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Squadrismo toscano in Dalmazia

Se solo negli ultimi anni il mito del “bono ‘taliano” ha iniziato lentamente ad essere scalfito da una storiografia sempre più attenta allo scacchiere balcanico, molto resta ancora da fare per conoscere e comprendere appieno la particolare «guerra ai civili» condotta dalle truppe italiane nei territori orientali, occupati all’indomani dello smembramento della Jugoslavia nel 1941.
Da queste pagine di storia per troppo tempo rimosse emergono anche vicende locali che possono aiutarci a far luce su un’occupazione ben presto contraddistinta da una tenace resistenza armata affrontata con forme repressive sempre più estreme.
L’eruzione di un fenomeno partigiano dalla chiara matrice comunista fu infatti occasione, per le autorità fasciste nazionali e locali, per spingere verso la formazione di veri e propri reparti organici di squadristi, nella convinzione che l’esperienza maturata negli anni delle “squadre” potesse ora rivelarsi preziosa per affrontare il fenomeno comunista riaffacciatosi nei territori annessi al di là dell’Adriatico.

Tra il 1941 e il 1942 vedevano quindi la luce 6 battaglioni squadristi organizzati dalla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, uno dei quali sorto proprio nella «fascistissima» Toscana; il 20 gennaio 1942 veniva infatti mobilitato il 1° (68°) battaglione squadristi “Toscano”, interamente costituito da volontari accorsi da tutta la regione in numero perfino superiore alle aspettative; allo zoccolo duro dei fascisti della prima ora (stime non verificabili indicavano in circa il 50% i partecipanti alla marcia su Roma), si affiancavano i numerosi reduci delle campagne africane o spagnola, al comando del forlivese, ma fiorentino d’adozione, 1° seniore (tenente colonnello) Pietro Montesi Righetti.
Con un’età media di circa 40 anni, il reparto si componeva di oltre 600 camicie nere, organizzate su 4 compagnie più il comando; accasermata a Montecatini Terme, l’unità completava nei 3 mesi successivi il proprio organico e l’addestramento, lasciando la Toscana il 15 aprile.
Dietro interessamento del Governatore della Dalmazia Giuseppe Bastianini, massima autorità civile nel territorio annesso delle provincie di Zara, Spalato e Cattaro, il “Toscano” raggiungeva il litorale dalmato il 26 aprile, scaglionandosi lungo il settore costiero tra Traù (sede del comando) e Spalato e ponendosi alle dirette dipendenze operative di Bastianini.

"In questi giorni i battaglioni squadristi sono inviati in altri teatri operativi. Hanno avuto numerosi scontri con le bande partigiane e bolsceviche nei Balcani. Ecco un reparto di camicie nere in un angolo dei Balcani, durante una purga [Sipho] 8.VI.1943".

“In questi giorni i battaglioni squadristi sono inviati in altri teatri operativi. Hanno avuto numerosi scontri con le bande partigiane e bolsceviche nei Balcani. Ecco un reparto di camicie nere in un angolo dei Balcani, durante una purga [Sipho] 8.VI.1943”.

Parallelamente all’ordinaria attività di presidio ed ordine pubblico, si scatenava fin dai primi giorni una vera e propria attività squadrista fatta di bastonature, sevizie e perfino omicidi di sospetti fiancheggiatori dei partigiani, condotta con il supporto dei fascisti locali e l’acquiescenza delle autorità civili.
L’incontrollabile violenza di una truppa di per sé particolarmente indisciplinata (e politicizzata) trovava però il suo apice il 12 giugno 1942, assumendo un virulento carattere antisemita: prendendo a pretesto una presunta provocazione da parte di alcuni ebrei, diverse decine di militi del “Toscano” e fascisti della locale Federazione assaltavano la storica sinagoga di Spalato, malmenando i presenti e devastandone locali ed arredi, mentre altre camicie nere saccheggiavano alcuni vicini negozi di proprietari ebrei. Il pogrom spalatino e successivi episodi di minacce verso militari e carabinieri scatenavano infine la dura reazione delle locali autorità militari, già in cattivi rapporti col Governatore Bastianini, costringendo quest’ultimo a ritirare gli squadristi in servizio a Spalato.
Particolarmente cruenta si sarebbe rivelata anche l’attività “ordinaria” del battaglione, spesso affiancata da elementi del Regio Esercito: oltre a fornire elementi per il plotone di esecuzione del Tribunale Speciale della Dalmazia (nella sola giornata del 22 maggio venivano fucilati 26 condannati a morte), il “Toscano” avrebbe condotto nei mesi a seguire numerosi rastrellamenti dell’immediato entroterra spalatino, sempre più minacciato dalla montante attività partigiana: negli scontri verificatisi nel corso dell’estate e la prima metà dell’autunno trovavano la morte alcune decine di partigiani o presunti tali (in un’azione del 28 giugno ne rimanevano 14 sul terreno), in un crescendo di violenze favorito dall’opacizzarsi della distinzione tra partigiani e popolazione civile.
Nella prima metà di novembre iniziava il trasferimento verso Vodice, nella parte meridionale della limitrofa provincia di Zara, area già sconvolta dalle durissime operazioni di rastrellamenti dei mesi precedenti.
Parallelamente alla continua opera di rastrellamento, nel corso delle prime settimane del 1943 lo stesso centro di Vodice veniva trasformato in una sorta di campo di concentramento a cielo aperto, con l’inasprimento di un coprifuoco duramente imposto: numerosi sarebbero stati i civili, tra cui molte donne, sorpresi fuori dal centro abitato e fucilati sul posto dagli squadristi del “Toscano” impegnati nella sorveglianza della zona.
Il 16 maggio il reparto abbandonava definitivamente la Dalmazia, a stretto giro seguito dagli altri battaglioni squadristi a loro volta schierati lungo il litorale dalmato: seppur ridotti in organico ed efficienza, non è da escludere che il rimpatrio fosse in parte dettato dai concomitanti (eppur infruttuosi) tentativi di puntellamento del regime condotti da parte del partito e, soprattutto, della milizia stessa. Truppa certamente fidata e pur sempre dotata di una certa “massa critica”, i 6 battaglioni squadristi trovavano accantonamento in varie sedi dell’Emilia Romagna, col “Toscano” riunito a Vergato, sull’Appennino bolognese.
La defenestrazione di Mussolini coglieva però impreparati i vertici della milizia e l’opera dello stesso Capo di Stato Maggiore Galbiati facilitava un pressoché indolore passaggio di consegne nelle mani di Armellini, generale fedele a Badoglio. Anche i reparti squadristi non opponevano particolare resistenza al cambiamento di regime, avviandosi, in un’atmosfera di smarrimento e rassegnazione, verso la fine della propria esperienza. Nell’impossibilità di disarmare o comunque ridimensionare la milizia, ancora presente in forze in praticamente tutti i teatri bellici, i vertici militari procedettero però a disinnescarne le maggiori criticità: tra i provvedimenti adottati rientrava anche il definitivo scioglimento dei battaglioni «già squadristi», posto in essere attraverso il congedo o il trasferimento dei militi verso altri reparti. Se a fine agosto il “Toscano” cessava di esistere, molte delle sue camicie nere avrebbero dimostrato la propria “coerenza” continuando, nei mesi a seguire, la guerra sotto le insegne della R.S.I.

Lorenzo Pera, laureato in “Storia e Civiltà” presso l’Università di Pisa, si interessa di storia militare della seconda guerra mondiale, con particolare riguardo vero i crimini di guerra compiuti dalle truppe italiane.




Fernando Melani, un “incantatore di atomi”

Fernando Melani (1907-1985) fu artista pistoiese e ricercatore scientifico cosmopolita. Partendo dalle riflessioni sulla materia e sull’atomo portò avanti una ricerca creativa vicina a correnti come l’Arte Povera, l’Arte Concettuale e la Minimal Art, anticipandone in alcuni casi gli esiti. Molte sue opere oggi trovano sistemazione presso la casa-studio Fernando Melani a Pistoia.
Donatella Giuntoli, amica e studiosa di Fernando Melani, affermò che “Melani si poteva configurare nell’immaginario pistoiese come un manipolatore di particelle o un incantatore di atomi”. In questa frase è racchiusa l’essenza profonda di un uomo del Novecento che ha votato la sua vita alla sperimentazione sulla materia.

