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Un secolo ed un architetto: Giovanni Michelucci

Il 7 aprile 2014 siamo giunti alla terza presentazione del documentario, sottotitolato in inglese, Giovanni Michelucci. Elementi di vita e di città, regia di Cristiano Coppi, al Cinema Odeon di Firenze realizzato con la Provincia di Pistoia la Fondazione Giovanni Michelucci di Fiesole con il contributo della Regione Toscana e in quest’occasione con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia in collaborazione con l’Università di Firenze, Dipartimento di Architettura DIDA/Festival Internazionale di Architettura in video MEDIARC.

Le precedenti presentazioni erano state al cinema Globo di Pistoia nel dicembre 2012 e al Museo MAXXI di Roma nel maggio 2012.

Il documentario racconta i cento anni vissuti da Giovanni Michelucci e i momenti che hanno segnato la sua vita di uomo e di architetto. Attraverso filmati dell’epoca, riprese delle sue opere più importanti e interviste, il documentario vuole descrivere la complessità ed il fascino di un personaggio di cui tanto si è scritto ma che ancora oggi conserva molti aspetti da esplorare. Collaboratori, architetti e storici dell’architettura, come Claudia Conforti, Paolo Portoghesi, Corrado Marcetti, Mauro Innocenti, Marco Dezzi Bardeschi, Francesco Dal Co, solo per fare qualche nome, hanno raccontato le molteplici sfumature di uomo che ha attraversato un secolo, il secolo breve cogliendone i mutamenti. La puntuale regia di Cristiano Coppi si è avvalsa di un comitato scientifico composto da Andrea Giraldi, Matilde Montalti e Alice Vannucchi.

Nato il 31 dicembre 1890 a Pistoia in una famiglia proprietaria di un’officina per la lavorazione artigianale e artistica del ferro, si diploma all’istituto Superiore di Architettura dell’Accademia di Belle Arti, nel 1914 ottiene la licenza di professore di disegno architettonico; insegnerà presso l’istituto superiore di architettura di Firenze e sarà eletto Preside della Facoltà di Architettura nel 1944.
Durante la grande guerra Michelucci realizza una cappella sul fronte orientale vicino a Caporetto: più volte sarà costretto a confrontarsi con gli effetti della catastrofe (la ricostruzione del centro di Firenze dopo la seconda guerra mondiale, la risistemazione del quartiere popolare di S. Croce dopo l’alluvione, la chiesa a Longarone dopo la tragedia del Vajont). Dopo la guerra lascia le “Officine Michelucci”. All’ambiente artistico pistoiese, in cui svolge un ruolo importante di riferimento intellettuale, appartiene anche Eloisa Pacini, raffinata pittrice, che sposa nel 1928 conosciuta frequentando politici, intellettuali, pittori e musicisti mondanità di Roma dove vive dal 1925.
La sua adesione al regime fascista e oculate frequentazioni lo portano nel 1933 ad essere coordinatore del gruppo toscano e alla vittoria nel concorso per la Stazione di S. Maria Novella a Firenze con un’opera di valore internazionale per le qualità funzionali e per l’inserimento nel contesto storico e urbano.
3Dopo la guerra, che osserva da lontano isolandosi  nella sua casa alla Cugna, immersa nella natura della montagna pistoiese e che sarà nuova fonte di ispirazione,  crea la rivista “La Nuova Città”, espressione di un nuovo atteggiamento verso la società, dialogante e partecipativo, propone per la ricostruzione della zona attorno a Ponte Vecchio ipotesi innovatrici che s’infrangono di fronte alla tendenza conservatrice della città. Nel 1948 Michelucci lascia la presidenza della Facoltà di Architettura di Firenze passando alla facoltà d’ingegneria di Bologna; continua la ricerca di un nuovo linguaggio dell’architettura: la concezione dello spazio percorribile, la città variabile, un nuovo rapporto antico-moderno che si esprime anche nell’uso congiunto della pietra e del mattone con il cemento armato, l’acciaio e i nuovi materiali, così le idee prendono forma come  per la Chiesa di San Giovanni Battista sull’Autostrada del Sole, a Campi Bisenzio, conclusa nel 1964, trait d’union di un paese in pieno miracolo economico, nella quale Michelucci anticipa i temi di una Chiesa in mutamento come sarà sancito dal concilio Vaticano II, o con la Chiesa di Borgo Maggiore, nella Repubblica di S. Marino.

6Nel 1967 progettò con Mauro Innocenti l’ospedale di Sarzana affrontando così il tema della degenza, ma la costruzione, avviata nel 1974 si protrasse per decenni e non poté vederla ultimata.

