignano attraverso la sua pro-loco, si connette portando nella rete una diversità biologico-agricolo-gastronomica: la lenticchia di Rascino. Mentre i diversi piccoli paesi dolenti e spopolati dell’Appennino calabro che si rianimano d’estate con processioni, concerti, feste, eventi culturali, sono rappresentati dal lavoro sul territorio e dai libri ed articoli di Vito Teti, antropologo dell’Università della Calabria. Vito Teti  abita a San Nicola di Crissa da quando è nato, ha avuto il padre emigrato in Canada e la vita universitaria a Roma. La sua scelta di restare-tornare è un modo di porre il centro in periferia. In questo orizzonte di piccole realtà ci sono tanti festival, il ruolo di registi, fotografi, appassionati, che animano queste comunità periferiche (ad esempio tra i compagni di ‘rete’ Dordolla, Topolò, Portis, nel Friuli) che cercano di dare senso ai luoghi che si vanno perdendo.

Coscienza di luogo

Queste esperienze hanno come cornice comune il dibattito sul territorio, sul ruolo della città, delle produzioni agricole e artigiane, il rilancio delle zone interne con le agricolture basate sui prodotti ad origine protetta, e la progettazione di un’offerta turistica e gastronomica di alta qualità e differenza locale. Le accomuna  anche la lotta contro la distruzione del territorio e la sua marginalizzazione. Il Presidente Mattarella ha riconosciuto che occorre fare uno sforzo collettivo perché i cittadini delle isole e delle aree di montagna e marginali possano essere cittadini come quelli delle metropoli o delle città di pianura. Esiste un gap di cittadinanza che lo è anche di democrazia. E le città che crescono in modo irrazionale e rischiano di perdere il rapporto con la qualità ambientale e con le fonti primarie della vita tendono a esplodere,  e si rende necessario un  riequilibrio di cui le piccole comunità oggi in via di ri-abitazione si sentono una sorta di avamposto. Su questi temi un importante punto di riferimento analitico è quello degli scritti di Alberto Magnaghi sulla ‘coscienza di luogo’, ma anche la prospettiva territorialista elaborata da Giacomo Becattini sulla base dell’esperienza dei distretti toscani.  Dal 2017 un modo di incontrarsi della rete è quello delle pagine di una rivista on line Dialoghi Mediterranei che viene realizzata a Mazara del Vallo. Dal n. 27 del  settembre 2017 fino all’ultimo numero, il 33, ci sono stati interventi di vari protagonisti della rete accompagnati da miei editoriali. Nel mio editoriale del n. 27 c’è anche una bibliografia di riferimento. La sezione della rivista si chiama “Il centro in periferia”.




Ebrei in Toscana XX-XXI secolo

Ebrei in Toscana XX-XXI secolo è il titolo di una Mostra tutta concentrata sull’età contemporanea. Perché questa scelta? Le ragioni sono molte e di diversa origine. Intanto perché è il periodo più vicino, quello che storicamente ci coinvolge di più. Ma, e non secondariamente, perché sentiamo il bisogno di ampliare sia la possibilità di una conoscenza più articolata cronologicamente che quella di affrontare questo tema per un pubblico non solo specializzato. L’idea è quella di analizzare la storia della comunità ebraica, così importante per la nostra regione e non solo, focalizzando l’attenzione su quegli avvenimenti più direttamente coinvolti, nel bene e nel male, con il nostro presente. Tale necessità si è particolarmente fatta urgente perché a partire dalla Legge sulla Memoria, istituita nel 2000, la vicenda ebraica toscana e nazionale è stata in qualche modo risucchiata e appiattita sulla tematica delle leggi razziali, della persecuzione e della deportazione. Ci sembra giusto ed opportuno uscire da quel periodo e narrare la storia di una minoranza in un quadro più articolato, più complesso di avvenimenti, un quadro capace di ridare evidenza alle caratteristiche sociali, culturali, politiche di questo gruppo. Evidenziare la loro capacità di collocarsi dentro il panorama delle idee non solo nazionali ma anche internazionali, di partecipare al farsi del destino politico e morale del paese.

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La famiglia Castelli con figli e nipoti (Fonte: Archivio privato famiglia Castelli)

L’idea progettuale nasce all’interno di un Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea, quello di Livorno, l’ultimo nato nella rete degli istituti regionali. Può darsi che ad un osservatore esterno questa appaia anche come una decisione piena di arroganza. Noi pensiamo di no. Forti della nostra esperienza di gestione, nella città di Livorno, della grande Mostra della Fondazione Gramsci di Roma su: Avanti popolo. Il Pci nella storia d’Italia. Forti dell’esperienza dell’allestimento della Mostra sui manifesti politici: Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti, abbiamo deciso di affrontare una nuova sfida. L’idea che soggiaceva a questa nostra intenzione poi concretizzatesi era che gli Istituti come il nostro sono a pari dignità di altri enti culturali, sia pubblici che privati, soggetti produttori di cultura, e anche di cultura alta.

L’idea però è divenuta realtà concreta perché si è incontrata con la sensibilità della Regione Toscana che ha accolto il nostro progetto e l’ha sostenuto con generosità sia finanziaria che collaborativa, sia da parte della Presidenza, sia da parte dell’Assessorato alla Cultura. Non solo, durante tutto il periodo di realizzazione abbiamo sempre avuto al nostro fianco gli uffici della Cultura della Regione, in particolare, Massimo Cervelli, Claudia De Venuto, Floriana Pagano, Elena Pianea e Michela Toni e l’appoggio morale e intellettuale di una figura fondamentale per le politiche della Memoria, Ugo Caffaz. E dall’inizio abbiamo avuto a fianco le competenze della Scuola Normale Superiore di Pisa.

Il tema della Mostra si è fatto strada in noi anche perché la città di Livorno era ed è una delle sedi più significative della presenza ebraica in Italia e il nostro Istituto, sin dal suo nascere, ha collaborato e collabora con la Comunità ebraica locale. Questa stessa vicinanza amplia il bisogno di raccontare una memoria dentro la cornice vasta della storia novecentesca, dare la possibilità ai cittadini tutti e in particolare ai giovani, di approfondire i motivi che conducono alla tragedia della Shoah ma anche di raccontare come si esce da quella esperienza e come ci si ricostruttura, sia come comunità, che come singoli.  Il momento in cui comincia a prendere forma questa proposta, non era un momento ancora così tragico come quello che stiamo adesso vivendo. Se ne vedevano però tutte le avvisaglie all’orizzonte. Forse tutti ricordano l’uccisione di tre bambini davanti ad una scuola ebraica di Tolosa, nel marzo del 2012.

Eravamo consapevoli poi che il gruppo di lavoro che avremmo messo insieme avrebbe avuto a sostegno una ricca bibliografia frutto di lavori ultradecennali particolarmente vivaci, come quelli promossi dalla stessa regione Toscana sotto la guida di Enzo Collotti, così come tutto il materiale preparatorio per i viaggi della Memoria che la stessa Regione ha realizzato nel corso degli anni. Eravamo cioè sicuri di essere in buona compagnia.