Melani passò gran parte della sua esistenza a Pistoia. Nacque a San Piero Agliana (PT), secondogenito di una famiglia borghese, il 25 marzo 1907 e morì a Pistoia nel marzo 1985. Nel 1937, di rientro da un’esperienza lavorativa a Novara, entrò in possesso dell’abitazione familiare in Corso Gramsci a Pistoia, dove abitò per tutta la vita con un’unica parentesi legata allo sfollamento per i bombardamenti del 1943/44.
Lo spartiacque del secondo conflitto mondiale cambiò drasticamente il modo di pensare di Fernando portandolo a una completa rielaborazione delle sue priorità, si dedicò all’arte e sposò un’assoluta essenzialità, sostituendo ogni suo abito con una tuta blu (accompagnata da una sciarpa gialla) ed eliminando ogni accessorio domestico dall’abitazione, compresi cucina e termosifoni. La casa di Corso Gramsci divenne così il luogo della creatività, lo studio, dove gli ‘atomi potessero essere liberi di vagare per le stanze’, mentre l’esterno acquisì una funzione legata alle necessità fisiche, gestite attraverso una rigorosa routine. Melani, infatti, mangiava sempre nel medesimo ristorante e frequentava regolarmente i soliti centri d’aggregazione.
Nell’“immaginario pistoiese”, un tessuto culturale ampio e variegato, Melani era inserito per analogia o contrasto, la sua era una socialità fatta di provocatorie discussioni e biunivoci rapporti di crescita. Lo si poteva incontrare al Cafè du Globe, al bar Piemontese o al bar Valiani, a pranzo e a cena alla trattoria Autotreni in Porta al Borgo, oppure a discutere animatamente presso la Libreria dello Studente di Giovanni Tellini. In questi ambienti era entrato in contatto con molte personalità (come Luigi Bruno Bartolini, Alfiero Cappellini, Gianfranco Chiavacci, Donatella Giuntoli, Remo Gordigiani, Giulio Innocenti, Lando Landini, Antonio Nespoli, Renato Ranaldi, Giovanni Tellini); ma manteneva sempre un occhio vigile nei confronti di un macrocontesto, non strettamente locale, stringendo rapporti con figure importanti come Luigi Ardemagni, Ettore Bonessio di Terzet, Silvio Ceccato, Luciano Fabro, Ernesto Galeffi (in arte Chiò), Rosy Novella, Fiamma Vigo, Marisa Volpi.
Il suo essere Fernando, assieme al modo di esplicarsi verso l’esterno, è una diretta emanazione dei suoi valori scientifico-razionali, in questo le definizioni di “manipolatore di particelle” e “incantatore di atomi” tentano di inquadrare, a loro volta, il processo intellettuale melaniano in un sistema razionale. La sua attività non è semplicemente definibile in categorie standardizzate e univoche, infatti, se da un lato si può identificare come artista astratto, dall’altro vanno ricordati i suoi slanci di ricercatore scientifico, di scrittore, di teorizzatore, di fotografo e altri aspetti che il recente lavoro di sistemazione dell’archivio ha approfondito. Possiamo, quindi, concepire il suo lavoro come se fosse accomunato dall’unico obiettivo di analizzare la verità dell’universo, in altre parole l’atomo; il suo lavoro diviene così uno strumento e non il fine ultimo della ricerca. Solo in quest’ottica possiamo comprendere opere come le ‘macchine semplici’, meccanismi funzionali e funzionanti finalizzati alla sperimentazione sonora o fisica; oppure le riflessioni spaziali legate alle opere ‘bucato’ e ‘bandiera’; o ancora lo studio della casualità, opere nate dalla sedimentazione di materiale nel corso del tempo.
In questo rapporto tra materia, esistente e teoria risiede la ricerca artistico-scientifica di Fernando Melani. Dal 1950 comincia a esporre le prime opere già definibili ‘astratte’ e per più di quarant’anni continua la sua attività collaborando con vari centri d’arte pistoiesi come la Galleria Studio La Torre o la Galleria Vannucci; arriva anche a Firenze e a Milano grazie alla fruttuosa collaborazione con Fiamma Vigo; nel 1972 partecipa assieme a Luciano Fabro a ‘Documenta 5’ presso il Museo Fridericianum di Kassel in Germania. Tra i suoi numerosi scritti ricordiamo: Davanti alla pittura (1953), Addio Giulio! (1955), Chiò e Melani, due indirizzi della pittura plastica formativa (1956), Un’analisi critica di Fernando Melani, Quadri di John Forrester (1960), Astratto vecchio nuovo ed oltre (1963-64), Universo Evoluzione Arte (1979).
Oggi la sua eredità intellettuale e culturale è portata avanti dalla Casa-studio Fernando Melani, sita in Corso Gramsci 159, di proprietà del Comune di Pistoia e gestita dall’ U.O. Musei e Beni Culturali dello stesso comune. Nella casa-studio, accessibile su prenotazione, è possibile immergersi completamente all’interno di un ambiente creativo unico nel panorama culturale pistoiese e toscano.

Lorenzo Sergi ha conseguito la laurea magistrale in Archivistica con la prof.ssa Laura Giambastiani svolgendo una guida dell’Archivio di Fernando Melani. Collaboratore esterno per istituti di ricerca, ha svolto e svolge attività di valorizzazione culturale, per bambini e adulti, in enti e associazioni del territorio. Tra le sue pubblicazioni: SERGI L. (a cura di), Catalogo di mostra I 7 Antichi, le carte dell’Archivio Storico comunale di Monsummano Terme, in «Caffè Storico. Rivista di studi e cultura della Valdinievole», anno I, n. 2, Monsummano Terme, Istituto Storico Lucchese, 2016; Ricerca fotografica e fotografie in LOMBARDI M., PALANDRI A., SERGI L., Jorio raccontato ai bambini, Buggiano, Edizioni Vannini, 2013.




In fuga di paese in paese

La vicenda della persecuzione degli ebrei ha ancora bisogno di moltissimi approfondimenti. Conosciamo infatti le traiettorie dei più illustri, di tutti coloro che hanno consegnato la loro storia al grande pubblico, in alcuni rari casi già a ridosso del ’45, più spesso dopo molti anni da quegli avvenimenti, attraverso diari e memorie nelle quali hanno rievocato la vita in esilio, il riparo in località più appartate, talvolta il viaggio verso la Palestina o l’esperienza tragica dei campi di concentramento. Più difficile è invece entrare in contatto con vicende più nascoste, vicende delle quali i testimoni diretti hanno mantenuto il segreto o perlomeno una forte riservatezza, di persone semplici ma anche di esponenti borghesi che non sono entrati, non hanno voluto far parte della schiera, mai troppo grande dal punto di vista delle generazioni successive, dei testimoni. Per scelta ponderata, per ritrosia, per caso, perché non hanno avuto la percezione chiara dell’importanza della loro vicenda, ed hanno pensato che questa potesse avere interesse solo per la cerchia degli stretti familiari.

Durante la preparazione della Mostra: Ebrei in Toscana XX-XXI secolo, mi è capitato di divenire la destinataria di molte testimonianze inedite, sia orali che scritte, pressoché sconosciute. Testimonianze che probabilmente senza questa occasione sarebbero andate perse, testimonianze meno eroiche di altre  perché fortunatamente raccontavano una storia a lieto fine. Mi sono parse però capaci di rendere bene quel terribile biennio e il suo clima di paura. Spesso scritte in un tono minore da testimoni coevi che mettendo sulla carta la storia dei tentativi fatti per salvarsi, pensavano di narrare gli eventi solo per dei cari parenti lontani, o credevano che quelle poche pagine di appunti sarebbero potute servire quando, giunta la vecchiaia,  il ricordo si sarebbe annebbiato e tutto quel vissuto avrebbe corso il rischio di scolorire. Nel caso di cui ragionerò qui di seguito, caso abbastanza eccezionale[1], mi sono giunte tra le mani  quattro scritture diverse, elaborate da quattro diversi osservatori che si confermano a vicenda, senza che nessuno di loro fosse a conoscenza, al momento della stesura, del testo dell’altro. Una lettera di una giovane ragazza, Elsa Lattes di Livorno, una memoria di suo padre, Aleardo Lattes, un’intervista trascritta e pubblicata, quella a Gastone Orefice e poche pagine che riassumono i fatti, scritte dal vecchio Ugo Castelli sul “Libro d’oro della famiglia”.

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Rita Castelli (Fonte: Archivio privato famiglia Castelli)

In questo intervento però mi riferirò solo alle prime tre. Il primo caso è una vera e propria missiva redatta da Elsa, poco più che ventenne, e inviata dall’Italia alla zia Rita Castelli che vive e risiede ad Asmara, per raccontare le vicende degli scampati pericoli. Al momento della stesura la famiglia è salva a Bolgheri, in casa di amici, e attende di poter tornare a Livorno, città già liberata ma impraticabile a causa delle macerie provocate dai bombardamenti. Questa lunga lettera è arrivata fino a noi grazie alla zia Rita che ha custodito per tutta la vita il carteggio che proveniva dall’Italia, e grazie anche alla successiva cura garantita dalla figlia Lidya dopo la sua scomparsa (si tratta di un epistolario di circa 730 lettere). La lettera in questione risale al 18 dicembre 1944. Tramite questa scrittura privata, poco più di due pagine, noi abbiamo come la fotografia di un nucleo familiare piuttosto ampio, quello della famiglia di Ugo Castelli, farmacista livornese, padre di quattro figlie e di un maschio, il primogenito. Tutti sono sposati e con prole, tutti legatissimi alla stessa scrivente che per alcuni è figlia, per altri nipote o cugina. Così dalla lettera di questa giovane, figlia di Aleardo Lattes e di Ada Castelli e sorella di Mario, noi possiamo ricavare tutte le informazioni che lei riassumeva per tranquillizzare la zia più lontana.

In questo testo si rammentano sei nuclei familiari, dai vecchi nonni fino all’ultimo nato, il figlio della cugina  Elena. In tutto diciannove persone, tutte quelle che rientrano nel reticolo parentale più diretto di Elsa Lattes. Così noi lettori di oggi veniamo a conoscenza che, dopo la fuga da Livorno, (tutta la famiglia era stata discriminata e aveva, fino a che era stato possibile, potuto fare una vita quasi normale, con la farmacia, il lavoro, gli scambi delle visite, le piccole gite e poco altro), era cominciato un lungo e tortuoso pellegrinaggio. Il loro distacco dal lavoro e dalla casa è causato dai bombardamenti, soprattutto da quello tragico del 24 maggio 1943. La paura della persecuzione all’inizio resta sullo sfondo degli avvenimenti. A sfollare dalla città verso la campagna  è un gruppo formato da due coppie, quella dei nonni e quella di Ada e Aleardo Lattes, figlia e genero di Ugo Castelli, il patriarca. Nel primissimo periodo si recano prima a Bolgheri da conoscenti, alla villa La Campana, e poi al Forte di Bibbona e poi da lì, e quello sarà il punto di svolta del loro pellegrinaggio, si recano alla villa “la Clementina” a Marina di Bibbona, villa di proprietà della famiglia ebrea dei cugini Tabet. La villa rimane per un certo periodo un rifugio sicuro ma poi, l’avvicinarsi del fronte, l’incrudelirsi della violenza tedesca e repubblichina, consigliano di cercare altri ripari.

Nel frattempo i componenti più giovani come Elsa, Vittorio, Gastone, tutti cugini, erano stati allontanati dalla costa e spediti a Firenze, Firenze che doveva essere “per i ragazzi” una tappa intermedia verso la Svizzera. Questo passaggio però non risulta dalla lettera di Elsa ma si estrapola dalle memorie che scrive il padre Aleardo. Perché Firenze? Forse perché lì risiedeva un fratello della nonna, perché lì agiva una ramificata organizzazione di aiuto per gli ebrei. Comunque tramite questi contatti o altri che non vengono menzionati, i giovani trovano rifugio presso alcuni conventi, come decine di altri ragazzi e ragazze ebree. All’inizio, per i maschi, escluso Mario, il fratello di Elsa, che si reca a Roma, c’era stata l’accoglienza presso i frati di Villa Imperiale[2]. Le ragazze vanno invece in un convento di suore. Scrive Elsa alla zia Rita:

Nel convento dove io ero, solo la madre (ottima donna che ha fatto di tutto per noi e ci ha aiutato fino all’impossibile) sapeva che ero ebrea, le suore tutte no. Vivevo così in mezzo alle educande come se fossi una di loro e non so davvero come hanno fatto a non accorgersi di nulla, per quanto andassi spesso alla messa o alle funzioni nella cappella del convento. Ma la vita a Firenze per noi, cominciava a diventare impossibile; venivamo a sapere di tanta gente che i tedeschi avevano deportato, e ci eravamo molto impauriti.

