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Sulla pelle degli operai: Pignone 1953.

La mattina del 5 gennaio 1953 la direzione delle Officine Meccaniche e Fonderia del Pignone di Firenze presentò alla Commissione Interna un piano di riduzione del personale di oltre 300 lavoratori, fra operai, tecnici e impiegati. I licenziamenti, che riguardavano inizialmente un sesto degli addetti occupati, raggiunsero in seguito progressivamente quote più alte, fino a prevedere la totale chiusura dell’impianto. A motivare l’operazione, la SNIA Viscosa, proprietaria del Pignone, riportava deficit di bilancio nel biennio precedente dovuti all’insufficienza delle commesse e agli elevati costi di produzione.

La vertenza, dopo un intero anno di lotta condotta su diversi fronti con inedite modalità politico-sindacali, si concluse tra il 5 e il 13 gennaio 1954 con la rilevazione da parte di ENI dell’azienda e il reintegro di una parte dell’organico, con un minor numero di addetti rispetto al primo piano di esuberi del gennaio ‘53. Più in generale, la parabola dello stabilimento fiorentino s’inseriva nel vasto quadro di licenziamenti e smobilitazioni che la ristrutturazione del tessuto industriale italiano comportò tra la fine degli anni Quaranta e la prima metà del decennio successivo, che a Firenze ebbe pesanti conseguenze, ma ne rappresentava al contempo un caso paradigmatico.

La vicenda del Pignone passò alla cronaca per l’estensione temporale e qualitativa della protesta operaia, condotta unitariamente dai sindacati per la prima volta dalla scissione del 1948, che coinvolse larga parte della cittadinanza fiorentina: i commercianti e le famiglie operaie, i lavoratori degli altri stabilimenti e una parte del clero locale sostennero in diverse occasioni le proteste e la lunga occupazione della fabbrica. Soprattutto, però, la vertenza ottenne una grande risonanza nel dibattito politico grazie all’intervento diretto e deciso del sindaco democristiano Giorgio La Pira, poi della corrente che faceva capo a Fanfani e che proprio in quel periodo stava diventando maggioritaria nel partito.

Tutto ciò, ovviamente, fu oggetto della massima attenzione da parte dell’Ufficio Politico della Questura di Firenze. Tra gli elementi più interessanti riportati dalle fonti di polizia vi è certamente quello relativo all’atteggiamento tenuto nel corso della lunga vertenza da Zenone Benini e Franco Marinotti, gli amministratori delegati rispettivamente del Pignone e della SNIA.

Ciò che qui interessa sottolineare è la discrepanza tra le motivazioni alla base del ridimensionamento e poi della liquidazione del Pignone e la reale situazione economico-finanziaria in cui si trovava lo stabilimento. Per Marinotti e Benini al Pignone mancavano le ordinazioni e i costi produttivi erano insostenibili, mentre  le indagini dell’Ufficio Politico, le analisi delle rappresentanze operaie e la Relazione dei liquidatori della Società concordavano invece nell’attestare la buona salute dell’azienda.

Su un bilancio di oltre 7 miliardi di lire il passivo dell’azienda alla fine del 1952 si attestava intorno a 240 milioni, di cui la quasi totalità riscontrabile nel nuovo ramo produttivo meccanotessile imposto dalla riconversione targata SNIA. Anzi, secondo il parere dei liquidatori i reparti tradizionali su cui si fondava la vecchia come la recente storia del Pignone, compressori, carpenteria e caldareria, avevano addirittura fatto registrare negli ultimi anni un’espansione del fatturato. In merito al “mantra” ripetuto dal padronato della carenza di ordinazioni, le indagini avevano rilevato che gli aiuti ERP non solo avevano finanziato una parte del rinnovamento del parco macchine fra 1949 e 1950, ma avevano anche assicurato fino a quel momento sostanziose commesse offshore. Inoltre alcune ordinazioni erano state gestite in maniera pessima dalla Direzione, come delle lavorazioni per trapani radiali, costate al Pignone tra interruzioni e scarti produttivi un centinaio di milioni di lire.

Dalle parti della Questura dunque, come del resto anche nella CCdL, con il passare delle settimane andava accumulandosi una certa perplessità sulla buona fede delle scelte aziendali, dato che Benini non solo chiudeva sistematicamente qualsiasi spiraglio di trattativa con la Commissione Interna e confermava la necessità di ridimensionare l’azienda – anzi la rilanciava portando a 400 il numero delle sospensioni -, ma allo stesso tempo stava imponendo ore di lavoro straordinario obbligatorio a una consistente fetta di tecnici, disegnatori e operai.

Le perplessità dei funzionari di polizia si fecero più consistenti quando, poco prima delle elezioni politiche del giugno 1953, la stima delle riduzioni di organico  era praticamente triplicata rispetto alle sospensioni avviate a gennaio, attorno alle «900 persone su 1800 dipendenti». L’Ufficio Politico riteneva:

«Urgentissimo provvedere acciocché la direzione dell’azienda non vada a questi estremi che porteranno al fallimento. Infatti il costo/ora commerciale, che prima delle sospensioni era circa 1400-1500 lire, è salito a oltre 1800 lire, come anche un qualunque essere ragionevole aveva capito e detto fino da quando furono minacciate le sospensioni: le persone che producono  diminuiscono e le spese generali rimangono le stesse. È perciò da considerare:

1) Il completo fallimento della politica dei vari Benini, Gerla e Torrini.

2) Il prossimo tracollo della Società (le azioni vanno scendendo di nuovo rapidamente), dato che sarà impossibile vendere anche un solo spillo, anche perché l’ora produttiva del Pignone costa il triplo di quelle della concorrenza.

3) La necessità di un forte intervento governativo presso la SNIA Viscosa e la Direzione del Pignone per impedire in ogni modo la rovina della Società, eventualmente assegnando del lavoro per un importo della consistenza tale da salvare alcune centinaia di operai».

Qualche mese più tardi gli investigatori informavano che Benini, «alla luce di una voce raccolta in qualche ambiente interno delle officine del Pignone, solitamente bene informato, […] avrebbe più che raddoppiato il suo capitale in seno all’azienda, giuocando al ribasso quando le azioni, alcuni mesi or sono, ebbero un apparente fortissimo tracollo; da un lato, faceva sapere a tutti ufficialmente che si era giunti al disastro dell’azienda, mentre dall’altro, comprava a tutto spiano le azioni che medi e piccoli azionisti gettavano sul mercato, vendendo a qualunque prezzo pur di disfarsene».

Nel novembre 1953 infine, quando ormai la vertenza entrava nelle sue fasi più acute a seguito della decisione aziendale di liquidare la Società, gli indizi si facevano più chiari per i questurini, che consideravano ormai «buona parte della mancanza di lavoro» dovuta «all’atteggiamento della SNIA Viscosa nei riguardi del Pignone». Nei mesi precedenti il colosso lombardo aveva richiesto la progettazione e la realizzazione di «due prototipi di macchine TPS, poi, dopo averle testate e valutate positivamente, si faceva consegnare progetti tecnici per commissionare la produzione di un centinaio di questi macchinari, per l’importo di oltre un miliardo di lire, ad un altro impianto, lo Stabilimento Meccanico che essa stessa possiede in Torino».

Così, a nove mesi di distanza dall’apertura della vertenza, i funzionari di polizia  erano portati a «supporre che la crisi di lavoro in cui l’azienda si dibatte [fosse] stata creata ad arte».

Effettivamente l’attività speculativa emersa dalle carte della Questura sul caso Pignone conferma non solo, e non tanto, «il fallimento di una classe imprenditoriale culturalmente arretrata e dotata di scarsa “coscienza industriale”»; indica piuttosto una scelta preordinata, una strategia imprenditoriale sostenuta dalla proprietà in quella fase di ristrutturazione complessiva del tessuto industriale italiano. Una volta presa coscienza dell’errata scelta di riconversione al tessile a scapito invece della  tradizione produttiva della fabbrica fiorentina, la gestione Benini-Marinotti già tra il 1948 e il ’50 aveva optato per il definanziamento delle produzioni di casa Pignone, incentrando il proprio indirizzo strategico nel taglio dei costi e alimentando di conseguenza il conflitto interno allo stabilimento.

Nel 1953 però, a differenza delle precedenti dismissioni di manodopera, la Direzione non dovette fronteggiare solo una decisa e determinata protesta sindacale unitaria, ma anche un mutato assetto del contesto politico generale e territoriale, in cui le istanze sociali rappresentate dalla corrente di Fanfani e La Pira si stavano imponendo sulle linee di governo. In altre parole la dirigenza si trovava di fronte un doppio ostacolo: la combattiva resistenza operaia (tanto alle scelte contingenti di licenziamento quanto più compiutamente a tutto l’indirizzo produttivo imposto nel ’46); la volontà del sindaco e di una parte della DC di sostenere la lotta del Pignone.

Per questa via, già a ridosso delle elezioni del 7 giugno, e poi più realisticamente con il progressivo emergere del protagonismo di La Pira e le voci di un intervento governativo, Benini e Marinotti maturarono la scelta di disfarsi dell’azienda, tanto più che dopo la salita di Fanfani al Viminale trovarono nella disponibilità istituzionale alla mediazione la sponda idonea per superare l’empasse a proprio favore.

Concretizzatesi finalmente le iniziative governative per salvare il Pignone con il coinvolgimento della neonata ENI guidata da Mattei, e una volta accentrate il più possibile le azioni, la SNIA e il vecchio patron Benini riuscirono a ricavare profitto da una fabbrica estremamente politicizzata e conflittuale, che versava in buona salute finanziaria ma risultava da anni in crisi nel ramo produttivo che più interessava alla SNIA.




Le miniere della Maremma all’alba del Patto di Londra

Dopo la dichiarazione di neutralità nell’agosto del 1914 rispetto alla guerra da poco scoppiata che vedeva coinvolti gli alleati della Triplice Alleanza, per l’Italia i mesi seguenti furono preludio dell’imminenza di nuovi scenari: mantenersi neutrale davanti all’acuirsi di un conflitto che si svolgeva alle sue porte o schierarsi con uno dei due fronti? Se da una parte una tale dichiarazione aveva permesso all’Italia di attendere e osservare, dall’altra preconizzava il rischio di vedere declassato il rango di potenza per un Paese che fino ad allora era stato riconosciuto al pari di Regno Unito, Francia e Germania. Da un punto di vista economico, infatti, l’Italia poteva definirsi dalla ‘dipendenza multipla’[1]: il settore agricolo aveva delle sue specializzazioni, ma non garantiva l’autosufficienza alimentare rimanendo, pertanto, legato alle importazioni dalla Russia e dalla Romania, soprattutto di grano e altri cereali, la Germania era il principale partner economico per i manufatti industriali mentre il fabbisogno energetico era garantito dalla Gran Bretagna, in primis per il carbone. In tali condizioni, la neutralità dell’Italia non avrebbe potuto durare troppo: il ferreo controllo inglese sul commercio internazionale condannava le economie dei Paesi neutrali, soprattutto di quelle dipendenti dalle esportazioni. La direzione che l’Italia avrebbe dovuto prendere per evitare la stagnazione era chiara[2]. Ed è su questo aspetto che puntò la destra sonniniana-salandriana, con il supporto della monarchia, per entrare in guerra[3].

I mesi che precedettero la stipula segreta del Patto di Londra furono caratterizzati da provvedimenti di difesa e di interlocuzioni diplomatiche che sembravano palesare la direzione che il Governo italiano avrebbe poi preso. Del resto, non sembrava essere il Parlamento «il luogo vero e proprio del processo decisionale, di formazione della scelta di entrare in guerra»[4]: la vera trattativa che portò l’Italia in guerra al fianco della Triplice Intesa si svolse alla corte reale, per mano del Governo, soprattutto la Presidenza del Consiglio e il Ministero degli Esteri, e alle Ambasciate.

Giovanni_Merloni (credits: Archivio Storico Camera dei Deputati)

Giovanni_Merloni (credits: Archivio Storico Camera dei Deputati)

In questo contesto si inserì l’attività politica di Giovanni Merloni finalizzata alla difesa delle miniere della Maremma.

Tra i primi sostenitori del nascente Partito Socialista Italiano nel 1892, Merloni fu fervente esponente dell’ala riformista del partito fondato da Turati. Dopo un’attiva militanza nella sua Cesena, dove era nato nel 1873, alternata all’attività di pubblicista per «Critica Sociale» e «Avanti!», negli anni della polarizzazione tra repubblicani e socialisti, Merloni riuscì ad arrivare a Montecitorio con le elezioni del 1913 candidandosi nel Collegio di Grosseto (dove si era presentato già nel 1909 e dove si trasferì negli anni della Prima guerra mondiale) avendo la meglio contro il repubblicano Pio Viazzi e l’avvocato costituzionale Arturo Pallini. Quelle del 1913 furono le prime elezioni a suffragio universale maschile e le prime in cui il collegio fu strappato ai repubblicani. Merloni trionferà ancora nella Circoscrizione Siena-Arezzo-Grosseto con le elezioni generali del 1919 ottenendo circa 16 mila voti di preferenza, capolista nella graduatoria dei cinque socialisti eletti[5]. Una elezione a grandi voti, che sembrerebbe premiare il suo impegno e attivismo per la Maremma, comprese le sue miniere per le quali si era battuto all’alba dell’entrata in guerra dell’Italia.

L’attenzione di Merloni a difesa delle miniere maremmane viene menzionata ne I minatori della Maremma[6], il libro-inchiesta di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, in riferimento alla decisione del Governo Salandra di vietare l’esportazione delle piriti di ferro, adottata con decreto del 5 gennaio 1915, una decisione che sembrava rispondere più a pressioni inglesi che a reali esigenze economiche. L’atto era il Regio Decreto 27 dicembre 1914, n. 1415, pubblicato il 4 gennaio del 1915, col quale veniva esteso a piriti, ematite ed altri minerali di ferro, ghisa anche in getti il divieto di esportazione già introdotto con i Regi Decreti 1° agosto 1914 n. 758, 6 agosto 1914 n. 790, 28 ottobre  1914 n. 1186 e 22 novembre 1914 n. 1278; all’art. 2 si precisava che il decreto avrebbe avuto effetto dal giorno successivo a quello della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e sarebbe stato presentato al Parlamento per la sua conversione in legge[7].