Nel 1972 nel saggio Brunelleschi mago,pubblicato con l’editore  ed amico pistoiese Tellini, con la postfazione di Mario Aldo Toscano. Bruno Zevi scrive su “L’Espresso” dei colloqui informali e antiaccademici di Michelucci con Brunelleschi. Il titolo è suggerito da un passo di Kafka “Perché mago? Non so, ma è capace di provocare un vivo sentimento di libertà…”. Wanda Lattes in un  intervista a Michelucci presso la sua casa al Roseto a Fiesole descrive il libro come un “volumetto elegante, raffinato senza illustrazioni, spoglio di banali concessioni alla civetteria consumistica” con chiaro intendimento pedagogico e civico, nato non ambizione filologica ma come proseguimento di quelle lezioni impartite per anni in cattedra. Mario Toscano l’ha ascoltato per anni, poi ha iniziato a registrare i suoi discorsi spontanei; uno scritto che nasce quindi come discorso socratico tra un docente e tanti non individuati discenti.

michelucciNel 1974 muore la moglie Eloisa ed inizia un nuovo decennio creativo e progettuale. Nel 1982 Giovanni Michelucci costituisce con la Regione Toscana ed i comuni di Fiesole e Pistoia la “Fondazione Michelucci”, mentre una donazione di disegni al Comune di Pistoia costituisce il “Centro di documentazione Giovanni Michelucci” di Pistoia.

Le pagine de La Nuova Città,  riflettono su temi come Carcere e città, Scuola e periferia, Città e follia, e portano all’ideazione del Giardino degli incontri nel carcere fiorentino di Sollicciano, un progetto sviluppato dal 1986 con i detenuti per creare un luogo di incontro  con i familiari, ultimato nel 2007. Il 31 dicembre 1990 muore a Fiesole.

Alice Vannucchi  è ricercatrice presso l’Istituto storico della Resistenza e della società Contemporanea di Pistoia,  è membro della redazione della rivista “Quaderni di Farestoria”, è docente nella scuola primaria dal 2007. Fra le sue pubblicazioni: Il rientro in città: il problema degli alloggi, in Pistoia fra guerra e pace a cura di M.Francini, I.S. R.Pt. Editore, 2005. Teorie di democrazia in Italia e Francia nel dopoguerra in “Quaderni di Farestoria”,anno VIII-n2 maggio –agosto 2006,pag.61-69. Le scuole di partito nel PCI di Togliatti.Il caso toscano (1945-1953) in “Quaderni di Farestoria”,anno XII-n 2- maggio –agosto 2010,pagg.33-45. Ha curato la mostra e il numero monografico Cupe Vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti, ISRPt. Attualmente si occupa di storia sociale e storia dell’editoria.




Quando i piatti erano vuoti

La minestra di castagne secche che unisce alle ben note virtù nutritive anche un effetto emolliente delle vie respiratorie; una pasta asciutta condita con ricotta fresca a cui amalgamare l’acciuga e qualche cucchiaino d’acqua calda; le patate in crema rossa senza condimento o il «super brodo di guerra» – tale per l’abbondanza di ortaggi a lungo bolliti e generosamente insaporiti – consigliato per convalescenze e speciali stati di indebolimento grazie al suo straordinario potere nutritivo, tanto da renderlo degno sostituto del suo omologo a base di carne. Sono solo alcune delle ricette che un corposo volumetto, edito a Firenze dalla Salani nel 1942, La cucina del tempo di guerra, invitava a sperimentare. L’autrice, Lunella De Seta, spiegava alle massaie come ingegnarsi per rendere meno mesta e spoglia la tavola; il tutto tenendo fede alla morale patriottica del «nulla vada perduto!».

Del decennio 1940-‘50 nel nostro Paese si ricordano le bombe, la fine del fascismo, la difficile ricostruzione e, soprattutto, la fame. La lunga autarchia imposta dal regime aveva da subito messo alla prova gli Italiani, ma le avvisaglie di una penuria, presto tramutatasi in miseria, erano state evidenti fin dalla vigilia della guerra. L’Italia non era ancora entrata nel conflitto e già, nel 1939, veniva diffuso il primo provvedimento che limitava la somministrazione del caffè, assenza a cui si era cercato di supplire con l’uso di orzo, insaporito da ceci tostati o dalla soia; anche il , di importazione inglese, era stato bandito e i negozi lo avevano sostituito con karkadè, un infuso amarognolo che aveva il merito di giungere direttamente dalle nostre colonie; e ancora, nel settembre dello stesso anno era stato emanato il divieto di vendere carni per due giorni a settimana.

A guerra in corso, poi, le restrizioni e privazioni erano aumentate progressivamente. Alla fine del 1940, il pane iniziava a essere miscelato con farina di granoturco e la pasta erogata per un massimo di due chili al mese a persona (quantità che in Toscana era stata ridotta presto a un solo chilo). A Pasqua era stato fatto divieto di distribuzione di dolci e con l’autunno il pane era finito tra i prodotti “tesserati” e fornito in una quantità di 200 grammi a testa al giorno (divenuti poco dopo 150). Sempre più introvabili carne, burro, olio e zucchero, mentre per il latte era necessario iscriversi al “registro del lattaio”. L’unica alternativa, per supplire alla penuria alimentare, era ben presto diventata quella di acquistare al “mercato nero”, a prezzi spesso insostenibili.