La volontà di raccontare oltre cento anni di storia con un allestimento espositivo viene dal desiderio di utilizzare una modalità d’approccio capace di parlare anche al mondo dei non addetti ai lavori, e soprattutto ai più giovani. L’utilizzazione nel corpo della Mostra di riproduzioni di carte d’archivio, di copertine di libri, di disegni ma soprattutto di un apparato di riproduzioni fotografiche risultato delle donazioni di famiglie e di fondazioni culturali, arricchisce i testi, già di per sé particolarmente densi. Testi che abbiamo scelto di fare bilingui: in italiano e in inglese, in modo da aprirli alla fruizione di un pubblico potenzialmente molto più vasto di quello italiano. Sono testi che si prestano ad una possibilità di letture trasversali, di arricchimenti di senso, di interconnessioni e di suggestioni. Il team di lavoro che si è raggruppato attorno all’Istoreco, formato da specialiste della tematica come Barbara Armani, Ilaria Pavan, Elena Mazzini oltre alla direttrice dell’Istoreco, Catia Sonetti, si è poi arricchito di altri due narratori che hanno elaborato due pannelli specifici: Enrico Acciai, che ha curato quello sullo sfollamento degli ebrei livornesi, e Marta Baiardi, che ha scritto quello sulle memorie della deportazione. Un materiale esteso, coeso, uniformato da alcune scelte di scrittura condivise e rispettate con acribia che hanno, a nostro parere, dato il tono giusto alla Mostra. La traduzione è stata assegnata ad una specialista, la dottoressa Johanna Bishop, che ci ha garantito la qualità del lavoro. Tutti i nostri sforzi sono stati sorretti dalla volontà di far arrivare l’allestimento sui diversi territori regionali e anche esterni alla Toscana. Perché questo nostro piano si concretizzi, si dovrà incontrare con la volontà degli amministratori locali e con la possibilità di reperire altre risorse per i nuovi allestimenti, ma siamo fiduciosi che il desiderio di compartecipare a questa avventura renderà tutto ciò realizzabile. Del resto questa scelta è anche la strada più sicura per una reale e completa valorizzazione dello sforzo compiuto sia in termini finanziari che in termini scientifici.

Il risultato, di cui solo noi siamo responsabili, è anche il frutto della collaborazione con le diverse comunità ebraiche presenti sul territorio, collaborazione che è stata sempre continua e proficua. I loro presidenti, i loro archivisti e bibliotecari sono venuti incontro alle nostre richieste concedendoci materiali d’archivio e fotografici, sia delle Comunità stesse che dei componenti le medesime, in un rapporto di totale e rispettosa autonomia. Non solo. Abbiamo potuto realizzare alcune videointerviste a esponenti del mondo ebraico, che saranno riversate con un montaggio ad hoc in alcuni video che vanno ad arricchire il materiale documentale della Mostra.

Dal punto di vista del percorso seguito, dopo la stesura del progetto, si passa alla sua realizzazione che vede per oltre un anno tutti gli interessati coinvolti impegnarsi nello studio, nella ricerca archivistica e bibliografica, nella raccolta delle fonti iconografiche. Superata questa prima fase, ci siamo dedicati alla stesura vera e propria dei pannelli e poi alla sua realizzazione digitale con le professionalità specifiche dell’Agenzia Frankenstein di Giuseppe Burshtein di Firenze, in particolare con Cristina Andolcetti, Maddalena Ammanati, Stefano Casati, Federico Picardi e Isabella d’Addazio Quest’ultima fase è quella che ci ha permesso in itinere l’anteprima visiva di quello che andavamo facendo. Occorre dire che il controllo dei contenuti non è mai stato piegato alle esigenze della comunicazione anche se questa ha costretto tutti ad una sintesi espressiva, non proprio consueta per delle storiche e storici italiani. Vogliamo dire però che non ci siamo fatti prendere la mano dalla necessità della “leggerezza”, che nel nostro caso rischiava di farci dimenticare il forte sentimento divulgativo che ci animava. Siamo però stati attenti a tutti i suggerimenti degli addetti ai lavori che ci hanno consentito, perlomeno in parte, di superare certe difficoltà dei temi trattati per veicolare i nostri contenuti nel modo più accessibile possibile. Perlomeno questo era il nostro scopo.

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni '30 - Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni ’30 – Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

La Mostra si sviluppa secondo un arco cronologico che va dalla Grande Guerra ai giorni nostri. Presenta anche alcuni pannelli introduttivi, uno sul perché questa Mostra, uno generale sulla presenza ebraica nella regione a partire dal periodo tardo medioevale, e l’altro specifico per l’età liberale, anteprima al secolo XX. Dopo aver analizzato la Grande guerra, la prima vera manifestazione dell’avvenuta emancipazione, ed esserci soffermati sul tema del sionismo, affronta in una sezione di grandi dimensioni, per forza di cose, il ventennio fascista con le colonie e l’impero, analizza sia il fronte degli antifascisti che quello dei sostenitori del regime, le leggi razziali del ’38, la persecuzione del 1943-1945. La Mostra si chiude infine con il secondo dopoguerra, toccando la problematica della ricostruzione dopo il ritorno dai campi, la battaglia per riavere i beni che erano state requisiti, il lento ricollocarsi dentro lo scenario postbellico, i rapporti con Israele. Questa è la sezione per la quale l’apparato storiografico al quale guardare, soprattutto in lingua italiana, è risultato più debole e carente. In ogni sezione analizzata emerge come il gruppo degli ebrei si collochi esattamente alla stessa maniera di tutti gli altri cittadini italiani del momento. Appoggia Mussolini con entusiasmo o perlomeno con un atteggiamento di condiviso conformismo alle opinioni della maggioranza oppure si schiera contro in una opposizione lucida ed eroica con quei pochi che vedono e capiscono prima degli altri il significato del regime e il futuro di guerra e di persecuzione che si intravede all’orizzonte. È possibile comprendere attraverso i nostri testi, e soprattutto con le fotografie a corredo, come fino all’ultimo la consapevolezza di quello che stanno rischiando, la possibilità di perdere i beni e le vite, non sia particolarmente radicata. O forse, accanto a questa sottovalutazione del pericolo, si nasconde l’abitudine plurisecolare a sopravvivere nelle disgrazie, a ridere nel bisogno, ad affrontare con allegria ed ironia le sorti peggiori, carattere che emerge proprio nei frangenti più drammatici. Così si spiega ad esempio la fotografia della famiglia Samaia che mentre sta per uscire dal paesino di Monte Virginio, vicino Roma, il 25 marzo 1944, di nuovo in fuga per trovare salvezza, trova il modo di farsi fotografare e a commento della foto scrive: Via col vento!

Le immagini, a corredo, nell’insieme, racconta più dei testi scritti la “religione” della famiglia che pervade queste comunità. Non viene sprecata nessuna occasione per fotografarsi in gruppo ed il gruppo si sviluppa e si espande attorno alla coppia degli anziani. Particolarmente indicative in questo senso sono le foto a corredo donateci dagli eredi della famiglia Castelli. Ma non sono da meno quelle, più vicine a noi nel tempo, della famiglia Cividalli, Orefice, della famiglia Levi, dei Viterbo o dei Caffaz, della famiglia Samaia, e molte altre ancora. Certo l’amore per la famiglia pervade anche tutti gli altri italiani. Nessuno o quasi ne è escluso. Quello che qui vediamo è la documentazione fotografica dei passaggi importanti: le nozze, le feste di purim, il bar mitzvah per i ragazzi o il bat mitzvah per le ragazze, perché anche se l’adesione alla religione dei padri è, perlomeno fino alle leggi razziali, piuttosto debole, fatta più di consuetudine che di una adesione forte e vissuta con convinzione, importante è attraverso la ripetizioni di ritualità, come la preparazione di alcuni dolci tipici o il pranzo in comune in certi momenti, mantenere la coesione del gruppo. Gruppo nel quale molto spesso vengono inseriti, senza particolare travaglio, anche gli elementi “gentili” assorbiti con i matrimoni misti. Questo come dicevamo sopra fino alle leggi razziali.

