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2/2 – Per una storia dei movimenti giovanili a Grosseto tra gli anni Sessanta e Settanta (*)

* La prima parte di questo articolo è pubblicata alla pagina QUI

A metà decennio irruppe il femminismo a sconvolgere mentalità, prassi, perfino modalità dei rapporti personali, che sembravano consolidati tra i militanti. Un gruppo forte, a livello nazionale, come Lotta continua ne fu colpito in profondità, tanto da mettere in discussione la propria stessa continuità organizzativa. Sicuramente il femminismo fu uno dei motivi, insieme ad altri ovviamente, che la condusse infine a proclamare a maggioranza l’auto-scioglimento. La storia del femminismo a Grosseto è stata in parte già scritta: ci fu una fase all’interno dell’UDI, quindi la costituzione di un collettivo autonomo che condusse agitazioni e esperienze che derivavano da una cultura antica, ma completamente rinnovata dall’attivismo delle nuove generazioni. Tutte le compagne delle organizzazioni della nuova sinistra, qualcuna anche del PCI [1], fecero parte del collettivo femminista, senza tuttavia lasciare, generalmente, la precedente militanza, che pure generava non di rado opposizione e contrasto.

Più avanti, si diffuse inoltre una nuova consapevolezza ambientalista, che ebbe modo di manifestarsi in occasione delle proteste contro la centrale nucleare di Montalto di Castro (1977/1978), rispetto alle quali la Federazione Giovanile Comunista (FGCI) rimase ancora una volta spiazzata, ma anche la cosiddetta “nuova sinistra” fu costretta a un faticoso inseguimento.

Grosseto, manifestazione nazionale del 17 dicembre 1977 in solidarietà a una donna licenziata per tentato aborto

Grosseto, manifestazione nazionale del 17 dicembre 1977 in solidarietà a una donna licenziata per tentato aborto

Si trattava pur sempre di organizzazioni giovanili, che si trovarono tuttavia a affrontare impegni e problematiche che solo qualche anno prima sarebbero state per loro inimmaginabili. Mi riferisco anche alle scadenze elettorali. Non tanto i referendum, che richiesero comunque campagne elettorali defatiganti, quanto piuttosto le elezioni amministrative del 1975 e le politiche del 1976, per le quali fu necessario stabilire alleanze, operare mediazioni, individuare strategie. In particolare, nel 1976 fu costituito un cartello tra le forze esterne al PCI, con la denominazione Democrazia proletaria, che ottenne scarso successo. Subito dopo si avviò un processo di unificazione che localmente coinvolse PDUP e Lega dei comunisti (a livello nazionale anche Avanguardia operaia) e mantenne il nome di Democrazia proletaria, da cui si tenne fuori la componente PDUP proveniente dal Manifesto. Questi processi comportarono spostamenti delle sedi: fenomeno di una certa importanza se si considera che in tutti questi anni le sedi dei gruppi a sinistra del PCI vennero a trovarsi casualmente tutte entro una zona tutto sommato ristretta del centro storico cittadino. Altrettanto casualmente uno dei principali punti di ritrovo in questa zona era un bar (in seguito rilevato da alcuni militanti dell’ex Manifesto) frequentato da vecchi comunisti, talvolta nostalgici stalinisti, in ogni caso poco propensi a seguire il loro partito sulla linea del “compromesso” con la Democrazia cristiana. Il quartiere ne ricevette inevitabilmente per qualche anno una ben definita caratterizzazione. Infine Democrazia proletaria mantenne un’unica sede in via dell’Unione.

Non possono rimanere fuori da questa carrellata, necessariamente sommaria e volutamente soltanto indicativa, due questioni che sopra ho associato a narrazioni semplificatorie e fuorvianti: la presunta fascinazione della lotta armata e l’uso crescente di droghe tra i giovani.

Maratona del Collettivo femminista grossetano per la riapertura del consultorio, 1977

Maratona del Collettivo femminista grossetano per la riapertura del consultorio, 1977

Riguardo alla prima, si può affermare che essa non ebbe a Grosseto alcuno spazio. La presenza rimasta comunque maggioritaria del PCI e l’influenza che il partito mantenne anche tra i giovani tramite la FGCI contribuirono sicuramente, nonostante i dissensi che continuarono a attraversare la base del partito circa la strategia del “compromesso storico”, a tenere lontana ogni influenza dei gruppi terroristici, ribadendo l’irrinunciabilità dell’opzione democratica e costituzionale.  Non si deve tuttavia trascurare il contributo che dette in questo la Lega dei comunisti, che fin dall’inizio della sua attività fece muro contro ogni possibile simpatia verso gruppi del tipo Potere operaio (di Roma, Padova, Firenze: tutt’altra cosa dal Potere operaio pisano ormai da tempo disciolto), che teorizzavano la maturità dell’opzione rivoluzionaria, rimanendo tuttavia sostanzialmente isolati rispetto alle organizzazioni maggiori. L’idea che la “rivoluzione” dovesse avere per protagoniste le masse popolari escludeva, per la parte largamente maggioria del movimento,  ogni scorciatoia terroristica e faceva dei gruppi armati nient’altro che avversari da sconfiggere; così come avversari politici furono, dopo il 1977 (non certo a Grosseto dove non furono presenti se non per qualche isolata simpatia), i gruppi di Autonomia operaia, i quali, pur limitandosi per lo più a inneggiare alla lotta armata senza praticarla, costituirono certamente un terreno di reclutamento per il terrorismo. Se qualche sbandamento può esservi stato negli altri gruppi della sinistra grossetana, non vi furono ripercussioni nelle aree giovanili. Così come non ebbe alcuna ripercussione il fatto che uno degli avvocati nei primi processi contro le B.R. fosse un insegnante di un istituto superiore grossetano e neppure il fatto che uno dei membri del “nucleo storico” delle B.R. avesse vissuto fino al 1968, a Nomadelfia, a due passi dalla città (ovviamente la sua conversione terroristica fu successiva). È la dimostrazione, sia pure nella limitatezza di un’esperienza marginale, che la logica del movimento politico di massa, qual era quello che derivava dal Sessantotto, niente aveva a che fare con la logica delle “avanguardie armate”, autoproclamatesi tali in virtù di elucubrazioni teoriche da esse sole condivise. Non c’è dubbio che la vicenda di Aldo Moro, la stessa tragica discussione tra la “linea della fermezza” e la “linea della trattativa”, costituì per tutti i militanti, sia della sinistra tradizionale che della nuova sinistra, un motivo di riflessione sul valore e, insieme, sulla fragilità dell’ordinamento democratico.

Primavera 1979. Donne del "collettivo": una festa

Primavera 1979. Donne del “collettivo”: una festa

La questione “droga” fu più complessa. C’era stata fin dall’inizio, da parte di tutta la sinistra, un’ampia disponibilità nei confronti dei nuovi modi di vita che si diffondevano tra i giovani, trasmessi in gran parte tramite la musica e lo spettacolo. In seguito alcuni militanti furono coinvolti nell’organizzazione di eventi artistici (Dario Fo, molti cantautori e gruppi rock), fino a fare di questo più tardi la propria professione. Fu aperta anche una radio “libera”, che fu un’iniziativa di rilievo promossa da Lotta continua. Tutti sintomi di un’attenzione e non di rado di una condivisione delle istanze “libertarie” che, come si è visto, erano state all’origine del movimento e che pertanto erano presenti, in diversa misura, in tutte le sue componenti. Non era un mistero che questi nuovi modi di vivere, improntati al superamento di restrizioni e tabù che avevano invece dominato le generazioni precedenti, facilitassero e talvolta perfino implicassero il consumo di droghe; consumo che intanto andava sempre più estendendosi. Si sapeva d’altra parte che la diffusione di ogni genere di droga era stato uno dei fattori decisivi che aveva portato alla dissoluzione, già alla fine degli anni sessanta, del movimento giovanile americano, che pure era stato tanto potente da innescare su scala planetaria la protesta contro la guerra del Vietnam. La FGCI seguì l’azione parlamentare del partito, orientata verso una moderata depenalizzazione. Altri gruppi, nel nome della spontaneità più spinta, accettarono i primi morti per overdose come una fatalità inevitabile. Altri, di fronte a una situazione ogni giorno più grave, posero una netta distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, finendo a volte per attribuire il passaggio dalle une alle altre, che qualcuno, al contrario, dava per ineluttabile, a complotti orditi dal “nemico di classe”, o, meno irrealisticamente, da qualche organizzazione criminale. La Lega dei comunisti, che sempre ebbe una posizione anti-proibizionista, mantenne invece all’interno, nei confronti dei propri militanti, una forte rigidità, prevedendo -e in qualche caso- mettendo in atto, l’espulsione dall’organizzazione.

La differenza tra questi modi diversi di affrontare la questione si manifestò nel corso di una conferenza del sociologo Blumir, tenuta nella sede del PDUP e promossa da alcuni elementi di quel gruppo (ex Manifesto). Da una parte ci fu chi indicò nel consumo di droghe leggere un tratto, se non il tratto, caratterizzante del processo rivoluzionario in atto, in grado di coinvolgere e convincere a uno stile di vita “libertario”, pacificato e pacificante perfino quanti si dichiaravano fascisti. Dall’altra parte c’era chi riproponeva la visione classica della rivoluzione, che avrebbe dovuto risolversi non tanto in un mutamento degli stili di vita, riguardo a cui le preferenze potevano essere oltre tutto le più varie, ma in un rovesciamento dei rapporti economici e politici tra le classi sociali, rispetto a cui qualsiasi “oppiacea” distrazione, perpetrata per di più a vantaggio di un mercato internazionale della merce-droga gestito secondo logiche capitalistiche e imperialistiche, non poteva che fare il gioco dell’avversario. Senza contare che si stava imponendo a livello giovanile un antifascismo militante che era l’opposto di qualsiasi fumosa pacificazione e consisteva piuttosto in scontri aspri, talvolta in violenti tafferugli, davanti alle scuole e nelle vie della città (da ricordare un intervento piuttosto clamoroso al comizio di un esponente di estrema destra durante la campagna elettorale del 1975).

Non ha senso probabilmente stabilire oggi chi avesse ragione, ma forse ha senso capire meglio le ragioni degli uni e degli altri, in un periodo in cui le morti per overdose (in seguito si sarebbe aggiunta la diffusione del virus HIV) stavano decimando una generazione. Credo che sia consentito a chi allora sostenne la seconda delle due posizioni rilevare come l’impegno politico collettivo richiesto a giovani militanti, il confronto quotidiano con i problemi degli studenti, dei lavoratori, delle donne, degli abitanti dei quartieri periferici, lo stesso antifascismo militante, possano aver contrastato la possibilità, purtroppo incombente, di essere risucchiati nel gorgo della tossicodipendenza. Come anche ricordare che alcuni di quei giovani iniziarono proprio in quegli anni un impegno anche professionale nei servizi psichiatrici, acquisendo una diversa responsabilità personale, oltre che una più ampia competenza, nei confronti della malattia e del disagio mentale, che condusse anche a una più profonda comprensione e com-passione verso chi si trovò coinvolto in quel tragico fenomeno sociale.

Mi accorgo di aver perso nella narrazione un filo che invece sarebbe stato da seguire: quello dei giovani fascisti. Non so indicare una documentazione significativa al riguardo, a parte la cronaca locale sulla stampa. L’impressione che ho è che il MSI locale abbia sempre avuto uno stretto controllo sulla sua organizzazione giovanile e abbia quindi tenuto lontane eventuali influenze da parte di organizzazioni apertamente eversive che pure operarono largamente in Italia, godendo, come si sa, di garanzie e protezioni. Lo confermerebbe la presenza documentata di picchiatori grossetani a fianco di Almirante a Roma in un momento in cui il MSI si trovò in forte tensione non solo con il movimento studentesco di sinistra, ma anche con l’organizzazione neo-fascista Avanguardia nazionale [2]. D’altra parte, sembra che non vi sia stato alcun coinvolgimento di organizzazioni grossetane nella vicenda del “golpe Borghese”, benché vi abbiano preso parte, con ruoli di rilievo, alcuni repubblichini locali [3]. Meriterebbe piuttosto indagare le ripercussioni che sicuramente vi furono in quegli ambienti in seguito alla tragica e un po’ misteriosa scomparsa, all’inizio degli anni settanta, di un dirigente che contava qualcosa anche a livello nazionale.

Il fatto è che quei giovani fascisti arrivarono anni dopo, quando ormai non erano più tanto giovani, a conquistare l’amministrazione comunale, governando per anni la vita cittadina insieme a Forza Italia. Quando invece i gruppi della sinistra esterni al PCI non lasciarono tracce, neppure individuali, nella politica e nell’amministrazione locali [4]. Come è potuto accadere? Questa è una delle domande a cui varrebbe la pena tentare di rispondere; forse anche da qui potrebbe aprirsi qualche spiraglio di comprensione sugli anni più recenti, fino a quelli che stiamo ora vivendo.

NOTE:

[1] Fra queste deve essere ricordata Miranda Salvadori, che rappresentò un riferimento importante per le prime femministe.

[2] Mi riferisco agli avvenimenti (16 marzo 1968) successivi alla “Battaglia di Valle Giulia” (1° marzo 1968). Giulio Caradonna, che era presente, riferì dell’intervento di “minatori di Grosseto” (https://forum.termometropolitico.it/564095-il-68-nero-almirante-guido-gli-scontri-all-universita.html). Devono avergli fatto credere che Giovanni Ciaramella, noto repubblichino già condannato nel “processone” del 1946 contro i gerarchi e militi della RSI, riconoscibile nelle foto accanto a Almirante, fosse un minatore in pensione. Anche se non si può escludere che due o tre autentici minatori di Gavorrano o Niccioleta ci siano davvero stati, reclutati magari da qualche caposervizio della Montecatini che non sarebbe difficile identificare.

[3] Se ne trova qualche eco in un libro recente che ha avuto notevole successo: Teresa Ciabatti, La più amata, Mondadori, Milano 2017

[4] Un’analisi diversa dovrebbe essere fatta per i comuni diversi dal capoluogo.




1/2 – Per una storia dei movimenti giovanili a Grosseto tra gli anni Sessanta e Settanta (*)

È possibile scrivere la storia dei movimenti giovanili di cinquant’anni fa?

Ma, prima ancora: ne vale la pena?

C’è da chiedersi infatti se ripensare “quel” passato in termini storici non sia una perdita di tempo; o, peggio, se non significhi distogliere gli occhi da ciò che ci accade intorno e quindi rassegnarsi all’incapacità di affrontare i problemi che sarebbe urgente invece risolvere qui e ora. Si deve ammettere che, almeno a prima vista, la vita attuale ha poco a che vedere con vicende vecchie di mezzo secolo: sarebbe certamente patetico appassionarsi alle polemiche che attraversarono allora il movimento studentesco o tornare a scaldarsi per le divergenze strategiche all’interno del PCI in vista del “compromesso storico”. C’è chi sostiene, del resto, che ben difficilmente la storia sia di qualche utilità nelle vicende attuali; figuriamoci, verrebbe da aggiungere, la storia locale: per di più di una piccola città, come Grosseto, ai margini perfino della “provincia” italiana più marginale. Volendo comunque rievocare quegli eventi, non ci si può stupire che si preferisca allora fare a meno della storia e accontentarsi della memoria di qualche testimone, possibilmente disposto al gioco di riconoscersi, da giovane, in qualche vecchia foto.

Non credo però che sia questa, necessariamente, la risposta alla domanda che ho posto: se ne valga la pena. Intanto le ragioni della storia, perfino di “quella” storia, pur così marginale, contrastano anch’esse una rassegnazione: quella di chi rinuncia a comprendere davvero il passato. Si può capire che ciò comporti, in certi casi, il fastidio di riconsiderare anche la propria storia e si tenda perciò a evitarlo, piuttosto che andare a vedere se esista un filo, quantunque tenue, che unisca il passato al presente. Ma se questo filo esiste – e l’indagine storica potrebbe aiutare a trovarlo e a dipanarlo – potremmo anche sperare di capire qualcosa di ciò che sta accadendo oggi. Diversamente, come potremmo pensare di affrontare il presente e provare a immaginare il futuro?

Ci sarebbe poi da sgomberare il campo da immagini false e fuorvianti e anche questo dovrebbe essere il compito della riflessione critica. Non c’è dubbio, che riguardo ai movimenti giovanili degli anni sessanta e settanta – diciamo pure per brevità: riguardo al movimento del Sessantotto – circolino analisi a dir poco approssimative, oltre a mitologie di incerto fondamento. Stando, ad esempio a una “vulgata”, avvalorata anche in ambienti dai quali non ci si aspetterebbe, il frutto immediato e perfino scontato del Sessantotto sarebbe stata la cosiddetta “lotta armata”. Questa lo riassumerebbe tutto e senza residui, restituendocelo come in uno specchio a cui non si può che prestare fede. Insomma ci sarebbe stata in Italia una “guerra civile”, sia pure – aggiunge qualcuno – “a bassa intensità”, nella quale, come era accaduto nella Resistenza, gli schieramenti erano solo due: chiunque avesse una posizione critica nei confronti dello stato, del capitalismo, della cultura dominante e così via non poteva non sentirsi rappresentato dai  “compagni” in armi[1]. Proprio questo, del resto, è ciò che raccontano i reduci di quella “lotta armata”, senza differenza tra irriducibili e pentiti: tutti diventati incredibilmente loquaci e tutti devotamente ascoltati senza eccessiva considerazione per i crimini di cui eventualmente siano stati giudicati colpevoli; quasi fossero, essi e essi soltanto, gli interpreti autentici di quell’epoca. Nessuno che denunci la presunzione e l’arroganza di chi arbitrariamente si assunse allora il compito, e continua ad assumerselo, di parlare a nome dell’intero “movimento”, addirittura, come essi amano dire, di un’intera generazione. Il brigatista, insomma, come evoluzione coerente o addirittura obbligata del “sessantottino”.