La stampa locale – soprattutto di matrice socialista – riportò pedissequamente questo attivismo che si inseriva all’interno del dibattito sul futuro dell’Italia rispetto alla guerra in corso: la prima pagina del settimanale socialista «Il Risveglio»[8] del 7 febbraio 1915 anticipava che il rappresentante locale alla Camera, da circa un mese, stesse lavorando alacremente presso le autorità competenti per impedire il divieto delle esportazioni di piriti, alla luce dei danni che un provvedimento di tale natura avrebbe arrecato per l’industria mineraria e per le condizioni lavorative di migliaia di lavoratori del sottosuolo. La trattazione dettagliata fu riportata a partire dal numero successivo[9], precisando che più di un mese prima (appunto, il 5 gennaio) il Governo, senza anticipazioni né discussioni di alcuna sorta, aveva emanato un decreto col quale vietava in modo assoluto l’esportazione di piriti di ferro. Il provvedimento si presentava come una profonda minaccia rispetto alla produzione mineraria della Maremma visto che la produzione normale delle piriti era «superiore notevolmente al fabbisogno nazionale, e trova(va) uno sfogo importante precisamente nell’esportazione.»[10]

Il territorio delle Colline Metallifere rappresentava, infatti, un importantissimo bacino minerario già dai primi decenni del ‘900 come dimostra anche il fatto che a Massa Marittima venne costituita, il 27 aprile 1902, la Federazione nazionale dei minatori, definitivamente strutturatasi poi nell’agosto del 1903. Le miniere già dagli ultimi decenni del XIX secolo erano state oggetto di interesse di finanzieri e uomini d’affari europei mentre lo Stato unitario aveva manifestato difficoltà nell’allestire una propria industria pesante: la conseguenza fu inizialmente lo scarso piazzamento del minerale maremmano nel mercato interno, trovando invece più fiorenti lidi nei mercati inglesi, francesi e anche tedeschi, almeno fino agli anni ’90. Il prodotto maremmano non ricopriva un ruolo privilegiato, ma fungeva solo da “tappabuche” quando non erano sufficienti gli approvvigionamenti nazionali[11]. Erano poche le miniere che potevano vantare una continuità produttiva, le uniche erano le miniere cuprifere di Fenice Capanne Massetana e di Capanne Vecchie e la miniera di lignite di Montemassi-Casteani, conosciuta come la miniera di Ribolla. Il grande salto per l’industria chimica fu compiuto con la scoperta della possibilità di produzione dell’acido solforico dalla pirite[12] di cui il sottosuolo maremmano era particolarmente ricco: alla vigilia dell’entrata in guerra, quando mesi di conflitto europeo avevano portato alle stelle il prezzo dei minerali, erano attive 6 miniere piritifere (tra cui Boccheggiano, Gavorrano e Ravi, nella duplice gestione della Montecatini e della Marchi) con una produzione complessiva annua di circa 270.000 tonnellate[13]. La battaglia politica di Merloni si inserì in questo quadro animato dallo sviluppo della produzione mineraria e dalla nascita del proletariato minerario che iniziava a presentarsi come classe operaia nuova.

Il Risveglio, 14 febbraio 1915

Il Risveglio, 14 febbraio 1915

Nello stesso articolo sopra citato de «Il Risveglio» del 14 febbraio 1915, si precisava che Merloni, venuto a sapere dei gravi danni che un tale decreto avrebbe cagionato alle miniere della Maremma, si era recato al Ministero delle Finanze e al Ministero degli Esteri, accompagnando l’Ing. Donegani, consigliere delegato della società Montecatini, per portare sul tavolo i dati della produzione, a dimostrazione della infondatezza della misura adottata: lo stesso Governo di fronte a tale testimonianza dovette rivedere la sua decisione, ammettendo che «la ragione del divieto era sostanzialmente di carattere internazionale.»[14]

Merloni – continuava l’articolo – si era prodigato quindi presso il Ministero degli Esteri affinché si risolvessero i problemi internazionali e alla fine ebbe successo, ottenendo la revoca del decreto: le piriti non erano esportate in alcun paese belligerante per scopi militari, bensì per attività industriali (Germania e Austria – così si legge – avrebbero potuto andare avanti con la propria produzione anche se la guerra fosse durata venti anni), e pertanto fu garantito alle piriti lo stesso trattamento riconosciuto allo zolfo e altre materie industriali. Merloni tenne le trattative con il Ministro delle Finanze Daneo, con il sottosegretario Baslini, presidente della Commissione per le esportazioni, con Luciolli, direttore generale delle Dogane, e col Conte Manzoni, rappresentante del Ministero degli Esteri: la richiesta fu quella di avviare un confronto con i Governi esteri accordando l’esportazione di circa 100.000 tonnellate nel corso del 1915. La stessa negoziazione delle piriti di ferro interessava, peraltro, anche lo scambio di prodotti e materie necessarie ad alcune industrie italiane.

«Il Risveglio» colse l’occasione per evidenziare come l’opera di Merloni fosse stata, altresì, in grado di evitare sommovimenti da parte del proletariato maremmano che avrebbe potuto far sentire la propria voce alla pari di quanto avevano fatto i siciliani per lo zolfo: lo stesso Merloni, pur disponibile a promuovere un’agitazione da parte dell’intera deputazione toscana, non aveva inizialmente coinvolto gli operai, convinto dell’esito positivo della sua azione politica, limitandosi, in occasione di una visita in Maremma ai primi di gennaio, ad avvertire il prefetto di Grosseto affinché si prodigasse anche lui stesso con il Governo per ottenere la revoca.

L’operato di Merloni a favore dei minatori della Maremma venne riportato anche da un articolo su «Etruria Nuova»[15], conferendovi però una lettura politica di matrice repubblicana, tesa a minimizzare il suo operato. Lo scontro politico prendeva la forma del botta e risposta nella stampa locale.

La rimostranza de «Il Risveglio» non tardò a farsi sentire, attribuendo alla stampa repubblicana una lettura frettolosa e foriera di errori[16]. Si riportava letteralmente: «Essa dice: l’on. Merloni interessandosi e riuscendo ad ottenere il nulla osta per l’esportazione delle piriti all’estero prolunga – nientemeno! – il macello della guerra, vien meno ai neutralissimi ordini del P.S.I. e favorisce il lupo famelico Guglielmone, il solo soddisfatto dell’opera di Merloni». Il giornale socialista puntualizzava che la pirite non veniva impiegata per usi militari, così chiosando: «Tenuto poi conto che la pirite verrebbe poi data in cambio di taluni prodotti e materie necessari all’industria italiana, il tutto si riduce ad una utilità per noi e per gli altri, senza pregiudizio dei risultati della guerra. Utilità soprattutto per i poveri minatori della nostra provincia, i quali si sarebbero trovati sul lastrico senza pane se invece dell’on. Merloni, un deputato repubblicano avesse sostenuto le intervenzionistiche idee dell’Etruria. Ma per fortuna ci pensarono a tempo opportuno!»

CREDITS: https://www.museidimaremma.it/

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Iniziava così una serie di provocazioni tra le due riviste: la settimana successiva[17] «Il Risveglio» attaccò la voce di un minatore uscito su «Etruria Nuova» il quale aveva negato che l’operato di Merloni avesse sortito effetti positivi per le miniere maremmane, sostenendo che non fossero mai state fatte esportazioni verso l’estero. La rivista socialista della provincia di Grosseto lo tacciò di interventismo a favore della Triplice Intesa, in linea con l’orientamento repubblicano-irredentista. A rispondere punto per punto all’intervento del minatore sul giornale repubblicano fu “E. Z.” – firma che farebbe pensare a Egisto o Emilio Zannerini, entrambi socialisti – citando i “vapori col ventre ricolmo dei nostri prodotti minerari” che partivano da Follonica per poter smaltire la sovrapproduzione nazionale. Si respingeva ancora una volta l’accusa che la pirite fosse utilizzata dalla Germania per scopi bellici sostenendo che l’utilizzo che ne veniva fatto era per la produzione di concimi chimici utili per la fertilizzazione dei terreni, aggiungendo che sarebbe stato paradossale che una potenza militare come la Germania attendesse di fatto la pirite italiana per produrre esplosivi. La posizione dell’autore era chiara: l’opera di Merloni era stata mossa dalla volontà di tutelare gli operai delle miniere grossetane, i quali avrebbero risentito delle conseguenze del decreto in termini occupazionali e quindi sociali, ma, allo stesso tempo, si riconosceva che di tale azione ne beneficiarono anche i capitalisti che potevano andare avanti con il loro profitto, ricavato dalla produzione.

La battaglia condotta da Merloni per le miniere maremmane dalla stampa locale passò poi all’Aula parlamentare, in occasione della discussione sulla proposta di legge avanzata dal Presidente Salandra “Provvedimenti per la difesa economica e militare dello Stato” (poi legge n. 273, del 21 marzo 1915).

La seduta era quella del 14 marzo 1915[18] e il disegno di legge – come già anticipato – risultava preceduto da una serie di decreti emanati in merito a divieti di esportazione, al commercio di transito e relative norme. L’intervento di Merloni prese le mosse da quello precedentemente proferito dal collega deputato Eugenio Chiesa, repubblicano eletto nella circoscrizione di Massa e Carrara, che nell’accusare il Governo di aver favorito, con i provvedimenti di difesa economica adottati negli ultimi mesi, il traffico dei permessi di esportazione – definito “esportazione dolosa” dal disegno di legge in esame e da Chiesa “grande contrabbando” –, da una parte paventava rischi per l’approvvigionamento del Paese e dall’altra un rialzo generale dei prezzi di consumo e un esodo ingente di tali merci verso l’estero[19]. Dopo le critiche rivolte al Governo, Chiesa procedette con il riferirsi ad un caso specifico che annoverava tra gli episodi deprecabili in cui – si legge nel resoconto – «un deputato può operare più a servizio di un industriale che a tutela del proprio popolo». Chiesa non citò esplicitamente il nome del deputato ma precisò che egli si era prodigato per impedire il divieto di esportazione delle piriti di ferro. Così viene riportato nel resoconto stenografico della seduta:

 «Ora le piriti di ferro hanno un solo concessionario tedesco, per acquirente, un tale Lippmann Bloch di Breslavia; e sono destinate alle diverse fabbriche di prodotti chimici. È una innocente dizione che nasconde le fabbriche d’esplosivi. Ma guardate: queste piriti si pagano 60 centesimi per unità di zolfo e cioè circa 30 lire per tonnellata; 25 lire ci vogliono per farle arrivare al confine; altrettanto dal confine alle fabbriche, e troverete che queste piriti verranno a costare in fabbrica circa 85 lire a tonnellata. Un prezzo enorme, e da ciò si deduce che l’uso di dette piriti in Germania deve essere di primissima necessità per il momento attuale. E 70 mila tonnellate di piriti sono partite negli ultimi mesi. Ora, e questo sia detto per il Governo, soltanto il 5 gennaio fu emanato il divieto di esportazione e sta bene. Ma, onorevole Baslini, perché dopo l’avete tolto?»

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Chiesa accusava il Governo di aver tolto tale divieto il 13 febbraio: la ragione addotta dal Governo era la remunerazione derivante dall’esportazione a favore delle industrie nazionali, mentre il deputato repubblicano sosteneva che il consumo interno avrebbe potuto essere tale da coprire facilmente la produzione; nel sostenere ciò, Chiesa faceva cadere il sospetto anche su uno scambio di carbone e piombo tra Italia e Germania, sottolineando che il carbone tedesco non avrebbe potuto competere con quello inglese, dichiarazione che manifestava una palese attenzione rivolta all’Inghilterra anche sotto l’aspetto economico.

Rispetto alla caustica citazione chiese di intervenire proprio Merloni, che sull’argomento non era mai uscito pubblicamente, dichiarando subito di aver agito nell’interesse di migliaia di operai della Maremma. Così si legge nel resoconto della seduta:

«La Germania è poi produttrice di pirite di ferro in misura tale, dato che queste piriti di ferro, con l’estrazione dello zolfo e la produzione dell’acido solforico, potessero servire anche per usi militari, da essere largamente provveduta a tale scopo, niente meno che per moltissimi anni. Ed è quindi provato che tanto lo zolfo (ed io assumo volentieri anche la difesa della libera esportazione dello zolfo, per i colleghi siciliani e per i minatori della Sicilia) quanto l’esportazione delle piriti di ferro, non servono ora ad altro che ad uso industriale. Se si volesse chiudere la porta di uscita alle merci che servono alla Germania per uso industriale, non ci si dovrebbe limitare arbitrariamente a questo o a quel prodotto, ma occorrerebbe logicamente ed equitativamente estendere il divieto a tutti quanti gli altri prodotti che servono all’industria tedesca come alle industrie di altri Paesi. (…) Se dunque, come vi dicevo, la Germania è provveduta per i suoi usi militari per molti anni, data la sua cospicua produzione di piriti di ferro, data la libera esportazione dello zolfo dall’Italia, con quale fondamento si dovrebbe ritenere che l’esportazione di una certa quantità di piriti di ferro, necessaria per mantenere nel suo equilibrio attuale una importante industria italiana, la più importante industria della Maremma, che dà lavoro ad alcune migliaia di operai, sia proprio quella che giova agli usi militari della Germania, già esaurientemente assicurati?»

 Le cifre della produzione mineraria della Maremma sembrerebbero dare ragione alla battaglia di Merloni: la produzione di piriti di ferro ammontava a 245.200 tonnellate nel 1914 aumentate a 270.845 nel 1915; gli operai impiegati nelle miniere erano 1.485 nel 1914 e 1.418 nel 1915[20]. Se andiamo a confrontare i dati della produzione a livello nazionale – rispettivamente 335.531 e 327.707 tonnellate – si comprende come le miniere di pirite di ferro della Maremma fossero fondamentali per l’economia del Paese.