 In fatto di alimentazione la Toscana parve, inizialmente, cavarsela meglio di altre regioni. In particolare, la Provincia di Firenze, autosufficiente in tempi di libertà economica solo rispetto a pochi prodotti come l’olio e il vino, la frutta e la verdura ma, al contrario, importatrice di farina, pasta, carne, latte, formaggi, legumi e zucchero, aveva comunque continuato a ricevere rifornimenti anche dopo l’instaurazione del sistema controllato degli scambi commerciali, fino a quando l’intensificarsi delle incursioni aeree (la costa toscana fu colpita dai bombardamenti fin dalla primavera 1943, mentre su Firenze le bombe caddero per la prima volta contro la stazione di Campo di Marte il 25 settembre dello stesso anno) e l’interruzione di alcuni tratti delle linee ferroviarie avevano rallentato il flusso dei prodotti provenienti dall’Emilia e dalla Lombardia, impedendo la formazione di depositi alimentari.

La situazione aveva iniziato a peggiorare progressivamente con l’avanzata degli Alleati e le pagine dei quotidiani erano presto diventate il mezzo più comune per diffondere avvertimenti e consigli ai cittadini al fine di aiutarli a sopportare le penurie del momento. Così, il 7 luglio 1944, su «La Nazione», comparivano suggerimenti su come conservare il pane affinché durasse più a lungo; qualche giorno più tardi vi si leggevano indicazioni per «trasformare un comune fornello in cucina economica»; e ancora, si invitava la popolazione a tenere provviste di acqua in casa. In quei mesi, poi, l’annona distribuiva in abbondanza piselli secchi, farina vegetale, riso, concentrato di pomodoro, fagioli, tutti prodotti a lunga conservazione. Segno che l’attesa sarebbe stata lunga.

Migliore la condizione alimentare nelle campagne che, soprattutto dopo l’armistizio, avevano accolto sfollati, ebrei, renitenti, disertori e prigionieri alleati, offrendo loro cibo e riparo, talvolta in modo solidale e gratuito, altre scambiando l’ospitalità con beni “urbani” quali denaro e informazioni.

Nonostante la produzione agricola si fosse ridotta notevolmente a causa della scarsa disponibilità di fertilizzanti, macchinari e manodopera maschile (in assenza degli uomini erano le donne e i ragazzi non in età adulta a occuparsi dei campi) e fossero costanti razzie e distruzioni, le periferie rurali avevano di certo beneficiato di quell’antica capacità di saper fare e produrre tutto “in casa”. Tra le pareti domestiche, infatti, si abbrustoliva l’orzo per il caffè, si pigiava l’uva per ricavarne il vino, si spaccavano i semi di ricino per realizzare il sapone, si producevano pane e pasta, si raccoglievano e cucinavano i prodotti dell’orto e del maiale «non si buttava via nulla». Un’autosufficienza che in quegli anni aveva posto il mondo rurale, ambiente tradizionalmente povero ed umile, in una posizione di superiorità rispetto a quello cittadino, ancor più fiaccato e immiserito dagli eventi bellici.

A fine luglio ‘44, come testimoniava una relazione presentata dal Comitato Alimentare al Ctln [Comitato Toscano di Liberazione Nazionale], la situazione alimentare sembrava essere, nella provincia di Firenze, sempre peggiore. Il problema più grave era rappresentato dalla scarsezza delle scorte: totalmente assenti quelle di grano, pane e pasta. Conigli, polli e animali da cortile erano praticamente scomparsi. Se buono si profilava il raccolto del granturco e discreto quello dei fagioli, perduto era quello di patate e piselli. Non vi erano scorte di olio, dal momento che 2.000 quintali erano stati consegnati ai tedeschi. «Un quadro realistico della situazione che si riassumeva in una parola: fame». E non stupisce che, qualche mese più tardi, alla vigilia dell’ennesimo Natale in guerra, l’intervista su «La Nazione del Popolo» a “un macellaio onesto” – tale perché disposto ad ammettere con franchezza di praticare il mercato nero e pronto a spiegarne i meccanismi – aveva ben presto acquisito i toni di una nostalgica chiacchierata a due sui bei tempi andati, quelli in cui era facile e possibile l’acquisto di bestiame, bistecche e altra roba ancora «che, qui, in un Natale magro come questo non è il caso di rievocare».