Del resto, l’altro “ideal-tipo” di quegli anni sembra non possa essere altri che il tossico.

Roma, febbraio 1968, manifestazione di studenti davanti alla Facolta' di lettere

Roma, febbraio 1968, manifestazione di studenti davanti alla Facoltà di Lettere

Ne consegue l’immagine di una generazione, appunto, affollata da brigatisti rossi e consumatori di droghe più o meno pesanti, con l’aggiunta, a completare il quadro, di qualche terrorista nero e qualche stragista. A chi si salvò, scampando alla morte per overdose o per arma da fuoco, a chi non si arrese alla malattia mentale, a quanti riuscirono a evitare le patrie galere, non sarebbe poi rimasto altro da fare che scomparire “nel privato”; a meno che invece, ma questa è la ripetizione di una storia ancora più vecchia, non abbia trovato il modo di assestarsi su posizioni di potere, rinnegando tutto ciò che fino allora aveva fatto e era stato.

Ecco: a tutto questo credo che si debba reagire, anche in riferimento a una situazione marginale quale quella di Grosseto, proprio con le ragioni e con il metodo della storia. Se ci si limita infatti a rievocazioni fondate su memorie vacillanti e prive di riscontri, buone al più per ritrovi di vecchi amici in vena di nostalgia, si finisce proprio per avallare quelle narrazioni. Operazioni del genere non fanno che sovrapporre alla tragicità di quegli anni una patina folcloristica, per non dire goliardica, comunque provinciale, che impedisce di mettere a fuoco gli avvenimenti e ne ostacola la conoscenza e la comprensione, evitando per di più di fare i conti con abbagli e errori, che ovviamente ci furono, e molti. In tal modo i solchi tra le generazioni, anziché colmarsi, si approfondiscono. Una cosa è certa: le generazioni successive non hanno interesse a malinconie senili vagamente autoassolutorie; hanno il diritto piuttosto di sapere che cosa sia effettivamente successo. È questa una questione di responsabilità, sia del testimone che dello storico[2].

D’altra parte, anche quando si mette in evidenza l’impatto di quel movimento sul costume, sulla morale corrente, sulla stessa mentalità e si sottolinea, giustamente, la sua radicale portata innovativa, che si presentò addirittura come rottura generazionale, si tende a dimenticare che fu anche, e forse soprattutto, un movimento politico, che si propose di incidere sugli equilibri che si erano consolidati – e non solo in Occidente – nel ventennio successivo alla guerra. Dunque anche riguardo ai suoi esiti politici andrebbe storicamente valutato. La possibilità di un giudizio di inadeguatezza o di vera e propria sconfitta non dovrebbe costituire motivo per tacere di quella “politicità”, sempreché, di nuovo, non ci si fermi alla sensibilità dei testimoni, che potrebbero ancora sentirsi in essa troppo coinvolti per rievocarla obiettivamente, o potrebbero, al contrario, non avvertirla: ma sarebbero probabilmente gli stessi che neppure allora – ma solo per loro miopia – l’avvertirono.

Quanto alla possibilità. È ovvio che, al netto di eventuali entusiasmi di ritorno per le mitologie sessantottine, non si possa fare a meno dei testimoni. Purché le testimonianze che si raccolgono e si utilizzano siano sottoposte ai criteri di quella che viene definita “storia orale”, che è ormai una disciplina con propri metodi e un suo preciso statuto epistemologico[3]. Occorre la consapevolezza che ben difficilmente potremo contare su una memoria condivisa e sarà dunque necessario ascoltare versioni diverse e non necessariamente sovrapponibili, se vogliamo evitare di accreditare verità totalmente o in gran parte arbitrarie [4].  Bisognerà inoltre che le testimonianze siano confrontate con documenti scritti, fotografici, filmici. Alcuni archivi sono già disponibili, altri, quello della questura ad esempio, prima o poi lo saranno. L’ISGREC ne possiede alcuni che fanno capo a partiti, a organizzazioni politiche e a associazioni, come ad esempio quella dei genitori di giovani tossicodipendenti, o il “Centro Donna”, che ha raccolto documenti dell’UDI e del Collettivo femminista. C’è poi la stampa: la cronaca locale di giornali regionali. Un lavoro difficile, ma possibile: ci sono giovani storici in grado di farlo con grande competenza. Non sta a me indicare le piste documentali da seguire. Basta sapere che queste piste esistono, come esiste ormai una bibliografia locale di base, almeno per alcuni argomenti settoriali, ma connessi al fenomeno dei movimenti giovanili: penso alla storia delle donne, alla questione della malattia mentale e della psichiatria[5].

Copertina del n. 14-15 di "Nuovo Impegno", aprile 1969, contenente la cronaca e un'analisi politico-ideologica dei fatti della Bussola (31 dicembre 1968)

Copertina del n. 14-15 di “Nuovo Impegno”, aprile 1969, contenente la cronaca e un’analisi politico-ideologica dei fatti della Bussola (31 dicembre 1968)

Vorrei piuttosto suggerire una traccia cronologica e qualche orientamento tematico a quanti volessero accingersi a uno studio rigoroso e criticamente avvertito. Con l’avvertenza, appunto, che questa proposta, pur dovendo – credo – essere presa in considerazione, sarà soggetta essa stessa a “falsificazione”, sulla base di documenti e testimonianze eventualmente discordanti.

Si dovrebbe intanto andare a vedere che cosa c’era in questa città prima del ’68 e che cosa cambiò in quell’anno. I movimenti giovanili dei partiti democratici – quello comunista, ma non solo – erano sicuramente aggregazioni consistenti fin dai primi anni del dopoguerra. Anche il MSI ebbe sempre un seguito a livello giovanile. Ma erano soprattutto le parrocchie a raccogliere i giovani sotto le più diverse forme organizzative. Nel corso del decennio dal 1960 al 1970 però cambiarono profondamente i costumi e i comportamenti giovanili; non solo a confronto con la generazione dei padri e delle madri, quella che aveva vissuto la guerra, ma forse in modo ancora più marcato a confronto con la generazione immediatamente precedente, quella nata durante la guerra o appena dopo. Le mode importate dall’estero, in particolare dall’Inghilterra, ebbero un peso decisivo: soprattutto la musica, ma anche l’abbigliamento, le occasioni di incontro, l’utilizzazione dei mass-media. Per quanto riguarda i giovani cattolici incise a fondo il rinnovamento fatto intravedere dal Concilio. Sia i giovani cattolici che quelli di sinistra trovarono nel tema della pace un elemento comune di interesse, sul quale comunque ancora non riuscivano a incontrarsi, e frequente per loro cominciava a essere il riferimento al movimento pacifista e per in diritti civili in USA. La guerra nel Vietnam, ma anche l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia, furono avvertite come rotture dell’impegno di pace che era seguito alla sconfitta dei fascismi e che mostrava invece, nella logica della “guerra fredda”, tutta la sua precarietà e il suo inganno.

Volendo indicare avvenimenti significativi, viene da pensare alle iniziative di solidarietà dopo l’alluvione del 1966: gli interventi assistenziali delle parrocchie, il recupero dei libri della biblioteca. Personalmente ricordo molto bene Roberto Ferretti in divisa da boy scout (AGESCI) impegnato a regolare il traffico dei soccorsi nel Viale Matteotti, ancora invaso dal fango. Non fu ovviamente come a Firenze, ma il clima era quello. Una forte eco aveva avuto nell’aprile di quell’anno l’uccisione a Roma dello studente Paolo Rossi ad opera dei fascisti, in seguito a cui i giovani comunisti tentarono anche a Grosseto una mobilitazione nelle scuole superiori.

Intanto gruppi di cattolici cominciarono ad avere momenti di aggregazione esterni alle parrocchie, che resero possibile la lettura collettiva di testi inusuali, come ad esempio “Lettera a una professoressa” e facilitarono rapporti con realtà già più vivaci di altre città. Mentre a sinistra fu il PSIUP a raccogliere le inquietudini giovanili che cominciavano a orientarsi verso una rottura della tradizione resistenziale ormai ingessata e verso una distinzione rispetto alla gestione pluridecennale del potere locale, da cui invece i giovani comunisti, più fedeli generalmente ai costumi familiari, facevano fatica a staccarsi.

E fu dunque il ’68.

Fu, anche a Grosseto, il Sessantotto degli studenti. Contatti con i giovani lavoratori li mantennero i circoli comunisti e in futuro il PCI ne avrebbe tratto frutto.  Fu però nelle scuole, ben prima che nelle sezioni di partito e nelle federazioni giovanili, che si fece sentire forte il vento della rivolta, alimentato dal maggio francese, ma anche da quanto stava accadendo nelle università italiane, a Roma, a Pisa, quindi dagli avvenimenti praghesi e dalle notizie che giungevano da oltre oceano, in particolare l’uccisione di M.L.King.  Gli elementi più ricettivi si accorsero che il loro cerchio poteva allargarsi con una facilità che sarebbe stata inimmaginabile solo qualche mese prima. Si resero conto che, nonostante la denuncia di Don Milani contro la scuola di classe, la scuola media superiore era ora frequentata da molti studenti che non provenivano da ceti sociali privilegiati e erano ormai disposti a opporsi alla borghesia che, spalleggiata da un ceto professorale conformista quando non apertamente reazionario, fino ad allora vi aveva spadroneggiato: con i suoi pregiudizi, il suo perbenismo, la sua ipocrisia condita di cattolicesimo pre-conciliare, i suoi ridicoli riti goliardici. All’interno della stessa borghesia del resto, quella colta, delle professioni, la frattura generazionale era ormai in atto.

A questo punto ci sarebbe bisogno di un affinamento e di una precisazione della cronologia, perché gli avvenimenti si susseguirono rapidamente[6]. Ci fu l’occupazione del Liceo classico, che è l’episodio più spesso ricordato; ma ci fu anche una serie di assemblee al Liceo scientifico molto partecipate, convocate su documenti politici elaborati autonomamente dai promotori dell’agitazione; la manifestazione per Jan Palach, indetta dalla destra sotto lo sguardo benevolo dei fascisti e poi condotta dagli studenti di sinistra, a costo di qualche scontro fisico; ci furono altre manifestazioni di piazza e un’occupazione dell’Istituto professionale, alla quale tentarono senza successo di partecipare anche studenti di altre scuole. Nel novembre 1969 ci fu una grossa partecipazione studentesca alla manifestazione indetta dai sindacati in occasione dello sciopero generale per la casa.  Iniziarono inoltre riunioni politiche pomeridiane nella sede del Teatro sperimentale a cui partecipò anche qualche studente universitario. L’iniziativa spontanea nelle scuole era sostenuta in vario modo, sia pure con qualche titubanza, dalla FGCI, ma l’orientamento politico veniva soprattutto dal gruppo giovanile del PSIUP. Si può aggiungere che alcuni volantini per gli scioperi furono ciclostilati nella sede dell’Azione cattolica. Intanto andava coagulandosi un gruppo anarchico, che niente aveva a che fare ovviamente con l’anarchismo storico maremmano da tempo esauritosi.

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Servizio d’ordine a una manifestazione della sinistra rivoluzionaria

Un passaggio importante, che meriterebbe di essere ricostruito con documenti e testimonianze (non impossibili da trovare), fu la stroncatura sul nascere, da parte del PCI locale, del tentativo di costituire un nucleo della frazione del Manifesto, espulsa, a livello nazionale, dal partito. Il gruppo che si ritrovava al Teatro sperimentale aveva infatti un contatto diretto a Roma con quella frazione attraverso un elemento proveniente dal PCI locale che sembrava possedere tutti i requisiti di un leader. Sta di fatto che questa persona sparì da un giorno all’altro e non fu più vista in città. Si disse che aveva trovato (“gli avevano trovato”) lavoro altrove. In tal modo il pericolo che il PCI più temeva, una scissione locale del partito, fu scongiurato e per qualche tempo il Manifesto non fu presente a Grosseto. Si ripresentò dopo qualche anno ad opera di studenti universitari che però svolgevano a Grosseto solo un’attività sporadica.

Se qualcuno pensò di aver arginato in questo modo il movimento, dovette presto ricredersi. I giovani psiuppini che nel panorama locale avevano mostrato di essere i più sensibili ai segnali che provenivano dai movimenti studenteschi universitari e soprattutto dal Potere operaio pisano, cominciarono a sentirsi stretti nel loro partito. Ben presto costituirono un gruppo autonomo (il Gruppo di Azione Operaia, GAO) che, attenuando l’interesse verso gli studenti, tentò interventi nelle fabbriche di confezioni e abbigliamento che allora esistevano in città, andando incontro anche a denunce e processi. L’unico che rimase infine nel PSIUP, con il ruolo di funzionario stipendiato, fu Roberto Ferretti.

I cattolici furono posti di fronte all’incompatibilità dell’attività nel movimento studentesco con la permanenza nelle organizzazioni ufficiali della chiesa, con la conseguenza dell’abbandono di queste ultime da parte dei nuclei più attivi, dai quali scaturirà un gruppo cristiano interconfessionale che manterrà una continuità per tutti gli anni settanta e una presenza militante nelle organizzazioni locali della sinistra, con un riconoscimento anche esterno alla provincia attraverso i Cristiani per il socialismo e le Comunità cristiane di base.

Il movimento nelle scuole superiori si trovò di fronte alla difficoltà del ricambio dei nuclei che lo avevano diretto: terminato il ciclo di studi superiori, questi si trasferivano nelle sedi universitarie interrompendo ogni contatto. Soltanto un gruppo di studenti del liceo classico continuò a incontrarsi, per lo più in abitazioni private e al di fuori di qualsiasi riferimento a organizzazioni politiche, per studiare i classici del marxismo.

Lo stallo del movimento studentesco poteva essere superato solo con l’intervento di organizzazioni dotate di una certa stabilità. La FGCI non era ancora in grado di svolgere questo ruolo, perché fortemente condizionata dalla diffidenza mostrata dal partito verso le agitazioni giovanili; diffidenza che a livello nazionale, fu soltanto attenuata dall’incontro avuto da Longo nel 1968 con i principali esponenti del movimento studentesco romano, allora non ancora strutturato nelle diverse organizzazioni che di lì a poco si sarebbero costituite. Si presentò quindi (inverno 1971/1972) un’organizzazione (Lega dei comunisti) che aveva la sua base a Pisa e derivava dalla scissione (e scioglimento) del Potere operaio avvenuta all’indomani dei fatti della Bussola (31 dicembre 1968)[7]. Non fu tanto quel drammatico avvenimento a portare a conclusione una delle esperienze più significative del Sessantotto italiano, quanto piuttosto l’esasperazione di preesistenti divergenze ideologiche, dalle quali parve allora di non poter prescindere, nella ricerca quasi spasmodica di un’alternativa anche ideologica al PCI, che avesse definitivamente ragione del “riformismo” irrimediabile di quel partito. Parve inevitabile la separazione tra quanti confidavano esclusivamente sulla spontaneità rivoluzionaria, prima degli studenti, poi anche degli operai e quanti invece ritenevano che tale spontaneità dovesse trovare un orientamento strutturato, dunque un’organizzazione in grado di incidere politicamente sulla realtà. La nuova organizzazione si valse a Grosseto dell’attività militante non più saltuaria di studenti universitari e si rivolse in primo luogo a consolidare una base tra gli studenti delle superiori, a cominciare dai più giovani. Raccolse immediatamente, con poche eccezioni, ciò che rimaneva del GAO e sviluppò un intervento di agitazione nelle scuole aperto a tutti, anche agli appartenenti a altri gruppi e organizzazioni, ad eccezione dei fascisti, i quali comunque non di rado si mostrarono disposti a rinnegare i propri trascorsi per partecipare al movimento. Ci fu il tentativo di orientare politicamente il ribellismo giovanile, ancora molto forte, a partire dai bisogni materiali degli studenti, incoraggiando una pratica di partecipazione e di democrazia, che presto acquistò ampia visibilità nelle scuole (senza distinzioni ormai tra licei e istituti tecnici) e divenne maggioritaria nel movimento. Si cercò anche di valorizzare e vivacizzare l’antifascismo tradizionale, facendo partecipare comandanti partigiani, come ad esempio Angiolino Rossi (Trueba), alle assemblee scolastiche.