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Elsa Lattes a Villa Tabet, 1944 (Archivio privato Famiglia Cabib Lattes)

La paura suggerisce quindi di muoversi. Stare fermi in quei frangenti apparve a tutti come una inattività insopportabile, come un piegarsi al destino senza reagire. La decisione presa da Elsa fu di tornare indietro, andare di nuovo verso la costa, alla villa la “Campana”, a Bolgheri, dove Elsa sa di poter trovare i genitori. In quei giorni la stazione di Firenze era piena di soldati, di repubblichini e di tedeschi ma nessuno fa caso a questa giovane ragazza con uno zaino, che si appresta a prendere un treno per percorrere una distanza breve ma che la guerra trasforma in un’odissea che si protrae per dodici lunghe ore, dalle  diciassette del pomeriggio del 14 dicembre 1943[3] alle cinque del giorno seguente. Ma nessuno l’ha bloccata, né alla stazione, né sul treno. In questo colpo di fortuna entra solo il caso e niente altro. Se Elsa fosse stata fermata avrebbero visto dai suoi documenti l’appartenenza alla razza ebraica e per lei sarebbe stata la fine.

Intanto i giovani cugini, i figli di Giorgio Orefice e Anna Castelli: Vittorio e Gastone, dopo aver abbandonato il rifugio dei frati si sono diretti verso Norcia e noi sappiamo che si diedero alla macchia con un gruppo di partigiani del luogo[4]. Il piccolo gruppo era stato anticipato dai genitori che già si trovavano a Norcia e per loro forse la decisione fu meno sofferta Quello che più risalta comunque su questa scena, dove incontriamo diversi personaggi, è la loro modalità di muoversi e di agire, che appare in gran parte guidata dal caso. Una giovane ragazza che ritorna sui suoi passi e fa un viaggio a ritroso anche perché letteralmente non sa dove andare. E’ l’unica ragazza del gruppo, divisa dai cugini, e non ha con chi consigliarsi. Due ragazzi livornesi che vanno a finire in montagna con una banda di partigiani monarchici.

Riprendiamo però le fila della storia della nostra giovane ragazza che,riunitasi con i genitori e con i vecchi nonni, dopo soli quindici giorni di permanenza con i familiari, si rimette in marcia, di nuovo per prima e da sola, perché la sua età la rende potenzialmente più  facile vittima – anche se non viene mai detto o scritto – di uno stupro. Il padre farà un riferimento più esplicito a questo pericolo nelle sue memorie, perché più maturo e più esperto, e sicuramente anche perché ha meno ritrosia linguistica della figlia. Elsa invece, poiché il pericolo, adesso che racconta, è passato, si  permette anche considerazioni romantiche alla giovane zia lontana.

“..non potrai immaginare quello che ho provato quella giornata; mi sembrava di sognare, oppure di stare leggendo un libro di avventure. Infatti sembravo proprio un’avventuriera. Chiusa in un calessino coperto, con due uomini ai lati (uno era un certo Bianchi, guardia della villa Campana) partii di buon mattina invernale, il 12 dicembre[5], dirigendomi nella campagna di Riparbella da un cugino del Bianchi, il quale mi accolse volentieri in casa sua e mi tenne, ti assicuro, più che come una figlia…. La vita che avrei dovuto fare non mi sgomentava per nulla….Andavo la mattina con le bestie nella macchia insieme a un altro ragazzetto di 15 anni e una bimba di 10, stando fuori il più delle volte anche tutto il pomeriggio fino alla sera…..Dopo non molti giorni che ero là vennero anche babbo, mamma e i nonni, scappati di qui. Avevamo poco da mangiare (erba di campo, che si andava a cogliere anche sotto la neve, cavoli e basta). Essi sono stati lì con me fino al 7 marzo, giorno in cui sono partiti per Castellina.”

L’abitazione che la ospita è quella del cugino di Bianchi, certo Rodesindo, collocata nella macchia più fitta[6], dove la vita può trascorrere con una relativa tranquillità. La ragazza vi si fermerà per un lungo soggiorno, fino a pochi giorni prima dell’arrivo degli Americani a Castellina, quando il padre la va a prendere e la porta con sé per ricongiungerla con la madre e i vecchi nonni Castelli. Quando poi le cannonate si fanno troppo vicine, tutto il nucleo si rifugia in una grotta scavata nella roccia e dove, con il gruppo della famiglia Bianchi, raggiungono le nove persone.

Il 7 luglio finalmente Castellina viene liberata ma resta sotto il fuoco dell’artiglieria tedesca che cerca di proteggere la propria ritirata. Trascorrono quindi altri sette giorni e poi il 15 luglio, tutti,  possono finalmente ritornare alla villa di Bibbona, la Clementina, la casa dei Tabet. La trovano integra e finalmente tirano un sospiro di sollievo. La nostra testimone, giovane e piena di salute, si dedica ai bagni di mare prima che sia possibile, per lei e gli altri, rientrare a Livorno, ormai liberata. I parenti stretti di cui non si hanno ancora informazioni sono tanti: Carlo Castelli, lo zio più anziano e la sua famiglia, la moglie, la figlia, il genero e il nipote e la cugina Emma Belforte.

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni '30 - Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni ’30 – Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

I cinque membri che non si sono mai separati sono tutti vivi e sani; hanno perso moltissimi beni ma sono sopravvissuti. Ma proviamo a guardare questa storia da un’altra memoria, molto più dettagliata e,direi, meno edulcorata, di quella di Elsa. La ragazza doveva e voleva rincuorare la zia lontana, in Eritrea, e poneva l’accento sugli aspetti più leggeri tralasciando, penso di proposito, quelli più pesanti. Ma se confrontiamo quanto scritto dalla nipote di Rita con il testo del padre, emerge un quadro più drammatico e più realistico.  Il riepilogo delle vicende proposto da Aleardo, conservato con amore dai familiari e giunto per questo fino a noi, porta come data iniziale: 29 settembre 1945. Il suo racconto non prende le mosse dalla fuga ma dal bombardamento del 28 maggio 1943 su Livorno, uno dei più tragici subiti dalla città. Ed è a quello e alle distruzioni prodotte che il nostro autore attribuisce l’allontanamento suo e dei nonni di Elsa dalla città labronica, subito dopo aver allontanato i ragazzi, Vittorio e Gastone. Le due coppie di adulti vanno nella campagna vicina, da amici, in una abitazione al Forte di Bibbona ma sia Ugo Castelli, il suocero, che Aleardo continuano a tenere la farmacia aperta fino all’ottobre dello stesso anno. A quel punto sia la precarietà delle vie di comunicazione, che il clima di paura che tutti respiravano, in loro aumentato dal fatto di essere ebrei, li convincono a chiudere l’attività e a mettersi in fuga a tutti gli effetti. Aleardo però cerca, ancora per alcuni giorni, di raggiungere Livorno per imballare il salvabile, mettere via qualche mobile e qualche masserizia, chiudere la porta di accesso del negozio. Purtroppo niente di tutto quello che mise in salvo rimase intatto. Tutto fu distrutto dalle razzie degli sciacalli, portato via dai tedeschi in ritirata, distrutto dalle bombe.

Il riparo trovato non sembra però sufficientemente idoneo, soprattutto per la giovane figlia rientrata da Firenze. Allontanata Elsa in una campagna che pare dimenticata, lui e la moglie Ada durante la giornata si allontanano dalla casa che li ospita, e per non dare nell’occhio, si inoltrano nelle macchie vicine ma il 20 dicembre un amico li avvisa che sono stati cercati dai carabinieri di Bibbona. Anche  il padrone della villa la Campana non è più disponibile a tenerli lì, e li prega di andarsene.  Lo spostamento sarà breve. Si recheranno dai cugini Tabet che possiedono una villa poco lontano, la Clementina, e che li ospitano condividendo tutti la paura di essere arrestati e deportati. Ma questa sarà solo una breve pausa. Anche quel rifugio diviene insicuro e dovranno ripartire. Decidono di  seguire la strada della figlia e si rivolgono pure loro dai cugini del Bianchi, nel podere Torignano, nel comune di Riparbella. Alla Clementina restano solo i vecchi Castelli. Ma per poco. Anche per loro quel nascondiglio comincia a divenire troppo pericoloso e così pure la vecchia coppia raggiunge le macchie di Riparbella e si ritrova con gli altri. La situazione però è delicatissima, stretti in una abitazione molto piccola, senza risorse alimentari sufficienti, senza alcuna comodità. La vita diventa un calvario. Le giornate trascorrono nella ricerca di erbe selvatiche da mangiare ma quello che riescono a trovare è veramente troppo poco. Aleardo decide di andare a piedi ben oltre i confini del podere e dirigersi verso Chianni, nelle proprietà di un certo dottore Ugo Cortesi che conosce grazie alla lunga vita passata in farmacia. E miracolosamente arriva alla abitazione signorile di Cortesi che, dopo averlo ben rifocillato, lo fornirà anche di due quintali di grano, cinque chili di fagioli e un grosso pane. Tutte risorse che consumeranno al podere in poco più di due mesi.

Ma intanto Riparbella a causa dei cannoneggiamenti tedeschi e delle bombe americane si sta svuotando di tutti i suoi abitanti. Un certo numero di parenti di Redesindo arriva dove già sono in troppi. Per il nostro gruppo di ebrei è venuto il momento di partire anche da lì. Si recano in due abitazioni a Castellina, poco lontano da Riparbella, dove si era già rifugiata la famiglia dei Moise di Livorno, e dove trovano due stanze per le due coppie in fuga, quella dei Castelli e quella dei Lattes, mentre Elsa resta temporaneamente ancora al podere di Torignano. Il 15 giugno 1944 Aleardo torna a riprendersi la figlia e la conduce con sé, ma il 29 giugno, tutti loro con i Bianchi, quattordici persone tra i 79 anni e un bambino piccolo di due mesi, si rifugiano dentro una grotta scavata nella roccia vicino a Castellina perché il passaggio del fronte rende la stessa piccola cittadina, un inferno. Gli alleati sono vicinissimi ma i tedeschi continuano a mitragliare e lo scontro sembra non dover più finire. In quel frangente, il vero pericolo è quello della guerra, perché in quel territorio, non sembra esserci quello dell’antisemitismo. Scrive Aleardo:

Il giorno seguente al nostro arrivo una folla di conoscenze di vecchia data vennero a farci visita, e tutte non a mani vuote. Fu una gara di gentilezze e di attenzioni veramente commovente. Per quanto facessimo una vita assai ritirata e guardinga, tutto il paese sapeva chi eravamo, e per quale ragione vi eravamo giunti (persino il Commissario prefettizio ne era informato) ma nessuno ci tradì mai.[7]

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Rita Castelli da giovane signora (Archivio privato famiglia Castelli)

Tanta generosità era sicuramente dettata dalla consapevolezza che il quadro politico da lì a breve sarebbe radicalmente cambiato ma, ai  nostri protagonisti, tutto apparve positivo. Nella grotta, adibita a rifugio, ci stanno per sedici lunghi giorni con i viveri sufficienti solo per cinque ma altri arrivano in loro soccorso.