20 dicembre 1943. Il rastrellamento del Gabbro (Livorno)

All’alba del 20 dicembre 1943 un gruppo di carabinieri della stazione di Gabbro (Rosignano Marittimo, Livorno) circondò una cascina poco fuori dal centro abitato. L’obiettivo della retata erano tre famiglie ebree recentemente sfollate da Livorno e arrivate da poche settimane nel piccolo centro. I Bayona, i Baruch e i Modiano, in totale diciassette persone, furono tratti in arresto senza alcuna difficoltà. Nella colonica dove si erano sistemate, le tre famiglie si erano dovute adattare a vivere in ristrettezze: «era una stalla, s’è preso nella macchia dei legni, s’è fatto dei letti, insomma ci si arrangiava a quella maniera lì»; al Gabbro si sentivano però al sicuro, «a quell’epoca lì non ci passava nemmeno per la mente di andare da un’altra parte». Isacco Bayona ha lasciato un resoconto dell’arresto particolarmente drammatico nella sua semplicità: «Era ’na domenica, ci siamo trovati con degli amici del Gabbro e s’è fatta ’na festicciola. Ero giovane…s’andava a ballà. Il lunedì mattina, erano le cinque, hanno circondato tutto questo casolare coi mitra spaniati. C’hanno preso gli uomini soli, le donne le hanno lasciate sta’ […]. C’hanno portato alla caserma dei carabinieri del Gabbro, c’hanno tenuto due giorni lì, poi il maresciallo ha dato l’ordine di andare a caricare anche le donne, le bimbe, tutte quelle che c’erano lassù al capannino, dove eravamo sfollati».

Carlo Bayona

Carlo Bayona

Uno degli elementi centrali nella vicenda del Gabbro è l’assenza dei tedeschi dalla scena del rastrellamento. «Il nostro arresto», avrebbe in seguito ricordato sempre Isacco Bayona, «è da imputare senza dubbio al maresciallo di Gabbro che era pure uno squadrista. Di sua iniziativa, forse per farsi benvolere dai tedeschi, ci arrestò tutti consegnandoci a loro». Quella di queste tre famiglie non fu una vicenda isolata. Dopo l’8 settembre, gli ebrei italiani rimasero in uno stato di sostanziale abbandono: pochi potevano immaginarsi cosa sarebbe successo loro e chi ne era cosciente raramente aveva i mezzi materiali per abbandonare il Paese. I Bayona, i Baruch e i Modiano furono anche vittime dello zelo con cui i carabinieri del Gabbro recepirono la celebre ordinanza di polizia n. 5 firmata dal ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi e trasmessa a tutti i capi delle province della Repubblica Sociale Italiana (RSI) il 30 novembre del 1943:

A tutti i capi provincia, comunicasi, per l’immediata esecuzione, la seguente ordinanza di polizia che dovrà essere applicata in tutto il territorio di codesta provincia: Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengono e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in campi di concentramento. Tutti i loro beni, mobili e immobili, debbono essere sottoposti ad immediato sequestro, in attesa di essere confiscati nell’interesse della Repubblica sociale italiana, la quale li destinerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche.

Il 12 dicembre, a meno di due settimane da questa circolare, le prefetture ricevettero un nuovo telegramma ancora più perentorio nei toni: «In applicazione recenti disposizioni», scriveva il capo della Polizia, «ebrei stranieri devono essere consegnati tutti ai campi di concentramento. Uguale provvedimento deve essere adottato per ebrei puri italiani». Mentre i capi delle provincie cominciarono ad allestire i campi d’internamento (talora adibendo a tale scopo le carceri o gli edifici delle comunità ebraiche), i questori iniziarono a ordinare gli internamenti. Gli arrestati del Gabbro furono tra i primi della provincia di Livorno, ma ne seguirono molti altri. Nel marzo dell’anno successivo il capo provincia, Edoardo Facdouelle, avrebbe consegnato alle autorità tedesche un gruppo composto di circa sessanta persone che aveva raccolto a Livorno.

Ritratto di gruppo

I rastrellati del Gabbro formavano un gruppo composito. Ne facevano parte: una neonata di pochi mesi (Franca Baruch), quattro bambini (Salvatore Baruch di otto anni, la piccola Flora Modiano di appena cinque anni e le sorelline Dora e Lucia Bayona, di nove e undici anni rispettivamente) e cinque adolescenti (Giosuè, Isacco e Violetta Baruch e i fratelli Bayona, Carlo e Isacco). I più anziani del gruppo erano la nonna di Flora, Gioia Perla Mano (classe 1883), e il capofamiglia dei Baruch, Mosè (classe 1889). In totale erano diciassette persone. I percorsi di quelle tre famiglie offrono uno specchio fedele delle difficoltà che vissero gli ebrei europei negli anni quaranta. I Bayona, livornesi di origine, erano rientrati in Italia solo nell’aprile 1941 provenienti da Salonicco da dove erano dovuti scappare dopo che la città era caduta nelle mani dei nazisti. I Bayona furono rimpatriati in quanto italiani dalle autorità consolari, ma questo non li avrebbe salvati dalla deportazione. Dalla stessa città greca venivano i Modiano, che erano invece giunti a Livorno qualche anno prima, nel 1933. Stesso periodo in cui anche i Baruch si erano trasferiti in Toscana dalla città turca di Smirne. Le vicende della famiglia Bayona sono rappresentative del mondo che fu spazzato via con la Shoah. «Mi’ babbo», avrebbe poi ricordato Isacco, «era vicedirettore del monopolio di tabacchi a Salonicco. Con la posizione che c’aveva si stava abbastanza bene. Io frequentavo le scuole italiane, ma ci insegnavano anche il francese; in casa parlavamo lo spagnolo, fuori il greco, è logico». Quel mondo scomparve con lo scoppio della seconda guerra mondiale e con l’inizio delle persecuzioni. L’arrivo in Italia e l’inserimento a Livorno non furono facili; Isacco, ancora ragazzino, fu costretto a dover lavorare per aiutare la famiglia: «mandavo avanti la mi’ mamma co’ le mi sorelline. All’epoca c’avevo quattordici anni, e facevo già lavori materiali quasi da uomo».