Nel secondo dopoguerra, la scoperta della tragedia che si è abbattuta sul popolo ebraico rinsalda le tradizioni, aumenta i viaggi in Israele e la scelta di andare a viverci, riavvicina alla religione dei padri anche chi se ne era distaccato, fino ad arrivare al nostro presente, fatto di piccole e piccolissime comunità orgogliose della propria specificità, molto presenti sul piano culturale e molto attive nel dialogo interreligioso.

La Mostra è arricchita di diversi video in cui scorrono i montaggi tratti da alcune videointerviste realizzate nel corso della preparazione della Mostra. Si vedono donne e uomini ragionare sulla loro appartenenza, sulla storia della loro famiglia, sul loro sentimento religioso, sui conti che hanno fatto come singoli rispetto alla loro maggiore, o minore, o assente, appartenenza alla comunità ebraica.

Naturalmente nella Mostra non c’è affatto tutto quello che si può raccontare su questa minoranza, mancano alcuni pezzi importanti come le vicende, fra l’altro segnate da numerosi episodi di antisemitismo, della minoranza ebraica italiana, quasi tutta di provenienza labronica, in Algeria o in Marocco. Non c’è stata la possibilità di raccontare nessuna storia di genere, anche se attraverso il materiale raccolto, tra cui molte lettere e molti diari inediti, ci siamo fatti un’idea piuttosto articolata delle condizione della donna dentro la comunità ebraica. In qualche modo sicuramente privilegiata perché istruita e capace di saper leggere e scrivere, conoscere una lingua straniera, suonare uno strumento musicale ma assolutamente ostacolata nel suo desiderio di intraprendere libere professioni o attività lavorative vere e proprie. Questo perlomeno fino alla conclusione del secondo conflitto. Come succedeva nelle famiglie non ebree dell’Italia liberale e fascista del secolo scorso. Non abbiamo potuto approfondire il tema dei rapporti con lo Stato italiano sul versante della restituzione dei beni sottratti, né quello dei processi intentati contri fascisti e delatori.

La Mostra poteva chiudersi con l’immagine di una svastica disegnata in anni recenti sulla facciata della sinagoga di Livorno. Abbiamo deciso di no. Non era il caso. Tutto il nostro lavoro ha senso anche perché sottintende il desiderio di un rispetto reciproco nelle riconosciute diversità che all’interno del nostro orizzonte odierno, che non è più quello nazionale, ma perlomeno europeo, vedono di nuovo muri che si ergono, leggi di discriminazione strisciante farsi avanti e ancora rumore di bombe e sangue versato contro istituzioni e luoghi Kasher. Noi pensiamo e percepiamo il nostro lavoro solo come piccolo tassello per un dialogo di pace e ci siamo rifiutati di chiudere con un’immagine senza speranza.

Livorno, 24 ottobre 2016




La guerra agli inermi. Storia e giustizia (II)

La seconda parte della storia, strettamente connessa alla prima, riguarda una delle più gravi ingiustizie fatte patire ai cittadini di questo paese nella storia dell’Italia unitaria.

È la storia dell’estesa, prolungata e non rimediata negazione di giustizia[1] nei riguardi delle vittime delle stragi naziste e fasciste di cui si è detto finora. Una negazione estesa, in termini strettamente geografici, poiché quel fenomeno, quell’orrore, non risparmiò nessuna parte d’Italia, nessun genere, nessuna classe anagrafica, nessuna religione, nessuna posizione sociale, nessuna posizione politica antifascista. Nessuno, insomma. Ricordiamolo: almeno 5.750 episodi e 24.112 vittime.

Una negazione prolungata, e ormai irrimediabile, perché iniziata immediatamente dopo la guerra – e addirittura prima, perché spesso nei paesi colpiti, subito dopo la partenza dei tedeschi, arrivavano gli Alleati, che cominciavano subito a fare indagini e chi era sopravvissuto cominciava subito a illudersi che la giustizia sarebbe arrivata. Una negazione andata avanti a questo punto per sempre, perché pochissimi furono i processi e ancora meno i responsabili mandati in carcere – Kappler, Reder, Priebke, Seifert e pochissimi altri – sia nel lungo e infruttuoso dopoguerra, sia nella fase molto più proficua, ma inevitabilmente limitata, dei processi che hanno seguito il rinvenimento, nel 1994, delle carte occultate, su cui si tornerà. Questi processi si sono celebrati soprattutto negli anni 2000 presso le procure militari di La Spezia, Verona e Roma sotto la guida di Marco De Paolis.

Dunque, una negazione non rimediata, se riguardiamo i conti: una ventina di processi – dal dopoguerra a oggi – e alcune decine di condanne – perlopiù non eseguite – per 5.750 episodi (e mancano tutti quelli avvenuti all’estero, fatta eccezione per Cefalonia) e più di 24mila vittime.

In realtà, la storia ci racconta che le carte dell’orrore di cui parliamo, e della mancata giustizia che lo ha riguardato, sarebbero state disponibili fin dall’immediato dopoguerra, e questo per ciò che riguardava sia le indagini degli Alleati, alle quali si accennava, sia quelle dei carabinieri, condotte spesso a ridosso degli eventi. Invece, tutto questo materiale fu volutamente occultato, e quindi non lavorato, in un arco di tempo che va almeno dal 1960 al 1994.

La scusa ufficiale fu quella – nel 1960 – del «lungo tempo trascorso dal fatto» – 15 anni dalla fine della guerra! – senza considerare, tra l’altro, che tale suddetto lungo tempo era attribuibile perlopiù all’inerzia di chi non aveva lavorato in quei 15 anni.

Le ragioni effettive, invece, almeno secondo gran parte della storiografia – ma anche di molti membri della Commissione Parlamentare d’inchiesta che ha indagato sull’occultamento negli anni 2003-2006 – sono invece le seguenti, riassunte molto schematicamente: si occultò – con un provvedimento illegittimo quale quello dell’«archiviazione provvisoria» – perché lavorare le carte sui criminali tedeschi avrebbe significato, da un lato, attirare l’attenzione sui criminali italiani, mai consegnati agli stati esteri che li avevano richiesti (Grecia, Etiopia, Jugoslavia etc.); dall’altro, tali indagini avrebbero potuto “imbarazzare” la Germania occidentale, fido alleato dell’Italia nel mondo diviso in due della guerra fredda. Ragioni di politica interna, dunque – quelle carte avrebbero anche riportato alla ribalta i criminali fascisti, frequentemente destinatari di provvedimenti di amnistia nell’immediato dopoguerra – e ragioni di politica internazionale si diedero il cambio e si supportarono le une con le altre nel produrre una delle più grandi ingiustizie praticate dall’Italia-Stato nei confronti dell’Italia-Nazione.

Quando le carte sono state recuperate dagli archivi (quelli della Procura Generale Militare a Roma) era il 1994 e la guerra fredda era appena finita, l’idea di Europa unita sembrava davvero poter sconfiggere le ansie dei vari passati del continente, e non vi poteva quindi essere un momento migliore per tirare fuori le carte che, si sperava, non avrebbero più potuto nuocere a nessuno. Quelle carte andavano però lavorate, perché quello che raccontavano – crimini di guerra atroci, crimini contro l’umanità – non è passibile di prescrizione secondo la legge italiana. Le aggravanti, infatti, come è facilmente intuibile, c’erano tutte.