Non soffrimmo la fame, vera e propria, perché altre famiglie ci aiutarono a sbarcare il lunario fino a che, l’ottavo giorno, avvenne il miracolo tanto atteso: la liberazione dall’incubo tedesco-fascista, la provvidenza per noi tutti[8]

Con la liberazione finisce anche la fame perché gli Americani proseguendo nella loro avanzata verso il nord abbandonarono sul terreno: scatolette, cioccolata, latte in polvere e anche, annota Aleardo, carta igienica.  Come aveva scritto a proposito del dormire su dei veri materassi invece che su pagliericci improvvisati, la nuova dimensione faceva intravedere un vivere più civile. Passata la paura delle deportazione, finita quella dei bombardamenti e delle razzie dei fascisti e dei tedeschi, si poteva ricominciare a pensare al futuro anche se, ancora per otto giorni, dall’interno di una grotta prima che intorno tornasse la calma.

Se ripensiamo a quanto scritto fino a qui e lo facciamo guardando una carta geografica, ci accorgiamo che il raggio delle peregrinazioni che le due famiglie dei coniugi Castelli e Lattes affrontarono, fu anche relativamente piccolo. Essi non avevano avuto la possibilità di organizzare fughe più sicure, magari verso l’estero. Per l’età avanzata dei Castelli, Ugo e Emma De Rossi, per mancanza di mezzi a disposizione. Quello che poterono mettere in atto fu una strategia di scappa e fuggi, di gioco tragico a nascondino. Trovato un riparo, lo si utilizzava fino a quando questo risultava sicuro, o perlomeno sembrava sicuro agli interessati. Quando in questa relativa sicurezza, si aprivano delle crepe, ci si spostava un po’ più in là. In base a cosa? Alle conoscenze pregresse, alla rete di parentele che si possedevano e tramite queste si allargavano ad altre potenziali reti di salvataggio da costruire. Nel nostro caso la salvezza arrivò da persone semplici, poveri contadini toscani. Nessuno di loro mai, fino a qui, era stato nominato in un documento di tipo pubblico. Lo fecero per antifascismo convinto? Forse è chiedere troppo. Lo fecero e basta, a loro rischio e pericolo, ma la loro scelta di non partecipare alla caccia all’ebreo, di non approfittare di una famiglia in fuga, permise la salvezza di cinque persone.

A me questa è sembrata una storia piena di angoscia e di paura, ma anche una storia piena di solidarietà e di dignità e per questo significativa da raccontare.

[1] Su questa vicenda, vista però da un’angolatura molto diversa, molto legata alla religione, era comparso già diversi anni fa un diario, quello di Emma De Rossi Castelli in, Nei tempi oscuri. Diari di Lea Ottolenghi e Emma De Rossi Castelli due donne ebree tra il 1943 e il 1945, Belforte & C. Editori, Livorno, 2000. Mi riprometto di tornare sopra tutte queste scritture ma in un’altra sede e con più spazio disponibile.

[2]Gastone Orefice. Un giornalista livornese nel mondo, intervista a cura di Catia Sonetti, Ets, Pisa, 2014, p. 32.

[3] La data la ricavo dalla memoria dattiloscritta e inedita di Aleardo Lattes gentilmente concessami dalla vedova.

[4] Gastone Orefice…, cit., pp. 33-34.

[5] Si tratta del 12 dicembre 1943. Il padre di Elsa nel suo diario posticipa questa partenza al 17, ma potrebbe essere anche un refuso della battitura.

[6] Vd. le Memorie di Aleardo Lattes, p.8.

[7] Memoria dattiloscritta di Aleardo Lattes, p.14. L’originale è in possesso della famiglia e presso l’Istoreco di Livorno ce n’è una copia.

[8] Ibidem, p. 17.




Celebrazione solenne in Consiglio regionale per la Giornata della Memoria 2017

Gentili signore e signori, gentili consiglieri, Rabbino Levi, Presidente della Comunità ebraica Bedarida, rappresentanti delle istituzioni e delle associazioni sono lieto e soprattutto molto onorato dell’invito a parlare in questa occasione. Per questo saluto e ringrazio vivamente il Presidente del Consiglio regionale, Eugenio Giani, e il Presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi.

Ne sono onorato perché come Presidente dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana non posso che leggere in questo invito un importante riconoscimento del nostro lavoro.
Il lavoro che come rete toscana degli istituti storici della resistenza e dell’età contemporanea, pur tra crescenti difficoltà, svolgiamo quotidianamente con l’impegno volontario di molti uomini e donne e con l’indispensabile sostegno delle istituzioni, per porre il nostro patrimonio documentario e le nostre competenze al servizio degli studiosi, degli insegnanti, dei cittadini di questa città, di questa regione, del nostro paese e per promuovere con rigore scientifico la ricerca, la formazione e la divulgazione della conoscenza storica.

Ne sono onorato anche perché come docente di storia contemporanea in una delle università di questa regione ogni qualvolta scruto i volti dei miei studenti diciannovenni mi sento sollecitato a fargli comprendere il senso del loro studio. Ecco, l’invito di oggi è anche un riconoscimento per quei ragazzi, che nella storia contemporanea cercano uno strumento per comprendere il mondo in cui vivono. E se oggi fossero qui ci chiederebbero di spiegargli a cosa serve celebrare la Giornata della Memoria. E’ una domanda che tutti dobbiamo porci, proprio qui in questa regione che così tanto e da molti anni lavora su questi temi con grandi sforzi e grandi risultati.

Le memorie e la storia

A cosa serve la memoria, uno strumento prezioso e fragilissimo? Come farne una risorsa per la cultura del nostro presente? Quale nesso riusciamo a costruire tra la memoria e la cronaca, oggi drammatica, delle guerre e dei nazionalismi, delle stragi e delle migrazioni più o meno forzate? Una cronaca che ci turba e ci disturba, e poi ci si assuefà a seconda che i corto circuiti o le onde della globalizzazione l’accostino o meno alle nostre case.

La memoria è una risorsa preziosa, ma che si consuma. Non è come la fiaccola del tedoforo che passa di mano in mano, sempre rinnovando la sua fiamma. La memoria non si conserva, né si tramanda. Dobbiamo essere ben consapevoli che la memoria vive solo perché si riproduce, si rielabora, certo nel dialogo tra le generazioni e dunque e anzitutto nel dialogo con il tempo presente.

Perché la memoria è inefficiente, come ha scritto di recente Michael Corballis, uno psicologo neozelandese, parlando di quelle individuale, ma ciò vale anche per quelle collettive che ne discendono. La memoria non è una registrazione fedele del passato, semmai ci fornisce informazioni, talora anche false o incomplete, con cui costruiamo delle storie. Perché, per riprendere le parole di Marie Howe, una poetessa americana, “La memoria è un poeta, non uno storico”.

Ecco, la memoria è poesia e noi abbiamo molto bisogno di quella poesia per poter immaginare il passato, per riflettere sul passato, come ci chiede la legge 211/2000, la legge istitutiva della Giornata della Memoria. Abbiamo bisogno di sentirci raccontare delle storie. Quelle che i testimoni, ormai sempre meno numerosi, ci hanno raccontato con saggezza e talora con dolore, quelle che i viaggi ad Auschwitz ci fanno rievocare, quelli che i nuovi linguaggi ci raccontano in forme talora straordinariamente efficaci, come da ultimo ad esempio nel bel film Shalom Italia di Tamar Tal Anati, recentemente proposto al Festival dei Popoli.

Ma per fare educazione civile, quella poesia deve diventare strumento di conoscenza del presente, e non solo del passato. I testimoni ci emozionano, ma possono essere anche indurre ritualità e ripetitività. Quando li trasformiamo in monumenti, quando li trasformiamo in oracoli della verità esperienziale e nell’incarnazione del bene, quando li schiacciamo nel loro ruolo di vittime, senza riflettere su cosa sia stato storicamente il male cui li contrapponiamo, rischiamo di consolarci in una visione manichea che assolutizza il male, lo destoricizza e lo allontana da noi. Mentre il male era anche fra noi. Non era solo altrove, lontano dalle nostre città, nei luoghi dell’orrore dove pure ci rechiamo in viaggio, ma ai quali dobbiamo accostarci sempre con adeguata conoscenza e consapevolezza storica.

Quando si moltiplicano le vittime, e le loro memorie, che pure e giustamente chiedono ascolto, si deve però porre molta attenzione a non alimentare atteggiamenti autoassolutori e deresponsabilizzanti, all’insegna dell’”eravamo tutti antifascisti” e ovviamente “siamo tutti antirazzisti”. Attitudini che molto spazio hanno avuto nella storia del nostro paese. Soprattutto si rischia di perdere di vista i carnefici, uomini e donne come noi e come le loro vittime, si rischia di perdere di vista le idee e le scelte, le responsabilità e i progetti, i luoghi e le situazioni, qui e ora, che hanno trasformato milioni di uomini e donne in vittime.

Per questo, la poesia della memoria deve necessariamente coniugarsi con la conoscenza storica. Dobbiamo essere consapevoli che oggi più che mai la cultura e la conoscenza storica sono risorse indispensabili per la formazione di una coscienza civile e la costruzione di una società democratica. Anche nel tempo presente, proprio perché apparentemente schiacciato nell’immediatezza e nella novità dell’oggi, la cultura storica è chiamata ancora una volta e più che mai a svolgere per intero la propria funzione educativa, nel senso più alto, nel nostro paese così come, è auspicabile, in Europa e nel mondo.

Non perché si debba demandare ad essa la trasmissione di valori e di ideali, ma perché la cultura storica consente di mettere in prospettiva i problemi e le domande dell’oggi. Perché illuminando il passato, aprendoci alla comprensione di ciò che è stato, di perché è accaduto, essa ci aiuta a elaborare risposte capaci di misurarsi con consapevolezza critica con la complessità delle trasformazioni che investono il nostro presente, e con le sfide, le minacce, le ingiustizie che prendono nuova forma e sostanza.