Il consolidamento delle organizzazioni politiche giovanili era del resto una tendenza generale e portò anche a Grosseto a un chiarimento anche nelle posizioni individuali. Di conseguenza la stessa FGCI si rafforzò notevolmente, raccogliendo anche militanti vicini in precedenza alle posizioni che quell’organizzazione definiva “estremiste”. Comparve in seguito anche Lotta continua, che a Pisa aveva rappresentato la parte maggioritaria uscita dalla scissione del Potere operaio e costituiva appunto l’ala “spontaneista” del movimento, pur dotandosi presto anch’essa di strutture organizzative sempre più consistenti. La presenza di altre organizzazioni che rappresentavano ormai un riferimento per la base studentesca impedì che Lotta continua avesse a Grosseto un ruolo decisivo, come invece ebbe nelle maggiori città italiane, dove la sua visibilità divenne spesso preponderante. Nessuna altra organizzazione, a parte talvolta il piccolo gruppo anarchico, svolse attività politica tra gli studenti.

12 gennaio 1974, Grosseto. Manifestazione di minatori e studenti

12 gennaio 1974, Grosseto. Manifestazione di minatori e studenti

La Lega dei comunisti si pose ben presto l’obiettivo di un intervento operaio, attraverso volantinaggi di fronte ai luoghi di lavoro e la costituzione di nuclei di fabbrica. Problema questo che la FGCI risolveva facilmente potendo contare sulla solida base operaia del PCI, mentre il PDUP (il resto del PSIUP non confluito nel PCI e unitosi in seguito con il Manifesto) puntava a allargare la sua presenza tradizionale nel sindacato, riuscendo effettivamente a raccogliere numerosi militanti nelle categorie della scuola, dei bancari, dei metalmeccanici e dei postelegrafonici. Neppure la Lega dei comunisti, del resto, era più ormai un’organizzazione esclusivamente studentesca: alcuni dei suoi membri assunsero ruoli dirigenti nella cosiddetta sinistra sindacale. Si può ricordare, a questo proposito, la partecipazione degli studenti grossetani all’occupazione delle miniere amiatine, da cui derivò una grossa manifestazione di operai e studenti a Grosseto, che colse di sorpresa la segreteria della Camera del lavoro.

*La seconda parte di questo articolo sarà pubblicata la prossima settimana QUI

NOTE

(*) Ringrazio Stefania Cecchi, Silvia Guerrini, Marco Turbanti e Pier Francesco Minnucci delle osservazioni e dei consigli che mi hanno dato e di cui ho tenuto conto per stendere questa breve nota. La responsabilità di ciò che ho scritto è però soltanto mia. Grazie anche a Luciana Rocchi, Antonella Piani e Barbara Solari che l’hanno letta prima della pubblicazione.

[1] Si consideri però questa riflessione di Luigi Ferrajoli: “È utile ricordare che in Italia, negli anni del terrorismo, su una cosa tutti concordammo – destra e sinistra, critici e difensori delle leggi dell’emergenza -: nel negare ai terroristi lo statuto di belligeranti e perciò nel rifiutare la logica di guerra che i terroristi volevano imporre al nostro paese” (L.Ferrrajoli, Manifesto per l’uguaglianza, Laterza, bari, 2019, p. 278, n. 23).

[2] Ma anche dell’antropologo. Va da sé che poeti e romanzieri, gli artisti in genere, si attengono a ben diversi, del tutto legittimi, codici deontologici.

[3] Il riferimento d’obbligo, dal punto di vista sia concettuale che metodologico, è: Giovanni Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997.

[4] Bella e coraggiosa la rievocazione di una vicenda familiare grossetana degli anni Settanta proposta recentemente da Vanessa Roghi (Vanessa Roghi, Piccola città. Una storia comune di eroina, Laterza, Bari, 2018), che tuttavia presenta un’immagine parziale e non del tutto attendibile dell’ambiente locale, delineato unicamente sulla scorta di poche testimonianze e scarsi e discutibili riscontri documentali. 

[5] Luciana Rocchi-Stefania Ulivieri, Voci, silenzi, immagini. Memoria e storia di donne grossetane (1940-1980), Carocci, Roma, 2004. Matteo Fiorani, Follia senza manicomio. Assistenza e cura ai malati di mente nell’Italia del secondo Novecento, ESI, Napoli, 2012.

[6] La necessità di un’ulteriore messa a punto cronologica si ricava anche dalla lettura, peraltro di notevole interesse, del contributo postumo di Roberto Ferretti, apparso di recente a 34 anni dalla scomparsa dell’autore (Roberto Ferretti, Contestazione studentesca: il Sessantotto a Grosseto, in: Il ’68 in Maremma, a c. di Flavio Fusi e Paolo Nardini, Effigi, Arcidosso, 2018). Sembra purtroppo che i documenti a suo tempo utilizzati (sia pure senza riferimenti puntuali) per la stesura, siano andati irrimediabilmente perduti.

[7] Già dalla primavera precedente i collettivi di studio, che si riunivano in abitazioni private, erano orientati, nell’intenzione, almeno, di alcuni militanti alla costituzione di questa organizzazione, che aprì la sua sede, nel centro cittadino, nel mese di settembre 1971. Fu la prima sede a Grosseto di un gruppo di “nuova sinistra”, o “sinistra rivoluzionaria”, o “sinistra extraparlamentare”, come allora preferibilmente era definita.




Un archivio di vite sospese.

La nascita del centro di accoglienza della Rugginosa si deve alla volontà di creare a Grosseto una struttura civile dove i migranti sbarcati nel sud Italia potessero trovare immediato alloggio, ricevere le cure di base ed essere informati sulle operazioni necessarie per la definizione della loro posizione giuridica. Fu a questo scopo che nel giugno 2014 l’ex asilo della Rugginosa, posto ai margini della statale Aurelia Antica, fu riorganizzato per garantire, oltre a posti letto sufficienti per ampi gruppi, anche il vitto e le cosiddette cure tutelari.

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Mama Africa, maggio 2015

La storia del giacimento documentario della Rugginosa inizia con i primi arrivi dei migranti avvenuti nel 2014 e copre un arco cronologico di circa 4 anni, in cui si è registrato il passaggio di più di 2000 persone. Arrivati in autobus per lo più dopo aver attraversato il Mediterraneo su barconi –della drammaticità del viaggio rimane traccia in tanti scritti e disegni–, i migranti rimanevano qualche giorno alla ex scuola materna della Rugginosa in attesa dei necessari rilievi sanitari, in un ambiente essenziale, ma accogliente agli occhi stanchi di chi arriva dall’inferno, trovavano ristoro, un letto, degli abiti puliti. Portavano addosso ancora il dolore, le ferite di un dramma iniziato molto tempo prima. Ecco che le famiglie, uomini, donne, ragazzi e bambini si trovavano subito accolti, si distendevano, si riposavano dopo un’esperienza dolorosa e terribile durata a lungo e terminata solo in quell’istante.

Un ruolo chiave ebbe la trasformazione stessa dell’edificio, progressivamente adattato alle esigenze della vita quotidiana e alla condivisione di spazi e tempi fra gli operatori e gli “ospiti” della struttura, che venivano coinvolti nella sua gestione. Le attività pratiche, le prime lezioni di italiano, il dialogo con i mediatori, che approdava di solito nel racconto della propria storia, fecero parte quindi di un’insieme di azioni messe in campo per riempire le lunghe giornate e, allo stesso tempo, migliorare l’instaurarsi di quelle prime relazioni umane che sono alla base dell’accoglienza e dell’integrazione. I migranti trovavano umanità e sostegno e, rassicuratisi, nelle poche giornate di riposo e attesa di una nuova collocazione, iniziavano a disegnare, a scrivere, a raccontare. Il disegno, la narrazione per immagini o il semplice gesto del “creare insieme”, diventavano allora un canale di comunicazione immediato, libero dai vincoli linguistici e comunicativi.

I disegni venivano appesi al muro, le stesse pareti si riempivano di scritte, pensieri, immagini. Chi lasciava il centro dopo la sua breve permanenza, lasciava una traccia, un messaggio che presto veniva emulato e ripetuto da chi arrivava dopo, in una sorta di passaggio del testimone. Nel corso degli anni i migranti della Rugginosa hanno realizzato, ciascuno secondo le proprie capacità, disegni o opere più complesse, dai murales alle incisioni con la tecnica dell’aerografo, dalle semplici impronte delle mani che i più piccoli, con la guida degli operatori, lasciano sul foglio, più un gioco che non una intenzione narrativa, ai collage che gli adolescenti realizzano ritagliando dalle riviste fotografie di famiglie sorridenti, macchine sportive, tavole imbandite con frasi semplici e incisive a ribadire il messaggio “In future”.

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Impronte di bambini eritrei, luglio 2015

Così è nato il deposito dei documenti della Rugginosa, composto da disegni che non sono dei semplici segni sulla carta, scarabocchi tracciati per ammazzare il tempo, o ritagli di giornale; sono segni di memorie e di speranze, fissano uniche e irripetibili emozioni di chi ha appena lasciato un mondo e ne trova un altro, e vi proietta speranze e preghiere. Sono documenti che testimoniano una storia viva, fatta di qualche oggetto, parole e immagini, ma anche di carne e sangue e raccontano di un centro di prima accoglienza che ha progressivamente assunto il valore di un piccolo esperimento di integrazione. Emerge con forza dunque la peculiarità di questo giacimento documentario: l’archivio è un segno, dato di un fenomeno che è transitato nel cuore del territorio grossetano, traccia di una realtà lontana e defilata rispetto alla città e alle sue mille facce. Grosseto non se ne è accorta, era altrove, mentre alla Rugginosa si impegnavano risorse, energie, competenze e c’era bisogno di dedizione coraggio e umanità. Le carte, che potrebbero essere buttate o finire tranquillamente in qualche ripostiglio in attesa di essere dimenticate o distrutte dal tempo, vengono prese a cuore dagli operatori, sono conservate, divengono oggetto di interesse da parte del direttore del Coeso Fabrizio Boldrini, storico di formazione, che ne avverte il profondo valore storico, umano e civile.

Dal punto di vista archivistico, le memorie e i disegni prodotti dai migranti della Rugginosa costituiscono un archivio inconsueto. La sua peculiarità è il fatto stesso di essere nato qui, sotto i nostri occhi, divenuto un archivio di memorie ancora in formazione, mentre il presente trascolora divenendo storia da interpretare e da scrivere. Non figura nei manuali di archivistica niente di simile. Non esistono casi analoghi da cui trarre modelli o ispirazione. La conservazione e dunque il riordino, affidato all’Isgrec, si è rivelato da subito un’importante e difficile sfida, sin dalla sua fase progettuale. Infatti, non si tratta nemmeno di un materiale classico, che per consuetudine di studi, possiede già un metodo di analisi e un sistema consolidato di archiviazione. Il materiale per la sua natura complessa ed eterogenea richiede l’incrocio di competenze diverse: vi sono disegni che vanno descritti, ma anche testi che si intrecciano alle immagini e sono scritti in varie lingue a comporre un mosaico estremamente multiforme e vivido di esperienze tutte umane.

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Disegno di un giovane nigeriano, settembre 2014. E’ riconoscibile in basso il palazzo delle poste di Grosseto

I disegni, poi, sono stati fatti usando ogni tipo di carta disponibile, dalla normale carta da fotocopiatrice a fogli di album, in qualche caso, a carta grezza da pacchi o a semplici tovagliette usa e getta per i pasti consumati in comune. Ad esempio, fa parte del giacimento documentario un corpus di 26 fogli ricavati da tela cerata con logo UNHCR, fittamente coperti di testi in lingua eritrea, sia sul recto che sul verso, che recentemente tradotti, hanno restituito un epistolario di un gruppo di eritrei passati dai campi della Libia, singolare testimonianza di vite sospese. Sono stati per lo più usati pennarelli, ma anche tempere penne e matite. In qualche caso alcuni ragazzi hanno utilizzato le superfici delle pareti del centro di accoglienza per esprimersi e creare evocative immagini di speranza, scrivere frasi di ringraziamento per gli operatori, o pensieri sulla terra appena lasciata.

Pertanto, per la estrema varietà e per la deperibilità dei materiali, talvolta per qualche tempo esposti alla luce diretta, i materiali sono stati digitalizzati nell’ottica di costruire un sito da cui in futuro poter attingere on line favorendo e promuovendone l’utenza. Si è elaborata una scheda descrittiva che tenesse conto delle caratteristiche fisiche del documento e del suo supporto, unitamente alle tecniche utilizzate per produrlo, ma che consentisse anche la trascrizione il più possibile fedele dei testi e la loro traduzione, per permettere di individuare parole chiave che potessero consentire ricerche per argomento, per nazione di provenienza dell’autore, per lingua, ma anche per le immagini utilizzate, i simboli, gli elementi figurativi.

Lunga e seria è stata la riflessione sui temi legati alla classificazione e alla creazione di possibili serie archivistiche e la revisione incessante del lavoro di analisi e catalogazione anche alla luce degli elementi che progressivamente sono emersi durante il lavoro di schedatura. Su tutti, tuttavia, il criterio per l’ordinamento e la collocazione delle schede descrittive che appare preminente è quello cronologico, che va a ricostruire le ondate degli arrivi delle persone migranti che, iniziati nel 2014, hanno visto una notevole crescita ed intensificazione negli anni 2015 e 2016, per poi diminuire quasi scomparire nel 2018 a seguito delle politiche ministeriali. Dunque, prevale il criterio storico-cronologico legato all’evolversi delle vicende geopolitiche che fanno sfondo alle esperienze umane dei migranti ma ne costituiscono pure il sostrato profondo e il motore principale.

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Foto di un murales nelle stanze del centro di prima accoglienza. Un pick-up pieno di persone attraversa il deserto

Tutto questo lavoro non sarebbe stato possibile senza il continuo confronto con gli operatori che hanno fornito ogni tipo di informazione e supporto utile per la contestualizzazione e la corretta lettura dei materiali, elemento imprescindibile per la loro descrizione e catalogazione.

Del passaggio dei migranti e delle loro vite sospese tra due mondi rimangono circa 520 disegni e 31 lettere, alcuni raccoglitori di cartelle cliniche, qualche oggetto. Dall’analisi complessiva affiorano nitidamente alcuni filoni tematici principali: espressioni di riconoscenza, la percezione dell’Italia e degli italiani, il racconto del viaggio affrontato per arrivare sulle coste italiane, il pensiero per la famiglia lontana e per il paese di provenienza, i desideri e gli auspici.

I ringraziamenti sono rivolti all’Italia, alla popolazione e alle istituzioni italiane, alle ONG che operavano nel Mediterraneo, alla Croce Rossa, alle forze dell’ordine e all’esercito. I nomi degli operatori della struttura vengono spesso citati nei documenti, accompagnati da espressioni di riconoscenza e affetto. L’Italia viene percepita come la “patria della protezione”, una “casa della pace”, dove regnano “l’uguaglianza, la fraternità e il rispetto dei valori umanitari”. In alcuni documenti è descritta come la “land of milk and sugar” o il “milk and honey”, attribuendole quindi una valenza simbolica di “terra promessa” o “paradiso terrestre”. In contrapposizione, la Libia viene spesso descritta come un “inferno”, un “penitenziario a cielo aperto”, un posto in cui “è meglio non rimanere” e dove “gli arabi uccidono le persone di colore”. Essi vengono descritti come figure vessatorie, che trattano i migranti come “schiavi”, “animali” e “strumenti di lavoro” e che estorcono loro denaro e averi.

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Trad.: Sotto il rifugio di un sole caldo noi facciamo i nostri sinceri ringraziamenti all’Italia e alla Croce Rossa. Noi saremo riconoscenti verso la nazione italiana fino alla fine della nostra vita. Senza dimenticare Lobna, Sarah, Cinzia e le loro colleghe. Lettera di ringraziamento di giovani della Guinea, settembre 2014

Il viaggio affrontato è un argomento ricorrente ed è sempre descritto come un’esperienza estremamente drammatica. In alcuni documenti si fa riferimento alla traversata nel deserto ma le più numerose sono le descrizioni del viaggio via mare per raggiungere l’Italia: nei disegni sono rappresentate spesso le imbarcazioni sovraffollate, dalle parole trapela la paura e lo sgomento. Alcuni ricordano di aver pensano ai propri cari, altri di aver pregato Dio di salvarli, altri ancora raccontano delle urla e dei pianti. Sovente i migranti raccontano delle operazioni di salvataggio, con riferimenti all’umanità e alla competenza dei soccorritori.

Anche il tema degli affetti è molto presente. C’è chi esprime affetto per la propria madre, chi sente la mancanza dei genitori e degli amici e si augura di rivederli. C’è poi chi parla con amore e nostalgia della moglie e dei figli rimasti in patria e spera che un giorno possano raggiungerlo. I migranti molto spesso menzionano il proprio paese di provenienza, non sempre in chiave positiva. I più hanno lasciato la propria terra a causa di guerre, di problemi economici e familiari, della violenza etnica, della mancanza di libertà di parola, dell’etnocentrismo, della corruzione e delle dittature.

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Foto del murales in uno dei locali del centro di prima accoglienza

Frutto di una precisa contingenza storica, l’archivio di migranti della Rugginosa colpisce anche per la potenza espressiva di tali disegni, per l’immediatezza comunicativa delle testimonianze, capaci di astrarre le sofferenze di quegli uomini e donne per renderle esempi universali del dramma delle migrazioni del nostro tempo. Oggi il centro della Rugginosa è chiuso, la situazione è cambiata, è sfumata per trasformarsi in altro, esito di leggi frutto di politiche che mutano. Tuttavia, ciò che è accaduto in luoghi come la Rugginosa chiede uno spazio di analisi e di riflessione, solleva domande e sollecita le coscienze su qualcosa che è già storia e non deve essere dimenticato. Per questo presto sarà on line una mostra virtuale con un’ampia selezione del materiale. Sono previsti progetti didattici con le scuole e un documentario, che ripercorrerà la storia del centro di prima accoglienza, degli operatori, dei suoi ospiti.