In realtà le procure militari si presero un bel po’ di tempo – altro tempo sprecato – per cominciare a fare qualcosa, e solo qualcuna fece qualcosa davvero. A quell’impegno di pochi dobbiamo tuttavia dei risultati importanti, cioè le sentenze e le condanne – cosa che significa innanzitutto discorso pubblico della Nazione dinanzi allo Stato e risposta di quest’ultimo – per alcune delle stragi più atroci che si verificarono in Italia o contro italiani nel 1943-1945: Sant’Anna di Stazzema, Civitella in Val di Chiana, Monte Sole, Padule di Fucecchio, Cefalonia sono solo alcuni dei nomi/luoghi-eventi di questa parte della storia.

Se guardiamo oggi questi risultati, sembra straordinario che sia stato compiuto da pochi anni, certo in modo più che tardivo e parziale, ciò che avrebbe dovuto essere normale nel dopoguerra, cioè la giustizia, la condanna pubblica e documentata del crimine di guerra/crimine contro l’umanità.

In questo caso è stata una fortuna che le due regioni – la Toscana e l’Emilia Romagna – dove si era verificato il più alto numero di stragi con il più alto numero di vittime, negli anni 2000 fossero di competenza della volenterosa e produttiva procura militare di La Spezia, in quegli anni una sorta di “cattedrale” in un deserto di disinteresse, pressappochismo, noncuranza e chissà quali altre cause di inoperosità da parte delle altre procure militari, a partire da quella che nel 1994 aveva rinvenuto le carte durante l’indagine sul boia delle Ardeatine Erich Priebke. E da parte dello Stato, in generale: le indagini e i processi che La Spezia (e poi Verona e Roma, negli anni successivi, con l’arrivo di De Paolis) portò avanti furono una sorta di impresa titanica, con milioni di carte da studiare e produrre, testimoni da rintracciare dopo decenni, luoghi irrimediabilmente trasformati e, soprattutto, una mentalità istituzionale spesso indifferente, quando non apertamente ostile, che si chiedeva apertamente perché lo Stato avrebbe dovuto spendere soldi e tempo alla ricerca di innocui ottantenni bavaresi, alsaziani e così via. Dimenticando, innanzitutto, i doveri di legge, cioè l’imprescrittibilità.

Insomma, allo sdegno dell’opinione pubblica che nel 1994 aveva scoperto le stragi e il loro occultamento, corrispose spesso – di nuovo – la sottovalutazione del problema da parte dello Stato, uno Stato che, invece, avrebbe dovuto, avendo molto da farsi perdonare, fornire almeno i mezzi per provvedere all’eccezionale emergenza giudiziaria affrontata in quegli anni a La Spezia.

A tale mentalità istituzionale – spesso non sconfitta neanche oggi – ha fatto però da contraltare una mentalità collettiva diversa, alimentatasi di decenni di silenzio imposto e oblio forzato, prolungata negazione di giustizia e indifferenza da parte delle istituzioni dinanzi a un dolore che sembrava privato ed era invece un lutto collettivo. Una mentalità di comunità e di condivisione, che, in quegli anni e in quelli successivi, era sempre più in emersione, attenta, pronta a farsi sentire e, finalmente, ad essere ascoltata.

Erano le comunità dei borghi inermi straziati della lapide di Calamandrei, le comunità infrante, le comunità delle generazioni successive nutritesi di memoria divisa, che finalmente trovavano – poche di loro, in realtà, si è detto, in aula – e trovano lo spazio e l’ascolto del discorso pubblico, man mano divenendo incisive, cominciando a formare opinione pubblica.

È per questo che oggi possiamo, su questi temi, fare conversazioni pubbliche che interessano un ambito più ampio di quello degli addetti ai lavori, mettere su progetti di ricerca davvero europei come quello dell’Atlante, o pubblicare una collana di volumi – voluta dalla Regione Toscana e dall’Istituto Nazionale Parri – che raccontano i processi per le stragi naziste come fatti di immediata attualità[2], in quanto essi sono fatti di immediata attualità.

Tutto questo impegno è, però, va detto, un pegno pagato. Difatti, chi studia questi temi da storico o da politologo, chi li lavora come magistrato, carabiniere addetto alle indagini o consulente tecnico, chi li pone al centro dell’agenda politica istituzionale, chi, in generale, dedica buona parte della propria attività professionale (e, spesso, del proprio tempo libero) a questi argomenti, lo fa anche in virtù di un sentimento di doverosa restituzione – da parte dello Stato che in qualche modo, o in qualche forma, si rappresenta – nei confronti delle vittime. Queste ultime non sono, a parere di chi parla, solo coloro che allora persero la vita – gli inermi straziati in quelle migliaia di luoghi d’Italia; sono vittime anche coloro che sopravvissero alla morte di madri, padri, figli, sorelle e fratelli, ritrovandosi condannati a vivere per sempre “in morte” dei loro cari, spesso costretti ad abbandonare le proprie case distrutte, i paesi incendiati, i campi devastati. È ciò che ha scritto Caterina Di Pasquale a proposito di Sant’Anna di Stazzema: «la strage frantumò il paese, il suo modo di vivere, la sua cultura. Colpì la quotidianità, distrusse i punti di riferimento, bloccò il fluire della vita uccidendo intere generazioni e discendenze. Interruppe tutti i legami, quelli di parentela, quelli di vicinato, di amicizia e di amore, gli uomini non avevano più mogli, né figli, né sorelle, né genitori»[3].

Quest’obbligo a vivere in morte di chi non c’era più è stato il frutto di una giustizia negata in forma estesa, prolungata e sostanzialmente, purtroppo, non rimediata. È anche a queste vittime, condannate al silenzio e senza il sostegno, neanche, di una giustizia di transizione, che lo Stato deve una restituzione alla quale le istituzioni che sono oggi in questa sala – la Regione Toscana, l’Istituto della Resistenza – stanno volenterosamente e volontariamente provvedendo, con i fatti, almeno da vent’anni, primi tra tutti in Italia. A loro, dunque, un grazie personale e spero collettivo, e un invito a continuare.

[1] Per una panoramica complessiva sul tema si rimanda al recente volume di Paolo Pezzino e Marco De Paolis, La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-2013, Roma, Viella, 2016.
[2] Si tratta della collana I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia, curata da M. De Paolis e P. Pezzino e con il mio coordinamento editoriale, per le edizioni Viella.
[3] Caterina di Pasquale, Il ricordo dopo l’oblio, Roma, Donzelli, 2010, p. 55.