Ed è chiaro che per cultura storica non intendo solo quella che possiedono gli accademici, ma anzitutto quella che dovremmo possedere tutti noi, insegnanti e studenti, uomini di cultura e politici, ma, allo stesso modo, tuti noi semplici cittadini. Appunto, la storia come risorsa per una cultura civile, nel senso proprio del termine.
È questo, deve essere questo, io credo, il senso profondo delle leggi del cosiddetto calendario civile, quelle che hanno istituito la Giornata della Memoria, il Giorno del Ricordo e le altre giornate memoriali.

La forza delle passioni, la poesia delle memorie dunque non possono non essere calate nel contesto delle condizioni storiche contingenti e specifiche che, nel loro convergere, costruirono il genocidio, nella Shoah, come altrove.

Il nazismo e l’Europa del Novecento

Del genocidio, dei molti genocidi di cui è lastricata la storia dell’umanità e in specie quella dei secoli a noi più vicini, la Shoah è divenuta il paradigma. E è giusto che sia così. Lo è divenuta in ragione della drammatica ferocia che l’ha alimentata e della enormità dei numeri che la distinguono, della sua centralità nel mondo cosiddetto sviluppato, della eccezionale convergenza di nazionalismo e antisemitismo, antislavismo e anticomunismo che ne fu all’origine. Alla condanna morale deve associarsi la conoscenza storica: cosa è accaduto? ma soprattutto perché è accaduto? Rispondere a queste domande, e ancor prima porsele è indispensabile per ricostruire il rapporto tra quegli eventi e la nostra modernità, vale a dire tra quegli eventi e noi stessi.

Il disegno e il realizzarsi dello sterminio nacquero e si collocarono dentro la costruzione di uno stato nazionale di impostazione razzista e coloniale, impegnato a imporre un nuovo ordine europeo, nel quale le gerarchie dei popoli fossero funzionali alla supremazia politica quanto alle esigenze dell’economia della Germania tedesca. Un disegno che coniugava l’efficienza della Wehrmacht e la potenza delle industrie tecnologicamente più avanzate con la rapina delle risorse e il lavoro schiavistico. Un progetto che si rivelò fallimentare, ma che appartiene a pieno titolo alla modernità novecentesca. Non un delirio, ma una risposta alle sfide poste da quella modernità. Una proposta politica che in Germania e in Europa raccolse larghi consensi, se non nei suoi dettagli sterminazionisti, certamente nella prospettiva generale di un ordine politico e sociale fondato sull’autoritarismo gerarchico, razzista e antisemita.

Le sue vittime furono in realtà cittadini cui si negarono diritti, non solo quelli che oggi noi chiamiamo umani – termine che trovo talora riduttivo – ma i diritti di libertà e sovranità politica, il diritto al lavoro, il diritto ad una vita sicura. I diritti di cittadinanza, insomma. Di quel disegno di esclusione da una cittadinanza fondata sulla razza, gli ebrei furono le prime vittime, in quanto considerati una “non razza”, un popolo senza stato. Gli ebrei tedeschi anzitutto, costretti alla fuga, e uccisi in circa centoventimila, e però accanto a loro tutti gli avversari politici del regime. Immediatamente dopo la conquista del potere, avvenuta per via elettorale e costituzionale, ricordiamolo, il nazionalsocialismo si scagliò contro il nemico interno, anzi, i nemici: gli ebrei, i comunisti, gli antifascisti, gli individui ritenuti socialmente dannosi. Nel 1933 furono arrestate trecentomila persone, in parte poi rilasciate, ma nel 1936 i detenuti a Dachau e negli altri campi erano ventimila e cinquantamila nel 1938 (la metà dei quali ebrei) e ancora il loro numero tornò a salire, nonostante le migliaia di espulsioni, a ottantamila all’inizio della guerra.

Dobbiamo ricordare questi numeri, perché nella loro brutalità ci raccontano come già in tempo di pace il nazionalsocialismo costruì i propri nemici, i nemici di una nazione pretesa omogenea, secondo una pretesa e una logica comune a molti altri stati europei novecenteschi, anche se fu certamente il più ferocemente radicale nel perseguire quella omogeneità. E, dunque altri numeri dobbiamo ricordare, ad esempio quelli degli oltre 20 milioni di europei costretti tra il primo e il secondo dopoguerra a lasciare le terre in cui vivevano perché considerati minoranze indesiderate rispetto ai nuovi stati in costruzione, non solo nell’Europa centrale. Storie di ieri, diverse tra loro, ma che condividono denominatori comuni. Storie che oggi si ripresentano, anche se in forme ancora diverse.

La Shoah: le radici e i frutti

E oggi, certo, parliamo un’altra lingua, adoperiamo altri strumenti. L’esperienza della Shoah è profondamente radicata nella nostra memoria e nella nostra coscienza. Ma quanto salde e vigorose sono quelle radici ? Quali frutti danno quelle radici?

Sono interrogativi che salgono alla mente, ad esempio, quando all’indebolimento dello stato nazionale indotto dai processi di globalizzazione si sente da più parti reagire alimentando spinte identitarie e comunitariste, che esaltano l’unilateralità e la fissità di taluni caratteri sociali o culturali. Saremmo in contraddizione con i principi fondanti della nostra professione di storici se intendessimo ricondurre queste proposte all’esperienza del nazionalsocialismo germanico. Ma, al tempo stesso, è la storia del Novecento, ad insegnarci che esaltando la pretesa fissità di taluni caratteri culturali e sociali si nega in radice il carattere necessariamente plurale della figura del cittadino, quale soggetto sovrano previsto dalla nostra Costituzione democratica.
Per questa strada – una scorciatoia sempre più frequentata – in nome di quelle identità si rifiutano, di fatto prima e di norma poi, i diritti di cittadinanza a chi è additato come estraneo alla comunità, immaginata come omogenea. Come se quei diritti discendessero dalla comunità, anziché dallo statuto di cittadinanza: è qui che il nesso tra dignità umana e diritto viene pericolosamente rimesso in questione, a danno di chi è diverso rispetto alla pretesa “comunità” per nascita, religione, orientamento sessuale o financo per condizione lavorativa.

Quelle modalità di costruzione dello stato – tornando alla storia del Novecento – erano state sperimentate nei territori sottoposti al dominio coloniale, esercitandosi in operazioni che oggi noi chiamiamo di “pulizia etnica”. Quelle stesse operazioni che, con registri e impatti pur diversi, abbiamo visto all’opera anche in Europa, prima e dopo il secondo conflitto mondiale e, non dimentichiamocelo, a poche centinaia di chilometri da noi, nei Balcani occidentali, negli anni Novanta.

Era, quella costruzione dello stato che portò alla Shoah, un progetto di marca teutonica? Certo. Non si richiamano le analogie per sminuire le responsabilità, né gettare tutto dentro lo stesso calderone. Ma non dobbiamo dimenticare che anche l’Italia aveva elaborato un diritto coloniale mirato a tutelare la “razza” italiana, prodromico alle leggi razziste persecutorie dei diritti dei cittadini ebraici. E certo anche altri stati europei avevano gravi responsabilità nel governo coloniale e si erano resi protagonisti di feroci operazioni di ‘polizia coloniale’, lo stesso l’eufemismo con cui ancora pochi anni fa, sulle pagine di un giornale di questa città, qualcuno volle definire e difendere la “riconquista” fascista della Libia che provocò direttamente o indirettamente la morte di molte decine di migliaia di libici.

Le responsabilità dell’Europa (e dell’Italia)

Il nazismo fu altro. Certamente. Ma fu altro anzitutto perché, come ci fa notare lo storico Mark Mazower, portò nel cuore dell’Europa quella linea di frattura tra noi e loro che gli europei avevano tracciato nelle colonie. Fu altro perché radicalizzò quegli obiettivi politici fino a concepire – passo dopo passo – lo sterminio come un fine in sé. Per questo la Shoah è divenuta il paradigma sul quale misurare e concepire tutti gli altri genocidi.

Il nazismo portò lo sterminio nel cuore dell’Europa perché aveva un progetto per l’Europa: unificarla, s’intende sotto il proprio dominio. Un dominio all’ombra del quale molti cercarono spazio e protezione, come ci dimostrano non solo i collaborazionismi e gli alleati subalterni che li accolsero e sostennero in quasi tutti i paesi europei, a cominciare dal nostro. Ma anche un progetto condiviso, come mostra la storia del continente tra le due guerre mondiali, segnata dalla guerra civile tra fascismo e antifascismo e dal prevalere dell’opzione autoritaria di paese in paese, di anno in anno, già prima che l’esercito tedesco si mettesse in marcia nel 1939.

Di quell’Europa, la Germania nazista fece strame, con il sostegno o la tolleranza dei suoi alleati. Uccise tra i 5 e i 6 milioni di ebrei, dei quali oltre 160mila risiedevano nel Reich, 100mila nei Paesi Bassi, 200mila in Romania, oltre 70mila in Francia, 14mila in Cecoslovacchia, oltre mezzo milione in Ungheria, oltre 2 milioni in Unione sovietica e circa 2 milioni e 700 mila in Polonia.
Nei campi di concentramento e di sterminio morirono 2 milioni e 700 mila ebrei, mentre gli internati non ebrei – cioè zingari, politici, omosessuali e altri ancora – furono tra i 2 e i 3 milioni, dei quali circa ¼, tra i 5 e i 700mila morirono durante la prigionia. Nel gennaio 1945 esistevano una ventina di campi, ove erano rinchiusi circa 700mila prigionieri.

Pochi numeri, solo per richiamare assieme la portata europea e la dimensione organizzativa della politica che portò allo sterminio. Una politica che intendeva coniugare gli scopi della guerra e gli scopi dell’economia e che, per nostra fortuna, lo fece in modo alla fine fallimentare, affollando e gestendo i campi in nome ora delle logiche produttive, ora della reclusione politica, ora della persecuzione antisemita, ora dell’internamento dei prigionieri di guerra, anzitutto russi.

Memorie e cittadinanza democratica

Ne fu investita tutta l’Europa. Per questo, la Shoah non può non essere un elemento centrale e costitutivo della memoria e dell’identità europea. Ma, come già ha ricordato lo scorso anno, proprio in questa sede e in questa occasione, anche Filippo Focardi, non può essere una memoria delle vittime, magari in competizione con quella di altre vittime. Deve invece essere la memoria dei cittadini europei cui furono negati diritti, una memoria che non è in contrasto, bensì in sintonia con quella di quanti per quei diritti si batterono. Che non è in competizione con altre memorie, quando ricordiamo la privazione dei diritti che altri uomini e donne a loro volta soffrirono ad opera di regimi di diversa od opposta intonazione politica.