La conoscenza scaccia la paura. Storie dall’Alto Adriatico, il confine più difficile del Novecento

A distanza di 72 anni dal 10 febbraio 1947, trattato di pace (1) scelto quale data simbolo per ricordare le tragedie del “confine difficile”, a 15 dalla legge che ha inserito nel nostro calendario civile il “giorno del ricordo”, torna la denuncia di un silenzio troppo lungo. Eppure, scriveva un decennio fa Enzo Collotti, la storiografia italiana avrebbe potuto raccogliere stimoli importanti da studi rimasti circoscritti all’ambito locale, ma che già negli anni Sessanta avevano cominciato ad inscrivere «con rigore […] il problema della Venezia Giulia nell’orizzonte europeo e nella proiezione balcanica della politica italiana»(2). Rimane il vulnus di un ritardo, da cui ereditiamo ancora le tracce di un grumo di rimpianti e amarezze, malgrado l’ultimo ventennio ci consegni una fioritura di opere importanti, e la possibilità di un approccio capace di impedire alle memorie di coltivare rancori.

Le voci raccolte nel documentario appena prodotto La conoscenza scaccia la paura. Storie dall’Alto Adriatico, il confine più difficile del Novecento (3) ne danno testimonianza. È l’ultimo esito di un progetto che ha avuto come momento-chiave un viaggio sui luoghi, ma raccoglie l’eredità di un lavoro lungo un quindicennio, passato attraverso l’esplorazione di fonti documentarie, testimonianze ed esperienza diretta dei segni di memoria o di oblio, rimasti tra Istria e Venezia Giulia (4). A questa intersezione di storie diverse e di lungo periodo è universalmente attribuito il carattere di “complessità”, proprio di ogni segmento di storia, ma qui con qualche ragione in più. In un breve arco cronologico, in uno spazio limitato, si sono addensati gli esiti di fenomeni spiegabili solo recuperandone le radici plurisecolari e con il filtro di uno sguardo sullo scenario del Novecento europeo.

Con la conoscenza storica, si ripete con insistenza, è possibile dare una spiegazione alle ragioni di una geografia politica, che registra le infinite variazioni del “confine mobile”. Se ne può raccontare la storia con i documenti della diplomazia che stabilisce chi sta di qua e chi di là del confine, verificando su carte storico-geografiche le linee che separano, comparandole ai mutamenti di altre frontiere fra Stati dell’Europa del Novecento. Sulle carte i nomi sono un altro indizio: nell’Istria ora italiana ora jugoslava, oggi italiana, croata e slovena, una città è Albona o Labin, Pisino o Pazin, Parenzo o Porec. Si fa storia anche con opere della grande letteratura di confine, che dà voce con un altro linguaggio al vissuto delle popolazioni, al sostrato di sofferenze che le verità della diplomazia e della geografia non registrano. È particolarmente attuale un libricino di Guido Crainz, storico, precoce contributo all’iniziale lavoro di uscita dalla stagione delle rimozioni. Nel 2005 mise Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa nelle mani di lettori comuni e di insegnanti, dal 2005 chiamati per legge a introdurre nei curricoli il “laboratorio della storia del Novecento”, violenze di guerra fra Stati e guerra civile, un sistema concentrazionario plurale, le foibe e l’esodo, non come “libro di storia, [ma] quaderno di suggerimenti, di consigli di lettura”. Crainz proponeva testi della letteratura europea che spezzava “vecchie incrostazioni”, rischiando di generare la “insicurezza che può nascere quando si devono abbattere i muri di dentro”, scommettendo sul superamento della “paura della storia” (5).

Tante di queste fonti sono state un viatico al lavoro nella scuola, per incoraggiare la conoscenza e la coscienza di una storia indispensabile a formare cittadini italiani ed europei. Nel corso del tempo, si è aggiunta l’esperienza dei luoghi, tentativo di arricchire una pedagogia della memoria attraverso l’abbondanza o l’assenza di segni rimasti. Nelle città della Venezia Giulia e dell’Istria, gli studenti hanno scoperto monumenti e lapidi, segni della memoria collettiva, nel tempo mutevoli. Gonars, in Friuli Venezia Giulia, campo di concentramento per slavi, rastrellati a partire dal 1942 nella Slovenia, occupata dal regime fascista, è un ologramma della storia della memoria: un vuoto nella memoria dell’Italia, responsabile non come popolo ma come Stato invasore, riempito da pochissimi anni da una monumentalizzazione dell’area del campo; poco distanti, nel cimitero, tre memoriali: jugoslavo il primo, seguito, dopo l’esplosione delle nazioni, dal tributo sloveno e croato alle vittime. Questi campi sono solo un episodio delle violenze italiane nei Balcani, da tempo uscite anch’esse dall’elenco delle storie rimosse (6).

A Goli Otok, l’Isola calva, né Jugoslavia né Croazia hanno ancora riconosciuto il dovere della memoria per le violenze subite dai prigionieri, in maggioranza italiani, di un campo, voluto per isolare e punire la dissidenza dalla Repubblica jugoslava di Tito (7). A Basovizza, è in memoria delle foibe il monumento, grandioso nelle dimensioni e nella forma – un enorme patibolo –, destinato ad evocare simbolicamente il riconoscimento tardivo delle violenze subite da italiani (8).

Le pietre monumentali di Redipuglia, rappresentando generali e soldati dell’esercito italiano, schierati come sul campo di battaglia, sono la tappa che può iniziare o concludere il viaggio sui luoghi. A guidare visitatori abbagliati dalla spettacolarità, è uno storico, Franco Cecotti. Racconta di due monumenti: il primo, più sobrio ricordo consegnato alle famiglie dei soldati morti, il secondo, retorica esaltazione del morire in guerra, per offuscare i lutti privati con l’orgoglio delle morti eroiche. Tappa indispensabile, dice l’taliano d’Istria Livio Dorigo, per capire (e sentire) l’inutile strage: «per andare un po’ avanti e un po’ indietro nella linea del confine […] quanti uomini morti per niente» (9).

Dorigo nel 2009, anno del primo viaggio di studio per insegnanti, a Padriciano offrì una prova involontaria di quanto possano essere diverse e conflittuali le stesse memorie delle vittime. Due opposte narrazioni della profuganza non impedirono ai visitatori di percepire l’offesa subita dai profughi, privati di case e mobili, oggetti e spazi, per una promiscuità imposta dall’affollamento di tante famiglie. Vi aggiunsero una riflessione sulla memoria, trattata quasi sempre come grimaldello per forzare l’ingresso nel passato, come se bastasse ricordare per fare i conti con la storia (10).

Padriciano (foto di L. Zannetti)

Campo profughi di Padriciano (foto di L. Zannetti)

Lo abbiamo incontrato di nuovo, a Trieste, quando ha cominciato a prendere forma l’idea di un documentario diverso dal primo (La nostra storia e la storia degli altri. Il confine orientale nel Novecento), in cui il nostro testimone privilegiato racconta il tempo lungo della sua vita. Profugo nel 1947 da Pola, parla del viaggio della sua famiglia verso il Villaggio giuliano di Roma, fino al ritorno, a Trieste. Ma il tempo del racconto va oltre il suo vissuto sul confine: inizia dal Risorgimento, dal bisnonno democratico, volontario nel 1848 per la Repubblica di Venezia, e arriva alla descrizione di un’associazione istriana, dal logo che ha colori dell’arcobaleno. L’adolescenza nella Pola fascista, la rivelazione della vera natura del fascismo l’8 settembre, il battesimo dell’orrore della guerra con l’impiccagione di un italiano (la eseguono giovanissimi soldati tedeschi), lo spaesamento della famiglia, sbattuta fra le violenze nazifasciste e la prepotenza di capi partigiani slavi. Alle foibe, il suo discorso arriva con fatica: un tutt’uno con la profuganza, scelta dolorosa come può esserlo l’abbandono di tutto, compresa l’identità. Sono sue le parole scelte per il titolo del documentario. Livio Dorigo le ha pronunciate a margine della sua idea dell’Istria omogenea per cultura, oltre l’artificio di frontiere, e dell’immagine del Mediterraneo, “mare che unisce”, mentre spiega le ragioni di un rigoroso antinazionalismo. Di famiglia italianissima da quasi due secoli nell’area, lui stesso si dichiara fino in fondo italiano, per tradizione, lingua e scelte culturali. Ma il dolore dell’esilio, forte nel ricordo e mai scomparso, ha un suo stile, diverso da quello che affiora in altre testimonianze raccolte nel viaggio, distinguendosi soprattutto perché esprime con una convinzione contagiosa la speranza nel futuro di un’Europa solidale. Stessa proiezione su un futuro di dialogo fra culture scopre chi cerchi a Fiume i segni delle relazioni tra la minoranza italiana e maggioranza croata.

Quella di Dorigo è come altre una memoria individuale. Quella collettiva si è espressa quest’anno con rituali identici, ma accenti nuovi, rimodellata dall’attualità, carica di pericolose tensioni. Sono tornate memorie rancorose, fratture che sembrano voler riportare indietro, all’epoca dello scontro, e “mettere in secondo piano” gli storici. Un commento sulla stampa dello storico Giovanni De Luna conclude amaramente la ricostruzione delle tappe che hanno condotto all’istituzione e alla celebrazione del Giorno del Ricordo fino a quest’anno:

Nell’uso pubblico della storia era così allora ed è così ora: non tesi che si confrontano sulle fonti e sui documenti, ma argomentazioni che diventano nodosi randelli da brandire contro i propri avversari. E le vicende del passato sono degradate a puri pretesti (11).

Colpisce il dualismo fra la dimensione culturale di questo appuntamento civile e la liturgia celebrativa, quasi che la lunga strada percorsa dal gran lavoro sulla storia del confine difficile – scientifico, divulgativo, di pedagogia della memoria – non sia stata capace di incidere abbastanza da impedire un ritorno alla pericolosa semplificazione dello scontro su carnefici e vittime di foibe ed esodo.

Monumento nel campo di Gonars (Foto di Luigi Zannetti)

Monumento nel campo di Gonars (Foto di Luigi Zannetti)

Ha stupito gli storici l’uso della categoria di “pulizia etnica” (12), come spiegazione delle violenze e degli infoibamenti senza distinguo o sfumature, in discorsi istituzionali di alto livello. Alcuni toni hanno quasi raggiunto lo stadio dell’incidente diplomatico con gli Stati balcanici, mentre alcune istituzioni locali in qualche caso si sono lasciate andare ad una politicizzazione esplicita. Sarebbe interessante oltrepassare la citazione di episodi e raccogliere dati, utili a capire il tempo presente, se e come stanno cambiando culture della memoria e strategie, quanto fecondo o più complicato è diventato il rapporto storia-memoria, se le attuali politiche memoriali hanno una reale funzione civile…

Guardando le cronache toscane, si trova grande varietà di forme nelle celebrazioni istituzionali. Ha prevalso l’invito a testimoni, nelle sale consiliari; è fatto normale, comune alla Giornata della Memoria, la presenza – residuale oggi, per la scomparsa dei testimoni – di ex deportati, politici o razziali. Per il Giorno del Ricordo, non sempre le istituzioni hanno badato a scegliere in modo da garantire rispetto per la solennità implicita nei luoghi delle cerimonie. A Pistoia, un’esperienza positiva: è stato l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea a proporre ed avere accolta dall’Ente locale una targa in ricordo dell’esodo. Il Comune di Siena ha fatto una scelta inedita e funzionale ad accrescere l’inquinamento delle ricostruzioni storiche, facendo prevalere altre, diverse ragioni: volendo unire memoria e ricordo, si sono mescolati deportazione ed esodo, Shoah e foibe, affidando per il 10 febbraio una lectio magistralis a Franco Cardini, storico noto per altri studi, non specialista dell’uno o dell’altro argomento. I consiglieri hanno ascoltato, dentro la lunga lezione, una (forse inattesa) severa contestazione verso chi ha usato la categoria di pulizia etnica.

Anche la Toscana ha accolto profughi (13), conserva segni di questo e di altri fatti, noti e studiati o da approfondire. La memoria dei luoghi è come altrove specchio di un complicato intreccio. Meno fitta che altrove è la mappa dei campi di internamento per slavi, allestiti dall’Italia durante la guerra fascista; più tardi, furono i campi di raccolta ad ospitare esuli giuliani e istriano-dalmati, talvolta in spazi già utilizzati come campi di prigionia, talvolta nel centro delle città, come a Lucca.

Si è molto arricchita la bibliografia sulla Toscana negli anni. La disseminazione degli esiti dei progetti rivolti alla scuola ha dimensioni importanti. Il documentario, ultimo strumento per la didattica, ha già avviato il suo cammino.

NOTE
1 Firmato a Parigi, conclude la seconda guerra mondiale ridisegnando il confine orientale. Sarà definitivo l’abbandono di terre istriane e dalmate, provvisoria l’istituzione del territorio libero di Trieste, zona A con amministrazione anglo-americana, zona B jugoslava. Definitivo nel 1975, con gli accordi di Osimo, il passaggio della zona B alla Repubblica di Jugoslavia.
2 E. Collotti, Introduzione, in T. Sala, Il fascismo italiano e gli slavi del sud, Tipografia Adriatica, Trieste 2008, p.11.
3 Regia di L. Zannetti, consulenza storica di L. Bravi e L. Rocchi, produzione Regione Toscana, ISGREC e ISRT, 2019.
4 Dal progetto Per la storia di un confine difficile: l’alto Adriatico nel Novecento (Regione Toscana-rete toscana degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea) sono nate la summer school per insegnanti nel 2017, altre iniziative sul territorio e, nel febbraio 2018, il viaggio di studio per 50 studenti e 25 insegnanti toscani.
5 G. Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005, pp. 3-5.
6 Cfr. C. Di Sante, Italiani senza onore, Ombre corte, Verona 2005; E: Gobetti, L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-43), Carocci, Roma 2007.
7 Cfr. C. Di Sante, Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra in Jugoslavia, Ombre corte, Verona 2007.
8 Troppo ampia la bibliografia sulle foibe per una scelta. Si rinvia al documentatissimo sito dell’Istituto storico del Friuli-Venezia Giulia https://www.irsml.eu.
9 Intervista a Livio Dorigo di Luca Bravi e Luigi Zannetti, Trieste, 9 febbraio 2018.
10 C’è una letteratura ricca di riflessioni su memoria individuale-collettiva e su costi e benefici delle politiche della memoria della Repubblica italiana, prodiga negli ultimi decenni di date per un calendario civile giudicato utile, ma troppo fitto. Non pochi storici si sono cimentati su questi argomenti tirandone conclusioni diverse. Non è il più recente, ma quello che appare a chi scrive più interessato a scavare sulla data di cui si tratta qui è G. De Luna, La repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano 2011.
11 G. De Luna, La storia utilizzata come un randello nel confronto politico, “La Stampa”, 10 febbraio 2019.
12 Nel sito web dell’Istituto regionale del Friuli-Venezia Giulia associato al Parri nazionale una sintetica spiegazione delle ragioni per cui sarebbe errato parlare di pulizia etnica. In Istria fu la categoria di “nemico del popolo” a guidare le violenze ordinate dai comandi delle brigate titine, mentre per le foibe giuliane “… l’obiettivo del governo jugoslavo non era quello di cacciare gli italiani dalla Venezia Giulia, ma di mobilitarli a forza nella lotta per l’annessione della regione alla Jugoslavia. Questo perché Stalin aveva esplicitamente chiesto ai rappresentati jugoslavi di corroborare le loro rivendicazioni territoriali con il consenso della popolazione, anche italiana. Naturalmente, non occorreva che tale consenso fosse spontaneo. Le stragi quindi, oltre all’intento punitivo, ne avevano altri due: decapitare la società della sua classe dirigente, fedele all’Italia, ed intimidire la popolazione italiana, affinché non si opponesse all’annessione”.
13 C. Di Sante, Stranieri indesiderabili. Il campo di Fossoli e i “centri di raccolta profughi in Italia (1945-1970), Ombre corte, Verona 2011.



I profughi giuliani, istriani, fiumani e dalmati in provincia di Grosseto

Il progetto “Per la storia di un confine difficile. L’alto Adriatico nel Novecento” della Regione Toscana (2017-2018)

Dalla prima applicazione della legge istitutiva del Giorno del Ricordo, avvenuta nel 2004, la Regione Toscana fu tra le prime in Italia a prendere a cuore il diritto a una cultura storica per la scuola su temi che entrarono da allora nel calendario civile nazionale. Così hanno cominciato ad entrare in classe le storie e le memorie dolorose del confine più difficile del Novecento italiano, a lungo rimaste patrimonio quasi esclusivamente locale. Gli insegnanti e gli studenti delle nostre scuole hanno insegnato gli uni, imparato gli altri la complessa storia del confine orientale “laboratorio della storia del Novecento”; si sono avviati verso la conoscenza dei luoghi delle foibe istriane e giuliane, di un sistema concentcover_summerrazionario ologramma delle violenze del Novecento, del lungo esodo delle popolazioni istriano-dalmate. Hanno intravisto gli spostamenti di un “confine mobile” e il lungo periodo di gestazione delle violenze, partorite da nazionalismi, guerre, forme di razzismo.