Quel 29 giugno del 1944

Il passato imprevedibile

Gli antropologi non sono degli storici, ma hanno una importante componente di formazione legata alle teorie della storicità. L’evoluzionismo, il diffusionismo, il marxismo e lo strutturalismo, che hanno segnato l’antropologia del Novecento, sono teorie che si basano tutte su una idea della storia. Nella mia formazione antropologica mi sono abituato a immaginare il processo storico sulla base di leggi che regolano i comportamenti collettivi (lotta delle classi, evoluzione delle civiltà, diffusione da un centro, modelli simbolici e secondarietà della storia). Con la ‘crisi delle grandi narrazioni’ anche queste idee normative e  generali della storia  si sono fortemente indebolite. A me personalmente, legato come sono – da antropologo – allo storicismo italiano che è attivo anche nel pensiero di Gramsci, si sono aperte possibilità complesse di attenzione e comprensione dei fatti e soprattutto delle rappresentazioni storiche, pur non rinunciando a ricondurle sempre ai processi collettivi di cui ci occupiamo. Nel mio lavoro di collaborazione con l’Archivio Nazionale Diaristico di Pieve Santo Stefano, nel quale sono membro della giuria e quindi ‘lettore’, mi è capitato tante volte di avere tra le mani diari, autobiografie, epistolari i cui contenuti narrativi non corrispondevano alle immagini generali che avevo della storia e dei suoi soggetti. In senso generale ‘scandalosi’ per le mie ‘precognizioni’. Mi abituavo così a non dedurre il passato da un modello generale, ma ad aprirlo vistosamente alla varietà delle forme della vita. Poteva essere un maestro fascista in Dalmazia, che non corrispondeva alla mie idea dei maestri fascisti, o un emigrato italiano in Australia, o un prigioniero italiano in India, ma l’idea di parlare di un ‘passato imprevedibile’ mi è venuta leggendo l’epistolario di un giovane aristocratico  siciliano – Fazio Salvo dei Baroni di Nasari  – che a metà dell’800 faceva il Gran Tour al rovescio, dal Sud al Nord, e raccontava come era Firenze per lui in quell’anno, come erano i vestiti alla moda, le serate mondane, poi raccontava Torino, poi la Germania, chiedendo soldi ai familiari, in modalità simili ai ‘bonifici bancari’ (che io ho appena scoperto) ben note a viaggiatori e commercianti di quel secolo[1]. Ma non è un problema di rivalutazione della storia ‘individuante ’ o ‘evenimenziale’, ma piuttosto di apertura a diversi possibili  modi di immaginazione storiografica e antropologica  di tratti del passato.  Intanto nel 1994 mi ero  imbattuto in un mondo per me davvero inimmaginabile: quello del vissuto dei sopravvissuti alle stragi naziste in Toscana. Una esperienza che mi ha cambiato, come succede quando si fanno ricerche importanti.

Stragi

Nel 1993/94 fui coinvolto da Leonardo Paggi in un progetto di ricerca sulla memoria delle stragi naziste in Toscana, che si svolgeva tra Civitella della Chiana e Bucine. Il caso era caratterizzato – oltre che dalla quantità dei morti civili – dalla ostilità dei sopravvissuti verso i comportamenti delle locali formazioni partigiane. Il fenomeno della  ‘memoria antipartigiana’ è noto e documentato lungo tutto il passaggio del fronte tra Toscana ed Emilia.[2] Lo affrontai con un gruppo di ricerca di giovani ricercatori e studenti che venivano dalla Università di Roma (dove allora insegnavo antropologia culturale) e di Siena (doveva avevo insegnato fino al 1991);  insieme ad altri  colleghi storici e antropologi, tra i quali mi  pare importante ricordare  Francesca Cappelletto che scrisse delle stragi naziste anche su riviste internazionali. La ricordo con particolare emozione perché è morta assai giovane. C’era Giovanni Contini, storico orale della Soprintendenza regionale archivistica e la antropologa visiva Silvia Paggi che realizzò un film. Ci fu anche un convegno internazionale In memory: per una memoria europea dei crimini nazisti. La ricerca produsse molto materiale di intervista poi versato alla Regione Toscana. Anni dopo fu la Regione Toscana a riprendere un progetto più ampio di ricerca delle stragi sulla Toscana a tutto campo. La guidò ancora Leonardo Paggi, e io partecipai con un gruppo di ricerca dell’Università di Firenze, alcuni laureati romani, e la direzione di Fabio Dei. Con alle spalle l’esperienza di Civitella fu più facile, ma non meno doloroso incontrare mondi di una Toscana marginale, montana e contadina, così segnati dal lutto.  Puntammo la ricerca sulla ‘rappresentazione degli eventi e del lutto e sui riti di memoria’[3].

La ricerca di Civitella fu una vera iniziazione. Mi ero formato agli studi sulla Resistenza con una ricerca sulla memoria orale dei testimoni della Spartaco Lavagnini, e della Garibaldi Boscaglia, tra Siena e Pisa. Avevo della Resistenza una immagine un po’ epica, e un po’ radicale. Nei primi anni ’80 collaborai con l’Istituto di Milano (INSMLI), allora diretto da Guido Quazza su temi della didattica della storia, e i miei riferimento cominciarono ad essere meno epici e più legati alla vita quotidiana, Quazza e poi Claudio Pavone – da dentro la loro esperienza – ci avevano insegnato a far calare l’epos e il tasso di ideologia dalla memoria della Resistenza, e a far crescere la comprensione di molteplici storie di giovani, spesso confuse, complesse da discernere, formatesi sul campo talora a partire dai renitenti alla leva. Anche alla Resistenza Quazza aveva osato estendere il tema del ‘personale’ , della spontaneità, che tanto aveva caratterizzato la fine degli anni ’70 e l’esplosione  del femminismo. E Pavone ci aveva inquietato e fatto riflettere sulla nozione di ‘guerra civile’ che chiedeva una nuova complessità dello sguardo storico. Ciononostante fu duro per me affrontare l’incontro con i rappresentanti delle famiglie di Civitella colpite dalla strage, disposte a collaborare solo a patto che noi non li confondessimo con il mondo della resistenza e non difendessimo quella resistenza locale che vedevano come causa prima della strage. Gli antropologi tendono sempre – metodologicamente – ad essere dalla parte dei loro testimoni, e questo ci facilitò l’impresa.  E questo risultò per me poi un arricchimento e una apertura imprevista alla comprensione.

Non sapevo se era la fine del mondo

I risultati condivisi della nostra ricerca non furono accettati facilmente, e fu soprattutto il libro di Giovanni Contini La memoria divisa (Milano Rizzoli 1997) a essere bersaglio di interpreti troppo fedeli alle ideologie e alle letture  più classiche della memoria antipartigiana.

Io ebbi una grande difficoltà ad elaborare questa esperienza. E debbo dire che dovetti accettare la presenza di una forte componente emotiva, un senso di smarrimento e di recupero della ragione, che è giusto raccontare in sede storica e antropologica. Come è giusto fare la storia e l’antropologia dei sentimenti, è anche giusto riconoscere il ruolo dei sentimenti nella ricerca.

La comunità di Civitella si aprì alle nostre interviste, i miei studenti furono adottati e coinvolti nelle memorie luttuose  e nella incessante presenza di un cordoglio mai compiuto del tutto.

Al centro della ricerca si posero decisamente i racconti. I racconti delle vedove, che in parte erano stati già proposti sulla rivista Società nel 1946, con stile orale, colpivano molto . Raccontavano delle giornate di sole, legate all’arrivo dell’estate, ai lavori della campagna, traversate dal dolore, dalla paura, dalle mitragliatrici, dal sangue, da eventi indicibili, fissati nella memoria come sul nitrato d’argento di una pellicola fotografica.

Il racconto su Società della vedova Marsili, mi rimase nella memoria:

 “…Non si vedeva che cadaveri di uomini, ma non potevo conoscerli perché i miei occhi erano velati dal dolore e dalla paura. Non sapevo se era la fine del mondo…” (Giuseppa Marsili vedova Tiezzi, in Società ,7-8, 1946)

La fine del mondo era anche il titolo della raccolta di scritti postumi dell’antropologo Ernesto De martino, dedicate a quelle che lui chiamò ‘apocalissi culturali’. Così mi colpirono i racconti dei corpi portati ai cimiteri, dei bambini testimoni di morti tragiche di persone carissime, il tutto legato a un cielo azzurro, a una giornata di sole, a una presenza delle messi e dei lavori agricoli.  La pioggia compare nella strage di Monte Sole, quando era cominciato l’autunno e il fronte si era spostato più a Nord.

Così anche i racconti dei bambini che trasportando in delle carriole i corpi dei loro cari improvvisamente prendevano velocità e si rincorrevano, e ridevano, e così finivano per far rientrare il  gioco dentro la morte.