Il deputato socialista passò poi ad una sorta di excursus rispetto alla misura che il Governo aveva adottato, sollecitando quest’ultimo anche a concludere le trattative commerciali:

 «C’è stato un tempo (ed è questa, onorevole Chiesa, l’origine prima del divieto della esportazione delle piriti), nel quale uno Stato – non occorre scendere a particolari – aveva creduto che questa esportazione potesse realmente servire a un paese belligerante per usi militari, e se n’era allarmato. Orbene, onorevole Chiesa, quello stesso Governo estero, dopo venti giorni, si ricredette e lasciò chiaramente intendere che non 100 mila, ma 200 mila tonnellate di piriti di ferro avrebbe lasciato che si fossero esportate liberamente in Germania od in qualunque altro paese. E se il nostro Governo credette ciò non di meno, dopo avere tolto il divieto, di mantenerlo ancora temporaneamente, si fu soltanto per fare delle piriti di ferro un oggetto di contrattazione di scambi con altri Stati, così come per altre numerose merci. E così è dimostrato anche che è inesatto parlare di divieto dell’esportazione delle piriti di ferro, perché il Comitato delle esportazioni deliberò alla unanimità di ammettere le piriti di ferro all’esportazione, condizionatamente a detti cambi. Ora, pertanto i lavoratori di Maremma attendono fiduciosi che si giunga presto ad una soluzione favorevole di codeste negoziazioni, per evitare ad essi un sacrificio grave, che non gioverebbe ad alcuno, che non sarebbe in nessuna guisa giustificato, come non sarebbe giustificato un provvedimento somigliante, supponiamo, contro l’industria zolfifera siciliana. Ma la prova irrefutabile decisiva è quella data da quel Governo estero, che ora ho ricordato. Ora è strano che l’onorevole Chiesa, ardente repubblicano, sia ancora più realista del re, intendo dire del Re … d’Inghilterra».

Prima pagina del resoconto parlamentare

Prima pagina del resoconto parlamentare

La discussione svoltasi in Aula diventò oggetto di resoconto sulla stampa socialista: si veda, ad esempio, «Avanti!» che nelle Note alla seduta[21], dopo aver sottolineato l’approvazione ottenuta dal deputato grossetano da parte dei colleghi in Aula, ipotizzava che Chiesa avesse trasposto alla Camera una polemica elettorale dei repubblicani in Maremma, «i quali pure di combattere l’opera dell’onorevole Merloni che si svolge sempre più importante ed efficace a vantaggio del proletariato maremmano e dell’intero partito non si sono avveduti che ferivano – sconsigliatamente sprovvisti di ogni ragione che ha dimostrato luminosamente oggi alla Camera il valoroso deputato di Grosseto – tanto l’interesse della Maremma quanto quelli dei minatori»[22].

Tale clima emergeva in modo ancora più evidente nelle pagine de «Il Risveglio» e «Etruria Nuova».

Così il settimanale locale socialista il 21 marzo[23], inserendo in prima pagina un articolo sull’intervento dell’on. Chiesa, scriveva:

«Nessun altro, all’infuori dell’on. Eugenio Chiesa, poteva aderire all’invito dei repubblicani maremmani, di portare cioè alla Camera – sotto lo specioso pretesto del contrabbando – la revoca al divieto delle piriti ottenuta con tanto successo dall’on. Merloni. Solo questo burattinaio della sconquassata repubblica italiana, questo novello Pirocorvo della Camera (…); questo istrione soltanto, diciamo, poteva prestarsi al giuoco dei suoi degni amici maremmani, per tentare con un mezzo vile un intento più vile ancora». E ancora: «Ma il generale applauso con cui fu salutata l’energica e fiera riposta dell’onorevole Merloni, deve avere annichilito l’onorevole Chiesa, il quale, sotto le invettive di tutti i deputati socialisti non trovò più la forza di replicare una parola. Dal resoconto stesso della Tribuna, giornale non sospetto, si può rilevare con quanta competenza l’on. Chiesa trattasse la questione delle piriti, che egli ignorava perfino a quale uso servissero!»[24]

In un articolo successivo della stessa edizione[25] si riprendeva la discussione portandola sul piano dello scontro politico, puntando a sottolineare come le forze repubblicane si stessero affievolendo in provincia, finendo così col cercare ogni espediente per attaccare l’avversario. «Etruria Nuova» aveva risposto prima con la lettera del minatore, poi con quella dello spettatore e con una nota della redazione, in cui si definiva Merloni “l’on. procaccione”. Nel rispondere alla nota redazionale repubblicana, la rivista socialista precisava che era vero che le miniere di Ravi, Boccheggiano, Gavorrano e Montieri non potevano produrre più di 20.000 tonnellate al mese, ma ribadiva anche che il fabbisogno nazionale ammontava a solo 10.000 tonnellate; inoltre, la Germania richiedeva una certa qualità della pirite proprio per destinarla ai concimi, come più volte evidenziato.

CREDITS: https://www.museidimaremma.it/

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La settimana successiva «Il Risveglio», dopo aver riportato il resoconto stenografico dell’intervento di Merloni[26], inserì come chiosa[27] la riposta che Merloni aveva inviato al «Popolo d’Italia» in data 25 marzo 1915 rispetto a una lettera firmata “Un Ingegnere di turno”. Gli argomenti riportati erano precisazioni rispetto all’intervento fatto in Aula, in risposta alle supposizioni poste dall’anonimo: Merloni ribadiva che il principale uso che veniva fatto dell’acido solforico era per scopi industriali e che la produzione delle piriti di ferro in Germania, che nel 1912 fu di 262.000 tonnellate, avrebbe potuto bastare per anni a coprire il fabbisogno tedesco per usi militari. Anche nella lettera Merloni ripercorse la storia dei provvedimenti e delle loro ragioni, di natura internazionale:

 «Se un divieto ci fu, questo avvenne, come feci intendere alla Camera, in seguito…all’opinione manifestata da una potenza belligerante che l’esportazione delle piriti e dello zolfo in Germania potesse abbisognare colà per usi militari; ma ciò fu contraddetto coi dati alla mano dal nostro Governo, il quale tuttavia se lasciò in pace lo zolfo trattenne le piriti; (…) Quella potenza si persuase però sollecitamente del suo errore; e allora il Comitato delle Esportazioni presso il Ministero delle Finanze, che io, edotto dei dati e delle ragioni dell’Amministrazione dello Stato, avevo più volte premurato a che fosse evitata la disoccupazione delle miniere della Maremma, diede unanime approvazione alla esportazione delle piriti secondo i quantitativi richiesti»

 Nello stesso numero[28] si riportò altresì una critica verso le esternazioni che i repubblicani avevano fatto nelle pagine di «Etruria Nuova», tanto da arrivare a sostenere che il divieto di esportazione non vi fosse mai stato e che quello di Merloni fosse un vero e proprio bluff. Il tono de «Il Risveglio» fu granitico e sagace, criticando proprio il metodo e la strategia utilizzati dai repubblicani che prima avevano accusato a lungo Merloni di aver fatto revocare il decreto per poi appellarsi alla inesistenza stessa del provvedimento.

La produzione mineraria, in ogni modo, era salva. Dopo circa un mese l’Italia avrebbe firmato il Patto di Londra, dichiarando di fatto guerra all’Austria e dopo un anno anche alla Germania.

NOTE

[1] Cfr. Labanca, N. (sotto la direzione di), Dizionario storico della Prima guerra mondiale, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2014, p. 54.

[2] Si veda anche Bruccoleri G., Il commercio dell’Italia coll’estero nel periodo della sua neutralità, «Giornale degli Economisti e Rivista di Statistica», Serie terza, vol. 51 (Anno 26), n. 6 (dicembre 1915), pp. 443-462.

[3] Cfr. Labanca, p. XIV.

[4] Isnenghi, M., Rochat, G., La grande guerra. 1914-1918, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 100.

[5] Cfr.  Quaglino A.A., Chi sono i deputati socialisti della XXV legislatura (156 biografie), Torino 1919, ad nomen, p. 82.

[6] Bianciardi L., Cassola C., I minatori della Maremma, Minimum fax, Roma, 2019, p. 106.

[7] Cfr. Gazzetta Ufficiale, n. 2 del 4 gennaio 1915.

[8] L’interessamento dell’on. Merloni per i minatori, «Il Risveglio», n. 6, 7 febbraio 1915.

[9] L’on. Merloni per i minatori della Maremma. L’opera efficace del nostro deputato contro il divieto della esportazione delle piriti, «Il Risveglio», n. 7, 14 febbraio 1915. Nello stesso numero si riportava un breve editoriale firmato da Merloni con il quale si evidenziavano i problemi derivati dalle esportazioni e dal rialzo dei prezzi dei beni alimentari, in primis grano e altri alimenti. Si precisava, tuttavia, che l’editoriale era stato scritto molto tempo prima che il Governo decretasse il divieto assoluto dell’esportazione dei generi di consumo di prima necessità.

[10] Ibidem.

[11] Cfr. Tognarini, I. (a cura di), Siderurgia e miniere in Maremma tra ‘500 e ‘900. Archeologia industriale e storia del movimento operaio, All’insegna del Giglio, Firenze, 1984, p. 166. Si veda anche Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie contadine nel Grossetano, Ediesse, Roma, 1988.

[12] Cfr. Rapporti annuali sulle lavorazioni minerarie di Gavorrano e zone limitrofe tratti dalle relazioni sul servizio minerario, Corpo delle miniere, Distretto di Grosseto, anno 1903.

[13] Cfr. Tognarini I., p. 168. Nella relazione del servizio minerario del 1914 si indicano 5 miniere produttive e 1 miniera non produttiva, cfr. Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Ispettorato delle miniere, Rivista del servizio minerario nel 1914, Istituto Italiano d’arti grafiche, Bergamo, 1915, pp. XXX-XXXI.

[14] Cfr. L’on. Merloni per i minatori della Maremma

[15] Non è stato possibile consultare i numeri del 1915 a causa di indisponibilità tecnica.

[16] Già: per la storia!, «Il Risveglio», n. 8, 21 febbraio 1915.

[17] A quel tal «minatore…», «Il Risveglio», n. 9, 28 febbraio 1915.

[18] Resoconto stenografico seduta del 14 marzo 1915 della Camera dei deputati.

[19] Dall’intervento dell’on. Chiesa riportato nel resoconto stenografico della seduta: «Nei corridoi si era diffusa per gli ingenui la leggenda che ora si sarebbe discusso e votato questo progetto per ‘la difesa dello Stato, e che poi il Governo avrebbe annunziato le supreme decisioni sulla politica internazionale’ del nostro paese, e, chiusa la Camera, si sarebbe avuta la mobilitazione e la guerra. Ma forse il momento non è ancora venuto per questo».

[20] Cfr. Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Ispettorato delle miniere, Rivista del servizio minerario nel 1914, Istituto Italiano d’arti grafiche, Bergamo, 1915, pp. XXX-XXXI e Ministero dell’Agricoltura, Rivista del servizio minerario nel 1915, Tipografia Nazionale Bertero, Roma 1917, pp. XXVI-XXVII.

[21] Note alla seduta, «Avanti!», n. 74 del 15 marzo 1915.

[22] Ibidem.

[23] Il burattinaio, «Il Risveglio», n. 12, 21 marzo 1915.

[24] Ibidem.

[25] La pirite, i repubblicani e il resto, «Il Risveglio», n. 12, 21 marzo 1915.

[26] L’on. Merloni per i minatori e gli interessi della Maremma. La risposta del nostro Deputato all’on. Chiesa, «Il Risveglio», n. 13, 28 marzo 1915.

[27] Una lettera dell’on. Merloni al «Popolo d’Italia», «Il Risveglio», n. 13, 28 marzo 1915.

[28] A proposito della pirite, dei repubblicani, dell’on. Chiesa ed il resto, «Il Risveglio», n. 13, 28 marzo 1915.




La mostra “Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento”

Una mostra sul Pci a Livorno. Perché siamo nel centenario? Anche. Perché è stato il partito egemone nella città e nella provincia di Livorno fino ed oltre il suo scioglimento? Certamente. Perché è stato uno dei protagonisti della vicenda politica, sociale e culturale del secolo scorso, e non solo nel panorama italiano? Di sicuro.

Ma anche per altre ragioni, intrinseche al ruolo e agli scopi di un Istituto come l’Istoreco.  Al primo posto metterei la conservazione e la cura del patrimonio documentale di un partito politico. Custodia e cura che non potevano però prescindere dalla sensibilità di alcuni dei suoi protagonisti. Mi riferisco in particolare all’ex segretario di federazione dei DS, Marco Ruggeri, che ci affidò l’archivio della Federazione molti anni or sono. Perché le carte che raccontano una storia non vanno solo prodotte, vanno anche conservate e, quando è possibile, anche affidate ad istituti od enti terzi, penso ad istituti come il nostro o agli stessi archivi di Stato provinciali, che le possono valorizzare e che sono capaci di renderle disponibili a tutti per la ricerca e la consultazione. Lo stadio successivo della loro conservazione è svilupparne le potenzialità, digitalizzarle e renderle fruibili al pubblico più vasto tramite la rete. Sono operazioni che richiedono competenze specifiche, passione, e risorse economiche, ma non ultimo anche armadi idonei alla conservazione.

L’Istoreco di Livorno ha fatto una parte di questo cammino grazie all’aiuto di molti, soprattutto della Regione Toscana e della Fondazione Gramsci di Roma, appoggiato in questa operazione dalla sensibilità della Sovrintendenza archivistica della Toscana.

Il centenario ci ha indotto a proporre una Mostra che rappresenta in sintesi una specie di percorso di lettura dentro gli anni che vanno dal 1944 al 1991, cioè dalla Liberazione della città labronica allo scioglimento di quella compagine politica. Il nostro archivio conserva anche carte successive a quel periodo, relative alle successive evoluzioni di quella compagine politica. Ma abbiamo deciso di dedicarci alla componente più omogena del nostro deposito. Quello che viene dopo è un’altra storia.

E così abbiamo deciso di organizzare questa proposta proprio nell’anno dell’anniversario. Poiché il 1921, l’anno della fondazione del Pcd’I, partito fondato fra l’altro, e non è del tutto casuale, proprio nella città di Livorno, questa operazione c’è apparsa ancora più appropriata.