Nel 2017 un progetto sperimentale, frutto della collaborazione tra Regione Toscana, rete degli istituti storici toscani della Resistenza e dell’età contemporanea e Ufficio scolastico regionale, ha promosso un intervento sistematico: Summer school per insegnanti di scuola superiore, selezionati tramite bando, in preparazione del viaggio di un piccolo gruppo di studenti nei luoghi di memoria dell’area giuliana e istriana, preceduto e seguito da altre iniziative di formazione. La conoscenza storica ha un duplice valore, quando si trattano temi di tale delicatezza: è sapere ed educazione alla cittadinanza. Il programma della Summer school ha posto al centro eventi solo in apparenza racchiusi in un tempo breve e in un territorio limitato, ma appartenenti a una storia europea di lungo periodo. Un sovrappiù di valore è dato a questa iniziativa dal rilievo che hanno assunto, tra la fine del secolo scorso e il tempo presente, la riproposizione di violenze nell’area balcanica e, più recente, la questione dei confini tra popoli, Stati, culture.

Un ulteriore seminario formativo si è avuto a Siena (novembre 2017), nel corso del quale sono intervenuti il Presidente Antonio Ballarin ed esponenti della Federazione italiana degli esuli istriano-fiumano-dalmati. fra cui Marino Micich, Direttore dell’Archivio museo storico di Fiume. Altri ne seguiranno nei prossimi mesi.cover viaggio

Dal 12 al 16 febbraio 25 insegnanti e 52 studenti, accompagnati da rappresentanti della regione Toscana e della rete degli istituti storici toscani della resistenza, saranno sui luoghi del Confine. Redipuglia, Trieste, Gonars, Basovizza, Padriciano, Fiume, Albona e Fossoli saranno le importanti tappe di un viaggio durante il quale studenti e docenti avranno modo di incontrare studiosi e testimoni e di confrontarsi con studenti italo sloveni.

L’Istituto storico di Grosseto lavora sul Confine orientale da 14 anni. A una prima pubblicazione di materiali didattici sono seguiti convegni, eventi, ricerca. Ha organizzato, sempre per conto della Regione Toscana, un primo viaggio per un piccolo gruppo di insegnanti toscani nel 2009, narrato nel documentario “La nostra storia e la storia degli altri. Viaggio intorno al confine orientale“, e una mostra con lo stesso titolo che è stata esposta in tutta Italia (a Grosseto per ben due volte nei locali della Prefettura) e che si avvale dal febbraio 2017 di un catalogo bilingue, curato da Luciana Rocchi. Ultima pubblicazione, l’ebook del 2017 liberamente consultabile con gli esiti della ricerca pluriennale di Laura Benedettelli sui profughi giuliani, istriani, fiumani e dalmati in provincia di Grosseto.

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L’esodo dalle terre di confine.

L’esodo dei giuliani, istriani, fiumani e dalmati, a differenza di quanto accadde per altre popolazioni di confine al termine del secondo conflitto mondiale, non fu la conseguenza di formali provvedimenti di espulsione, ma il frutto di una scelta, talvolta compiuta in forma ufficiale ricorrendo all’esercizio del diritto di opzione, previsto prima dal Trattato di Pace del 1947 e poi dal Memorandum di Londra del 1954, tal altra sul piano di fatto mediante il ricorso all’espatrio clandestino. Quello che avvenne nell’area dell’alto Adriatico fu comunque un fenomeno di espulsione di massa dovuto non a precise leggi, ma a forti pressioni ambientali che si erano venute a creare verso gli italiani e che ebbero di fatto la stessa efficacia di un decreto di espulsione.images

Le partenze dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia iniziarono prima della fine del II conflitto mondiale e della firma del Trattato di pace: da Zara avvennero quando la guerra era ancora in corso, sotto la spinta dei bombardamenti alleati; da Albona, Cherso, Veglia, Lussino e, in genere, dalle località dell’Istria meridionale, dove l’annessione alla Jugoslavia apparve più probabile, i profughi partirono con mezzi di fortuna sin dall’estate 1945. Fu però proprio in seguito alla firma del Trattato di pace che il fenomeno assunse carattere di massa.

fdr12gL’abbandono di questi territori, inoltre, non avvenne in un periodo di tempo limitato, ma si presentò come un fenomeno di portata temporale abbastanza lunga, superiore ai dieci anni, che ha portato a parlare di un “lungo esodo” e, secondo alcuni storici, di “esodi”, per distinguere le diverse fasi di uno stesso fenomeno migratorio, le cui varie ondate sono riconducibili a eventi precisi.

Un primo spostamento di popolazione si ebbe infatti a partire dal 1943, cioè nel momento in cui si verificò la prima ondata di infoibamenti nel centro dell’Istria, per poi riprendere nel 1945, quando, dopo che la IV Armata jugoslava nel mese di maggio aveva occupato Trieste, Gorizia e Fiume, si verificò una seconda ondata di infoibamenti, che spinse molte altre persone ad abbandonare le città.

La firma dell’accordo di Belgrado, che stabilì la linea Morgan fu un ulteriore momento in cui molti italiani decisero di abbandonare le località temporaneamente assegnate alla Jugoslavia, che in pratica considerava tali territori come annessi di fatto. Vi era comunque chi nutriva ancora la speranza che, con la definizione del Trattato di pace, queste terre tornassero a tutti gli effetti sotto l’Italia, ma quando tali speranze vennero definitivamente annientate si verificò una ripresa dell’esodo che si protrasse per più anni.image_gallery

L’esodo, come spiega anche Guido Crainz, fu dunque in stretto rapporto con questo alternarsi di speranze e delusioni che accompagnarono gli anni in cui le potenze definirono a tavolino i confini e quando i confini furono definitivamente decisi e impressi sulla carta, nero su bianco, l’esodo non ebbe più freni.

Furono migliaia i profughi che, partiti dalle tante località poste al di là del confine, vennero ospitati nei Centri di Smistamento, per poi approdare, per uno o più anni, nei Centri di Raccolta Profughi, prima di trovare una sistemazione definitiva.

Un problema con il quale dovettero confrontarsi i profughi a fine guerra fu quello molto complesso del riconoscimento delle cittadinanze, per cui si rese necessario inserire nel testo del Trattato di pace delle norme che riguardavano proprio la “gestione delle cittadinanze”.

0007179L’Articolo 19 del Trattato riguardava espressamente i cittadini italiani e prevedeva che sarebbero diventati automaticamente cittadini jugoslavi tutti coloro che, al 10 giugno 1940, fossero stati domiciliati nel territorio ceduto dall’Italia alla Jugoslavia, clausola che valeva anche per i figli nati dopo quella data. Essi avrebbero pertanto perso la cittadinanza italiana e sarebbero diventati a tutti gli effetti cittadini dello Stato subentrante, cioè della Jugoslavia. La cosa interessò le migliaia di italiani che erano nati e che vivevano da sempre in queste zone o che vi si erano recati per motivi di lavoro.

Proprio per ovviare a questo problema e concedere una libertà di scelta, il Trattato prevedeva che lo Stato al quale il territorio era stato trasferito, la Jugoslavia, avrebbe dovuto predisporre, entro tre mesi dall’entrata in vigore del Trattato stesso, perché tutte le persone di età superiore ai diciotto anni (e tutte le persone coniugate, sia al disotto od al disopra di tale età) la cui lingua d’uso fosse l’italiano, avessero la facoltà di optare per la cittadinanza italiana, entro il termine di un anno dall’entrata in vigore del Trattato stesso. Le persone che avessero optato in tal senso avrebb2h3v5hvero potuto così conservare la cittadinanza italiana. La Jugoslavia, alla quale il territorio era stato ceduto, poteva esigere, come di fatto avvenne, che coloro che si avvalevano del diritto di opzione si trasferissero in Italia entro un anno dalla data in cui questo era stato esercitato.

Il Trattato di pace, secondo quanto riportato all’Articolo 19, prevedeva dunque il diritto di opzione: optare significava scegliere la cittadinanza e optare per la cittadinanza italiana significava di fatto lasciare le terre dove si era nati, dove si era vissuti fino a quel momento, le terre che la diplomazia internazionale aveva assegnato alla Jugoslavia, optare significava in definitiva lasciare tutto quello che si aveva: la terra, la casa, gli affetti e prendere la via dell’esodo.

L’arrivo dei profughi a Grosseto.

Come riportato da Amedeo Colella in L’esodo dalle terre adriatiche. Rilevazioni statistiche, in Toscana, dove erano stati organizzati 10 tra campi profughi e Centri di accoglienza, arrivarono 6.074 profughi, di questi 252 giunsero nella provincia di Grosseto.

Qui, dove non era stata allestita nessuna struttura, l‘arrivo dei profughi avvenne nel corso di un periodo abbastanza lungo che andò dal 1943 al 1975, due gli anni che registrarono la maggiore affluenza: il 1946, con 41 arrivi, e il 1955 quando si registrarono 57 arrivi. Molti di loro erano transitati dal Centro Smistamento di Udine e dai Centri di Raccolta di Servigliano (allora in provincia di Ascoli Piceno, oggi di Fermo) e di Laterina, in provincia di Arezzo.

Centro Raccolta Profughi di PadricianoDei profughi arrivati nella nostra provincia 110 abitarono, per periodi più o meno lunghi, a Grosseto, dove molti profughi di seconda generazione risiedono ancora, a cui andarono ad aggiungersi altri 14 che, inizialmente residenti in altri comuni della provincia, dopo pochi anni si trasferirono nel capoluogo. Contemporaneamente avvennero anche alcuni trasferimenti in senso inverso, cioè dal capoluogo verso le varie località della provincia. Dopo Grosseto, le località verso le quali si indirizzarono in misura maggiore furono Massa Marittima, Ribolla, Follonica, Orbetello e Roccastrada.

Lo Stato si preoccupò abbastanza presto di precisare chi dovesse essere definito “profugo”.

Una delle prime circolari che vennero inviate ai Sindaci dei vari Comuni fu la n.892 del 28 novembre 1944 che riassumeva le disposizioni che erano state emanate dall’Alto Commissariato per i Profughi di Guerra e che erano state indirizzate ai Prefetti delle varie Province. In essa si faceva espresso riferimento alla qualifica di profugo di guerra che al momento doveva essere attribuita solamente a coloro che in seguito ad orrendi eventi bellici si sono trovati nella necessità di doversi trasferire in luoghi diversi dalla loro abituale residenza o che per ragioni contingenti non possono farvi ritorno. A questa data pertanto ricevettero la qualifica di profugo di guerra tanto gli italiani che iniziarono ad abbandonare le zone del Confine orientale, sottoposte in questo momento alla pressione tedesca, quanto gli italiani costretti ad abbandonare le zone che dopo l’8 settembre 1943 e dopo gli sbarchi alleati nel sud Italia diventarono zone di operazioni di guerra.

Per quanto riguardava l’Assistenza a favore dei profughi, tra le varie disposizioni in materia, il 4 marzo 1952 venne promulgata la Legge n.137, che prevedeva, tra le altre cose, la riserva del 15% degli appartamenti costruiti dagli IACP ai profughi, dando la precedenza a quelli ricoverati nei Centri di Raccolta dipendenti dal Ministero dell’Interno e, successivamente, agli assistiti fuori Campo. In base a tale legge, a Grosseto vennero costruiti vari alloggi, tra questi il lavoro più significativo riguardò l’edificazione, in quella che oggi è Piazza Albegna, di un palazzo ancora presente nella piazza.1441878909-esulegiuliana

Il 22 luglio 1952, e quindi a quattro mesi dalla emanazione della Legge n.137, il Sindaco della città Renato Pollini (1951-1970) venne informato dal Prefetto che il Ministero dell’Interno aveva disposto la costruzione a Grosseto di un gruppo di abitazioni per la sistemazione dei profughi, per un totale di 100 appartamenti di varia ampiezza, pregava quindi di sottoporre al successivo Consiglio comunale la possibilità di cedere gratuitamente l’area necessaria. Non disponendo il Comune di terreni propri, questi dovevano essere necessariamente acquistati mentre, per quanto riguardava i servizi pubblici, il Comune poteva e doveva impegnarsi ad assicurarli. Venne costituito un Comitato cittadino che dette vita ad una sottoscrizione per raccogliere la somma occorrente per l’acquisto del terreno e il 12 ottobre il “Comitato cittadino pro-case profughi giuliani” fece pubblicare sulla Cronaca locale del “Tirreno” un primo elenco di sottoscrittori con le cifre donate, per un totale che al momento ammontava a £. 268.400. Venne individuato il terreno per la costruzione del palazzo in una zona allora lontana dal centro, posta tra la Chiesa di San Giuseppe Cottolengo e il Villaggio Curiel, sul prolungamento di Via della Pace, quella che in seguito avrebbe preso il nome di Piazza Albegna. La zona, allora del tutto incolta e caratterizzata da campi, era di proprietà dell’Ingegner Benedetto Pallini, che al tempo era consigliere comunale.

Il Ministero dei Lavori Pubblici inviò direttamente all’IACP di Grosseto una Circolare riguardante la costruzione degli alloggi che definiva anche la somma preventivata per la loro realizzazione: £ 48.000.000. Fu affidato all’IACP l’incarico di progettazione, esecuzione e contabilizzazione dei lavori occorrenti per la realizzazione del programma e vennero comunicate alcune “istruzioni” per dare uniforme e rapido corso all’attuazione del programma stesso.

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Pianta originale di una delle case del “Palazzo dei profughi”, Piazza Albegna, Grosseto

Il Progetto del fabbricato venne realizzato e firmato dall’Ingegner Gastone Saletti e porta la data del 28 febbraio 1953. Nel Fondo IACP sono conservati tutti i disegni del progetto, tra cui il prospetto principale e la pianta di un piano tipo. I 40 appartamenti, come si ricava dai disegni, erano formati dall’ingresso, il soggiorno con un terrazzino, una cucina ricavata in una rientranza del soggiorno (con lavello e cappa aspirante), una camera, un bagno (con lavandino, water e piccola vasca da bagno) ed erano di circa 60 – 65 metri quadrati.

I lavori principali per la realizzazone del fabbricato si svolsero dal novembre 1953 al novembre 1954 e la prima consegna degli alloggi avvenne il 24 maggio 1955.

Tali alloggi vennero destinati sia ai profughi che provenivano dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, ma anche a quelli arrivati dall’Albania e dalla Libia, tutti comunque assistiti nei Campi di Raccolta, ad eccezione di tre famiglie che arrivarono direttamente dalla zona B del territorio di Trieste.

Se quella di Piazza Albegna fu la costruzione che accolse contemporaneamente il numero maggiore di profughi, va ricordato che negli stessi anni vennero costruiti a Grosseto, dall’IACP e dall’INCIS, altri alloggi di edilizia popolare il cui 15%, in base alla Legge 137/1952, venne riservato ai profughi.

Il “palazzo dei profughi”, Piazza Albegna, Grosseto

Analogamente a quello che avveniva a Grosseto anche in altre località della provincia vennero realizzati degli appartamenti, in tutto 165, il cui 15% venne destinato ai profughi.

Queste le località interessate dagli interventi di edilizia popolare: Arcidosso, Casteldelpiano, Cinigiano, Follonica, Gavorrano, Manciano, Monterotondo Marittimo, Orbetello, Paganico, Pitigliano, Porto S. Stefano, Potassa, Puntone, Roselle, Santa Fiora, Selvena, Sorano.

Complessivamente, nel periodo 1953 – 1964, a Grosseto e in provincia vennero assegnati ai profughi più di 140 alloggi.




«…quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire»

Cingolani-Guidi

Angela Guidi Cingolani

Nella primavera del 1946 le italiane hanno votato nella prima tornata di consultazioni amministrative, ma sono le elezioni del 2 giugno del 1946 ad essersi impresse nella memoria collettiva come un evento storico: quasi 13 milioni di donne, ora pienamente cittadine, hanno votato per eleggere l’Assemblea costituente e hanno scelto tra Monarchia e Repubblica. Tredici donne hanno già partecipato a un altro importante organismo, la Consulta Nazionale, composta da 430 esponenti dell’antifascismo nominati dai partiti politici. Tra loro 5 future madri costituenti[1], tra cui Angela Guidi Cingolani, prima donna a parlare in un’Assemblea istituzionale – la Consulta, appunto – e a chiedere ai colleghi uomini di essere considerata

«come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire, che ha lavorato con voi, con voi ha sofferto, ha resistito, ha combattuto, con voi ha vinto con armi talvolta diverse ma talvolta simili alle vostre e che ora con voi lotta per una democrazia che sia libertà politica, giustizia sociale, elevazione morale»

Filomena Delli Castelli

Filomena Delli Castelli

Alle elezioni del 2 giugno sono entrate in lista pochissime donne, poco meno del 7% di tutti i candidati. Sono state elette 21. Poche, quindi, si sono guadagnate l’onore e l’onere di partecipare attivamente al varo della nuova Costituzione. Ma chi sono? Quali esperienze hanno alle spalle? Cosa rappresenta e cosa potrà fare questo 3,7% su un totale di 556 deputati?