La deportazione

Nahoum_Camelia

Nahoum Camelia

L’arresto del 20 dicembre fu l’inizio di una deportazione che sarebbe finita solo cinque settimane dopo davanti ai cancelli del campo di sterminio di Auschwitz. Immediatamente dopo il fermo, quando furono cioè fermate anche le donne e i bambini del gruppo, le tre famiglie furono trasferite in una caserma a Livorno, in Via Nazionale. Da qui, svolte poche formalità, il gruppo fu trasferito a Firenze; il capo della provincia di Livorno non aveva infatti potuto organizzare un campo di concentramento nel proprio territorio e, in questa prima fase della deportazione, si “appoggiava” alla Questura di Firenze. Le tre famiglie furono prima “registrate” presso il locale comando tedesco e poi internate nel carcere cittadino delle Murate, dove ci fu una divisione tra uomini e donne. Quando le autorità ritennero di aver concentrato un numero sufficiente di ebrei, questi furono portati alla stazione di Firenze e fatti salire su dei vagoni piombati. Erano gli ultimi giorni del dicembre 1943. La tappa successiva fu il carcere milanese di San Vittore. «C’hanno assegnato una cella. Però la sera la nebbia c’entrava nei materassi, eran bagnati praticamente. Ero nella cella insieme a mi’ madre e ho sentito un boato: mi sono affacciato alla ringhiera, ho visto un omo che si era buttato da cinque piani. Ho incominciato a capire che s’andava incontro a cose brutte, infatti io, quando poi ci hanno portati via, ho cercato di scappare. Invece l’ufficiale tedesco m’è venuto incontro, mi ha dato un calcio col fucile una botta sulla mano». Dal settembre del 1943 due raggi di San Vittore erano stati riservati ai detenuti politici e agli ebrei; a gestire questa parte del carcere era stato chiamato il tedesco Helmut Klemm, membro delle SS. Le autorità italiane, in collaborazione con quelle tedesche, stavano radunando gli ebrei arrestati nelle settimane precedenti in tutto il territorio nazionale. Raggiunto il numero minimo per organizzare un convoglio i detenuti furono prelevati in massa da San Vittore e portati alla stazione centrale di Milano. «Tutti gli ebrei, la notte del 30 gennaio, vennero allineati nel grande corridoio del carcere e furono fatti sfilare dal cancello sotto le canne delle mitragliatrici», avrebbe poi ricordato uno dei presenti, «alla stazione i deportati furono portati nei sotterranei, lontano da sguardi indiscreti e caricati direttamente sui carri bestiame in sosta. Su ognuno si trovava una damigiana di acqua e un recipiente di modeste proporzioni per i bisogni corporali. Il vagone fu chiuso e sprangato e il convoglio si avviò». Le famiglie Bayona, Baruch e Modiano erano tra quei circa 600 deportati diretti verso la Polonia in un viaggio che sarebbe durato sette/otto giorni. Dei diciassette arrestati al Gabbro l’unico a tornare dal campo di sterminio di Auschwitz sarebbe stato il diciassettenne Isacco Bayona.

 




La Resistenza continua…

Angiolo Gracci nacque a Livorno il primo agosto 1920, da una famiglia con radici contadine. Fu condotto presto dalla Toscana alla Sicilia a causa del mestiere del padre, ferroviere che diresse in successione le stazioni di Sciara Aliminusa e Castellammare del Golfo tra il 1926 e il 1929.

La permanenza nei centri palermitani, dove il piccolo venne inquadrato nelle strutture educative fasciste, lo colpì profondamente e lo rese poi sensibile alla questione del divario socioeconomico Nord-Sud e al disagio materiale di larga parte della popolazione meridionale. Nei suoi racconti agli studenti, durante gli ultimi decenni di vita, affiorava spesso il ricordo di esser stato l’unico ad indossare le scarpe in quella stalla riadattata che era l’aula della scuola elementare frequentata in Sicilia.

 Al termine del  liceo classico Galilei di Pisa, il giovane Gracci si spostò a Roma per frequentare l’Accademia e Scuola di applicazione della Regia Guardia di Finanza e ottenere così l’arruolamento nel Corpo il 23 ottobre 1939. Nominato sottotenente il primo settembre 1941, venne inviato in Albania nel gennaio seguente tra le truppe d’occupazione italiane, con le quali partecipò alle operazioni di guerra.