Abbiamo optato per questo mezzo comunicativo che ha dei limiti enormi. Il primo immediatamente evidente a chiunque, è l’impossibilità di proporre un approfondimento, un percorso critico ben sviluppato e appoggiato alla enorme bibliografia esistente, ma che ha pure il vantaggio assolutamente non trascurabile di diventare una narrazione facile da comprendere, emozionante, ma anche ricca di dettagli. Del resto l’Istoreco, in questo anno reso difficile dal Covid ha organizzato significativi momenti seminariali di approfondimento[1], prodotto e pubblicato un volume su una figura di assoluto rilievo, come quella di Bruno Bernini[2], presentato volumi su questa storia.[3] Non solo. Sta organizzando da adesso alla fine dell’anno, altri appuntamenti, diciamo più tradizionali, per riflettere insieme agli addetti ai lavori, su quella vicenda. Appuntamenti nei quali dare la preminenza all’indagine storiografica e alle ultime acquisizioni della ricerca.

Ma la decisione di ricorrere ad una Mostra, cioè ad un mezzo che fosse ricco di immagini, di fotografie di militanti che potessero ancora oggi riconoscersi, di documenti di archivio come volantini e manifesti, legati alla storia del Pci ma anche alla storia di questa città, c’è apparso il mezzo più immediato, quello più suggestivo, ma anche in qualche modo anche quello più democratico, che provasse ad avvicinare tutti, gli esperti ed i giovani estranei a quella vicenda, i vecchi militanti e gli indifferenti, perché quella vicenda prendesse l’aspetto della vita vissuta, prendesse la forma dei volti e dei corpi che occupavano le piazze, che lanciavano slogan, che discutevano nelle sezioni.

Appena ci siamo messi in cammino per la sua realizzazione, realizzazione per la quale abbiamo trovato talvolta anche aiuti insperati, siamo stati avvicinati da due fotografi-militanti o militanti-fotografi (Roberto Leonardi e Antonio Brugnoli) che hanno arricchito la nostra proposta mettendoci a disposizione la loro raccolta iconografica.

Una Mostra, come è ovvio e, come ha scritto anche con senso poetico, l’assessore alla Cultura di Livorno, Simone Lenzi, è anche un’operazione che si caratterizza per leggerezza[4]. Ma sempre seguendo il suo ragionamento, accanto alla leggerezza del linguaggio, si accosta la pesantezza del contenitore, dei containers. Simbolo per eccellenza del lavoro in una città che è stata sempre ancorata al porto e a tutte le attività che si svolgono sulle sue banchine. Non casualmente l’appoggio più significativo l’abbiamo trovato proprio fra i soggetti che vivono e lavorano sul porto. Ma la Mostra non si sarebbe realizzata senza la compartecipazione generosa del Comune di Livorno. Quindi il nostro è il risultato di uno sforzo collettivo, di privato e pubblico, di istituzionale e personale. Tutti insieme, noi che ci abbiamo lavorato, chi ci ha dato un contributo in lavoro e mezzi, chi in denaro, a tutti quei volontari che si sono messi a disposizione per abbassare i costi dell’allestimento, va il nostro più sentito ringraziamento. L’operazione però cosa ci insegna? Che li singoli, i soggetti economici e istituzionali, sono stati disponibili, ad affiancare un’operazione di questo tipo perché hanno compreso che era una operazione culturale, con nessun retro pensiero nostalgico, né tantomeno una laudatio temporis acti, ma una iniziativa che voleva innescare una discussione sul nostro passato e sul nostro presente. Un presente così deficitario dal punto di vista politico, nel quale ognuno di noi, ogni cittadino democratico, avrebbe piacere di ritrovare un filo rosso che capace di proporre un progetto di futuro, un orizzonte di convivenza civile meno violento e più solidale, da tutti i punti di vista. E che dentro questo progetto ci sia uno sguardo e un impegno per ridare piena dignità al mondo del lavoro, quel lavoro così pesantemente attaccato dalla precarietà e dalla insicurezza, spesso incapace anche di riportare a fine turno, la vita, a casa.

E proprio perché questo ragionamento che sottostà in gran parte alla nostra proposta, abbiamo aperto la mostra proprio sul tema del Lavoro scrivendo:

“Non c’è agitazione industriale che non sia accompagnata dalla solidarietà delle organizzazioni di Partito e dall’intervento delle amministrazioni locali, governate da Pci, per una soluzione della vertenza, per il superamento della crisi. Come a dire: la piazza e la mediazione politica. Non sempre, come è ovvio, l’intervento e le agitazioni operaie e sindacali sono sufficienti a superare tutti gli scogli. Spesso le decisioni vengono prese altrove, in luoghi di potere lontani dall’influenza che quella compagine può esercitare.” L’altrove di adesso spesso è in un altro continente o in una Holding senza testa, apparentemente, perlomeno. Nelle nostre immagini sfilano migliaia di partecipanti in difesa dei diritti di chi lavora, dal Cantiere, alla Spica, dal Porto alla Motofides, dal lavoro nelle campagne alla denuncia del doppio lavoro delle donne.

Nella Mostra subito dopo il tema del Lavoro abbiamo messo la sezione sulle Battaglie civili, quelle battaglie che spesso non sono rappresentabili con facilità con una foto o  uno slogan, ma sono quelle nelle quali si sono realizzate le alleanze migliori. Per la riforma agraria, per una sanità pubblica, per il diritto di famiglia o la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Quelle battaglie che hanno reso più civile il nostro Paese, anche quelle dove il Pci non si è trovato in prima linea, pensiamo alla Statuto dei lavoratori che fu approvato con l’astensione dei suoi rappresentanti. Ma pensiamo anche a come in Toscana, a partire da Arezzo, Lucca, Volterra, si è combattuta quella grande battaglia civile per la chiusura dei manicomi o per il trionfo della legge sul divorzio e sull’aborto.

La sezione Vita di Partito, possiamo dire è quella più interna alle vicende di quel grande corpo sociale organizzato che fu il Pci.  Abbiamo scritto:

“Dalle grandi assisi con il ritratto di Stalin e di Togliatti che campeggiano su tutto, alle fotografie degli anni Settanta con le ragazze con i pantaloni a zampa d’elefante, con i volti degli uomini e delle donne meno austeri e più pieni (la fame dell’immediato secondo dopoguerra è solo un ricordo lontano).Le scuole di partito organizzate con poche cerimonie ma con molta partecipazione per una base di militanti e di quadri con un basso livello scolastico ma che dimostra un forte desiderio di conoscenza fino alle immagini più leggere che testimoniano un’idea di partecipazione diversa, l’emergere della dimensione del privato, di un impegno meno totalizzante rispetto a quello degli anni Cinquanta.”

Il mondo cambiava e cambiava anche il Pci dentro quell’Italia che aveva cominciato ad andare di corsa.

La sezione sulle Feste de l’Unità, è a nostro parere, quella più allegra e partecipata. Immagini di uomini e di donne che con orgoglio e caparbietà, rinunciando anche alle ferie, lavorano per costruire gli stands, per riempirli di persone, per proporre una immagine di sé e del partito, che incarnano l’idea di essere una grande forza di massa, partecipata e organizzata. Una vetrina per il mondo che sta intorno, per gli amici e i nemici. É anche la sezione dove emergono con forza, anche se non la sola, alcuni dei bellissimi manifesti disegnati dal grafico della Federazione livornese, Oriano Niccolai.[5] Un grande anche nel panorama nazionale.

La Mostra continua con altre due sezioni: quella sulla Pace e la questione internazionale e quella sullo Sport che chiude il nostro allestimento. Proviamo a soffermarci sulla prima che in questo momento, con le terribili notizie che provengono dall’Afghanistan, è di una attualità sconcertante. Poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale, si aprirono altri scenari di guerra: la Corea, la guerra civile in Grecia, l’Indocina, i movimenti di liberazione negli ex paesi coloniali etc etc. Non solo. Gli uomini e le donne usciti salvi dalla guerra temevano più di tutto le armi atomiche. Il ricordo di Hiroshima e Nagasaki era evidentemente ancora vivo nei loro cuori e nelle loro teste per non destare preoccupazione. Ed era un sentimento che si rafforzava nelle file comuniste con un forte sentimento antiamericano. Quando ci fu l’attacco all’Afghanistan da parte dell’allora Unione Sovietica, non ci furono manifestazioni a favore della pace. Era un mondo bipolare e questa storia ce lo racconta anche nella sua dimensione periferica, quella di una provincia italiana del centro Italia. Ci racconta anche una capacità di mobilitarsi accanto ai popoli in lotta per la libertà, dalla Spagna di Franco all’Algeria del dominio francese, dalla Cuba prima di Castro alla lotta dei Viet-cong. Sicuramente spesso erano articolazioni di una posizione troppo filosovietica ma erano anche, e lo si vide a partire dai carri armati a Praga, l’espressione di un percorso autonomo di solidarietà e di convivenza che perlomeno albergava tra le masse, e non solo fra quelle comuniste. Era un sentimento che si esprimeva anche con gesti concreti di solidarietà, con l’impegno dato in prima persona. Un atteggiamento che raccontava la capacità di aprire le porte dell’accoglienza e rifiutava la logica della costruzione dei muri. Un atteggiamento che non considerava l’altro un “diverso”, uno straniero, ma che lo percepiva soltanto come una persona in difficoltà. Di questi tempi con le sirene di quelli che vorrebbero gettare a mare i richiedenti asilo, questa attitudine all’inclusione, ci manca.

La Mostra poi si chiude con una sezione importante ma anche allegra. La sezione dello Sport. Per rendere omaggio alla città più medagliata d’Italia, Livorno, per rendere omaggio alla rete di attività sportive promosse dall’organizzazione giovanile di quel partito, dalla rete dell’Uisp ai Circoli Arci, ai comitati delle gare remiere. Quella rete che promosse dall’interno di una sezione comunista, quella della Venezia, la Coppa di gara remiera intitolata ad Ilio Barontini, ardente antifascista, fuoruscito in Russia e in Francia, combattente di Spagna e molto altro ancora. Perché lo sport non è un modo qualsiasi di riempire il tempo libero e non ha valore per lo sforzo individuale. Lo sport è condivisione di valori, solidarietà praticata sul campo, impegno e disciplina, vita di comunità. È uno strumento ideale per avvicinare i giovani e coinvolgerli in un impegno a tutto campo; è uno strumento per allontanarli dalla strada in una città fortemente colpita dalla guerra e dai bombardamenti prima, e poi per tenerli lontani dalle suggestioni della droga. Non era e non è poco.

[1] Alcuni percorsi di protagoniste nel Pci: Edda Fagni, con Carla Roncaglia, Presidente Istoreco e Alessandra Mancini autrice del volume, Edda Fagni, L’innovazione pedagogica, Edizioni del Boccale, Livorno, 2010.

[2] Michela Molitierno, Catia Sonetti, La vicenda non comune di un militante comunista, Ets, Pisa, 2020.

[3] Il 14 aprile 2021 abbiamo presentato il volume scritto da Mario Lenzi, O miei compagni. Una testimonianza, Comune di Livorno, Livorno, 2013; il 23 marzo 2021, il volume di Mario Tredici, Gli altri e Ilio Barontini, Ets, Pisa, 2017 eil 17 maggio quello su Bruno Bernini

[4] Simone Lenzi, Prefazione del Catalogo su: Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento, in corso di pubblicazione.

 [5] Rosso creativo. Oriano Niccolai. 50 anni di manifesti, a cura di Margherita Paoletti e Valentina Sorbi, Debatte, Livorno, 2013.




Aspettando la rivoluzione: dai grandi scioperi alla “nascita” del PCdI a Firenze.

L’Italia del 1919-’20: un Paese spaesato, diviso, violento, gravato dal sommarsi di paure diverse e nuove, da consolidata estraneità nei confronti dello Stato, ostilità o indifferenza verso una classe dirigente spesso lontana e impermeabile, da un diffuso antiparlamentarismo, gravato dalla crisi economica, da disagio sociale, segnato dagli effetti di  una pandemia – la Spagnola – e dalle conseguenze del primo conflitto mondiale.

Firenze è parte di questo contesto. Anzi qui semmai le divisioni sono ancora più nette e gravi. La città è dominata da una classe dirigente conservatrice, ostile alla stella politica giolittiana, forte dei domini terrieri, signori dei poderi mezzadrili, detentori del potere politico ed economico. La propria superiorità rispetto ai ceti inferiori è un dato di fatto, una distanza naturale e incolmabile. Per povertà e disagio sociale può esserci solo benevolenza, paternalistiche concessioni, beneficenza. La città è stata interventista, intellettuali e studenti, professionisti si sono mobilitati, del resto proprio Firenze era stata sede della fondazione del movimento nazionalista, dimora di D’Annunzio, frequentata da Marinetti e dai futuristi. Fili ed eredità che si ritrovano nella fioritura di tante associazioni nazionaliste e anticomuniste nel dopoguerra, fra le quali anche un fascio abbastanza debole e precario. Ma è anche città di una crescente classe operaia. Paradossalmente proprio grazie alla guerra.

Firenze non era città di vere grandi fabbriche, se confrontate alla realtà del nord. I maggiori stabilimenti nel primo dopoguerra contano fra i 1000 e 2000 addetti. Ma è città di manifatture, che si radicano nella tradizione artigiana del territorio, pur in assenza di grandi stabilimenti è anche città operaia, frutto di uno sviluppo relativamente recente fra il primo decennio del secolo e gli anni della guerra. Di una classe operaia di tradizione artigiana, fiera del proprio mestiere, del proprio lavoro frutto di arte e conoscenze. Ancora a fine ‘800 la tradizionale dimensione agraria della classe dirigente fiorentina e la volontà di mantenere l’immagine di una Firenze d’arte e cultura avevano limitato lo sviluppo produttivo in una realtà frammentata e dispersa. Solo in età giolittiana ha una prima crescita, ma soprattutto negli anni del primo conflitto mondiale con la mobilitazione bellica degli stabilimenti, ad esempio le Officine Galileo passano dal 1907 al 1917 da circa 200 a circa 2000 addetti.