I fatti, i ‘nudi fatti’ sono ora – asciutti ma capaci di suscitare ancora interpretazioni – nella scheda su Civitella della Chiana dell’Atlante delle Stragi naziste e fasciste in Italia. Meno di una pagina.  Che senso ha allora questa mia riflessione?

Il vecchio marinaio

Ho spesso raccontato ai miei studenti, ma anche in conferenze esterne all’Università, e di recente anche con un Power Point, questa esperienza di ricerca. E – nel tempo – la ho sentita sempre più attuale. Le morti dei civili si sono moltiplicate nelle guerre che hanno caratterizzato il mondo dopo la caduta del muro. Quel che appariva un episodio ai margini della Resistenza italiana, è diventato paradigmatico delle guerre nel mondo. Mi colpisce che ancora qualcuno parlando pubblicamente dica che bisogna tenere memoria  perché non succeda più. Succede ancora e più di prima. Ma, soprattutto andando a presentare a  Crespino sul Lamione  il libro sulla strage scritto da Valeria Trupiano nel quadro della nostra ricerca,  in quel piccolo centro di montagna[4], dove i riti della memoria si sono radicati in un ambito fortemente religioso, mi parve evidente che gli eredi del dolore e della morte di quella terra di confine dell’Appennino, erano più vicini al dolore del mondo per le stragi dei civili di quanto fossi io, vissuto dentro la guerra ma a distanza di sicurezza. E pensai che ricordiamo per sperare, per non perdere il filo con il passato, per dare senso ai morti e al futuro, per capire meglio il dolore degli altri, non perché non succeda più.

La lettura  che feci di Civitella in una chiave ‘demartiniana’[5] in termini cioè di lutto, di cordoglio, di memoria  e di lamento funebre,  oltre la storia dei fatti, mi apriva ai temi della pietà, del perdono, che hanno traversato la filosofia postbellica ( Paul Ricoeur, su Francia e Germania; Nelson Mandela sulla riconciliazione in Africa Australe etc…) e alla comprensione dei traumi legati alle guerre vicine (in specie quella che ha fatto esplodere la Yugoslavia) , alla possibilità di comprensione e di conciliazione . Mi pareva così di animare la memoria partigiana togliendola da fondamenta un po’ invecchiate e aprendola a nuove implicazioni. Ci sono due temi che ancora mi piace ricordare, ma che chiedono un racconto ulteriore.

Leonardo

Leonardo Paggi è uno storico del quale ho avuto ammirazione già dagli anni ’70 quando tentò una analisi gramsciana della società toscana e del rapporto tra passato e presente in questa regionesulla rivista Critica Marxista , ho poi collaborato al progetto Civitella, e ancora in seguito a delle iniziativa ad esempio dedicate al film di Giorgio Diritti,  L’uomo che verrà  (2009),  sulla strage di Monte Sole, ma mi è piaciuto anche il libro Il popolo dei morti, nelle sue scritture ci sono sempre tentativi di  trovare un senso generale ai processi, di aprire varchi diversi da quelli consueti alla storia – ormai nota nei fatti e nei documenti – dell’Italia nella seconda guerra mondiale, quella in cui lui ed io siamo nati.

Ma a Civitella venni a sapere che lì era stato ucciso dai tedeschi anche suo padre, medico a Firenze, resistente di famiglia ebraica, che era andato a visitare la famiglia e aveva creduto di essere al sicuro dove la famiglia era sfollata. La famiglia ne fu fortemente segnata. Paggi Gastone 37 anni  è nella lista dei morti  della strage. Le liste dei morti sono tra le cose più emotivamente significative di queste memorie.

Una testimonianza locale  dirà:

“Il Dott. Paggi di Firenze, … viene sorpreso nella sua camera matrimoniale. La Signora ed i bambini furono visti uscire ancor seminudi, con le vesti insanguinate mentre la casa bruciava. I resti del Dott. Paggi, ridotti in cenere, furono pietosamente raccolti in una bacinella”.

Leonardo, che dirigeva il nostro gruppo di ricerca aveva fatto quella esperienza in prima persona. Forse fu questo a farmi sentire, piuttosto che un ricercatore-interprete- divulgatore,  un sopravvissuto. Ho all’incirca la stessa età di Paggi, e quando Civitella della Chiana fu messa a ferro e fuoco io avevo appena compiuto i due anni ed era il giorno del mio onomastico. Ma stavo in Sardegna, dove certo era una bella giornata di sole come a Civitella, ma dove la furia della guerra era lontana.  Ed è in questa veste che mi sono idealmente connesso alle pagine di Primo Levi de I sommersi e i salvati, in cui richiama l’obbligo di testimoniare con un brano della a Ballata del vecchio marinaio di Coleridge :

Since then, at an incertain hour

That agony returns:

And till my ghastly tale is told

This heart within me burns.

Da allora, a ora incerta/ quell’ansia ritorna/ e finchè il mio terribile racconto non è concluso/ il cuore dentro il mio petto  brucia.

Si scrive per contagio dell’orrore ed obbligo a raccontarlo.

Innocenti

Forse sono innocenti i morti dei campi di sterminio, come i morti di Civitella, forse lo sono i civili morti di tutte le guerre. Ed il cordoglio per la morte che li accomuna nella tragedia della guerra mondiale  non è poca cosa. Ormai sembra proprio una sciocchezza separare i mondi delle memoria dolorosa, tanto più che essa è diventata sempre più attuale, sempre più capace di farci capire le guerre del mondo. Dal 1994 qualcosa è cambiato. La storia del lutto di Civitella e quella delle formazioni partigiane sono state rilette nel tempo e sono ormai oggettivamente sullo stesso fronte di memoria. Oggi è possibile più che allora, quando scrissi un testo Il ritorno dall’apocalisse[6], immaginare una memoria resistenziale che possa essere rappresentata come la Madonna degli Innocenti, con un grande manto in cui tutti le vedove e gli orfani e i dolori della guerra possano essere accolti sotto il suo mantello, come nella immagine quattrocentesca dell’Istituto degli innocenti di Firenze.

L’estate toscana del 1944, che ho scoperto nella memoria dei sopravvissuti  venendo dalla Sardegna, la ho ritrovata come un segnale forte di memorie bellica in tante storie di vita dei nonni dei miei allievi fiorentini. Cercando di iniziare i giovani antropologi alle interviste e a raccogliere storie di vita facevo intervistare i nonni, e ce ne erano pochi che non erano stati contadini e non avevano avuto i tedeschi in casa.

La memoria della guerra, abbiamo visto, non serve a che la storia non si ripeta, ma a renderci sensibili al mondo in guerra, a fare vivere con noi il ricordo dei morti, a vivere avendo vicina la loro testimonianza, perché , come scrisse Berti Arnoaldi in un passo fulminante, forse il nostro compito fondativo e comune come studiosi e come cittadini di un paese che ha una Costituzione antifascista, è quello di trasformare i cadaveri  in antenati, che è il senso profondo del cordoglio.