Non perché si debba raggiungere un’impossibile memoria condivisa. Ma perché le memorie sono intrinsecamente plurali, perché il riconoscimento della nostra memoria passa per il riconoscimento di quella altrui. Le memorie, infatti, possiedono, anzi possono accrescere il loro senso e valore nel nostro tempo presente soltanto se promuovono il riconoscimento dell’altro, il riconoscimento delle memorie altrui. Come italiani abbiamo ancora molto da fare in questo senso, nei confronti della Libia e dell’Etiopia, della Spagna e della Grecia, dell’Albania e del Montenegro, della Croazia e della Slovenia, anche della Russi e dell’Ucraina.

La storia non è magistra vitae, ma ci aiuta a comprendere che il riconoscimento degli altri come diversi da noi è – oggi più che mai – il presupposto della cittadinanza democratica, in Italia come in Europa. L’Europa come istituzione politica adeguata alla globalizzazione degli anni Duemila non può scaturire dalla sommatoria instabile di interessi presunti nazionali in competizione. Può solo fondarsi su una ridefinizione della cittadinanza che muova da quei valori di libertà, di giustizia, di rispetto della dignità umana che spinsero parte della società europea a contrastare la costruzione di un’Europa dominata da stati attrezzati per guerre di conquista e governati dall’autoritarismo, dal razzismo e dalla sopraffazione sociale.




“Inciampare” nel passato per capire il presente

Sono sempre inorridito ogni volta che incido i nomi, lettera dopo lettera. Ma questo fa parte del progetto, perché così ricordo a me stesso che dietro quel nome c’è un singolo individuo. [...] L’installazione di ogni Stolperstein è un processo doloroso ma anche positivo perché rappresenta un ritorno a casa, almeno della memoria di qualcuno. (Gunter Demnig)

Che l’arte abbia impressa nelle sue mille anime la sua brava dose di memoria, più o meno esplicita, più o meno varia e consapevole, è cosa palese per chi l’ama e la studia, anche da lontano. I tempi, le temperie culturali, la voglia di appartenere, o di distinguersi, di lasciare segni volti al futuro, che richiamino vissuti, esperienze, afflati o sofferenze singole e corali hanno contrassegnato la comunicazione artistica di tutti i tempi, di tutte le arti. Più espliciti e non scevri di retorica sono talvolta i molti monumenti che nelle piazze ricordano i caduti delle guerre, carichi anche di un’altra memoria forse più inconscia, ma non meno significativa, quella lasciata dalla mano di un artista imbevuto della cultura del suo tempo.

L'artista Gunter Demnig (foto di Karin Richert, tratta da www.stolpersteine.eu)

L’artista Gunter Demnig (foto di Karin Richert, tratta da www.stolpersteine.eu)

La riflessione di Gunter Demnig sulla memoria è intuizione geniale e azione artistica al tempo stesso. Ha scelto di fare della sua vita un’opera di memoria: dare un nome e una presenza a chi vide la propria vita tragicamente spezzata dalla deportazione, la propria identità depredata e negata, sostituita con un numero di matricola. Nel breve spazio di un sampietrino riluce l’ottone con un nome e una biografia sintetica. Inciampa la vista e accende la memoria, ma senza retorica, senza ricorrere a nessun stratagemma volto a commuovere o a commentare. È chi guarda a trovare la memoria e la storia come sua conquista personale, cercare e capire il senso di un vissuto, che è parte di un vastissimo mosaico, ad oggi comprendente 60.000 pietre d’inciampo sparse in tutta Europa ed in continuo incremento. Un’opera maestosa, quella di Gunter Demnig, forse mai realizzabile fino in fondo, e per questo coraggiosissima. E che si avvale necessariamente della collaborazione di altre persone nei paesi di origine per la ricostruzione delle biografie dei deportati razziali, politici, militari; una sorta di ritorno di chi in realtà non tornò mai alla sua casa, o vi tornò con la vita ormai segnata. Un ritorno dimesso, dignitoso, ma immenso e radicato nei tessuti delle città, nel selciato su cui il presente cammina.

Anche Grosseto il 13 di gennaio avrà le sue prime pietre d’inciampo e farà parte di questa opera incredibile: tre piccole pietre verranno poste nel cuore del centro storico a ricordare Albo Bellucci, Italo Ragni, Giuseppe Scopetani, tre deportati politici grossetani.

Questo è il simbolico atto in cui culmina un lavoro di ricerca didattico e divulgativo intrapreso ormai tre anni fa: “Cantieri della memoria. Dalle pietre al digitale”, un progetto realizzato con il contributo del CESVOT, che ha coinvolto 8 associazioni e 5 enti locali della Maremma: Provincia e Comune di Grosseto, Comuni di Manciano Magliano in Toscana e Roccastrada. In ogni Comune sono stati individuati segni della memoria: monumenti, toponomastica, tracce lasciate nei luoghi da eventi, che hanno contribuito a costruire la realtà sociale presente. L’obiettivo era quello di far dialogare memoria e storia, di porre segni di memoria del passato, di sollecitare nelle nuove generazioni un’elaborazione del passato e una consapevolezza delle responsabilità di lutti e violenze che hanno attraversato il Novecento. È stato fondamentale il coinvolgimento degli studenti, che, guidati dai ricercatori dell’Isgrec, hanno intrapreso in ogni comune un lavoro didattico sui segni di memoria, cercandone il profondo significato storico nell’ottica di un recupero e di una valorizzazione.

Il bassorilievo di Tolomeo Faccendi, commissionato da Tullio Mazzoncini, donato al Comune nel 2008 e oggi esposto nell'atrio del Municipio

Il bassorilievo di Tolomeo Faccendi, commissionato da Tullio Mazzoncini, donato al Comune nel 2008 e oggi esposto nell’atrio del Municipio

Significativo al riguardo è stato il lavoro dei ragazzi della IV B a.s. 2014-2015 del Liceo Artistico di Grosseto, indirizzo Arti figurative, che ha ricostruito la complessa vicenda del rilievo in gesso di Tolomeo Faccendi e della sua copia in Bronzo a Campospillo, di proprietà della famiglia Mazzoncini e donato alla città nel 2008, attualmente esposto nell’atrio del Municipio di Grosseto. Partendo dalla costruzione di laboratori sulle fonti storiche, i ragazzi hanno potuto ricostruire la genesi del monumento e la storia della deportazione politica grossetana da esso ricordata, collocando l’opera d’arte nel contesto storico e artistico della Maremma del Secondo Dopoguerra. Alla fine del percorso storico e critico hanno stilato i testi esplicativi confluiti nel sito Cantieri della memoria e richiamabili dal QR code posto nella targa recentemente collocata accanto al monumento.

In questo modo un tassello importante del rapporto arte-memoria è stato ricostruito e ricollocato scientificamente per una corretta fruizione storica sotto gli occhi della cittadinanza.

Ne è emersa la vitalità artistica di Tolomeo Faccendi, importante scultore attivo fino agli anni Settanta del Novecento in città, le sue relazioni di amicizia e condivisione con Tullio Mazzoncini, protagonista insieme a Scopetani e Bellucci della tragica vicenda che ne determinò la deportazione a Gusen e Mauthausen. Attraverso il potere evocativo del linguaggio artistico, che richiama classiche suggestioni, ricorrendo per certi versi addirittura alla maniera michelangiolesca nella rappresentazione del dolore in un lager, l’artista riesce a indurci ad una riflessione, a soffermarci per osservare, per capire. L’opera diventa quindi strumento di conoscenza e testimonianza storica, ma anche momento di crescita etica individuale.

Altro segno artistico legato alla memoria della deportazione nel grossetano è il monumento ai Martiri dell’Antifascismo e della Resistenza, posto nello spicchio di verde all’incrocio di via Giuseppe Scopetani e via Albo Bellucci alla Cittadella dello Studente. Il monumento si presentava mutilo della targhetta esplicativa della data e dell’autore. Anche le guide della città più informate non ne attribuivano la paternità. Un’appassionata ricerca dell’Isgrec, che, ancora una volta e non a caso, ha coinvolto il mondo della scuola, ha dapprima individuato i protagonisti del progetto della costruzione della Cittadella dello Studente, concepita come piccolo campus, luogo di studio e di lavoro, che rende omaggio alla Resistenza e ricorda i martiri dell’antifascismo finanche nella toponomastica, diventando essa stessa luogo di memoria. Si è potuti quindi giungere alla rievocazione della genesi del monumento, simbolicamente affidato alle nuove generazioni.

Costruzione del monumento (Archivio privato Maria Paola Mugnaini)

Costruzione del monumento (Archivio privato Maria Paola Mugnaini)

Fu infatti l’allora studentessa del Liceo Artistico Maria Paola Mugnaini, vincitrice di un concorso tra i suoi coetanei indetto dall’Amministrazione Provinciale, a progettare la struttura con l’aiuto dei suoi insegnanti nel 1984. Il risultato è una struttura architettonica aperta a forma di piccolo tempietto moderno, struttura inclusiva che nell’alternanza di linee orizzontali e verticali spezzate utilizzate simbolicamente insieme alle linee curve, invita ad entrare sedersi e meditare in silenzio. L’uso dei materiali quali metallo e cemento nella libertà della composizione immersa nel verde ne sottolineano il ripudio della retorica a favore di una ricerca di un’intima e personale meditazione, ribadita dalla lettura del testo conservato su un’epigrafe all’interno del tempietto su cui si riporta una lettera di un condannato a morte della Resistenza.

Il confronto con i documenti fotografici dell’inaugurazione, la generosa testimonianza dell’autrice che abbiamo incontrato e intervistato, hanno contribuito ancora una volta alla comprensione di un pezzo di storia recente della città, nell’ottica delle diverse politiche della memoria, tutte oggetto imprescindibile di un doveroso studio critico.

In questa prospettiva si giunge coerentemente all’oggi, alla sensibilità nuova ed europea che pervade l’opera di Demning, in coerenza con le nuove visuali dettate dalla sensibilità contemporanea, nel rispetto della tendenza a ricostruire e a annoverare una per una, tutte le esperienze individuali; in questo solco si colloca la recente storiografia della deportazione, cifra che contraddistingue tante delle più recenti esperienze di ricerca storica (si pensi agli ultimi libri dei deportati o all’Atlante delle stragi nazifasciste in Italia), nella consapevolezza che la storia è fatta di tante infinite piccole storie personali, nell’intento di non dimenticare e di non lasciare nell’ombra nessuna vita, nessuna voce.