Una crescita che parallelamente vede l’esplosione di una presenza organizzata del sindacato e del partito socialista.  Nel 1920 il PSI conta oltre 8700 e la Camera del Lavoro oltre 63.000 soci divisi in circa 218 leghe. Una massa arrabbiata per i sacrifici e le scelte della guerra si organizza in una straordinaria rete di associazioni mutualistiche, ricreative, cooperative, accanto a quelle di partito e sindacato, trovando piena espressione nella dirigenza massimalista che ne ha assunto il controllo. Proprio la prospettiva neutralista e l’ostilità verso il conflitto mondiale accrescono i consensi dell’ala più intransigente del Psi fra le masse dei lavoratori già esasperate dalla precarietà e dalla durezza delle proprie condizioni lavorative. Peraltro la componente riformista, nonostante fosse ancora rappresentata da uomini come Giovanni Pieraccini e Giuseppe Pescetti e fosse radicata nelle associazioni economiche, sindacali e cooperative, aveva subito un duro colpo a seguito della svolta intervista di suoi numerosi esponenti, a partire dal direttore del periodico del partito “la Difesa”, Michele Terzaghi, espulso insieme all’on. Carlo Corsi. Tanto che proprio negli anni della prima guerra mondiale Firenze è definita la “capitale dell’intransigentismo”. La città aveva ospitato nel 1917 la Direzione nazionale del Psi che indica il sentimento patriottico come incompatibile con il marxismo e, in novembre, la riunione costitutiva dei gruppi “intransigenti-rivoluzionari” di Lazzari, Serrati, Gramscie Bordiga.

Un ruolo dominante dell’ala massimalista e rivoluzionaria che è ulteriormente rafforzato dal difficile contesto del dopoguerra. Fin dai primi mesi di pace tutte le categorie avanzano rivendicazioni e attuano scioperi. Alla Galileo sono molteplici le rivendicazioni per carovita o obiettivi politici. Centro dei moti per il carovita nel ’19 (con oltre 1400 arresti e oltre 400 persone mandate a processo) ai quali partecipano gli operai che raccolgono il malcontento di una comunità prostrata dal conflitto e dalle scelte governative dell’immediato dopoguerra. Del resto tutta la regione è scossa da tensioni e scontri. Nel 1919-1920 la Toscana è la seconda regione per numero di scioperi agricoli, seconda solo all’Emilia Romagna. I proprietari sono costretti nel corso del ’19 a rivedere le proprie posizioni e a concedere aumenti salariali.

Nel 1920 la situazione precipita. Toscana ed Emilia spiccano per numero di scioperi in un contesto nazionale che vede peraltro il nostro Paese al primo posto a livello europeo nel primo semestre di quell’anno. A gennaio quelli dei postelegrafonici e quindi dei ferrovieri aprono, pure a Firenze, una lunga scia di agitazioni, che vedono emergere sempre più la figura di Spartaco Lavagnini segretario della sezione fiorentina del sindacato ferrovieri. Proseguono le lotte agrarie. Nella primavera scontri prima in Emilia, poi in Toscana provocano vittime fra i lavoratori delle campagne e con scelte dal basso viene proclamato lo sciopero  a Firenze, Piacenza, Bologna e Modena. Dopo mesi di tensioni il 7 agosto 1920 viene firmato il nuovo patto colonico regionale fra agrari e Federterra. Ma la disputa sui patti agrari fra popolari e agrari nell’autunno del ’20 rimette tutto in discussione.

Anche nel mondo dell’industria i fronti contrapposti si muovono, gli industriali si organizzano in proprie associazioni, a maggio nel corso dell’ottavo congresso della FIOM Bruno Buozzi fa approvare un documento che chiede aumenti salariali del 40%, indennità di licenziamento, dodici giorni di ferie pagate all’anno. La CGdL approva i consigli di azienda destinati a tutelare i lavoratori in fabbrica e intervenire nell’organizzazione del lavoro. Per gli industriali è troppo. Contratti, diritti, miglioramenti delle condizioni di lavoro sono pretese inaccettabili in una totale negazione della dignità del lavoratore e del lavoro tanto più offensiva in un territorio come questo segnato da forti tradizioni e culture professionali. Non è solo una questione economica, è ancor prima una questione di rispetto mancato, negato, di riaffermazione di potere, gerarchie, tradizioni. Reazioni consolidate ma che diventano inaccettabili in un momento in cui davvero si vede la rivoluzione scuotere l’Europa. I lavoratori si muovono.

A Firenze il clima è già incandescente. 10 agosto  a Firenze in via Centostelle viene fatta saltare in aria la polveriera di San Gervasio provocando otto morti e molti feriti. 29 agosto comizio socialista a Firenze all’interno della campagna nazionale del partito per chiedere la smobilitazione delle classi di leva ancora sotto le armi, eliminazione della censura sulla stampa, amnistia per i reati di guerra, rapporti politici ed economici con la Russia. Le forze dell’ordine sparano sul corteo dei manifestanti senza adeguato preavviso per fermare una parte del corteo, di giovani, che volevano andare in corso dei Tintori verso la sede della Camera del Lavoro. 4 morti (tre operai e una guardia) e vari feriti. Mentre almeno cinquantamila persone con bandiere rosse seguono il funerale dei tre operai, viene proclamato lo sciopero generale.

L’occupazione delle fabbriche nel settembre del ’20 ha una partecipazione compatta e disciplinata delle poche grandi fabbriche e di molte delle aziende di modeste dimensioni. Dal 2 al 30 settembre l’occupazione interessa circa una decina di fabbriche e circa 3000 operai organizzate da fitta rete di rappresentanti di fabbrica, , commissioni interne, commissari di reparto, consigli di fabbrica, capaci di autogestire gli impianti che infatti, a differenza di altre regioni, continuarono a garantire ritmi di produzione quasi normali.

Aspetto qualificante delle lotte di fabbriche è l’attenzione prestata al tema della professionalità, al ruolo sociale e produttivo del lavoro. Aspetto che affonda le sue radici nelle caratteristiche di fondo della classe operaia fiorentina e che vede come corollario la lotta contro la concezione della fabbrica come dominio assoluto del padrone. C’è un’attenzione, quasi una cura della fabbrica, delle macchine, dei prodotti che segna la storia della classe operaia fiorentina e che emergerà in un momento drammatico quale la primavera estate del ’44 quando saranno gli operai a salvare le fabbriche dal trasferimento in Germania, voluto dai nazisti in ritirata, smantellandone i pezzi in modi tali da poterle poi, a liberazione avvenuta, ripararle, tutelando cose i beni dei padroni ma anche e soprattutto il proprio futuro e quello del Paese. La Pignone è la fabbrica che meglio rappresenta questa tendenza, non a caso nell’occupazione del 1920 commissione interna e commissari di reparto sono impegnati fortemente a dare prova di capacità e autonomia organizzativa e produttiva, la fabbrica sono anche loro perché senza il loro lavoro, senza la loro cultura del lavoro, la loro professionalità, i loro sacrifici, essa non esisterebbe, la fabbrica quindi non è solo il padrone. La rivendicazione del valore sociale ed economico del lavoro operaio sarà il filo rosso che segnerà tutte le diverse fasi del Novecento.

Contemporaneamente la dirigenza della sezione socialista conosce un processo di ulteriore radicalizzazione che si concretizza nell’esclusione degli esponenti riformisti dalle liste per le elezioni amministrative nell’autunno del 1920, che vedono peraltro la vittoria della lista “nazionale”. Al di là delle aspettative di massimalisti e comunisti, l’aspettativa della rivoluzione, spaventando ceti sociali diversi, consolida le forze conservatrici. A novembre la corrente comunista assume la guida della sezione urbana e di tutta la Federazione. L’adesione della maggioranza dei delegati fiorentini al Partito comunista d’Italia nel congresso di Livorno del gennaio del 1921 non appare quindi una sorpresa, ma il culmine del processo di radicalizzazione articolatesi negli anni e nei mesi precedenti. Infatti 4003 voti andarono ai comunisti, 3309 ai massimalisti e 229 ai riformisti. Come già sottolineava Giovanni Gozzini molti anni fa, tutta la regione vede una significativa adesione al nuovo partito, tanto che la Toscana ne è il secondo punto di forza a livello nazionale dopo il Piemonte. La scissione è maggioritaria nelle province di Firenze, Arezzo e Massa Carrara. Ma proprio a Firenze emerge uno degli elementi di maggiore novità del PCdI rispetto al PSI, pur nella stretta contiguità con valori e miti del massimalismo (che si rispecchiano in parte anche in una contiguità di classe dirigente): l’emergere di una nuova classe dirigente – ben simboleggiata dal segretario provinciale Spartaco Lavagnini – non solo espressione dei ceti operai e non più medio-borghesi, ma soprattutto interprete “di un rapporto diverso con le masse popolari, non più di tipo pedagogico e tribunizio – proprio degli “intellettuali” appartenenti alla tradizione socialista – bensì fondato su un’esperienza diretta di lotta e di organizzazione, molto più vicino alle aspirazioni e ai bisogni del popolo” [cfr. La formazione del partito comunista in Toscana 1919-1923, Quaderni dell’Istituto Gramsci – Sezione Toscana n. 3, Firenze, 1981, p. 208]. In città il nuovo partito riesce a strutturarsi significativamente e rapidamente grazie all’adesione plebiscitaria della Federazione giovanile socialista che porta in dote non solo entusiasmo, ma anche molte sedi, fondamentali per avviare un’organizzazione effettiva sul territorio. Immediato è l’impegno a costituire gruppi nei luoghi del lavoro, a partire dalle fabbriche; significativa la “conquista” della FIOM cittadina. Ma la strada appena imboccata non sarebbe stata agevole. E non solo per le divisioni a sinistra.

Firenze è, infatti, contemporaneamente precoce anche nelle violenze squadriste che intervengono a segnare la vita della città e della provincia, con la forza della violenza, proprio fra il dicembre del 1920 e i primi mesi del ’21, spinte dalle paure dei ceti medi spaventati dalla rivoluzione minacciata e soprattutto dai sostegni di agrari e industriali, la vecchia classe dirigente gravemente turbata dalla perdita del potere locale dopo le sconfitte alle elezioni amministrative tenutesi nell’autunno (con l’eccezione di Firenze città). Dopo il settembre delle bandiere rosse il quadro stava infatti rapidamente mutando e avrebbe colpito in primo luogo proprio la neonata sezione del partito comunista d’Italia con la barbara uccisione del suo segretario Spartaco Lavagnini, il 27 febbraio 1921. Troppo evocata, la rivoluzione aveva saputo suscitare e unire tutti i suoi oppositori proprio mentre i suoi sostenitori si dividevano ed isolavano, rimaneva mito e spettro, senza, del resto, essere mai stata realtà.




La deportazione politica in Toscana

Come è noto, in Toscana l’occupazione nazista ha imposto un sacrificio straordinario alle popolazioni civili a causa del perdurare di una guerra totale e devastante con eccidi e stragi che rendono la Toscana la più colpita d’Italia per numero di morti. A questo si aggiungono le vittime della deportazione, un’ulteriore modalità per terrorizzare una popolazione già allo stremo.

Nel periodo che va dal dicembre 1943 al settembre 1944 numerosi gli arresti per motivi politici e la conseguente deportazione degli arrestati nei campi di concentramento nazisti dipendenti dalle strutture delle SS (da distinguere nettamente dai campi per militari internati controllati dalla Wehrmacht o dai campi di lavoro coatto gestiti direttamente dalle aziende.) L’arresto e la deportazione dei “politici” era motivato perlopiù con la definizione Schutzhaft (arresto e detenzione dei sospetti “a protezione del popolo e dello stato”), un provvedimento messo in atto fin dal 1933 dalle autorità naziste per trasferire a scopo preventivo nei lager i propri avversari politici, dapprima i connazionali, considerati pericolosi per la sicurezza del Reich.

All’incirca 1000 i deportati politici nati o arrestati in Toscana fermati con l’allora vigente procedura d’arresto con destinazione campo di concentramento. Tale procedura fu utilizzata fin dall’inizio del 1944 dalle forze occupanti (SS e polizia tedesca in Italia), in collaborazione con le strutture repressive della RSI e riguardava le tre categorie principali dei deportati politici: partigiani veri e propri, sospetti fiancheggiatori, renitenti alla leva. Si annoverava tra questi anche chi aveva aderito a forme di resistenza civile, ad esempio ai grandi scioperi nelle aree urbane ed industriali. Per la Toscana, ma soprattutto per l’area Firenze/Prato/Empoli, prevalenti sono i casi di arresto nel corso della retata avvenuta proprio a seguito dello sciopero generale del marzo 1944. Il trasporto che partì l’8 marzo 1944 da Firenze e arrivò l’11 marzo a Mauthausen nell’Austria annessa al Reich Germanico, conteneva  338 uomini rastrellati in Toscana in seguito allo sciopero. Poche decine i sopravvissuti.

Nel contesto della crescita dell’attività resistenziale ma anche della repressione nazifascista, vanno iscritti arresti, detenzioni e deportazioni particolarmente intensi nel mese di giugno del 1944. Il trasporto partito dal campo di transito di Fossoli (MO) il 21 giugno e arrivato a Mauthausen il 24 giugno è per numero di deportati il secondo trasporto con cittadini nati e/o arrestati in Toscana, dopo quello dell’8 marzo. Molti di loro, prima di essere trasferiti a Fossoli in attesa della successiva deportazione, avevano trascorso un periodo di detenzione nel carcere delle Murate a Firenze. Diversi i nomi di noti antifascisti toscani tra i deportati del 21 giugno, come Enzo Gandi, Giulio Bandini, Marino Mari o Dino Francini. In questo trasporto troviamo anche persone legate alla vicenda dei fatti di Radio Co.Ra.: Marcello Martini, Guido Focacci, Angelo Morandi e Salvatore Messina, tutti arrestati a seguito dell’irruzione delle forze naziste in un palazzo di Piazza D’Azeglio a Firenze dove avvenivano collegamenti radio clandestini con gli alleati.