Pietro Clemente è attualmente Presidente dell’Istituto storico senese della Resistenza e dell’età contemporanea

[1] P.Clemente, Il passato imprevedibile, in  Primapersona, 2, 1999
[2]  Ora Civitella è ben rappresentata nell’ Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia 2016 ; http://www.straginazifasciste.it/wp- content/uploads/schede/CIVITELLA%20IN%20VAL%20DI%20CHIANA%2029.06.1944.pdf
[3] P.Clemente, F.Dei, Poetiche e politiche del ricordo. memoria pubblica delle stragi nazifasciste in Toscana, Roma, Regione toscana, Carocci, 2005,
[4] V.Trupiano, A sentirle sembran storielle. Luglio 1944. La memoria della strage di civili nell’area di Crespino del Lamone, Pisa, Pacini,
[5] E.De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre al pianto di Maria, Torino, Bollati Boringhieri, 1958
[6] Apparve poi nei primi anni 2000 sul sito della Regione Toscana nella pagina dedicata alle stragi, e nle volume che concluse la seconda ricerca, generalizzata a tutta la Toscana e condotta in collaborazione con Fabio Dei : P.Clemente, F.Dei, Poetiche e politiche del ricordo. memoria pubblica delle stragi nazifasciste in Toscana, Roma, Regione toscana, Carocci, 2005,




Liturgie laiche e religiose nella Livorno del 1948

Il 7 novembre 1948 a Livorno fu una data molto particolare. Nel medesimo giorno si “fronteggiarono” in città due grandi manifestazioni, l’una cattolica, l’altra comunista. Seguendo un’evidente strategia di contrasto, i vertici ecclesiastici livornesi avevano fatto cadere la solenne chiusura della Peregrinatio Mariae – il pellegrinaggio della Madonna di Montenero che, partito il 20 ottobre, aveva compiuto, come scrisse «Il Tirreno», il suo «viaggio trionfale per tutti i paesi della diocesi» [Un’immensa folla, 4 novembre 1948] – nella data in cui le sinistre celebravano con grande dispiegamento organizzativo l’anniversario della rivoluzione d’Ottobre. I cattolici livornesi avevano del resto ancora nella memoria l’imponente manifestazione dell’anno precedente, 30° anniversario della rivoluzione, celebrato con un grande concorso di popolo per le vie della città e conclusasi al teatro Politeama, alla presenza del presidente dell’Assemblea Costituente Umberto Terracini e del deputato socialista Alberto Cianca [Terracini e Cianca, 10 novembre 1947].

Ingrao-e-Togliatti-1946

Ingrao e Togliatti nel 1946

La mattina dl 7 novembre dunque i comunisti sfilarono lungo i quartieri nord della città, quelli popolari e ad alta densità di operai, concludendo il loro corteo nella piazza S. Marco, massimo simbolo risorgimentale di Livorno, teatro della gloriosa resistenza dei livornesi contro la cattolica Austria dell’11 maggio 1849. Quello stesso pomeriggio la processione dei cattolici si snodò sul lungomare e tra i quartieri sud, quelli dei livornesi più benestanti, fino al colle del Santuario di Montenero. Due itinerari separati, come se fosse esistita una ideale cortina di ferro che divideva la città, ma che ebbero come tappa centrale obbligata la sosta al Cantiere navale, simbolo del mondo operaio. Il Cantiere infatti in quel 7 novembre viene “benedetto” due volte: la mattina dal comizio del direttore dell’«Unità» Pietro Ingrao; il pomeriggio dal vescovo di Livorno, Giovanni Piccioni, alla presenza del presidente della Camera Giovanni Gronchi, nell’ambito della cerimonia di chiusura della Peregrinatio. Davanti agli operai Ingrao, come riportò la stampa, aveva parlato degli enormi progressi compiuti «in ogni campo dalla Russia sotto il regime sovietico, ponendoli in contrasto con le terribili crisi che affliggono gli Stati occidentali», definiti potenze «guerrafondaie capitaliste e affamatrici del popolo» (Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, b. 887) . Il pomeriggio l’immagine della Madonna di Montenero era stata invece benedetta davanti al Cantiere dal vescovo e dal nunzio apostolico dell’Honduras, il livornese Federico Lunardi, dopo che la processione aveva attraversato Borgo Cappuccini, la via nella quale abitava la gran parte degli operai del Cantiere, in cui, annotava «La Gazzetta», quotidiano comunista, era stato «offerto uno spettacolo folgorante di luci e di addobbi considerati i più belli delle varie parrocchie» [Ristori, 1948]. Pochi giorni dopo Gronchi, in una sua nuova visita a Livorno, parlando alle donne livornesi di Azione Cattolica, aveva affermato significativamente che il pellegrinaggio mariano aveva dimostrato come a Livorno il sentimento religioso del popolo fosse «soltanto sopito». «Si è visto – affermava – nella recente “Peregrinatio Mariae” nei quartieri in cui nessuno avrebbe creduto esistesse tanta fede, il popolo degli umili e dei lavoratori rende devoto omaggio alla Madonna. Ora dovete voi entrare nella vita di quella gente, dovete cercare di riportarla sulla via che Cristo ha tracciato per il trionfo del bene e per la salvezza dell’umanità» [Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, b. 880].

I fatti appena descritti, nei suoi macroscopici simbolismi, ben raccontano come il 1948, anno in cui si addensarono in Italia le più tumultuose contrapposizioni scatenate dalla divisione del mondo in due blocchi contrapposti, significò anche una vera e propria lotta per la supremazia dei rituali identitari. Una contesa che aveva trovato il suo acme per le elezioni politiche del 18 aprile e che assunse le forme di una competizione tra i rispettivi repertori liturgici e iconografici, indirizzata anche verso l’occupazione dei luoghi in cui più forte si avvertiva il simbolismo delle identità concorrenti [Guis0, 2006; Cavazza, 2002; Avagliano, Palmieri, 2018]. Come hanno fatto emergere molti studi negli ultimi anni, questa contrapposizione tra diverse “liturgie” assecondava anche rivalità identitarie meno immediatamente percepibili relative alla memoria della guerra e della Resistenza e ai miti fondativi della Repubblica [Gabusi, Rocchi, 2006; Schwarz, 2010]: le sinistre occupate nel tentativo di fondare una religione civile basata sull’antifascismo, viceversa la Democrazia cristiana, e in qualche misura anche le istituzioni ecclesiastiche, impegnate in un’azione di pacificazione nazionale. Riguardo al caso livornese non sfugge, ad esempio che all’interno delle due settimane di Peregrinatio Mariae si toccasse una data carica di simbolismi come il 4 novembre. Siamo all’interno di quel progetto di «riconquista cattolica dell’italianità» [Gentile, 1997, p. 224] che vide in questi anni impegnate le istituzioni ecclesiastiche e che si connetteva direttamente all’impegno della Dc nell’ottica della pacificazione nazionale. L’intento dichiarato dei governi Dc era di stimolare una rinnovata concordia, che superasse le divisioni di una guerra fratricida. Ecco perché, è stato detto, che in questi anni calò una sorta di «silenzio istituzionale» sul 25 aprile, mentre appunto gli sforzi si concentrarono sulle manifestazioni del 4 novembre in cui si celebrava la fine della prima guerra mondiale. A questo proposito va notato che la festa del 4 novembre fino al 1944 veniva definita «festa della vittoria», mentre dal 1944 al 1949 divenne la «festa dell’unità nazionale» nella quale dunque si puntava a celebrare un patriottismo astorico che trascendesse la dimensione politica, nel tentativo di un recupero dell’armonia nazionale. La Peregrinatio Mariae livornese rientrò pienamente in questa prospettiva e difatti il 4 novembre, nel quadro delle celebrazioni, fu officiata una «Santa Messa in suffragio dei Caduti per la patria» a cui intervennero le rappresentanze delle Forze Armate e le associazioni combattentistiche e a cui partecipò  monsignor Trossi, vicario generale dell’Ordinario Militare [Programma dei festeggiamenti, 31 ottobre 1948]. È da evidenziare come, per l’occasione, il settimanale diocesano trasformasse la Madonna di Montenero nella «Madre della pace». Scrisse il giornale: «La Madonna è la grande Pacificatrice. […] Regina della pace perché la devozione a Lei, che agisce sul profondo dei popoli, rimane forse l’unico punto di contatto tra i due mondi che oggi si contendono il dominio della terra: ed è possibile che la Provvidenza – che guida la storia – si serva della Madre comune per rappacificare i suoi figli» [Angeli, 1948].