Questo spirito è lo stesso che chiede di cercare ancora, di indagare tra le carte e nelle memorie dei testimoni, come si è fatto per i nostri tre deportati grossetani, e che ha condotto a nuove interviste, nuove interpretazioni, nuovi scenari, perché la storia non è cosa morta, scritta una volta per tutte e poi dimenticata, ma essa vive e continua a pulsare in coloro che ogni giorno le sanno rivolgere ancora nuove domande, alla luce del presente, grazie anche al bagliore breve di un piccolo sampietrino.




E scese l’inferno dal cielo

La più grande tragedia di Empoli”, come l’ha definita Libertario Guerrini nella sua storia de “Il movimento operaio nell’Empolese 1861-1946” avviene alle ore 13.00 del 26 dicembre del 1943 quando per la prima volta la città è colpita da un bombardamento aereo alleato che colpisce e devasta i quartieri adiacenti alla stazione ferroviaria ed in particolare il rione delle Cascine, determinando la morte di 120 persone e il ferimento di oltre 200, secondo le prime stime riportate dai vigili del fuoco prontamente accorsi. I danni sono evidenti ed ingenti: 50 abitazioni ed uno stabilimento completamente distrutti, oltre 90 case e 5 fabbriche sinistrate.
Una vera tragedia aggravata non solo dall’effetto sorpresa da parte di una comunità impegnata nel pranzo festivo, e “rassicurata” dal fatto che ben 57 allarmi aerei erano risuonati senza alcuna conseguenza fra il 30 agosto e il 13 novembre precedenti, e dallo “scivolamento” delle bombe dai binari della ferrovia, cui erano dirette, alle zone vicine, ma anche dal fallimento del sistema di difesa e protezione antiaerea. Non è un caso che il Commissario prefettizio che gestisce il Comune nella sua prima relazione al Capo della Provincia (carica che sotto la Repubblica sociale italiana riunifica quelle di Prefetto e di Presidente della Provincia) insista sui danni da attribuire alla ferocia “nemica” e sulla solidarietà immediata che muove gli empolesi e anche le popolazioni dei paesi vicini nel cercare di portare i primi soccorsi e affrontare le emergenze più impellenti (abbattere le parti pericolanti degli edifici, soccorrere i feriti, seppellire i morti per evitare il diffondersi di epidemie), ma non analizzi in alcun modo l’assenza di ogni difesa anti-aerea.
Viene improvvisamente meno l’illusione di essere un piccolo nucleo provinciale che non avrebbe potuto attirare l’attenzione dei potenti stormi angloamericani, rispetto alle grandi città industriali del nord, ma anche ai capoluoghi toscani, come Firenze e Pisa attaccati nei mesi precedenti. Del resto Empoli non era affatto periferica, in quanto importante centro manifatturiero e, soprattutto, fondamentale snodo del sistema ferroviario lungo le direttrici che da Firenze portavano – e portano ancora oggi – al mare e a Roma. E proprio i centri di produzione, le vie di comunicazione delle truppe e delle merci e le reti infrastrutturali erano gli obiettivi primari della guerra aerea.
Anche gli empolesi conoscono e si trovano al centro del conflitto mondiale iniziato dal nazismo nel settembre del ’39, di cui l’Italia fascista era stata attiva protagonista fino ad esserne travolta nell’estate del ’43 con l’invasione angloamericana della Sicilia, la deposizione di Mussolini, l’armistizio dell’8 settembre e l’occupazione nazista della penisola che aveva trasformato la penisola in un tremendo campo di battaglia. E proprio la guerra aerea ne segna ed esprime la dimensione di “guerra totale” capace di colpire ciascuno e tutti (senza distinzioni fra civili e militari, uomini e donne) in ogni momento della giornata, in ogni luogo, fin nelle proprie abitazioni. L’Italia ne era stata fatta oggetto dall’autunno del ’42 a partire dai porti del Mezzogiorno e dalle grandi città industriali del nord.
Ma partire dalla primavera-estate del ’43 la strategia bellica alleata aveva puntato proprio sugli attacchi aerei su tutta la penisola – a partire da Roma – per demolire il morale di una popolazione già fortemente provata che, con gli scioperi del marzo precedente, aveva mostrato il proprio crescente distacco dal regime, così da favorirne la caduta e quindi la resa del Paese. Del resto proprio la tenuta o meno del “fronte interno”, cioè la capacità di una popolazione di resistere alle prove del conflitto sostenendo lo sforzo bellico del proprio governo, è la cartina di tornasole per misurare le sorti delle parti belligeranti. Il venir meno delle promesse della propaganda sulla rapida e vittoriosa fine del conflitto e l’evidente fallimento delle strategie di difesa antiaerea intrecciate con i forti limiti nella protezione ed assistenza dei civili aprono un solco crescente fra gli italiani e il regime e fanno emergere come prioritaria e maggioritaria la volontà di uscire dal conflitto, come mostrano l’entusiasmo con cui sono accolte dalla maggioranza della popolazione sia la notizia della “caduta” di Mussolini che quella dell’armistizio.
A partire da quel 26 dicembre quindi, anche all’ombra della Collegiata e nei borghi delle valli fiorentine si diffonde il terrore della morte quotidiana che scende dal cielo, accentuando il terrore e il senso di precarietà di popolazioni già provate dal prolungarsi del conflitto e dai suoi effetti a partire dalla mancanza di adeguate risorse alimentari. E sarà l’inizio di una lunga via crusis, anche se la tragedia del primo bombardamento resta insuperata. Nei mesi successivi gli attacchi aerei si ripetono con crescente insistenza in relazione all’avvicinarsi del fronte nell’estate successiva. Empoli, ed i territori circostanti, sono infatti colpiti dal cielo fra gennaio e luglio del ’44 altre 36 volte, delle quali 13 nel solo mese di luglio.
Inoltre, a seguito del primo bombardamento e ai due successivi nel gennaio del ’44 la città viene evacuata e gran parte della popolazione conosce così l’inevitabile, ma dolorosa esperienza dello sfollamento nelle campagne vicine, da “profughi” nella propria terra. Nei mesi successivi la città torna ad animarsi al mattino e nel tardo pomeriggio per lo svolgimento delle attività e dei lavori quotidiani in un contesto segnato da un crescente discredito delle autorità fasciste della Repubblica sociale, dall’ostilità verso queste e le truppe naziste e dal sostegno alle forze della Resistenza e alle forme di opposizione al nazifascismo e alla guerra, e nella trepidante attesa della fine del conflitto.

Matteo Mazzoni, dottore di ricerca in Studi storici in età moderna e contemporanea, è attualmente Direttore dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana e coordinatore del Portale ToscanaNovecento.




La tubercolosi a Siena fra XIX e XX secolo

Tra le gravi patologie infettive che colpivano gli abitanti della città di Siena, tra la fine dell’ ‘800 ed i primi del ‘900, quella più letale fu senz’altro la tubercolosi.

Particolarmente falcidiato era il proletariato urbano, composto soprattutto da operai e artigiani, anche se il morbo colpiva in percentuali non irrilevanti anche le classi più abbienti.
Le zone più esposte all’infezione erano i quartieri popolari fatiscenti e sovraffollati nonché le aree manifatturiere caratterizzate dalla presenza di numerosi magazzini umidi e malsani; man mano che ci si spostava verso le zone più aperte del suburbio o verso i quartieri ricchi, il numero dei contagiati diminuiva gradualmente.
Maglia nera, in questa poco invidiabile classifica del dolore, spettava alle zone più miserabili e sovraffollate come Salicotto, i Pispini, i Servi, Malborghetto, Castelvecchio, Vallepiatta, Fontebranda, Vallerozzi e la contrada del Bruco.

La prima a tentare un pur parziale intervento contro questo atavico problema fu, a fine ‘800, l’Associazione dei bambini poveri scrofolosi, la quale offriva un certo numero di soggiorni marittimi presso Talamone a dei bambini della città affetti da tubercolosi linfatica. Nel 1898 nacque in città il “Comitato Antitubercolare”, istituzione tra le prime in Italia, sorta per affrontare il problema con determinazione, ma quest’ultima, a causa degli scarsi mezzi, si limitò ai buoni propositi.
Sempre un impatto limitato ebbe la costituzione di un reparto di isolamento all’ospedale S. Maria della Scala: tale sezione risultò immediatamente troppo piccola per il fabbisogno effettivo, ma anche i pregiudizi delle famiglie degli ammalati giocarono un ruolo decisivo: il ricovero in isolamento era visto come l’anticamera della morte e quindi evitato nel modo più radicale contribuendo ad azzerare l’efficacia del provvedimento.

Lo scoppio della prima guerra mondiale aumentò in modo consistente la diffusione del morbo: soltanto nel 1917, a Siena, i decessi certificati per tubercolosi aumentarono del 41,5% rispetto alla media del triennio 1912-1914.
Di fronte a questi dati, assai simili su buona parte del territorio nazionale, il Governo e le gerarchie militari, a partire dal 1917, misero in cantiere provvedimenti meno duri nei confronti dei combattenti e della popolazione civile.
Nacque pertanto l’Opera nazionale per la Protezione e l’Assistenza degli Invalidi di Guerra, vennero approvati dei decreti sulle pensioni per le malattie derivanti da cause belliche, si stabilì che coloro che avevano contratto la tubercolosi nell’esercito fossero ricoverati a carico dello Stato e ricevessero un sussidio.

Il problema venne tuttavia affrontato in modo incisivo soltanto a partire dal 1919, quando una nuova normativa gettò le basi per la creazione di una rete di istituti di profilassi antitubercolare; proprio in virtù di questa normativa nacque a Siena l’Associazione Senese Antitubercolare, la quale poteva contare su quattro medici, un assistente radiologo, due segretarie, cinque dame visitatrici ed una infermiera delegate queste ultime a ‘dare la caccia’ ai malati per la città.
Nel primo anno di attività, l’Associazione effettuò 63 visite e 26 richiami, eseguì 32 esami di laboratorio e accertò 15 casi di malattia: era l’inizio. Nel 1920 venne aperto un piccolo dispensario, nella cripta della chiesa di S. Sebastiano, nel Fosso di S. Ansano.
Già nel 1920 gli accertamenti diagnostici, compresi quelli di richiamo, salirono a 776 (casi accertati 50), per arrivare a 1.092 tre anni dopo (casi accertati 71) e a 2.285 nel 1930 (casi accertati 125). In queste cifre rientravano anche le 898 prestazioni – visite, terapie, distribuzione di medicinali, promozione di pratiche per la pensione di guerra – fornite ai 178 militari senesi riconosciuti invalidi per tare tubercolari.