Rientrato in Italia, il 9 settembre 1943 fu assegnato al Comando della Legione di Firenze della Guardia di Finanza. Assistendo così all’invasione nazista dell’Italia, Angiolo fondò con altri studenti della sinistra del Gruppo Universitario Fascista fiorentino il Movimento giovani italiani repubblicani. Conclusa questa breve esperienza, la maggioranza degli aderenti al gruppo si schierò con la Repubblica Sociale Italiana. Gracci, preso contatto col futuro Commissario Politico della Divisione Arno Danilo Dolfi – del suo stesso quartiere – scelse invece la via della montagna.

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

Gracci – in alto a destra – con altri partigiani della Brigata Sinigaglia a Monte Scalari, estate 1944

All’inizio del giugno 1944 Angiolo, che diventava così il partigiano “Gracco”, raggiunse la Brigata Sinigaglia presso Poggio alla Croce, con l’incarico di Capo di Stato maggiore conferitogli dal Corpo volontario della libertà. Un mese più tardi, su designazione del Comando di divisone e dietro conferma dei partigiani, assunse il comando della formazione stessa, riorganizzandola dopo le gravissime perdite subite nella battaglia di Pian d’Albero del 20 giugno 1944.

Compromessa l’importanza strategica di Monte Scalari per i nazifascisti, contribuì a sottrarre all’accerchiamento e alla distruzione la Brigata raggiungendo Poggio Firenze e Fonte Santa. Dopo ulteriori combattimenti, passando alla testa delle avanguardie dell’VIIIª Armata britannica, la Sinigaglia riuscì ad entrare a Firenze il 4 agosto 1944. Soltanto grazie ad una tenace opposizione all’iniziale ordine alleato di disarmare, le formazioni partigiane garibaldine ottennero di partecipare alla liberazione cittadina. “Gracco” condusse allora il rastrellamento dei quartieri di Santo Spirito e San Frediano, che furono liberati dai franchi tiratori nazifascisti. Guidando poi una pattuglia di esplorazione sui piazzali ferroviari di San Iacopino, rimase ferito in combattimento il 13 agosto ma riprese poi il comando della Brigata fino alla smobilitazione.

Nell’aprile 1945 venne pubblicato il suo Brigata Sinigaglia, primo libro edito in Italia sulla Resistenza partigiana, a cura del Ministero dell’Italia occupata. Gracci avrebbe poi ricevuto la medaglia d’argento al valor militare nel 1954.

 Intanto, conclusa l’esperienza partigiana, Angiolo riprese servizio attivo nella Guardia di Finanza il 7 settembre 1944, al Comando della Legione di Firenze. Nell’agosto 1948 gli venne conferito per anzianità il grado di Capitano, ma la sua permanenza in Finanza si fece sempre più travagliata. Non tanto per i gravi e recidivi problemi di salute che determinarono una lunga aspettativa, quanto piuttosto per le difficoltà relazionali all’interno del Corpo.

Gracci infatti, che sin dal 1944 aveva aderito al PCI ed era stato tra i membri costituenti del Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino, non aveva mancato di manifestare pubblicamente il suo orientamento in varie circostanze. Si procurò così diverse sanzioni e richiami per inosservanza al «criterio assoluto di apoliticità» richiesto ai membri delle forze dell’Ordine, per «scarso senso di disciplina», «tendenza alla polemica», «particolare animosità», «presunzione». È quanto riferiscono le note caratteristiche sul suo conto compilate annualmente dai superiori, che pure gli riconoscevano notevoli capacità e competenze.

Angiolo, sposatosi nel frattempo con Margherita Aiolli, fu seguito dalla famiglia negli spostamenti che gli vennero pertanto disposti tra il 1950 e il 1956, alla volta di Palermo, Bologna ed Udine. Viste le reiterate destinazioni ad incarichi amministrativi e a seguito di un ulteriore ordine di trasferimento a Bari nel dicembre 1956, Gracci scelse di far domanda di pensionamento e congedarsi dal Corpo. Idea coltivata da oltre un anno, per il sempre più problematico permanere nell’Arma e per l’intuibile preclusione riguardo a possibili avanzamenti di carriera.

Cessato il suo servizio nella Guardia di Finanza alla fine del 1957, l’anno successivo ottenne un impiego a Roma come consulente legale alla Lega nazionale delle cooperative, con i cui responsabili aveva già avviato da tempo i contatti. Poté mettere così a frutto la laurea in giurisprudenza conseguita nel 1949, impiegata poi per riorganizzare il servizio di assistenza legale alla Camera del Lavoro di Firenze e per svolgere un’intensa attività professionale di difesa dei lavoratori e dei militanti della sinistra rivoluzionaria nel corso degli anni Sessanta.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Gracci – sulla destra – accanto a Vincenzo Misefari di Reggio Calabria e Salvatore Puglisi di Spezzano Albanese durante una manifestazione a Livorno in occasione della fondazione del Pcd’I (m-l), 16 ottobre 1966.