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La “Peregrinatio” nella Chiesa di S. Maria del Soccorso a Livorno nel 1948

Anche sul fronte contrapposto è facile riscontrare quanto le cerimonie della liturgia laica si ponessero al servizio di precisi obiettivi politico-identitari. Diversi mesi prima della manifestazione del 7 novembre, nell’estate del 1947, una grande cerimonia funebre, seguita di poco alla rottura di Alcide De Gasperi con le sinistre, si caricò di potenti simbolismi che esularono dal mero episodio di cronaca. Nel luglio 1947 dentro il Cantiere navale di Livorno, un operaio, Alvaro Folena, venne ucciso da una guardia giurata durante un alterco. Il funerale si trasformò così in un’imponente liturgia civile contro il governo con un corteo che attraversò le vie della città e a cui parteciparono, secondo le cronache comuniste, circa 60mila livornesi (in una città che in quel momento contava circa120mila abitanti). «La Gazzetta» chiariva qual era il vero significato da attribuirsi alla celebrazione: l’atto di quel «fascista» – così veniva definita la guardia giurata – altro non era che «una fra le più dolorose conseguenze della scelta dell’on. De Gasperi»: la scelta di aver rotto l’unità antifascista, con l’uscita del Pci dal governo. «Promuovendo la formazione di un governo destinato all’impopolarità – continuava il giornale del Pci – ha suscitato in ogni parte d’Italia un’atmosfera di lotta e di guerra civile dalla quale traggono alimento le forze cripto fasciste o apertamente fasciste per rivelare la loro sostanziale natura antidemocratica» [Comi, 1947]. Appaiono evidenti i caratteri di quella retorica antifascista dell’eroismo partigiano che era funzionale allo sforzo di accreditare la Resistenza come mito fondativo della Repubblica. Così come sono chiari i segni della volontà dei comunisti di stimolare una militanza e una disponibilità continua alla lotta contro i germi perduranti del fascismo. L’articolista della «Gazzetta» aggiungeva infatti che «la proibizione verificatasi in molte città di affiggere manifesti antigovernativi, il divieto della propaganda a mezzo di impianti sonori, e tanti altri piccoli fatti più o meno caratteristici hanno creato in Italia l’impressione, tutt’altro che ingiustificata, di una polizia al servizio di un partito (quello governativo) e di certe classi (quelle rappresentate al governo) anziché del paese». E concludeva: «Si aggiunga che a Livorno di notte si canta impunemente “giovinezza” per le strade e che il titolare della Questura si chiama comm. Pennetta, già distintosi in altra epoca nella stessa città, per aver con fazioso accanimento applicato le leggi razziali, e si avrà un’idea dell’ambiente in cui si è maturato il tristo fatto di sangue avvenuto ieri» [Comi, 1947].

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Furio Diaz con gli ufficiali alleati (Fondo Diaz, Biblioteca Labronica Livorno)

Sotto altri aspetti questa cerimonia funebre mise in chiara evidenza il tentativo da parte comunista di elaborare una liturgia alternativa attingendo ai riti, alle simbologie e agli apparati della tradizione cristiana, rielaborati in chiave laica. È evidente lo sforzo di conferire grande solennità e un carattere simbolico all’evento: la bara di Alvaro Folena venne così avvolta in una enorme bandiera rossa, dietro il feretro sfilarono più di cento bandiere e corone di fiori di partiti e associazioni. Il quotidiano comunista parlava di una «dimostrazione dignitosa, severa, degna di un popolo civile ed elevato»; il cronista aggiungeva enfaticamente di non ricordare «di aver veduta cosa di simile nei lunghi anni di carriera professionale» [Sessantamila persone, 5 luglio 1947]. Nella retorica comunista si intuisce la chiara volontà di restituire l’evento con una carica simbolica che superasse per fasto e livello di partecipazione l’ultimo grande evento funebre di massa celebrato a Livorno: quello del suocero di Mussolini, il conte Costanzo Ciano, officiato alla presenza del duce e di tutte le più alte gerarchie fasciste e cattoliche alla vigilia della guerra. La grande fastosità ricreata per un funerale di un semplice operaio, figlio del popolo, accendeva ancor più il contrasto col rito funebre del nobile gerarca, evidenziando l’urgenza di dare la massima espressione pubblica alla riconquistata sovranità popolare fondata sul mito della Resistenza. Nella descrizione dell’evento si attingeva al vocabolario usato dalla tradizione cattolica: si diceva così che nella camera ardente allestita all’Arena Astra, davanti al Cantiere Orlando, attorno al feretro erano «fiori e paludamenti rossi» e che «una guardia d’onore di lavoratori vegliava la salma», accanto alla quale «fu un continuo, ininterrotto pellegrinaggio». Il funerale civile si trasformò in un evento cui attribuire la più alta solennità possibile: un momento in cui partiti e associazioni del mondo laico e massonico profusero il massimo sforzo nella costruzione di una liturgia laica capace di competere con quella cattolica. È sufficiente osservare come la «Gazzetta» descrisse il corteo funebre.

Precede la bara, avvolta da un drappo rosso e portata a spalla, il gagliardetto del plotone ciclisti della Soc. Volontaria di Soccorso con la scorta. La bara è fiancheggiata da militi della Soc. Volontaria di Soccorso e dal plotone ciclisti e da una squadra d’onore del P.C.I. e della Camera del Lavoro. Ai lati un duplice cordone di ciclisti disciplina il movimento del corteo. Lungo le strade percorse dal silenzioso, grandioso corteo, la folla si assiepa a centinaia, a migliaia. Specialmente agli incroci, ai quadrivi la ressa è imponente.

Dietro la bara che raccogliere il corpo martoriato di Alvaro Folena, i congiunti della vittima, gli amici intimi, i dirigenti e componenti la commissione interna dell’Oto. Vediamo il Prefetto, il Sindaco, il Presidente della Deputazione provinciale, il direttore, de «La Gazzetta», il Questore, il Vice Questore, il Comandante del Porto, il rappresentante del Comando Marina, i rappresentanti della Magistratura, professionisti, industriali, commercianti, i rappresentanti dei vari enti cittadini, le rappresentanze dell’Udi, quelle degli stabilimenti industriali della provincia [Ibid.].

Il giornale non mancava di sottolineare l’assenza al corteo di una rappresentanza della Democrazia cristiana: il fatto, annotava «La Gazzetta» era «stato notato non soltanto dai dirigenti della manifestazione, ma dalla stragrande maggioranza dei cittadini che hanno assistito alla imponente manifestazione di cordoglio e di lutto» [=Un’assenza notata, 5 luglio 1947]. Significativa poi appare la scelta di compiere alcuni gesti simbolici nei luoghi della tradizione massonico-risorgimentale: così nella via intitolata a Garibaldi, le popolane comuniste accolsero il corteo con mazzi di garofani rossi. Il grande fascio di fiori venne posto sul feretro e le donne che lo avevano donato seguirono la bara fino a S. Marco: qui nella piazza XI Maggio che evoca la resistenza risorgimentale il corteo si scioglieva, non prima di aver ascoltato le parole del sindaco comunista Furio Diaz il quale mise in guardia i cittadini rispetto ai «pericoli della mostruosa attività di elementi reazionari, avvisando la necessità di proteggere con ogni sforzo la libertà, la repubblica e la democrazia» [Sessantamila persone, 5 luglio 1947].