In conclusione, la deportazione politica dalla Toscana ha visto il sacrificio di antifascisti e resistenti noti e meno noti, ma gli arresti e le retate hanno avuto anche carattere indiscriminato perché non sempre si teneva conto della reale attività d’opposizione al regime dell’arrestato. Questo è particolarmente evidente nel trasporto col numero più alto di deportati dalla Toscana: quello già menzionato dell’8 marzo 1944 da Firenze. Infatti, l’intenzione delle forze d’occupazione era quella di creare, attraverso le deportazioni, un forte deterrente da possibili ulteriori azioni di lotta o resistenza civile ma contestualmente quella di trasferire in massa manodopera da ridurre in schiavitù, utile per l’economia di guerra del Terzo Reich. L’organizzazione del lavoro schiavo dei deportati è testimoniata da un numero cospicuo di fonti documentali: elenchi, schede personali, corrispondenza. Di particolare interesse le schede del sistema Hollerith-IBM.

Ad arrestare i “politici” toscani furono soprattutto italiani, cioè i militi della Guardia Nazionale Repubblicana (ca. il 90% degli arresti è da attribuire a loro); è documentata in molti casi anche la presenza dei carabinieri. Questo ci dice l’alto grado di collaborazionismo da parte delle autorità fasciste, essenziale per la riuscita stessa della deportazione.

A Dachau ma soprattutto nel complesso concentrazionario di Mauthausen con le sue decine di sottocampi, destinazione della maggior parte dei deportati politici della Toscana, si determinò un altissimo tasso di mortalità per le condizioni così estreme da non far loro superare in media più di otto mesi di sopravvivenza. In molti casi gli “inabili al lavoro”, dopo le selezioni, furono eliminati nelle camere a gas.

Questo testo è tratto dal saggio di Camilla Brunelli e Gabriella Nocentini, presente nel secondo volume de IL LIBRO DEI DEPORTATI – Deportati, deportatori, tempi, luoghi (ed. Mursia, 2010) a cura di Brunello Mantelli.

Interno Museo della Deportazione Figline di Prato




La Camera sindacale del Lavoro di Livorno

La storia non può cancellarsi davanti agli storici: così ha scritto Marc Bloch. Infatti, anche se per molto tempo è stata pressoché ignorata dalla storiografia locale, dal 1920 al ’22, a Livorno fu attiva una seconda Camera del Lavoro, aderente all’Unione Sindacale Italiana e punto di riferimento operaio nei conflitti tra capitale e lavoro, prima che il fascismo distruggesse, assieme alle sedi del movimento operaio, anche le conquiste dei lavoratori.

Una prima sezione livornese dell’USI si era costituita dopo la fine della Prima guerra mondiale, «in questa città ove il riformismo ha sempre imperato»: lo riferisce un comunicato pubblicato il 15 dicembre 1918 sul giornale dell’USI, «Guerra di Classe», da cui si apprende del rilevante apporto di alcuni ferrovieri e che, ottimisticamente, venivano prenotate 500 tessere per l’anno seguente.

1920 USI LivornoNel gennaio 1919, si giungeva quindi alla ricostituzione del Fascio operaio “Emancipazione e lavoro” – già attivo prima del conflitto, con sede in via dei Cavalieri – che raccoglieva un certo numero di giovani operai, attorno ad alcuni vecchi militanti, che non si riconoscevano nella Camera confederale del Lavoro, rivendicando l’assoluta autonomia della classe lavoratrice da tutti i partiti politici e dai governi. Nel programma pubblicato su «Guerra di Classe» dell’11 gennaio 1919, si rendeva nota la sua adesione all’USI, «l’unica organizzazione nazionale che sia rimasta incorruttibile e fiera sul terreno della più rigida lotta di classe».

Lo sviluppo della realtà sindacalista veniva favorito dall’inasprirsi della situazione economica e sociale post-bellica e della conseguente radicalizzazione delle lotte operaie, tanto che «a malapena trascorreva anche una sola settimana senza scioperi, ostruzionismi, tumulti, cortei, comizi ed altre forme di azione politica di sinistra». In questo clima, tra febbraio e marzo 1919, «un gruppo di animosi» si attivò per la creazione di una Camera del lavoro alternativa e in antitesi a quella, fondata nel 1886, aderente alla Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), con sede in via Vittorio Emanuele 24, nei pressi di piazza Colonnella.

Tale Camera confederale era ormai controllata da una maggioranza socialista riformista, ad eccezione della Federazione dei metallurgici (FIOM) a prevalente indirizzo massimalista, con sempre meno spazio d’iniziativa per le minoranze repubblicana e anarchica, e a promuovere questo primo tentativo sindacalista di scissione erano stati alcuni ferrovieri socialisti, lavoratori repubblicani e, soprattutto, operai e scaricatori anarchici, uniti dall’opposizione verso la condotta, ritenuta inadeguata e perdente, della dirigenza riformista.

Peraltro, a Livorno vi era stata una precedente esperienza di sindacalismo conflittuale nel 1904, durante il periodo in cui il noto agitatore sindacalista Alceste De Ambris si era trovato a Livorno con l’incarico di segretario della Federazione nazionale dei Bottigliai. Fu infatti dopo lo sciopero generale del 19 settembre di quell’anno che comparve il combattivo Gruppo di propaganda sindacalista che raccolse un certo numero di sindacalisti rivoluzionari di matrice socialista-soreliana, fautori dell’azione diretta e dello sciopero generale espropriatore.

Tra il 1905 e il 1906, il principale esponente del socialismo riformista livornese, l’on. Giuseppe Emanuele Modigliani, si preoccupò di osteggiare accanitamente «l’infatuazione direttista» all’interno del Partito socialista, riaffermando la centralità della politica parlamentare. De Ambris rispose alle sue argomentazioni, precisando che l’azione sindacale non escludeva quella parlamentare purchè subordinata ad essa, ricordando che «l’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi».

Il “sindacalismo puro” nel contesto livornese non aveva però avuto seguito, stretto come era tra la predominanza socialista – sia riformista che massimalista – e la consistente e storica presenza anarchica; anche perché a livello nazionale i sindacalisti rivoluzionari nel 1907 decisero di separarsi dal PSI ma di rimanere nella CGdL.

Infatti, il processo che avrebbe portato all’affermazione dell’USI a Livorno fu possibile soprattutto grazie al consistente apporto degli “anarco-sindacalisti” che, peraltro, fornirono ad essa la quasi totalità dei quadri dirigenti.

Lo scoppio dei moti del caroviveri, nel luglio 1919, che videro l’iniziativa unitaria della Camera del Lavoro, del Partito socialista e dei gruppi anarchici, nonché la susseguente ondata di arresti e denunce, presumibilmente ritardò la costituzione della Camera sindacale; appare comunque significativo che, durante la sommossa popolare, all’Ardenza fu approvata una risoluzione assembleare che ricalcava quella rivendicata dalla forte Camera sindacale di Piombino, Elba e Maremma, aderente all’USI.

Nei mesi seguenti, a Livorno, gli attivisti che facevano riferimento al sindacalismo d’azione diretta – così come la minoranza anarchica all’interno della Camera confederale del Lavoro – ebbero un ruolo decisivo nello sciopero generale indetto per la libertà di Errico Malatesta, arrestato a Tombolo nel febbraio 1920.

Un prima occasione in cui emerse il crescente dissenso nei confronti della linea moderata della Camera confederale del Lavoro fu lo sciopero generale attuato il 6 e il 7 aprile, per protestare contro l’eccidio avvenuto a San Matteo della Decima, frazione di S. Giovanni in Persiceto (Bo), dove le forze dell’ordine avevano ucciso 8 lavoratori ad un comizio indetto dall’USI. In tale frangente, a Livorno, il 6 aprile si erano mobilitati soprattutto anarchici e repubblicani, mentre i dirigenti confederali e socialisti avevano cercato di abbassare la tensione, così come l’on. Modigliani parlando al comizio, mentre l’anarchico Natale Moretti aveva sostenuto lo sciopero generale ad oltranza. L’indomani però la situazione era del tutto sfuggita di mano ai dirigenti riformisti e – come titolò «Il Telegrafo» del 9 aprile – «i socialisti [furono] esautorati dagli anarchici». Una moltitudine di operai e sovversivi, dopo aver fatto irruzione nella Camera del Lavoro ed essersi impadroniti del vessillo di questa, dettero vita ad un corteo non autorizzato che, cantando Bandiera Rossa, giunse sino alla stazione ferroviaria dove fu caricato due volte dalle forze dell’ordine. Erano quindi seguiti scontri da piazza Dante sino a piazza del Cisternone, con un bilancio di alcuni feriti, tra i quali l’anarchico Oreste Gori e Vittorio Colombini, operaio del Catenificio Bassoli.

Ulteriore significativa rottura fu conseguente alla sollevazione cittadina contro la repressione governativa, agli inizi di maggio, quando la direzione della Camera confederale era riuscita – seppure a stento – a far rientrare la sommossa popolare sul piano della protesta civile e contenere l’agitazione anarchica, aprendo così al sindacalismo rivoluzionario nuove possibilità di sviluppo nel contesto sovversivo.

Appare infatti evidente, come osserva Luigi Tommasini, che «i fatti del maggio segnarono una grave frat­tura fra movimento anarchico e Partito socialista, e ebbero ripercussioni evidenti a livello sindacale, dato lo stretto coinvolgimento degli organismi camerali nello svolgimento degli avve­nimenti».

Se la Camera confederale del Lavoro, attraverso il segretario Zaverio Dalberto, stigmatizzò il comportamento dei «facinorosi», da parte loro gli anarchici e i sindacalisti rivoluzionari, subito dopo il Consiglio nazionale dell’USI tenutosi a Firenze, concordarono un’azione comune verso gli aderenti dei «partiti sovversivi» (socialista, repubblicano e anarchico) di serrata critica verso la dirigenza confederale della Camera del Lavoro.

Inoltre, in luglio, in occasione del Congresso della Camera del Lavoro confederale i dirigenti erano stati contestati per la mancata mobilitazione in solidarietà con la rivolta antimilitarista di Ancona del mese precedente. Nel corso della stessa assemblea, rispetto all’annunciata nascita della Camera sindacale, fu approvato all’unanimità un reciso ordine del giorno che riteneva incompatibile l’iscrizione ad entrambe le strutture.

Mentre all’interno della Camera confederale rimaneva un’incalzante minoranza anarchica, il progetto sindacalista portò, come primo passo, alla nascita ufficiale di una sezione livornese dell’USI con alcune decine di lavoratori aderenti. La notizia venne comunicata su «Guerra di Classe» del 17 e del 24 luglio 1920, con il seguente commento: «Era ora! Tutte le ottime illusioni sulla unità proletaria, che molti nostri compagni si facevano, e che in omaggio a queste avevano sempre ostacolato una nostra separazione dai confederalisti, oggi, dopo gli ultimi avvenimenti, sono completamente cadute, e i compagni fiancheggiano con fede ed entusiasmo l’opera nostra».

Nell’ambito dell’intenso lavoro organizzativo intrapreso dalla neonata sezione dell’USI verso alcune categorie (operai, muratori, calzolai, falegnami, lavoranti in crogiuoli…), il 25 luglio, presso le scuole Benci, venne promosso un nuovo partecipato comizio riguardante la vertenza metallurgica – con interventi di Moretti, Attilio Chichizzola e Augusto Consani – che approvò un ordine del giorno a sostegno del contegno dell’USI nei confronti della FIOM «tendente ad una unità d’azione nell’attuale agitazione metallurgica».

Il 27 agosto, mentre nelle fabbriche era in atto l’ostruzionismo operaio, in piazza del Municipio si svolse un comizio sulla vertenza metallurgica con gli interventi di Russardo Capocchi per la FIOM, Sereni per la Camera confederale del Lavoro e Moretti per l’USI, prefigurando la presa di possesso delle industrie.

Gli sviluppi della dura agitazione nazionale dei metallurgici fece però rinviare ancora l’apertura della Camera sindacale a Livorno, vedendo i militanti e dirigenti dell’USI impegnati a partecipare assieme alla FIOM, diretta dal socialista massimalista Capocchi, all’Occupazione delle fabbriche e alla loro difesa.

Dopo che a metà agosto in diverse fabbriche erano stati attuati scioperi bianchi e forme di ostruzionismo, il 2 settembre, alle ore 15, gli operai di undici stabilimenti – ai quali se ne aggiunsero almeno altri cinque – entrarono in sciopero e li occuparono, innalzandovi bandiere sia rosse che nere, e in alcuni di questi, come alla Metallurgica e al Cantiere Navale F.lli Orlando, si continuò a produrre in autogestione.

Se per gli anarco-sindacalisti la pratica autogestionaria, quale forma di lotta prefigurante l’espropriazione dei mezzi di produzione, dimostrava «ai pescicani dell’industria siderurgica e meccanica, che la classe lavoratrice è matura per gestire da sé le fabbriche»; ben diversa era la posizione del Partito socialista, così come risulta da un articolo contro «la gestione diretta delle officine occupate […] nel senso che gli [sic] danno gli anarchici», pubblicato in prima pagina sull’«Avanti!» del 5 settembre e, non casualmente, ripreso l’indomani sul principale quotidiano padronale livornese («Il Telegrafo», 6 settembre 1920).

Al contrario, sin dalla prima settimana, i solidali sindacati dei ferrovieri e dei lavoratori del porto garantirono le forniture di materiali e materie prime alle fabbriche occupate.

Gli stabilimenti furono sgomberati dalle maestranze dopo oltre trenta giorni di resistenza, con risultati inferiori alle aspettative; ma il referendum sul concordato tra FIOM e padronato a Livorno registrò la contrarietà di circa 4.270 operai metalmeccanici, rivendicando il pagamento per intero delle giornate d’occupazione ed esigendo che negli aumenti salariali conquistati non rientrasse l’aumento di L. 2,60 al giorno già ottenuto a maggio, ma anche per la contrarietà all’istituzione della Commissione paritetica che avrebbe dovuto sanzionare presunti atti di indisciplina avvenuti durante l’occupazione.