Delle 21 madri costituenti, nove sono del Partito Comunista[2], tra cui cinque fondatrici/attiviste dell’UDI; nove appartengono alla Democrazia Cristiana[3], tra cui 5 tra attiviste o dirigenti della FUCI, altre attiviste del CIF o dell’Azione cattolica; due sono socialiste[4]; una soltanto, Ottavia Penna Buscemi, è eletta nella lista ”Uomo Qualunque”. Impressionante il numero di preferenze che le elette hanno avuto, basti pensare che Bianca Bianchi nel collegio di Firenze ha preso il doppio delle preferenze di Sandro Pertini, il partigiano, l’eroe, il perseguitato dal regime, l’incarnazione di tutto ciò che è stata la vittoriosa lotta antifascista.

Bianca Bianchi

Bianca Bianchi

Rita Montagnana Togliatti

Rita Montagnana Togliatti

La più anziana è Lina Merlin, 59 anni; la più giovane è Teresa Mattei, 25 anni; entrambe parteciperanno ai lavori della “Commissione dei 75”, il ristretto gruppo che materialmente scriverà la Costituzione. Sette madri costituenti[5] sono nate tra il 1887 e il 1900; hanno esperienze politiche e sindacali alle spalle: Angela Merlin è stata una delle prime donne iscritte al Partito socialista, collaboratrice di Matteotti; Rita Montagnana, già iscritta al Partito socialista, è stata con Teresa Noce tra le fondatrici del PCI nel 1921; Angela Guidi è stata iscritta al Partito popolare di Don Sturzo. Molte di loro sono state costrette durante il fascismo a scappare all’estero; Montagnana e Noce, mogli rispettivamente di Togliatti e Longo, sono state esuli in tutta Europa, hanno partecipato alla guerra civile spagnola, in seguito hanno fatto parte dei movimenti resistenziali nei paesi di accoglienza, subendo anche il carcere e l’internamento.

Lina Merlin

Lina Merlin

Teresa Mattei

Teresa Mattei

La maggior parte delle donne che fa parte di questo “gruppo anagrafico” ha una cultura suffragista per via dei forti legami dei partiti clandestini con i movimenti europei. Anche le cattoliche, fortemente impegnate nell’associazionismo, sono state perseguitate o “attenzionate” dalla polizia politica; Maria Federici ha avuto un trascorso all’estero, al seguito del marito, militante antifascista; Elisabetta Conci, presidente della FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana), di Roma, è conosciuta come la “pasionaria bianca” per la tempra con la quale porta avanti le proprie battaglie politiche e religiose.

Altre sette madri costituenti[6] sono nate tra il 1902 e il 1908, hanno quindi compiuto almeno gli studi superiori non universitari nel periodo liberale, trovandosi poi a dover fronteggiare le privazioni di libertà del periodo successivo. Alcune, soprattutto le comuniste, hanno condiviso la sorte dell’esilio: Adele Bei, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi. Le cattoliche Laura Bianchini, Maria De Unterrichter e Angela Gotelli hanno trovato nell’azionismo cattolico e nella FUCI, di cui sono diventate anche dirigenti, il terreno di formazione culturale e politica. Ottavia Penna, eletta con l’Uomo Qualunque ha assistito i siciliani poveri e i fanciulli abbandonati, ribellandosi alle dure regole del regime sull’ammasso di beni alimentari in periodo di guerra e al mercato nero.

Teresa Noce

Teresa Noce

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Maria Federici Agamben

Le 7 madri costituenti più giovani[7] sono nate tra il 1913 e il 1921, sono cresciute e hanno compiuto gli studi durante il regime, hanno respirato pienamente l’ideologia fascista. Non hanno avuto esperienza diretta di attività politica e sindacale, pur tuttavia al fascismo si sono ribellate; molte hanno tratto ispirazione dalle tragiche vicende dei familiari perseguitati o vittime del regime e dell’alleato occupante (lo sono, ad esempio, il padre e il fratello – poi morto suicida per non tradire i compagni partigiani – di Teresa Mattei e i fratelli e il marito di Nadia Gallico).

Il loro primo apprendistato politico, quindi, si è compiuto principalmente nell’ambiente privato per poi riversarsi, in maniera spesso dirompente, sulla scena pubblica. Eclatante, ad esempio, il gesto di una appena adolescente Teresa Mattei: la contestazione pubblica delle lezioni in difesa della razza le costa l’espulsione da tutte le scuole del Regno.

Ottavia Penna Buscemi

Ottavia Penna Buscemi

Elisabetta Conci

Elisabetta Conci

Quasi tutte, comuniste, socialiste e cattoliche, giovani e meno giovani, sono state protagoniste del movimento di Liberazione. Lina Merlin, Laura Bianchini e Angela Gotelli sono state membri del Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia; Angela Minella ha fatto parte di una Brigata Garibaldi del savonese; Teresa Mattei è stata combattente di una formazione garibaldina a Firenze e organizzatrice dei Gruppi di difesa della donna nell’alta Toscana, così come Nilde Iotti in Emilia Romagna e Lina Merlin in Lombardia. Filomena Delli Castelli, Maria Nicotra e Angela Gotelli sono state crocerossine, quest’ultima con compiti di grande responsabilità negli scambi tra ostaggi civili e prigionieri tedeschi; Bianca Bianchi ha fatto la staffetta in Toscana; Maria Federici e Angela Guidi hanno appoggiato in vari modi la lotta antifascista a Roma.

Nilde Iotti

Nilde Iotti

Resistenza civile e Resistenza militare: tutto si è intrecciato nella storia di queste donne. Compresa la Resistenza all’estero: quella di Nadia Gallico in Francia; di Elettra Pollastrini, Rita Montagnana e Teresa Noce prima in Spagna nelle Brigate Internazionali, poi durante la guerra nei campi di concentramento e ai lavori forzati. Hanno subito il carcere e il confino anche Adele Bei (già attiva nel movimento di Liberazione in Belgio) e Maddalena Rossi, così come Angelina Merlin nei primissimi anni della dittatura.

Adele Bei

Adele Bei

Geograficamente le 21 elette rappresentano tutte le zone d’Italia: Trentino (2), Piemonte (3), Lombardia (2), Veneto (1), Liguria (1), Emilia Romagna (2), Toscana (2), Marche (1), Abruzzo (2), Lazio (1), Puglia (1), Sicilia (2). Nadia Gallico è nata a Tunisi ma ha forti legami con la Sardegna, terra d’origine del marito, Velio Spano, antifascista e perseguitato politico, anch’egli costituente.

angiola minella2Ben 14 delle elette hanno una laurea, le più in filosofia, lettere e pedagogia ma non mancano laureate in lingue e letterature straniere e in chimica.

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Maria Maddalena Rossi

Quattordici hanno lavorato come insegnanti/maestre; Lina Merlin è stata sospesa dall’insegnamento perché si è rifiutata di prestare giuramento al partito fascista, obbligatorio per i dipendenti pubblici; Bianca Bianchi perché insegnava cultura ebraica nelle sue ore di lezione. Le altre sono state operaie o artigiane (4), una ha lavorato come ispettrice del lavoro. Molte in alcuni passaggi della vita sono state redattrici/giornaliste, occupandosi principalmente della stampa e della propaganda rivolta alle donne. Alcune di loro proseguiranno questa attività anche durante o dopo l’attività parlamentare, la maggior parte di loro nella redazione di “Noi donne”, giornale dell’UDI.

Maria Nicotra

Maria Nicotra

Quattordici madri costituenti sono sposate al momento dell’elezione, molte di loro hanno figli. Lina Merlin è vedova da un decennio; Teresa Mattei, accompagnata ad un uomo sposato, rimarrà incinta durante i lavori dell’Assemblea costituente, la prima “ragazza madre” delle Istituzioni repubblicane. 5 le “coppie costituenti”: Teresa Noce e Luigi Longo; Rita Montagnana e Palmiro Togliatti, Nadia Gallico e Velio Spano; Maria de Unterrichter e Angelo Raffaele Jervolino; Angela Maria Guidi e Mario Cingolani.

Nadia Gallico Spano

Nadia Gallico Spano

Per alcune di loro la situazione familiare avrà ripercussioni sulla carriera politica: isolate progressivamente dal Partito dopo le separazioni da Togliatti e Longo, Rita Montagnana (che sarà abbandonata per un’altra costituente, Nilde Iotti) e Teresa Noce (che saprà dai giornali dell’annullamento del matrimonio da parte della Sacra Rota richiesto e ottenuto dal marito) usciranno in breve tempo dall’arena politica; Teresa Mattei, la “maledetta anarchica” nella definizione di Togliatti, “scandalosamente” incinta, entrerà in forte dissidio con un Partito moralista e bigotto e deciderà di non ricandidarsi alle elezioni del 1948. Tre comuniste: per loro lo “scandalo”, subìto o provocato, segnerà la fine dell’esperienza politica.

Elettra Pollastrini

Elettra Pollastrini

Ad esclusione di Mattei, che concluderà l’esperienza politica con la Costituente, la maggioranza delle costituenti, ben 8 di loro, si fermerà dopo la prima legislatura (1948-1953); 3 dopo la seconda (1953-1958), 5 dopo la terza (1958-1963), 3 dopo la quarta (1963-1968). Nilde Iotti, che tra i tanti primati[8] potrà vantare anche quello di essere stata la prima Presidente della Camera nel 1979, sarà eletta ininterrottamente fino alla XIII legislatura nel 1996, tre anni prima della sua morte.

Laura Bianchini

Laura Bianchini

Non tutte le madri costituenti prenderanno parte ai lavori della “Commissione dei 75”, composta da tre sottocommissioni. Della prima, che si occuperà dei diritti e dei doveri dei cittadini, farà parte Nilde Iotti; Maria Federici, Angelina Merlin e Teresa Noce saranno membri della terza, che si occuperà dei diritti economico-sociali. Nessuna donna farà parte della seconda, dedicata all’ordinamento costituzionale. Ottavia Penna si dimetterà dopo pochissimi giorni dalla Commissione dei 75, lasciando il posto all’on. Gennaro Patricolo. Angela Gotelli entrerà nella prima sottocommissione nel febbraio 1947 in sostituzione dell’on. Carmelo Caristia.

Angela Gotelli

Angela Gotelli

L’attività di queste 5 madri costituenti si concentrerà soprattutto sul ruolo delle donne nel nuovo assetto sociale, lavorativo e familiare, riuscendo a far inserire nella Carta articoli, commi e in alcuni casi poche ma significative parole (si pensi al “senza discriminazioni di sesso” dell’art. 3 Cost., che dobbiamo a Lina Merlin), che saranno alla base del successivo sviluppo della legislazione a garanzia dei diritti delle cittadine. Le altre 16 saranno molto attive in Assemblea generale con interrogazioni su vari argomenti, non solo concentrate su tematiche tradizionalmente femminili. Quello che colpisce, seguendo il filo delle attività che le lega l’una all’altra, è la consapevolezza che la partecipazione alla Costituente e il varo della Costituzione sono solo i primi passi di un più lungo e tormentato percorso che – sperano tutte, cattoliche, comuniste, socialiste – porterà all’uguaglianza sostanziale tra i due sessi. Per usare le parole di Teresa Mattei: «Il riconoscimento della raggiunta parità esiste per ora negli articoli della nuova Costituzione. Questo è un buon punto di partenza per le donne italiane, ma non certo un punto di arrivo. Guai se considerassimo questo un punto di arrivo, un approdo». Parole profetiche in un’epoca come la nostra dove i diritti delle donne – e con essi la partecipazione alla vita sociale, politica ed economica – sono rimessi costantemente in discussione.

Vittoria Titomanlio

Vittoria Titomanlio

NOTE:
[1] Elettra Pollastrini, Laura Bianchini, Teresa Noce, Adele Bei e Angela Guidi Cingolani.
[2] Adele Bei, Nadia Gallico Spano, Nilde Jotti, Teresa Mattei, Angiola Minella, Rita Montagnana, Teresa Noce, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi
[3] Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Filomena Delli Castelli, Maria De Unterrichter Jervolino, Maria Federici, Angela Gotelli, Angela Guidi Cingolani, Maria Nicotra, Vittoria Titomanlio
Maria De Unterrichter Jervolino
Maria De Unterrichter Jervolino
[4] Angelina Merlin e Bianca Bianchi
[5] In ordine di anno di nascita: Angelina Merlin, Rita Montagnana, Elisabetta Conci, Angela Guidi Cingolani, Vittoria Titomanlio, Maria Federici, Teresa Noce
[6] Maria De Unterrichter Jervolino, Laura Bianchini, Adele Bei, Maria Maddalena Rossi, Angela Gotelli, Ottavia Penna Buscemi, Elettra Pollastrini
[7] Maria Nicotra, Bianca Bianchi, Filomena Delli Castelli, Nadia Gallico Spano, Angiola Minella, Leonilde Iotti, Teresa Mattei
[8] Nel 1987 è incaricata dal Presidente della Repubblica Cossiga di mandato esplorativo per la soluzione della crisi di governo, sfociata poi nelle elezioni anticipate; un doppio primato: fu la prima donna e la prima comunista a ricevere tale incarico.



L’internamento dei reduci antifascisti italiani di Spagna nei campi francesi (1939-1941)

La storia dell’internamento degli antifascisti italiani reduci dalla guerra di Spagna nei campi nel Sud della Francia è stata ingiustamente trascurata sia dalla memorialistica sia dalla storiografia italiana. Dal punto di vista delle memorie, probabilmente, ha influito il fatto che i cupi e monotoni anni di prigionia francese risultano, per i combattenti stessi, compressi e schiacciati tra l’esaltante vicenda spagnola e la successiva lotta resistenziale. Dal punto di vista storiografico, invece, il significativo vuoto si ricollega direttamente con il ritardo della storiografia francese che, complice forse la propria cattiva coscienza, ha iniziato a occuparsi della questione dell’internamento soltanto di recente, da quando sembra aver trovato il modo di inquadrare il fenomeno nel discorso pubblico della Francia democratica[1]. In Italia, a oggi, assenti completamente le traduzioni, l’unico a essersi occupato in modo approfondito dell’argomento è Pietro Ramella che, oltre alla curatela del volume di memorie di Riccardo Formica, in cui si descrive l’arrivo al campo di Saint Cyprien del gruppo di italiani guidato dal comandante Morandi, ha pubblicato nel 2003 un volume intitolato proprio La Retirada e nel 2012 un nuovo studio sul tema[2]. Si tratta di un testo che, però, fa riferimento prevalentemente a materiale edito e non apre alcuno spiraglio interpretativo per quanto riguarda la specificità italiana nella vicenda e che, del resto, non ha avuto, nonostante la novità del tema, né un’accoglienza particolarmente calorosa né una grande visibilità.

Foto André Alis

La Retirada ©André Alis

L’argomento, affrontato dal recentissimo Quaderno Isgrec Storie di indesiderabili e di confini[3], è insomma pressoché sconosciuto o ignorato agli storici nostrani e questo nonostante l’ampia mole di documentazione reperibile presso gli archivi francesi centrali e periferici in merito all’esperienza dei reduci di Spagna e, nello specifico, degli italiani nei campi. In particolare, negli Archives Départementales des Pyrénées Orientales a Perpignan (ADPO) per la documentazione pertinente ai campi cosiddetti “della spiaggia”, dove i volontari sono radunati nei primi mesi del 1939, e nell’Archive Départementale de l’Ariège a Foix (ADEA) in cui è conservato l’archivio del campo disciplinare del Vernet, in cui sono imprigionati i sospetti e i cosiddetti estremisti politici nelle fasi successive. Dell’esperienza dei campi rimane anche un’abbondante produzione documentaria di parte comunista, a cui alcuni storici hanno potuto avere accesso durante il troppo breve periodo di disponibilità alla consultazione, negli anni passati, degli archivi del Comintern raccolti a Parigi. Recentissimamente, la digitalizzazione dei documenti sovietici, presso il sito del Russian State Archive of Social-Political History (RAGSPI), ha aperto nuove frontiere in termini di accessibilità ai documenti sulla Spagna e sulle vicende successive dei membri delle Brigate internazionali.

David Seymour, La Retirada. Le Perthus, à la frontière franco-espagnole, février 1939 © Musée national de l'histoire et des cultures de l'immigration

David Seymour, La Retirada. Le Perthus, à la frontière franco-espagnole, février 1939 © Musée national de l’histoire et des cultures de l’immigration

I campi di internamento del Sud della Francia, in ogni caso, rappresentano un oggetto di studio particolarmente interessante proprio per quanto riguarda l’Italia perché moltissimi furono gli italiani che vi transitarono. Basti pensare che a Saint Cyprien, uno dei cosiddetti campi della spiaggia, gli italiani furono la terza nazionalità rappresentata fra gli internazionali, mentre a Gurs, quindi in uno dei campi dell’interno sorti in una seconda fase di stabilizzazione, furono probabilmente la seconda nazionalità presente. Il trattamento riservato loro fu in alcuni casi estremamente duro e non può essere compreso se non tenendo conto del più ampio arrivo di rifugiati spagnoli che si verificò tra la fine del gennaio e l’inizio del febbraio 1939 e che passò alla storia con il nome di Retirada. Fu un evento eccezionale per i tempi: in pochissimi giorni, a partire dal 29 gennaio, transitarono dai valichi franco-catalani circa 470.000 persone[4], un consistente e concentrato movimento di popolazione che prima di allora non si era mai registrato in un lasso di tempo così breve, un esodo impressionante che in sostanza non aveva precedenti nella storia europea.