Ormai la strada era segnata: la successiva nascita di strutture sanitarie sempre più idonee e la riqualificazione edilizia delle zone degradate della città, intrapresa durante il ventennio fascista, portò, nei decenni successivi, alla progressiva scomparsa della malattia all’interno delle mura di Siena.

Il quartiere Salicotto dopo il "risanamento" compiuto nel 1928-1933. Voluto anche per ridurre il sovrappopolamento e diradare i focolai di tubercolosi.

Il quartiere Salicotto dopo il “risanamento” compiuto nel 1928-1933. Voluto anche per ridurre il sovrappopolamento e diradare i focolai di tubercolosi.




“Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza”

In una notte di giugno del 1944, una squadra di giovani partigiani penetra nel buio di una galleria della linea ferroviaria Lucca-Piazza al Serchio, tra Ponte a Moriano e Borgo a Mozzano: l’obiettivo è il ponte che si trova proprio all’uscita del tunnel, e i guerriglieri, per ostacolare i movimenti delle truppe naziste lungo la valle, si accingono a farlo saltare con gli esplosivi. A guidare i ragazzi, tutti di origini sarde, è il ventottenne Pietro Pistis, nativo di Lanusei (Ogliastra): fino all’8 settembre 1943 sergente del genio guastatori del Regio Esercito, combatte adesso per la formazione “Baroni”, operativa in Lucchesia. Senza fare rumore, la formazione avanza nella galleria a gruppi di tre, in coda due muli e i conducenti per il trasporto degli ordigni. Il gruppo è già piuttosto avanti nel tunnel, quando Pistis fa cenno con le braccia ai compagni di fermarsi e guardare verso l’uscita: all’imbocco opposto della galleria, si riconoscono infatti le ombre di alcune sentinelle tedesche che si muovono da una parte all’altra della volta. Consapevoli del rischio, i partigiani decidono di proseguire comunque, strisciando ai lati dei binari nel massimo silenzio. D’un tratto, tuttavia, i tedeschi si accorgono di qualcosa ed aprono il fuoco: i giovani si mettono subito al riparo, e, non appena la sparatoria dà un attimo di tregua, avanzano verso il caposquadra per fargli intendere che la missione è fallita, che l’unica scelta, oramai, è la ritirata. Nel buio più totale, bersagliati dai proiettili nazisti, due ragazzi raggiungono il comandante, rimasto indietro: dal momento che non reagisce, decidono di toccarlo, per spingerlo a fuggire quanto prima. Ma Pistis non dà segni di vita: colpito al cuore, è morto senza fare rumore. Devastati dalla perdita dell’amico, i compagni arretrano e, coprendosi l’uno con l’altro, riescono tutti a mettersi in salvo fuori dalla galleria. Sul luogo del sacrificio di Pistis, proprio nelle vicinanze del tunnel che lo vide morire, in un vasto piazzale affianco alla via Ludovica appena prima di entrare nel paese di Borgo a Mozzano provenendo da Lucca, nell’ottobre 1992 il comune e le associazioni combattentistiche e patriottiche vollero erigere un piccolo monumento.

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La copertina della nuova guida “Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza”, scritta da Feliciano Bechelli per Pezzini Editore.

Il cippo in memoria di Pistis in località “Madonnina di Mao” è soltanto uno dei molti luoghi della memoria contenuti nella nuova guida “Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza” (Pezzini Editore), secondo tassello del grande progetto tripartito di valorizzazione del patrimonio storico provinciale del tempo di guerra portato avanti dall’Isrec Lucca nel corso degli ultimi due anni di lavori. Scritta dal lucchese Feliciano Bechelli, giornalista pubblicista e membro del Consiglio direttivo dell’Istituto stesso, direttore responsabile, fra l’altro, della rivista semestrale di approfondimento storico dell’Isrec “Documenti e studi”, la pubblicazione fa seguito al primo volume della serie, dedicato alla Versilia, uscito poche settimane fa, parimenti completato con la supervisione scientifica del prof. Gianluca Fulvetti dell’Università di Pisa e reso possibile dal sostegno economico della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca: adottando un efficace taglio divulgativo, adatto ad un pubblico variegato, il libro raccoglie e presenta un gran numero di siti, vicende e personaggi altamente significativi, capaci di restituire il racconto corale dell’esperienza comunitaria delle genti del Serchio nell’ultimo, terribile anno e mezzo di guerra.

Avvalendosi di mappe, documenti d’epoca ed immagini di oggi e di ieri, Bechelli guida il lettore alla scoperta (o alla ri-scoperta) degli avvenimenti che sconvolsero Mediavalle e Garfagnana fra il settembre 1943 e l’aprile 1945, un territorio caratterizzato dall’ingombrante presenza della Linea Gotica e da quasi quotidiani scontri fra formazioni partigiane e reparti nazifascisti.

La tetra struttura dell'ex-albergo "Le Terme" ai Bagni Caldi di bagni di Lucca, convertita nei mesi dell'occupazione a campo di controvento provinciale per ebrei.

L’ex-albergo “Le Terme” a Bagni di Lucca, convertito nei mesi dell’occupazione in campo di concentramento provinciale per ebrei.

Suddivisa in capitoli dedicati ai singoli paesi e ai rispettivi dintorni, di cui l’autore tratteggia anche la storia nelle epoche precedenti ed evidenzia con apposite schede attrazioni turistiche ed eventi “da visitare”, la narrazione affronta così tutti i principali aspetti del conflitto nel suo scorcio più cruento, di volta in volta condensati in “punti caldi” di grande rilevanza per la memoria locale: dal lavoro coatto per la costruzione della Gotica, esemplarmente rappresentato dal campo tedesco di Socciglia, presso Borgo a Mozzano, ai bombardamenti angloamericani, capillari in tutta la valle del Serchio, ma in particolar modo a Castelnuovo di Garfagnana, dalle stragi naziste, come nel caso delle uccisioni compiute dalla Wehrmacht a Montefegatesi e Ponte a Serraglio (presso Bagni di Lucca) fra il 14 ed il 18 luglio 1944, alle persecuzioni antiebraiche, tristemente identificabili nell’ex-albergo “Le Terme” a Bagni di Lucca, trasformato nei mesi dell’occupazione in campo di concentramento provinciale per ebrei, da cui il 30 gennaio 1944 partì un treno destinato ad Auschwitz con 97 persone, di cui soltanto cinque riuscirono a fare ritorno a guerra conclusa.

Non mancano poi dettagliate ricostruzioni delle principali operazioni di guerriglia delle squadre partigiane locali, come la sanguinosa battaglia del monte Rovaio, presso l’Alpe di Sant’Antonio, nel comune di Molazzana, che, il 29 agosto 1944, vide coinvolto il Gruppo Valanga del gallicanese Leandro Puccetti (1922-1944) contro truppe tedesche e reparti della GNR: anche in questo caso, il dato storico è accompagnato dalle immagini e dalle indicazioni pratiche per la visita ai luoghi e ai sentieri che fecero da sfondo ai combattimenti.

La vetta del monte Rovaio, presso Molazzana, teatro della sanguinosa battaglia fra i partigiani del Gruppo Valanga di Leandro Puccetti e nutriti reparti della Wehrmacht e della GNR, il 29 agosto 1944.

La vetta del monte Rovaio, presso Molazzana, teatro della sanguinosa battaglia del 29 agosto 1944 fra i partigiani del Gruppo Valanga di Leandro Puccetti e nutriti reparti della Wehrmacht e della GNR garfagnina.

Affianco alle iniziative di indomiti resistenti rimasti impressi nel racconto corale della guerra in Valdiserchio, come Giovanni Battista Bertagni, comandante del Battaglione “Casino” della Brigata Garfagnana della Divisione Garibaldi Lunense, e Manrico “Pippo” Ducceschi, a capo dell’XI Zona Patrioti, attiva fra la montagna pistoiese e la Mediavalle, rivivono quindi i giorni della “guerra guerreggiata” lungo la Linea Gotica fra le truppe nazifasciste e gli uomini della 92° Divisione “Buffalo” afroamericana, impegnati in un logorante scontro di posizione dall’autunno del 1944 alla primavera dell’anno successivo: a tal proposito, di grande interesse è il capitolo dedicato a Sommocolonia, borghetto d’altura vicino a Barga, che fu teatro della devastante battaglia di Natale del 25, 26 e 27 dicembre 1944 (nome in codice tedesco: “Wintergewitter Aktion”), ultimo, vano tentativo germanico di spezzare il fronte alleato in direzione sud, conclusosi con intensissimi bombardamenti e vaste distruzioni in tutta la valle.

Giovanni Battista Bertagni, già sottotenente di complemento degli alpini, nell'estate del 1944 fu al comando del Battaglione "Casino" della Brigata Garfagnana della Divisione Garibaldi Lunense.

Giovanni Battista Bertagni, già sottotenente di complemento degli alpini, nell’estate del 1944 fu al comando del Battaglione “Casino” della Brigata Garfagnana della Divisione Garibaldi Lunense.

Oltre a trattare gli eventi della “grande storia” sul territorio, la nuova pubblicazione dell’Isrec di Lucca parla anche di Resistenza civile, di solidarietà umana e cristiana, soffermandosi sulle scelte della gente comune e di non pochi sacerdoti, che, di fronte alla spietata caccia all’uomo scatenata dalle forze nazifasciste contro oppositori politici, ebrei e renitenti alla leva, seppero reagire con decisione, offrendo spontaneamente rifugio, cibo e protezione ad un gran numero di perseguitati: è il caso, ad esempio, di Giuseppe Lombardi e don Gino Bachini a Colognora di Pescaglia, che salvarono la famiglia dell’ebreo viareggino Renato Pieri, di don Giovan Maria Torre, che, oltre ad assistere molti ricercati, s’impegnò a trasferire le attrezzature dell’ospedale bombardato ed inagibile di Castelnuovo nella canonica della propria chiesa, ad Antisciana, per non parlare di don Guglielmo Sessi, parroco di Sillico (nel comune di Pieve Fosciana), che, più volte arrestato dai fascisti e quindi tornato in libertà, s’impegnò fino alla fine del conflitto nell’assistenza agli ebrei e ai prigionieri di guerra alleati in fuga verso le proprie linee.

Utile strumento per una vasta diffusione della conoscenza storica del territorio nel periodo 1943-1945, certamente di grande validità anche a scopi didattici, la guida “Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza” sarà a breve seguita dal terzo ed ultimo capitolo del grande progetto “Luoghi della memoria” dell’Isrec, dedicato al capoluogo provinciale ed alla Piana di Lucca.