Il progetto sindacalista riprese quindi impulso, in sintonia con la radicalizzazione dei settori operai più risoluti, dopo l’esito deludente del grande movimento delle occupazioni industriali e il contestato accordo nazionale sottoscritto dalla CGdL. In tal senso, da parte dell’USI livornese, furono intensificati gli incontri con gli operai di alcune fabbriche e le iniziative di propaganda, come il comizio rivolto ai lavoratori dell’edilizia, presso le Case Popolari, tenuto da Eugenio Bini e dal muratore anarchico Filippo Filippetti, referente sindacale del settore edile.

A fine settembre del 1920, in un clima di persistente tensione sociale si giunse quindi all’attivazione della nuova Camera sindacale, che poteva contare, oltre ai lavoratori già aderenti all’USI, su consistenti nuclei operai che, non sentendosi più rappresentati dalla FIOM, stavano aderendo al Sindacato Metallurgico dell’USI.

Nel mese di ottobre del 1920, mentre a Bologna venivano arrestati tutti i componenti del Consiglio generale dell’USI, a Livorno, sulla stampa anarchica locale, si trova riscontro dell’avvenuta apertura della Camera sindacale, con sede in viale Caprera – angolo via delle Lance, nel popolare quartiere “Nuova Venezia”, pur se la prima segnalazione in merito da parte delle autorità di polizia comparve tardivamente, in un rapporto datato 22 novembre.

La Camera sindacale, oltre ad essere luogo di riunione per le diverse categorie, sarebbe stato anche uno spazio di socialità, ospitando anche  feste ed altre iniziative di solidarietà, quasi come una Casa del popolo.

Al 2 dicembre, un’ulteriore nota prefettizia – secondo la quale la Camera sindacale si era costituita nei primi giorni di novembre – indicava in circa 600 gli iscritti, di cui 120 al Cantiere navale Orlando, 100 alla Società Metallurgica Italiana, 100 nelle cooperative sul porto e i restanti suddivisi nelle altre medie e piccole industrie cittadine (Prodotti Chimici, Fabbrica carbone fossile Ruchat, Fabbrica Isolatori, Conduttori Elettrici, Officine meccaniche Vestrini, Oleifici Nazionali, Cementeria, Stabilimento Petrolio, Semoleria…).

Tale rilevazione doveva però essere “arretrata” di qualche mese, oppure limitata al settore industriale, in quanto in un nuovo rapporto, datato 8 dicembre, il prefetto informava il Ministero dell’Interno che l’USI aveva raggiunto i mille iscritti mentre, nello stesso periodo, apparivano in calo quelli alla Camera del lavoro confederale che, pochi mesi prima, aveva dichiarato 15 mila tesserati dei quali circa quattromila della FIOM. Infatti, sull’organo nazionale dell’USI, «Guerra di Classe», del 1° gennaio 1921, veniva riferito che il giornale a Livorno era diffuso settimanalmente in 700 copie e che gli iscritti alla Camera sindacale erano ormai duemila e altre categorie andavano organizzandosi (muratori, ferrovieri, elettricisti, arte bianca, facchini del mercato, calzolai, vestitrici di damigiane, etc.).

La rilevanza numerica del passaggio di iscritti dalla Camera confederale a quella sindacalista è indirettamente confermata dal tono polemico del dirigente della FIOM, Adolfo Minghi, giunto a sostenere, davanti ad un’assemblea di metallurgici, che la Camera sindacale era «dannosa alla classe lavoratrice e di vantaggio alla borghesia», nonché altre accuse che dovette ritrattare. Peraltro, il successo di adesioni alla Camera sindacale livornese appare del tutto in linea con le dinamiche nazionali che vedevano l’USI in rapida crescita con 180.000 iscritti a metà del 1919, 305.000 alla fine dello stesso anno e circa 500.000 nell’autunno del 1920.

Alla Camera del lavoro dell’USI aderivano – riconoscendosi nella sua autonomia classista – lavoratori anarchici di diversa tendenza, senza-partito, repubblicani, socialisti ed anche comunisti, «molti dei quali militavano nella Camera sindacale». Inoltre, la stessa componente comunista della CGdL – legata prima alla frazione “intransigente” di Firenze del Partito socialista e poi al PCdI, con a capo il ferroviere Spartaco Lavagnini – avrebbe optato per privilegiare le intese con i sindacalisti rivoluzionari, in funzione antiriformista, così come avvenne all’inizio del 1921, durante gli scioperi contro i licenziamenti di massa nelle fabbriche livornesi, soprattutto nel settore metalmeccanico, per la “crisi” ritenuta «una bassa manovra egoistica e reazionaria per gettare sul lastrico migliaia di lavoratori».

Su tali posizioni di forte antagonismo, la Camera sindacale si rafforzò, divenendo anche punto di riferimento delle Commissioni interne di fabbrica, mentre lo scontro fra la linea confederale e quella sindacalista si fece sempre più aspro. La Camera del Lavoro della CGdL, infatti, era orientata a contrattare (oggi si direbbe concertare) le modalità di attuazione dei licenziamenti, cercando di mitigarne gli effetti con la richiesta di contributi e sussidi per i disoccupati, nonché suggerendo i criteri – discriminanti per sesso, anzianità e provenienza – con i quali il padronato doveva effettuarli. All’opposto, la Camera del Lavoro sindacale rifiutava recisamente tale contrattazione per regolare i licenziamenti, sostenendo la necessità di una lotta contro quella che riteneva una manovra politica degli industriali per indebolire il movimento operaio e annullarne le recenti conquiste salariali e normative. Su queste posizioni, con impostazione sindacalista rivoluzionaria, lotte importanti furono attuate dagli operai allo Stabilimento Italo Americano Petrolio, alla Società Molini, alla Mattoni Refrattari dell’ing. Mathon, alla Società Conduttori Elettrici e agli Oleifici Nazionali, non senza scontri fisici tra “estremisti” (ossia sindacalisti rivoluzionari, anarchici e comunisti) e confederali.

Nel settembre 1921, durante la vertenza alla Società Metallurgica Italiana contro un taglio salariale del 10%, la Camera sindacale sostenne con forza la lotta degli operai e, durante una partecipata manifestazione, intervenne il dirigente nazionale dell’USI e segretario della Camera sindacale di Sestri Ponente, Antonio Negro, che accusando i riformisti del PSI e della CGdL per i numerosi cedimenti, ricordò come «un anno fa le bandiere rosse sventolavano su tutte le officine: avevamo le armi, eravamo i padroni, e dovevamo restare tali. Ma i dirigenti di allora hanno tradito e bisogna spodestarli, e d’accordo con Lenin occorre fare la rivoluzione». Il 20 ottobre seguente il prefetto ebbe quindi a paventare come «il partito sindacalista, e per esso la Camera del Lavoro sindacale, tende ad impadronirsi del movimento operaio, sostituendosi alla FIOM e qualora vi riuscisse l’ordine pubblico certamente non se ne avvantaggerebbe».

Per contrastare l’ondata di scioperi e insorgenze sociali, oltre al consueto intervento poliziesco (come avvenuto, ad esempio, contro l’occupazione operaia degli Oleifici Nazionali), anche a Livorno il padronato, le gerarchie militari e i settori più reazionari della borghesia locale avevano affidato la «controrivoluzione preventiva» alle squadre fasciste e nazionaliste, per cui la Camera del Lavoro sindacale dovette attivarsi anche su questo fronte, divenendo un punto di riferimento per la difesa proletaria e per l’organizzazione degli Arditi del popolo.

A tragica conferma del ruolo sostenuto dalla Camera sindacale nella battaglia antifascista, vi è la morte sotto il piombo degli squadristi e delle forze dell’ordine di due aderenti all’USI durante l’attacco fascista a Livorno del 2 agosto 1922, costato ben otto vittime. Nella periferia nord, nel corso di uno scontro a fuoco, cadde il già citato Filippetti, ardito del popolo e rappresentante sindacalista per il settore edile; mentre nel quartiere S. Marco rimase ucciso Gisberto (o Gilberto, secondo altre fonti) Catarsi, operaio del Cantiere “Parodi e Del Pino”, facente parte del consiglio direttivo della Camera sindacale e militante del gruppo anarchico “C. Cafiero” di Montenero.

In quelle giornate di reazione, assassinii e distruzioni sistematiche delle sedi sindacali e politiche della sinistra, dopo che la Camera confederale fu devastata una seconda volta, soltanto la Camera sindacale rimase inespugnata, difesa con le armi dai suoi militanti e forte della collocazione nel quartiere sovversivo della “Nuova Venezia”. Imposto lo stato d’assedio alla città, il 10 agosto la Camera sindacale subì una seconda perquisizione, venendo interdetta su ordine dell’autorità militare, dopo essere stata mezza devastata dai carabinieri col pretesto di scovarvi armi ed esplosivi. Per la sua chiusura definitiva i fascisti dovettero però attendere di governare, dopo la Marcia su Roma. Pur senza sede e senza giornale, i sindacalisti dell’Unione ancora in libertà continuarono la propria attività, sempre più illegale, sino al gennaio 1925 quando, a livello nazionale, con un decreto prefettizio l’USI fu formalmente dichiarata fuorilegge, costringendola ad agire all’estero o in clandestinità.

[Il presente testo è un estratto della ricerca: Marco Rossi, L’altra Camera del Lavoro. Livorno 1920 – ’22. L’azione dell’U.S.I. e Augusto Consani, sindacalista rivoluzionario, Gruppo editoriale USI-CIT, Livorno 2020]




Itinerari chiniani a Montecatini Terme

Si dice che Montecatini sia l’armonico e straordinario connubio di antico e moderno, identificabili rispettivamente con la parte alta della città, sede dell’antico castello e teatro di numerose battaglie, e con la zona dei bagni termali, a valle, dove prima dei Lorena i benefici delle acque rimanevano relegati ad un’insalubre area stagnante.
Inizialmente l’unica Montecatini era quella sulla collina, fondata intorno all’anno Mille, e bruciata dall’incendio del 1554. Si deve al periodo delle grandi riforme leopoldine (1773) il ritorno alla salubrità della zona sottostante: il Granduca Pietro Leopoldo fece costruire canali di smaltimento delle acque per recuperare il territorio e favorire l’uso delle sorgenti termali, per le quali cominciò, inoltre, un’intensa edificazione di stabilimenti. Nonostante le migliorie pubbliche consentissero una riqualificazione della parte bassa, si dovette però aspettare fino al 1905 per veder nascere il Comune di Bagni di Montecatini, poi Montecatini Terme, che immediatamente assunse nell’estetica cittadina gli inconfondibili tratti della belle epoque. Basterebbe scorrere le fotografie del tempo o una serie di vetuste cartoline per notare tripudi di cappellini piumati su belle signore in posa, davanti ai classici e maestosi edifici termali.

Un indiscusso protagonista di questa ristrutturazione cittadina all’insegna del bello fu Galileo Chini con la sua manifattura ceramica, della quale coordinava la direzione artistica. La storia della fabbrica è ormai nota e, per riassumerla in pillole, non rimane che far riferimento agli innumerevoli successi nazionali e internazionali che, sin dalla fondazione (1896, al tempo Arte della Ceramica) essa accumulava: Torino (1898) Parigi (1900), Pietroburgo, Gand, Bruxelles (1901) e ancora Torino (1902) sono solo alcune delle Esposizioni in cui la Manifattura ricevette le onorificenze più alte.
Nei primi vent’anni di attività, quindi, il successo della produzione chiniana era talmente attestato sul territorio che chiamare tali maestranze per intervenire sui lavori pubblici era sintomo d’indiscusso prestigio. Questo fu probabilmente il pensiero dell’architetto Raffaello Brizzi e dell’ingegner Luigi Righetti, quando proposero in Giunta Comunale l’affidamento della copertura per i velari principali al Chini.

In effetti, i lavori per il Palazzo Comunale di Montecatini impegnarono le Fornaci (che nel frattempo si erano trasferite a Borgo San Lorenzo, cambiando la ragione sociale in Fornaci San Lorenzo Chini & C.) dal 1918 al 1920, quando una serie di vetrate fu eseguita all’interno dell’edificio. In realtà la copertura dei lucernari, affidata alla ditta Quentin, era cominciata almeno due anni prima, come dimostra la serie archivistica Lavori pubblici conservata presso l’Archivio Storico del Comune e recentemente rinvenuta, ma la scabra intelaiatura di ferro e vetro non soddisfaceva gli stilemi estetici ormai pienamente devoluti alle rotondità Liberty. I Chini proposero pertanto nuovi bozzetti per il velario d’ingresso, dove allegre forme tondeggianti si concentravano nel puttino centrale e si alternavano ai vetri colorati e nitidi, alle sagome geometriche di quelli laterali.
Alle opere in vetro si aggiunse un ciclo pittorico (otto pennacchi con soggetti allegorici e dodici lunotti, dove risiedono putti e corbeille fiorite) situato sulla volta dell’imponente scalinata e sempre eseguito per mano di Galileo Chini.