Proprio su tale eccezionalità, del resto, si è basato negli anni il vasto impianto autoassolutorio francese costruitosi intorno a questi temi, mentre solo recentemente gli storici hanno riproposto la questione in termini di responsabilità, analizzando le carenze della politica di accoglienza francese o, secondo alcuni, la vera e propria assenza di una qualsivoglia politica[5]. Di fatto, però, la chiusura del governo d’Oltralpe si inseriva perfettamente nel clima maturato già negli ultimi mesi del 1938, quando termini come “indésirable” e “clandestin” erano diventati sempre più presenti nel dibattito pubblico e il radicale Edouard Daladier, tornato primo ministro, aveva fatto approvare un gran numero di decreti legge in particolare repressivi verso gli immigrati e i rifugiati. Fu proprio nel caso degli ex combattenti spagnoli e dei reduci delle Brigate internazionali, laddove meno potevano pesare gli appelli di carattere umanitario, che si palesò apertamente il focalizzarsi dello Stato francese sulla sicurezza e l’ordine pubblico, concretizzatosi nella chiusura totale della frontiera agli uomini in età di leva e nell’organizzazione allo scopo di un dispositivo militare e poliziesco molto efficiente.

Gli ormai ex volontari internazionali, che dalla smobilitazione erano concentrati in Catalogna, in campi organizzati su base nazionale, rimasero così bloccati in attesa che venisse deciso il loro destino. Solo alla fine del 1938 si avviò una lenta evacuazione: venne via via concesso il transito dei volontari originari dei paesi democratici, accolti e subito reindirizzati “chez eux”, mentre vittime dell’intransigenza crescente della politica francese furono soprattutto coloro che venivano dai paesi fascisti, che rischiavano al rientro di subire persecuzioni politiche. Fra loro gli italiani, per molti dei quali – per esempio per i disertori arrivati direttamente dall’Italia e passati nelle file repubblicane che rischiavano condanne molto pesanti, ma allo stesso tempo non godevano di nessun appoggio da altri paesi – trovare una via di uscita dall’imminente crollo del fronte divenne un dramma vero e proprio.

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Volontari in fuga concentrati nei “campi della spiaggia”

Alla fine, come successe per i civili, anche per i reduci stranieri la situazione precipitò di colpo sotto la pressione degli eventi, con l’ordine francese del 5 febbraio 1939 di lasciar passare tutti gli uomini accalcati presso i valichi di frontiera, compresi i miliziani armati pronti a forzare il passaggio in caso di rifiuto. Dall’altro lato del confine, però, i reduci delle BI non trovarono l’accoglienza che si aspettavano dalla vicina e amica Francia, dal paese che era stato per decenni il rifugio sicuro per i perseguitati politici di mezza Europa. Infatti, avendo il governo francese stabilito che tutti gli uomini in età di leva dovevano restare nel dipartimento di arrivo, cioè quello dei Pirenei orientali, l’unico modo di “accoglierli” era quello di disarmarli e raggrupparli in appezzamenti di terreno circondati da filo spinato sulle spiagge del Roussillon. Si tratta dei campi della spiaggia, dove i volontari furono radunati nei primi mesi del 1939, e cioè Argelès, Saint Cyprien e Barcarès.

Qui, in un contesto sempre più emergenziale, situazioni drammatiche sul piano materiale vennero accentuate dallo sconforto morale dei rifugiati, come testimoniato dai racconti anche italiani di quegli eventi, in cui spicca il momento simbolico della consegna delle armi e della bandiera al confine. Avrebbe ricordato Francesco Scotti,

I gendarmi francesi avevano già dato l’ordine di ammassare le armi da una parte. Ogni possibilità di continuare le operazioni anche con azioni di guerriglia era finita. I soldati mi circondarono e mi chiesero perché dovevano deporre le armi. “Entriamo in un paese amico o nemico?” […] Il primo incontro con la Francia libera ci raggelò il sangue più delle nevi delle montagne[6].

principali-campi-francesiL’arrivo in Francia si imprimeva così nelle memorie individuali, sia dei civili sia dei militari, come un evento ad alto coefficiente traumatico: l’idea di società nella quale si era creduto, e per la quale molti avevano combattuto, andava in frantumi e attraversare quel confine significava sancire una sconfitta tanto individuale e personale quanto collettiva e comunitaria. Lo spirito del Fronte popolare non c’era più e le proteste non ebbero, a quell’epoca, una base politica sufficientemente ampia né furono particolarmente durature; così, senza la forza della pressione popolare, a prevalere furono le congiunture e la volontà politica del governo conservatore. Iniziava per gli antifascisti il durissimo momento dei campi di internamento, che divennero, anche dal punto di vista spaziale, la prova tangibile delle spaccature createsi all’interno della società francese tra il 1938 e il 1948, in quelli che la storiografia ha recentemente definito il periodo degli “anni neri”, caratterizzati dall’esclusione dal tessuto sociale nazionale di coloro che erano considerati un peso dal punto di vista economico o un pericolo per la sicurezza interna.

Un nuovo capitolo biografico che sembrava aprirsi tra gli auspici più foschi, tra il freddo, il vento, la sabbia e le recinzioni delle spiagge francesi. Affacciati sul litorale, circondati da terreni acquitrinosi infestati da mosche e battuti dalla tramontana, i primi campi del Roussillon erano, in effetti, quasi completamente sprovvisti d’installazioni, semplici terreni sabbiosi delimitati dal filo spinato. A Saint Cyprien, per esempio, non era previsto alcun riparo, alcuna struttura, tranne un monumentale arco all’entrata del campo e saranno poi gli internati stessi a costruire i primi baraccamenti. Aldo Morandi, riguardo al suo arrivo durante la notte dell’8 febbraio, avrebbe scritto:

su un arco fatto di pali e assi di legno, una scritta “Saint Cyprien”. È l’entrata del campo ma non riesco a distinguere baracche o alloggiamenti, forse per l’oscurità […]. Avvolto nell’impermeabile, con il sacco da montagna sotto la testa come cuscino, ho tentato di dormire sulla sabbia umida e mi sento tutto intirizzito. […] Si è fatto giorno. Non vedo alcuna baracca, il campo d’internamento non esiste, è una nuda distesa di sabbia sul mare circondata da tre lati da filo spinato[7].

vernet

Entrata del Campo di Vernet

Nonostante lo sconforto iniziale, però, la ripresa di una capillare organizzazione politica si ebbe proprio nei campi. In particolare in quelli dell’interno, sorti nelle fasi successive per ovviare al sovraffollamento delle strutture vicine alla frontiera, in seguito a un tentativo di riorganizzazione da parte del governo francese, resosi conto che non avrebbe potuto disfarsi molto rapidamente degli internati. In primis nel campo di Gurs, sui Pirenei orientali, dove gli internazionali vennero ricongiunti nel maggio 1939 e dove i 900 internati italiani si collocavano al secondo posto fra le nazionalità, e quindi in quello di Vernet, nella prefettura di Foix, che, in seguito all’applicazione della legislazione anticomunista francese varata nel settembre 1939, divenne un campo disciplinare, definito “a carattere repressivo”, dove inviare gli stranieri sospetti, gli estremisti o gli individui pericolosi per l’ordine pubblico o per l’interesse nazionale, e quindi gli ex volontari delle Brigate internazionali. Proprio l’altissima concentrazione di ben noti antifascisti fece via via del Vernet uno dei centri francesi ed europei della Resistenza al nazifascismo. Di fatto, l’internamento di un gran numero di dirigenti comunisti europei e di una buona parte dei dirigenti delle Brigate Internazionali lo trasformarono in uno dei principali centri dopo Mosca, dove particolarmente rilevante era la presenza di tedeschi, italiani e polacchi.

Nel microcosmo dei campi i reduci provenienti dalla Spagna videro via via riconsolidarsi quella solidarietà internazionale, nata in Spagna, che farà delle resistenze europee un momento di sintesi di aspirazioni e impegno militare e civile per antifascisti di diversa provenienza, nazionale e politica. In questi luoghi, dove gli italiani rimasero in media due anni (dal febbraio 1939, quando la Francia si vede costretta ad “accoglierli” nei primi reticolati sulle spiagge del Roussillon, fino alla primavera del 1941 quando l’Italia cominciò a pretenderne il rimpatrio), si svolsero vicende e fatti che influirono profondamente sulla costruzione in divenire delle identità dei futuri combattenti, ma che ancora di più determinarono il ricostruirsi, dopo la Spagna, dei networks cruciali nella successiva lotta europea al nazifascismo.

Foix

Registro del campo di Vernet (©Isgrec)

Qui maturarono anche le competenze apprese sul campo di battaglia spagnolo, quella preparazione politica, tattica e militare che fece dei reduci italiani di Spagna, come ha ben evidenziato Paolo Spriano, “la punta di diamante” dei quadri dirigenti della lotta partigiana in Italia[8]. Nei campi, infatti, nonostante le condizioni di vita spesso durissime, la vicenda degli antifascisti italiani si declinò in un costante sforzo collettivo per la preparazione della futura lotta, percepita come ineluttabile e necessaria. Si andava dal concreto addestramento militare, come per esempio nel caso dell’empolese Pietro Lari, «esperto in tattica dei colpi di mano e di fabbricazione di esplosivo», che a Gurs aveva passato giornate intere ad addestrare i suoi compagni di prigionia alla fabbricazione delle bombe a mano[9], alla più generale preparazione culturale e politico-organizzativa dei militanti, derivata dai corsi e dal lavoro culturale svolto fra il filo spinato; tenendo conto anche, semplicemente, del quotidiano processo di condivisione di esperienze e insegnamenti tattici e strategici.

Insegnamenti che saranno messi a frutto dopo il rientro in Italia, per i più direttamente dal campo del Vernet (ultima tappa nell’itinerario dei campi), a seguito delle procedure di rimpatrio forzato avviate dalla Francia nel febbraio 1941 o volontariamente, a seguito della richiesta del Partito comunista italiano di fornire personale politico e militare per combattere. Una scelta, quella di tornare, che veniva messa in cantiere già dal 1941, ma che nella maggior parte dei casi si concretizzò solo fra il 1942 e il 1943: di conseguenza, molti antifascisti si ritrovarono a introdurre in Italia anche le tecniche e la metodologia d’azione tipiche del maquis francese.

Proprio in Francia, del resto, molti italiani scelsero di rimanere a combattere, dando in alcuni casi un contributo determinante alla costruzione dei gruppi locali. Già alcune evasioni dai campi, in effetti, erano state organizzate dalla nascente rete clandestina del maquis, la cui composizione era, prevalentemente, francese, ma in cui cominciavano a entrare fuorusciti italiani, spagnoli e “internazionali” reduci dalla Spagna. Nati come vere e proprie centrali d’evasione e di assistenza ai clandestini – in cui, di fronte alla crisi dei partiti dell’antifascismo e di associazioni come la Lidu, a rafforzarsi erano i legami di solidarietà personali – questi gruppi diedero via via inizio a una resistenza capillare, composta da una diffusa rete di formazioni militari di montagna e cittadine, queste ultime impegnate nell’organizzazione sistematica di sabotaggi e azioni di contrasto nei centri urbani. Basti pensare all’esempio dell’anarchico fiorentino Umberto Marzocchi, che nel 1941 si rifugiò sui Pirenei, nella zona del campo di Vernet, dove, sotto copertura, fu attivo proprio nell’attività di soccorso viveri agli internati e nell’organizzazione delle evasioni dal campo; collegatosi in seguito con la Resistenza francese della regione di Tolosa, partecipò alla liberazione del campo e nell’agosto 1944 entrò a far parte delle Forces Françaises de l’Intérieur (FFI) come vicecomandante di un’imprecisata unità spagnola[10].

Perpignan, Registro del campo di Argeles (©Isgrec)

Quelle degli antifascisti italiani reduci dalla Spagna sono insomma vicende biografiche compresenti in una serie di cornici: locali, nazionali, internazionali. Da un lato, perché il contributo consistente dato da questi uomini prima alla lotta contro Franco e poi contro il nazifascismo è comprensibile solo in virtù della convinzione, che li accomunava, del legame indissolubile fra la sorte della Spagna nel 1936 e quella delle democrazie europee tutte; dall’altro, perché i volontari stranieri furono vittime, loro malgrado, di politiche internazionali che li avrebbero voluti fuori dalla scena politica europea dopo il settembre 1938. Essi rappresentarono la pesante e tangibile eredità di un periodo che la velocità della politica internazionale aveva ormai spazzato via.

In particolare, il limbo nel quale vissero gli italiani e coloro che non poterono rientrare nel paese di origine testimonia quanto la guerra civile spagnola sia stata un conflitto che per essere capito fino in fondo deve essere declinato secondo categorie transnazionali. È quindi fondamentale analizzare le vicissitudini di questi combattenti dietro al filo spinato, seguirne l’iniziale sconforto e poi il risveglio politico fino allo svilupparsi nei campi di una complessa organizzazione clandestina, capire per esempio come fra gli italiani fosse gestita la difficile convivenza fra le diverse anime dell’antifascismo. Risolvere queste domande permette allora di colmare un significativo vuoto di conoscenze sugli anni decisivi che fanno da trait d’union fra la guerra di Spagna e la Seconda guerra mondiale, ma anche di porre dei punti fermi da cui ripartire per un’indagine sull’apporto dei reduci delle Brigate internazionali alla lotta contro il nazifascismo, indagine che ancora manca come evoluzione della storiografia sulla guerra civile spagnola.

Collettivo “El Cubri”, grafiva dfel disco “Cantata del exilio - ¿Cuándo volveremos a Sevilla?" Prima ed. Parigi 1976

Collettivo “El Cubri”, grafica del disco “Cantata del exilio – ¿Cuándo volveremos a Sevilla?” Prima ed. Parigi 1976

 

Note:

[1] Un’evoluzione esemplificata dal brillante lavoro di ricerca e divulgazione condotto sul sistema dei campi francesi da Denis Peschanski, con il suo volume La France des camps pubblicato da Gallimard nel 2002; una corposa opera di analisi in cui nulla si tace delle colpe della Francia di Vichy, la cui ampia diffusione è stata resa possibile da un clima culturale disposto finalmente ad affrontare quella memoria (D. Peschanski, La France des camps. L’internement 1938-1946, Gallimard, Parigi 2002).

[2] P. Ramella (a cura di), Morandi, Aldo. In nome della libertà: diario della guerra di Spagna 1936-1939, Mursia, Milano 2002; Id., La retirada: l’odissea di 500.000 repubblicani spagnoli esuli dopo la guerra civile, 1939-1945, Lampi di stampa, Milano 2003; Id., Dalla Despedida alla Resistenza. Il ritorno dei volontari antifascisti dalla guerra di Spagna e la loro partecipazione alla lotta di Liberazione europea, Aracne, Roma 2012.

[3] E. Acciai, I. Cansella, Storie di indesiderabili e di confini. I reduci antifascisti di Spagna nei campi francesi (1939-1941), Isgrec Quaderni 05, Effigi, Arcidosso 2017.

[4] Sulle stime governative fornite all’epoca e sul problema della loro attendibilità e completezza cfr. l’interessante punto della situazione presentato in G. Tuban (a cura di), Février 1939. La Retirada dans l’objectif de Manuel Moros, Mare nostrum, Perpignan 2008.

[5] Il dibattito in merito a questo tema è ricostruito accuratamente dal testo di J. Rubio, La politique française d’accueil: les camps d’internements, in P. Milza e D. Peschanski (a cura di), Exils et migration. Italiens et espagnols en France 1938-1946, L’Harmattan, Parigi 1994.

[6] D. Lajolo, Il “voltagabbana”, BUR, Milano 2005, pp. 163-164.

[7] Ramella (a cura di), Morandi Aldo. In nome della libertà, cit., pp. 221-222.

[8] P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. IV. La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata, Einaudi, Torino 1973.

[9] Archivio INMSLI, Fondo AICVAS, b. 23, f. 24. Anello Poma, Come vissero gli ex combattenti delle Brigate internazionali nei campi di concentramento francesi, s/d..

[10] I. Cansella, F. Cecchetti, Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Isgrec Quaderni 02, Effigi, Arcidosso, 2012.




Per una “casa della memoria al futuro” a Maiano Lavacchio

Non c’era, come non c’è, una sola sofferenza isolata, una sola tortura in questo mondo che non si ripercuota
nella nostra vita di ogni giorno
Albert Camus, 1946

 

Quando, più o meno quindici anni fa, all’ISGREC fu portato un pacchetto con alcuni oggetti, fra cui una tessera forata dal proiettile che aveva ucciso Attilio Sforzi il 22 marzo 1944 – era inimmaginabile quel che oggi sta accadendo: la concreta prospettiva di un luogo di memoria a Maiano Lavacchio.