Si tratta di una fase di svolta nella posizione politica di “Gracco”, come continuò ad esser chiamato per tutta la vita. Nel 1966 si dimise infatti dal PCI e fu tra i fondatori del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), che si poneva quale alternativa al primo, reo insieme al PCUS di aver «tradito» la «vera» politica rivoluzionaria di classe. Quella politica che il nuovo organismo, grazie anche alla dedizione assoluta richiesta agli adepti, si proponeva di perseguire per realizzare la dittatura del proletariato, la sola forma di governo in grado di instaurare il socialismo.

Nell’agosto 1968 seguì l’espulsione di Gracci dall’ANPI, con l’accusa di imporre metodi di lotta e di azione politica antidemocratici e non unitari, esclusivamente in linea con il  proprio partito. Decisione che secondo Angiolo era invece motivata dalla propria battaglia «per lo sviluppo di una lotta di massa per cacciare dal paese le basi e i comandi degli imperialisti Usa».

 Lo stesso antimperialismo si rivelò poi una componente essenziale del movimento antimperialista-antifascista La Resistenza continua (RC), che nacque nel 1974 a Milano come associazione partigiana esterna ed alternativa all’ANPI e lo vide nuovamente tra i promotori, accanto ad altri ex partigiani, giovani studenti ed operai. La responsabilità dell’organizzazione fu affidata al Comitato direttivo della rivista, che “Gracco” guidò fino agli ultimi anni di vita, a riprova del suo intenso e prolungato impegno redazionale per varie testate di area marxista-leninista. Si ritrovò così a ricoprire una posizione di primo piano nel movimento, accanto ai veterani, «compagni» marxisti-leninisti ed amici Guido Campanelli e Alberto Sartori.

Resistenza, antimperialismo e meridionalismo rappresentavano per RC componenti inscindibili di un unico programma, che faceva della prima un simbolo guida. La stessa Resistenza che, animata da un avanzato progetto politico, economico e sociale, era stata «bloccata» e «tradita» dalle forze imperialiste anglo-americane, dal «capitalismo monopolistico italiano», dal Vaticano e dall’«ala revisionista-socialriformista» del movimento operaio. Non si poteva pensare all’antifascismo senza l’antimperialismo, essendo il fascismo subordinato all’imperialismo. Antimperialismo – secondo il manifesto-programma del movimento – significava anche lotta contro la soggezione di tipo coloniale e razzista di cui era vittima il Meridione da oltre un secolo. Una subordinazione aggravata dall’imperialismo statunitense ed europeo, instaurato con l’annientamento del movimento spontaneo di Resistenza del popolo meridionale nell’immediato dopoguerra.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

Gracci con l’amico Matteo Visconti, altri militanti marxisti-leninisti e alcuni operai durante l’occupazione della fabbrica Berga Sud di Salerno, luglio 1974.

In virtù di questa rivoluzione «negata», delle ingiustizie e dell’oppressione subite dalle «masse supersfruttate del Meridione», Gracci svolse un’intensa attività di mobilitazione politica e sociale nel Sud, dove erano presenti diverse cellule del Pcd’I (m-l) Linea rossa, il primo degli innumerevoli gruppi in cui si frantumò il Pcd’I (m-l) dal 1968 in avanti e del quale Angiolo rappresentava uno dei principali esponenti. Come testimoniano le stesse immagini della sezione fotografica del fondo archivistico a lui intitolato – recentemente riordinata ed inventariata dallo scrivente – non c’era praticamente anno in cui Angiolo non si spostasse dalla sua casa fiorentina verso località meridionali, di cui abitualmente ritraeva realtà marginali e disagiate. Non mancavano trasferte in Basilicata, Molise, Sardegna, Puglia e Sicilia, ma centri calabresi e campani figuravano tra le sue principali mete. In questi luoghi Gracci sviluppò non solo legami politici, ma anche rapporti amicali e affettivi che avrebbe mantenuto per tutto il corso della sua vita. Emblematiche le relazioni con i militanti marxisti-leninisti Rosario Migale di Cutro e Matteo Visconti di Salerno.

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Gracci con Rosario Migale e altri «compagni» a Roma per il I Congresso nazionale di Democrazia proletaria, aprile 1978

Oltre che come attivista di La Resistenza continua, Angiolo continuò il suo impegno meridionalista anche in veste di promotore del Movimento leghe lavoratori italiani e quale membro di Democrazia proletaria, in cui la Linea rossa confluì nel 1978. “Gracco” proseguì poi incessantemente la difesa e l’assistenza legale dei militanti, che culminarono con il maxiprocesso alle BR del 1989. Nel 1991 aderì al nuovo Movimento della Rifondazione comunista, che alla fine dello steso anno si costituì in Partito, accogliendo tra gli altri la maggioranza dei dirigenti di Democrazia proletaria.