IMG_5861Quest’arte manifatturiera, connotata dalle forti istanze dell’artigianalità di bottega e allo stesso tempo permeata di spirito moderno, aveva già in precedenza lasciato il segno in città: il Padiglione Tamerici, progettato nel 1903 da Giulio Bernardini per la vendita dei Sali, fu decorato da quattro pannelli in grès realizzati dalla Manifattura per Domenico Trentacoste. Modellati con sapiente equilibrio di forza e gentilezza, essi raffigurano i differenti ruoli connessi all’arte dei vasai: Il Fornaciaio, il Molatore, lo Scultore e il Disegnatore; quest’ultimo ha le sembianze di Galileo Chini. Tali bassorilievi erano stati presentati all’Esposizione Italiana di Arti Decorative e Industriali di Torino del 1902, prima di trovare definitivamente posto sulla facciata di questo edificio. All’estero ricerche sul grès avevano prodotto risultati di straordinario interesse (si pensi a ceramisti di grande fama come Auguste Delaherche, in Francia o i fratelli Martin, in Inghilterra) ma in Italia l’uso di questo materiale era del tutto innovativo per la ceramica dell’epoca. Il tipo di grès usato dalla fabbrica fiorentina era grigio e nella maggior parte dei casi presentato con sintetici decori in blu di cobalto: esemplari che sono definiti di ‘grès salato’, perché rivestiti da una pellicola vetrosa trasparente ottenuta dalla combustione del cloruro di sodio. Ciò mette in luce l’alto livello tecnico raggiunto dalla fabbrica, che si pone così in linea con i più progrediti laboratori europei del tempo.
Passeggiando sul gran Viale delle Terme ci troviamo di fronte all’imponente facciata dello Stabilimento Tettuccio, ricco di storia e che rappresenta, oggi, una vera città termale con parchi, caffè, concerto e negozi. Interessanti sono le decorazioni dei vari padiglioni che ne arricchiscono la sontuosità: dalle ceramiche della Galleria delle Bibite di Basilio Cascella, agli affreschi di Giuseppe Moroni nella Sala di Scrittura o di Giulio Bargellini e Maria Biseo nel Salone del Caffè, fino alle decorazioni di Ezio Giovannozzi nella cupola della Tribuna dell’Orchestra, coperta con tegole a squame in maiolica della Manifattura Chini. Si noti, in questo senso, che gli interventi di rivestimento ceramico esterno hanno esiti vicini a quelli di Salsomaggiore: le Terme Berzieri riportano, infatti, elementi di somiglianza e talvolta di assoluta corrispondenza.
Non lontano, sempre all’interno del parco cittadino, si trovano le Terme Tamerici, ristrutturate nel 1910 da Giulio Bernardini e Ugo Giusti. Galileo Chini qui realizzò pannelli, banconi, vetrate e persino i pavimenti della vecchia sala di mescita. L’incarico di ampliare le Terme Tamerici interessò in particolare la decorazione esterna in grès ceramico che s’inserì organicamente nell’architettura neo-medioevale dell’edificio: le teste leonine, i rosoni, gli stemmi policromi e i vari tipi di piastrelle con motivi geometrici e a intreccio sono elementi che in parte saranno ripresi dall’esperienza di Galileo in Siam e in parte riutilizzati per altri lavori.

Montecatini può dunque vantare interventi artistici importanti e qualificati, e non solo per commesse istituzionali. Spesso l’intervento della famiglia Chini è richiesto per lavori di carattere privato: ne è esempio splendido il Grand Hotel & La Pace. Costruito nella seconda metà dell’800 e più volte trasformato, fu radicalmente ristrutturato agli inizi del ʼ900. Nel 1904 fu inaugurato il Salone delle Feste, affrescato da Galileo, autore peraltro anche dei disegni per le vetrate della vecchia hall. Di chiara ispirazione klimtiana e di produzione totalmente autoctona, i vetri della Manifattura Chini ricorrono a schemi decorativi tratti dai moduli artistici della Secessione viennese, con un impianto compositivo che si articola su diversi livelli geometrici, affiancati poi da composizioni floreali dalle evidenti riduzioni formali. La stessa influenza stilistica si ritrova nelle tre splendide e vivaci vetrate di Villa Agatina (V.le Giacomo Puccini, 67), eseguite con grande maestria dalla Manifattura Fornaci di San Lorenzo su disegno di Galileo.

La Belle époque assegnò dunque a Montecatini – città spensierata e modaiola – una precisa collocazione estetica all’interno del gusto Liberty e lo fece avvalendosi, anche concettualmente, ai maestri nel settore. La Manifattura Chini lascia anche su Montecatini un segno indelebile, una traccia che andrebbe rispettata nel solco della tradizione storica e artistica e perpetuata attraverso notevoli opere di valorizzazione come quella permessa dalla sensibilità degli eredi nella conservazione dell’Archivio Storico dell’impresa e della famiglia.

Elena Gonnelli è laureata in Lettere con il prof. Andrea Battistini, ha conseguito una seconda laurea magistrale in Archivistica con Antonio Romiti curando il riordino e l’inventario analitico dell’Archivio della Manifattura Chini di Borgo San Lorenzo. Insegnante di scuola media, lavoro inoltre presso l’Archivio di Stato di Bologna e come collaboratrice esterna per diversi archivi del territorio. Direttore dell’Istituto storico lucchese – Sezione Montecatini Monsummano. Tra le sue pubblicazioni: Il Codice numero 1 dell’Archivio Storico pre unitario di Montecatini: questioni storicoarchivistiche, in «Caffè Storico – Rivista di Studi e cultura della Valdinievole», anno I, n. 1, Luglio 2016, in corso di stampa; L’Arte della Ceramica e il Liberty italiano, in «Il senso della Repubblica. Nel XXI secolo quaderni di storia e filosofia», Heos, anno IX, n. 6, Giugno 2016; L’Archivio della Manifattura Chini: il disegno per Porretta, «Nuéter», anno XLI, n. 82, Dicembre 2015, Porretta Terme; L’Archivio della Manifattura Chini, in «Quaderni di storia e cultura viareggina: Da Firenze a Viareggio. Viaggio nell’arte di Galileo Chini», Istituto Storico Lucchese – Sezione di Viareggio, n. 7, 2016.




Maria Luigia Guaita

Presentando la prima edizione de La guerra finisce la guerra continua Ferruccio Parri, il capo-partigiano “Maurizio” poi, nel giugno 1945, Presidente del Consiglio dell’Italia liberata, ricorda Maria Luigia Guaita come «una delle staffette più brave, ardite, estrose e generose» che hanno partecipato alla lotta di Liberazione, una «donna della Resistenza» fidata, coraggiosa e capace.

Nata a Pisa l’11 agosto 1912 Maria Luigia Guaita trascorre l’infanzia a Torino per poi raggiungere Firenze nel 1926. Qui, grazie al fratello Giovanni, allora giovane studente, inizia a frequentare gli ambienti dell’antifascismo di estrazione liberalsocialista entrando in consuetudine con personaggi come Nello Traquandi, già tra gli animatori del periodico clandestino «Non mollare» e del Circolo di cultura politica di Borgo S. Apostoli, ed Enzo Enriques Agnoletti, uno dei principali esponenti dell’azionismo fiorentino durante la Resistenza.

Avvicinatasi al Partito d’Azione (PdA) la giovane Maria Luigia ne cura l’organizzazione dell’attività clandestina sfruttando, in un primo tempo, quel contatto giornaliero col pubblico – e, quindi, con altri antifascisti – consentitole dalle mansioni di impiegata di sportello presso una filiale fiorentina della Banca Nazionale del Lavoro. Durante la lotta di Liberazione, poi, opera come staffetta, contribuisce alla diffusione di stampa antifascista e all’organizzazione delle cellule clandestine legate al partito.
Agli ordini del Comando militare azionista si adopera, inoltre, per il collegamento tra il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), gli Alleati e le formazioni partigiane presenti nell’area compresa tra Viareggio, Massa Carrara, la Lunigiana e il Pistoiese garantendo un servizio – rileva Carlo Francovich – «particolarmente delicato e pericoloso», ma di fondamentale importanza ai fini dell’organizzazione tattico-strategica della lotta di resistenza e generalmente svolto «da giovani donne, la cui audacia era talvolta temeraria»: tra queste, oltre alla Guaita, si ricordano Orsola Biasutti, Anna Maria Enriques Agnoletti, Gilda Larocca, Adina Tenca, Andreina Morandi. Quest’ultima – sorella di Luigi Morandi, il radiotelegrafista del gruppo Co.Ra ferito a morte il 7 giugno 1944 durante l’irruzione dei tedeschi nell’appartamento in Piazza d’Azeglio, ultima sede della radio clandestina azionista –, nei mesi dell’occupazione germanica collabora con la Guaita e, anni dopo, ne ricorda mediante un curioso aneddoto la versatilità e l’instancabilità operativa: «[Maria Luigia Guaita] Non disdegnava nessun tipo di impegno; sapeva trasformarsi anche in vivandiera, come quando riuscì ad ottenere dal proprietario del famoso ristorante Sabatini due sporte piene di conigli, destinati (e purtroppo non arrivati per una serie di contrattempi) alla formazione di Lanciotto Ballerini, che operava dalle parti di Monte Morello» e, nel gennaio 1944, resterà ucciso nella battaglia di Valibona.
Nel quadro più ampio dell’impegno antifascista di Maria Luigia Guaita assume particolare rilievo l’attività di falsificazione di documenti, permessi e timbri in soccorso a partigiani e perseguitati politici alla quale viene iniziata da Tristano Codignola, uno dei più brillanti e capaci dirigenti azionisti: «Con Pippo [Codignola] – ricorda – sarebbe stato duro lavorare, pensavo, ma avrebbe capito e Pippo capì sempre la buona volontà di tutti noi. Ricercato dalla polizia, braccato dalle SS, riuscì a creare insieme a Rita [Fasolo] e a Nello [Traquandi] tutta l’organizzazione politica del partito. Attivo, infaticabile, riempiva le lacune, colmava i vuoti imprevedibili – e di giorno in giorno, d’ora in ora – sfuggiva alla cattura».
L’efficacia del servizio ricorre, altresì, nelle parole lette dallo stesso Codignola all’Assemblea regionale del PdA, tenutasi a Firenze nel febbraio 1945, con le quali rileva come, sotto la solerte guida di Traquandi, esso sia divenuto nel tempo «un magnifico strumento di resistenza, fornendo falsificazioni di ogni natura, tessere, fotografie, timbri, carte annonarie e via dicendo»: Maria Luigia, senza esitare nel mettere a disposizione la propria abitazione fiorentina di via Giovanni Caselli 4, coordina con perizia l’apprestamento e la distribuzione dei documenti falsi permettendo a tale attività di raggiungere un notevole grado di perfezione. Dopo la Liberazione, a riconoscimento dell’impegno resistenziale il Ministero della Guerra le riconosce la qualifica di partigiano afferente alla Divisione “Giustizia e Libertà”-Servizio Informazioni per il periodo compreso tra il 9 settembre 1943 e il 7 settembre 1944.

La primavera del 1945 segna l’avvio della rinascita democratica dell’Italia alla quale le donne, conquistato il diritto al voto, contribuiscono in prima persona. In Assemblea Costituente, ne sono elette 21: 9 democristiane, 9 comuniste, 2 socialiste – tra le quali la toscana Bianca Bianchi – e una proveniente dalle file dell’Uomo qualunque. In Toscana nessuna delle candidate nelle liste del PdA – Olga Monsani, Margherita Fasolo, Eleonora Turziani – ottiene i voti necessari per l’elezione. Maria Luigia Guaita è tra quanti, nei primi anni di vita della giovane Repubblica, confidano nel disegno politico azionista e nel progetto di rinnovamento palingenetico delle strutture dello Stato e della società italiani. Tali aspettative non trovano, però, concretezza e nelle parole da lei consegnate al proprio libro di memorie emergono con forza la delusione per la fine prematura del PdA e l’amara percezione del progressivo appannamento dei valori e delle speranze che hanno animato le donne e gli uomini della Resistenza: «Se devo necessariamente adoperare le parole che esprimono i concetti di libertà e di giustizia, – scrive – ho un attimo di esitazione, spesso ricorro a una perifrasi. “Giustizia e Libertà” mi ha cantato troppo nel cuore, per tutti gli anni della lotta clandestina. Allora mi sforzavo soltanto di essere disciplinata, ma sempre con un sottile struggimento di non fare abbastanza, anche per le perdite dolorose di tanti compagni, i migliori; e ognuno di loro si portava via una parte di me. Venne la liberazione; affascinata da questa parola sperai nell’affermarsi delle forze socialiste. Poi le giornate di Roma, il congresso al Teatro Italia. Ricordo Ragghianti, che tratteneva Parri per la giacchetta, il volto duro e caparbio di Carlo, quello tagliente e tirato di Pippo, la dialettica di La Malfa: il crollo del Partito d’Azione. Pensavo che il sacrificio di tanti compagni (e così di nuovo mi bruciava nel cuore il dolore per la loro morte) sarebbe stato sufficiente a disciplinare le forze, attutire gli screzi, frenare le ambizioni». Ciò, come noto, non avverrà e il PdA si scioglierà nel 1947.

All’assenza dalla vita politica partecipata corrisponde un intenso impegno della Guaita in attività di natura culturale e imprenditoriale. Donna emancipata da sempre legata al mondo intellettuale non solo fiorentino, ella contribuisce a fondare e animare le Edizioni “U” di Dino Gentili cui si devono, grazie all’opera editoriale di Enrico Vallecchi, la pubblicazione di numerosi volumi proibiti sotto la dittatura fascista. Maria Luigia Guaita collabora, inoltre, con «Il Mondo» di Mario Pannunzio, fa parte dell’Associazione Liberi Partigiani Italia Centrale (A.L.P.I.C.) e, nel 1957, dà alle stampe quel libro di memorie che Roberto Battaglia ha paragonato al Diario partigiano di Ada Gobetti definendolo «una spregiudicata narrazione delle vicende d’una staffetta partigiana che si muove o corre dalla città alla montagna e viceversa», nel quale l’autrice «insieme ai toni scanzonati del bozzetto, sa trovare, specie nelle ultime pagine del libro, quelli tragici ed ardui dell’epica partigiana, allorché descrive l’impiccagione di italiani e sovietici a Figline di Prato».
Degno di rilievo si rivela, infine, l’impegno della Guaita nel campo dell’imprenditoria tessile nella Prato della ricostruzione nonché, sul finire degli anni Cinquanta, la fondazione a Firenze della Stamperia d’arte «Il Bisonte», cui segue l’apertura sulle rive dell’Arno di una scuola per insegnare ai giovani le tecniche tradizionali dell’incisione. Nel 1981, a riconoscimento di questo importante impegno imprenditoriale, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini le conferisce il titolo di Commendatore.
Maria Luigia Guaita muore a Firenze il 26 dicembre 2007, all’età di 95 anni. Con lei, dirà il sindaco di Firenze Leonardo Domenici, «scompare una delle personalità più rappresentative della nostra città»: una donna della Resistenza e un’indiscussa protagonista della vita imprenditoriale in Toscana, in Italia e all’estero.

Mirco Bianchi, dottore in Storia contemporanea, è responsabile dell’Archivio dell’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.