Attilio è uno degli undici “martiri d’Istia”, vittime di una strage di esclusiva responsabilità fascista. L’episodio, non l’unico o il più sanguinoso nel grossetano, nei nove mesi di sciagurata complicità nella “guerra ai civili” tra il fascismo repubblicano di Salò e l’alleato occupante (esercito e formazioni speciali della Germania hitleriana), creò un sentimento di rivolta nella popolazione locale, che andò oltre la condanna politica. Disumana l’esecuzione sommaria di pochi giovani pressoché disarmati, atroce lo strazio di genitori lasciati ad assistere a una morte insensata. Ne possediamo ricostruzioni e spiegazione storica1, ma è anche alla sensibilità di uno scrittore che conviene ricorrere per far “sentire” il clima di quei momenti:

saforzi_portoarmi Gli ultimi istanti volarono come un vento teso, assordante. Corrado ebbe appena il tempo di abbracciare il fratello Emanuele e baciarlo: caddero di schianto, l’uno sull’altro, ammucchiati, rami rinsecchiti dal sole e divorati dal fuoco crepitante. Improvvisa una folata piena di colombi si aprì in verticale dai coppi rossastri del tetto grande, e volò di traverso a Montebottigli. La gente stordita seguì il volo, lontano, finché gli occhi poterono vedere tra il verde del forteto: uno spettro, l’elmetto nero traballante sugli occhi, dall’angolo del caseggiato vide saltar fuori il Cariti che tirava l’organetto a bottoni; e cantava a gola piena un’aria siciliana incomprensibile, colma di mestizia, di scherno, di passione carnale, di odio e di vendetta: innaturale. 2

L’evento è stato oggetto di commemorazioni annuali fin dal 1945, con una cerimonia nel tempo più partecipata e solenne, in un luogo che non ha mai cessato di trasformarsi. Dove avvenne l’esecuzione, è stata costruita una cappella. Poco distante, ai ragazzi è stato dedicato un sobrio monumento, dal 2016 affiancato da una targa con codice QR, che rinvia al sito www.cantieridellamemoria.it per la narrazione dell’evento. Accanto a questo, altri segni di memorie sono diffusi nell’area compresa fra la frazione di Istia d’Ombrone e il comune di Magliano. Un bassorilievo e una pietra d’inciampo ricordano le storie contigue di deportati politici, in località Campospillo, mentre fra Maiano Lavacchio e la frazione di Istia è possibile seguire il sentiero percorso dai carretti che trasportarono i corpi dei ragazzi verso la Chiesa di Istia, in violazione del divieto di celebrare funerali e dell’ordine di seppellire i ragazzi in una fossa comune. Fu il parroco, don Omero Mugnaini, a compiere un clamoroso gesto di rivolta. La risposta che gli si attribuisce, alle minacce delle autorità civili e militari italiane e tedesche: “Voi pensate ai vivi, ché ai morti ci penso io”, non rimase una frase: gli undici feretri furono accompagnati al cimitero da una folla, mentre ai lati della strada erano puntate sul corteo funebre le mitragliatrici.

La storia dei ragazzi provenienti da altri luoghi ebbe poi un seguito in quelli. A Cinigiano, i genitori di Alfiero Grazi adottarono il disertore tedesco (dodicesimo del gruppo sorpreso la notte tra 21 e 22 marzo nella capanna delle macchie di Montebottigli e fortunosamente sfuggito alla morte), che affrescò la cappella del cimitero di Cinigiano, dove fu definitivamente sepolto Alfiero. Quando il corpo di Antonio Brancati nel 1967 fu riportato a Ispica, lo accompagnò l’antifascista grossetano Francesco Chioccon3. La lettera ai genitori di questo ragazzo siciliano è una fra le tante pubblicate, dei condannati a morte della Resistenza italiana; analogamente pubblicata, anche se in un volume locale, l’orazione tenuta da Chioccon a Ispica.

È naturale che da una vicenda di tale forza emotiva subito siano nate canzoni in ottava rima, secondo una tradizione locale di musica popolare, ma anche dopo anni, in un continuum, fino ad oggi, la storia dei ragazzi uccisi abbia ispirato scrittori e autori di teatro4.

Hanno avuto una straordinaria capacità mitopoietica la giovane età delle vittime, l’immagine della loro innocenza (undici “agnelli” in un opuscolo commemorativo scritto a pochi mesi di distanza5), il gesto coraggioso del prete e dei grossetani che sfidarono le mitragliatrici, il racconto della crudeltà dei comportamenti dei fascisti. Nel cosiddetto processone per i crimini dei fascisti repubblicani, la corte d’Assise straordinaria dispose per i responsabili condanne severe, in nessun caso applicate interamente. Se nell’immediato dopoguerra il contesto della guerra civile lasciò che questa comparisse come una fra le tante storie di Resistenza, e i ragazzi, come nel rapporto del Capo della Provincia Ercolani, soggetti “politici”, la completa ricostruzione storica ha messo in luce la particolare complessità di questo, che è un episodio di “guerra ai civili”, ma con vittime che hanno fatto comunque una scelta netta, rifiutando l’arruolamento imposto dal bando Graziani nel costituendo esercito della RSI. Hanno disobbedito6, il loro gesto ha provocato altra disobbedienza, se immediatamente è nata la formazione partigiana della zona, cui ha aderito addirittura una donna testimone dello scempio. Il fine di pulizia del territorio delle politiche duramente repressive del fascismo repubblicano, a Grosseto gestite con il pugno di ferro dell’ex-ufficiale viterbese Alceo Ercolani, dopo il 22 marzo del ’44 sortì l’effetto opposto, allargando l’area del dissenso esplicito della popolazione locale, nelle campagne e in città.

Da qui è necessario prendere le mosse per leggere il passaggio dall’appena ventilata ipotesi di vendita a privati di un edificio-simbolo della strage, nel luogo dove fu consumata, all’attuale progetto di creazione di un luogo di memoria. Non appena il Comune di Magliano in Toscana espresse la necessità di intervenire su un edificio malridotto e inutilizzato, anche alienandolo, una risposta corale dal territorio fu così persuasiva da bloccare ogni intervento a rischio di “inquinamento”. L’edificio è la vecchia scuola elementare, che raccoglieva bambini dell’area rurale, costruito negli anni di urbanizzazione delle campagne maremmane, post-riforma agraria.

L'ultimo saluto dei fratelli Matteini alla madre

L’ultimo saluto dei fratelli Matteini alla madre

Il valore simbolico non appartiene allo spazio fisico – aula, casa del custode – ma alla sua capacità evocativa; fu nell’edificio del podere, nella stanza adibita ad aula della scuola all’epoca degli avvenimenti, che i ragazzi furono rinchiusi dopo l’arresto, la notte tra 21 e 22 marzo, e processati e condannati a morte. Sulla lavagna i due fratelli Matteini scrissero il messaggio “mamma Lele e Corrado un bacio,”. Quel frammento staccato dal rettangolo d’ardesia a quadretti bianchi e quelle parole tracciate col gesso bianco devono aver pesato come un macigno sulla coscienza di chi, concittadino colpevole o complice, l’ha vista riprodotta tante volte sulle pagine delle cronache locali nei dintorni delle commemorazioni annuali o se l’è trovata di fronte, entrando nella stanza del Sindaco di Grosseto, dove fu collocata nel 1976.

Così è partita una sfida: trasformare lo spazio fisico – la piccola scuola anni Sessanta – in un luogo di memoria. Operazione di per sé culturalmente complessa (come trovare una chiave per dare la giusta misura al rapporto tra significante e significato?), assai impegnativa in un tempo in cui nuovi e inediti contesti impongono un sovrappiù di riflessione sul rapporto con il passato e la storia. A queste si sono sovrapposte, sovrastandole, le difficoltà concrete: risorse, competenze, tempi… Lungi dall’essere questi ostacoli superati, il dato attuale è un percorso avviato e in atto.

 

MAIANO LAVACCHIO LUOGO DI MEMORIA VIVA

Come il pescatore di perle che arriva nel fondo del mare
non per scavarlo e riportarlo alla luce, ma per liberare
staccando dalla profondità le cose preziose e rare, perle e coralli,
e per riportarne frammenti alla superficie del giorno
………………………………………..
nuove forme e formazioni cristallizzate, rese invulnerabili contro gli elementi,
sopravvivono e aspettano solo il pescatore di perle
che le riporti alla luce come “frammenti di pensiero”
H. Arendt, Il pescatore di perle

La svolta è arrivata dall’incontro con un architetto, Edoardo Milesi, non nuovo a interessi per temi analoghi – a suo tempo si era occupato del Memoriale italiano di Auschwitz. Da un fitto scambio di idee, sopralluoghi e infine confronti con il Comune ha preso forma l’idea di un luogo di memoria viva, che dal frammento di storia sottratto alla futura dimenticanza possa trarre pretesto per proporre una “partecipazione a esperienze culturali anche su altro”. Il fine: non rinnovare “epoche già consumate”, piuttosto, come il pescatore di perle che evoca la visione della storia di Walter Benjamin, produrre una cultura per il futuro.

area scuolinaScegliere un luogo, riempirlo di cose e simboli, stabilirne l’uso sono operazioni tutt’altro che facili: crocevia di saperi, intenzioni pubbliche, tradizioni e sensibilità individuali. Fuori da sovrapposizioni meccaniche e forzature, serve tenere ferma l’idea che non c’è una corrispondenza facile tra fatti, memorie, significati e valore storico. La partizione degli spazi che il progetto architettonico prevede è rappresentazione del carattere di memoria viva, non schiacciata su un evento, non prospettiva di museo da visitare solo per conoscere o provare emozioni, entro i limiti di un preciso e circoscritto contenuto storico. Il materiale che possediamo comprende i dati fattuali delle storie, le culture di cui portano tracce la fisicità dei luoghi, gli ambienti e persone che li abitano. Ma la scelta condivisa tra l’ISGREC, l’architetto e il Comune è stata quella di andare oltre i limiti di un rapporto esclusivo con il luogo in quanto teatro di un evento, oltre i rischi dell’uso autoreferenziale della memoria.

C’è una relazione sempre più urgente da proporre al nostro lavoro sulla memoria. Fenomeni che si consideravano irripetibili, valori acquisiti una volta per tutte rivelano invece una pericolosa precarietà. Gli anniversari recenti – la Grande Guerra e l’emanazione delle leggi razziali italiane – i prossimi – l’inizio della II guerra mondiale – sono materia viva: xenofobie, razzismi, fino a genocidi e stragi di civili hanno diverse geografie, ma sono tornati ad essere parte del tempo presente. Molte di quelle che sono state a lungo memorie europee condivise sono escluse dal calendario civile in ampie zone dell’est Europa. La pace si è trasformata in tregua armata, carica di tensioni crescenti. Così la cifra della memoria è la sua capacità di guardare al futuro.

L’idea forte, divenuta un vero progetto – tavole e calcoli metrici e preventivo dei costi – è stata quella di Spazi da abitare: le stanze della memoria dei Martiri d’Istia aperte, contenitori di esperienze da fare, che conservino e via via sedimentino tracce del rapido transito o di una più lunga permanenza di persone. Cucina, foresteria, porticato esterno.

Pochi e semplici arredi, una sezione didattica con strumenti essenziali per stages, visite didattiche , laboratori e seminari.

I primi ad abitare quel che potrà essere realizzato nel novembre 2018 saranno gli studenti e gli insegnanti europei dell’Erasmus+ Our memories and I7. Già una trentina di classi di scuole superiori stanno lavorando a monitorare identità personali, familiari, delle comunità di appartenenza, a testare con esperienze personali o di gruppo quel che rimane intorno a loro del passato comune, più o meno vicino a loro (nessuno è nato prima del 2000). Insieme ai loro insegnanti e a un artista8 hanno cominciato ad esplorare musei e memoriali, a sperimentarsi come autori di un’elaborazione del proprio vissuto personale e di gruppo (familiare, etnico…). Gli studenti francesi e spagnoli hanno trovato rispettivamente nel Mémorial di Rivesaltes e nel Museu Memorial de l’exili (MUME) di La Jonquera materia per leggere un passato di fuga di massa dalle violenze di una guerra civile. Spagnoli e brigatisti internazionali hanno lasciato tracce del loro passaggio attraverso i Pirenei; il Museu Memorial de l’exili è stato edificato 10 anni fa sulla frontiera9. Le storie personali di cui sono piene carte, fotografie, registrazioni presenti nel MUME in una settimana di lavori di gruppo sono state materiale di studio, riflessione e comparazione su altre, nuove frontiere, che altri popoli attraversano.

erasmusplus

Il gruppo dell’Erasmus+ nel campo di Rivesaltes

A Rivesaltes sono conservate storie analoghe e diverse. È un campo nato negli anni Trenta del Novecento, ma vi sono stati ristretti anche algerini negli anni Sessanta. Oggi è un modernissimo laboratorio, spazio per studi e progetti culturali. Si sono cimentati in gruppo sull’esperienza del Memoriale gli studenti dei paesi partner, in una babele di lingue e competenze storiche che ha prodotto corti-circuiti interessanti. L’ultima tappa dell’esperimento collettivo sarà Maiano Lavacchio, stavolta a guida grossetana. Servirà a misurare l’efficacia dell’idea progettuale con i destinatari privilegiati, giovani lontani dalle vicende da cui scaturisce la scelta dei luoghi.

Certo, lo spazio piccolo del nostro insediamento rurale non potrà somigliare a luoghi che sono stati oggetto di generosi investimenti pubblici. Del resto, la pur alta capacità rappresentativa della strage di marzo a Maiano Lavacchio non è comparabile alla enormità dei fatti cui rimandano La Jonquera e Rivesaltes: la marea umana che oltrepassò i Pirenei, le decine di migliaia di indesiderabili, gli antifascisti, gli ebrei che a Rivesaltes vissero l’anticipazione del lager, fino ai citati algerini10

Tuttavia, la comparazione tra vicende, il dialogo e il lavoro comune tra persone portatrici di esperienze e saperi diversi sono le condizioni che danno senso lavoro su storia-memoria.

Quelli attuali sono giorni cruciali per questo progetto. È stata appena ufficializzata l’acquisizione da parte dell’ISGREC della scuola, in forza di una convenzione che dà avvio alla ricerca di risorse finanziarie. Il 22 la commemorazione vedrà, come al solito, la presenza delle istituzioni e di cittadini. Ci saranno anche gli studenti del Liceo linguistico Rosmini, reduci dal primo viaggio dell’Erasmus e per i prossimi due anni impegnati in Our memories and I.

Nessun indizio materiale dà evidenza a queste novità, ma per la casa della memoria al futuro di Maiano Lavacchio il primo passo – l’uscita dal regno di utopia – è fatto; non era il più facile.

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Note:

1 Il primo tentativo di ricostruzione della vicenda è in M. Magnani, La strage di Istia d’Ombrone (22 marzo 1944), Il Grifone, Grosseto 1945. In molte pubblicazioni successive esistono riferimenti e qualche sintetica cronaca del fatto. È del 1995 un volume prezioso per le fonti che utilizza: C. Barontini, F. Bucci, A Monte Bottigli contro la guerra: dieci “ragazzi”, un decoratore mazziniano, un disertore viennese, ANPI, Grosseto. Una completa ricostruzione storica è in M. Grilli, Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei martiri d’Istia, edizioni ISGREC-Effigi, Arcidosso (GR) 2014.

2 G. Gianni, Nell’ombra delle stelle, Il paese reale, Grosseto 1973.

3 L’orazione di Chioccon è riprodotta in N. Capitini Maccabruni, La Maremma contro il nazifascismo, Provincia di Grosseto, 1984, pp. 143-8.

4 Un primo spettacolo teatrale fu rapppresentato a Grosseto negli anni Sessanta. È Oltre il ponte, autore e regista Mario Sermoni. Recente è AG46, produzione NONE-ISGREC, rappresentato più volte nel 2006.

5 M. Magnani, cit.

6 Cfr. il capitolo La scelta, in C. Pavone, Una guerra civile. Storia della moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 3-62.

7 L’Erasmus+ Our memories and I ha avuto inizio nel settembre 2017 ed ha durata biennale. I paesi partner sono: Croazia, Francia, Germania, Italia, Spagna. I partner italiani: il liceo linguistico dell’Istituto Rosmini e l’ISGREC. Sedi dei partner stranieri: Split in Croaiza, Perpignan in Francia, Figueres in Spagna, Berlino in Germania.

8 Due gruppi di studenti – i francesi e gli spagnoli – hanno già prodotto manufatti esposti in mostre allestite nei due licei (Monturiol di Figueres e Pagnol di Perpignan). Le performances prodotte dai ragazzi stimolati da Rma Kroke

9 All’ingresso del MUME una targa con loghi grossetani e toscani ricorda il passaggio di antifascisti che dalla Toscana erano andati a combattere come volontari nella guerra di Spagna e da lì entrarono in campi di concentramento. Cfr. in questo sito il database Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola. La storia dei campi è in E. Acciai, I. Cansella, Storie di indesiderabili e di confini, ISGREC-Effigi, Arcidosso (GR) 2017.

10 Cfr. F. Bensaci-Lancou, Fille de harki. Éditions de l’atelier, s.d.. Fatima Bensaci racconta la storia quasi sconosciuta, in Francia forse rimossa, della minoranza algerina degli harkis, che furono internati dopo la guerra d’Algeria nel campo di Rivesaltes.