In questi anni seguitò costante la sua attività antimperialista. Al diretto coinvolgimento in diverse iniziative e manifestazioni pubbliche contro le basi USA e NATO in Italia – come mostrano le stesse foto del suo archivio – e alla collaborazione con varie associazioni, quali la Lega per il disarmo unilaterale e la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, si aggiunse il sostegno alla causa di Silvia Baraldini. Nella costituzione del Comitato per il rimpatrio di Silvia Baraldini di Firenze del 1991 e del Coordinamento nazionale dei comitati per il rimpatrio di Silvia Baraldini del 1994 Gracci si rivelò ancora una volta tra i principali animatori.

Gli stessi anni Novanta, nel corso dei quali “Gracco” si prodigò anche per la diffusione dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana tra i giovani, videro poi il suo ritorno nel Comitato provinciale dell’ANPI fiorentino. Il rapporto restò comunque travagliato: è del 25 giugno 2000 un provvedimento disciplinare a suo carico, adottato dai dirigenti provinciali dell’ANPI per l’intervento contro gli USA e la NATO durante la celebrazione del 56° anniversario della battaglia di Pian d’Albero presso Figline Valdarno. Tuttavia Angiolo proseguì fino alla fine la sua militanza nell’organizzazione, rimanendo sempre coerente con le proprie posizioni. Dopo una grave malattia, è venuto a mancare a Firenze il 9 marzo 2004.




“Qualche grinza dalla pancia si cominciò a levarla!”

All’indomani dell’8 settembre 1943, con l’inizio dell’occupazione tedesca e la nascita della RSI, la popolazione civile versiliese, già stremata da più di tre anni di lutti e sacrifici, comprese che l’unica speranza per una rapida fine del conflitto in corso, oltre all’attività partigiana, era costituita dagli Alleati: in loro si confidava, ascoltando in gran segreto i bollettini di Radio Londra, in attesa di conoscere i progressi più recenti della difficile risalita della penisola.

Durante il rigido inverno fra 1943 e 1944, l’avanzata angloamericana rimase bloccata lungo la Linea Gustav, mentre in Versilia la repressione nazista si faceva sempre più spietata, e la situazione alimentare ogni giorno più difficile: le razioni assicurate dalle tessere annonarie si assottigliavano, mentre dalla dieta scomparivano carne, sale, zucchero, farina di grano e pane bianco. Le autorità fasciste repubblicane si dimostravano incapaci di gestire le necessità quotidiane della popolazione civile, mentre con bandi e minacce provvedevano a sequestrare capi di bestiame e mezzi di trasporto, pretendendo inoltre la consegna di esose derrate per “necessità militari”. Il tracollo completo della situazione si ebbe con le ordinanze di sfollamento dell’estate del ’44, mentre le truppe angloamericane si facevano attendere, impiegando più di un mese per attraversare l’Arno.

Ma che cosa si aspettava dagli Alleati la popolazione versiliese? Come già detto, la preoccupazione fondamentale era quella del cibo: semplicemente, non si aveva di che mangiare, mentre i gruppi di sfollati crescevano, assottigliando sempre più le già scarse risorse delle Apuane. In secondo luogo, si aveva bisogno di medicine: molti, infatti, erano i versiliesi ammalati o indeboliti, sfiancati da anni di angosce e malnutrizione, negli ultimi mesi, per di più, costretti in condizioni di igiene e promiscuità intollerabili. In terzo luogo, tutti si aspettavano il ripristino di condizioni di vita più dignitose: la fine, insomma, del terrore di veder portati via i propri cari, a lavorare sui cantieri della Gotica, deportati in Germania, o, peggio ancora, giustiziati in feroci operazioni di rappresaglia. Si sognava, in altre parole, un ritorno alla normalità. Per farsi un’idea più chiara di quali potessero essere le aspirazioni di un ragazzo versiliese di quel tempo, si legga fra i “Materiali correlati” la vivida testimonianza del fortemarmino Fabio Giannelli, classe 1927.

Seravezza 5 Aprile '45,  mezzi corazati americani sparano ve

Seravezza 5 Aprile ’45, gli alleati preparano l’offensiva finale (fonte F. Bertozzi, cit., p. 192)

Nonostante le preghiere, i versiliesi dovettero attendere a lungo l’arrivo degli Alleati. Accolte con entusiasmo e trepidazione, le prime pattuglie in divisa verde oliva entrarono in Versilia il 19 settembre del 1944, quando i primi soldati americani misero piede a Pietrasanta e Forte dei Marmi: nel corso delle settimane successive, i reparti iniziarono la loro prudente opera di penetrazione dell’entroterra, sotto il tiro costante delle artiglierie tedesche arroccate sulle alture. In effetti, per i nuovi arrivati, prendere il controllo della zona si rivelò più difficile del previsto, e l’avanzata verso nord rimase a lungo impantanata ai piedi delle montagne, bloccata dalle temibili difese naziste.

In fatto di bisogni concreti, tuttavia, le truppe americane seppero pienamente soddisfare le aspettative della gente, che fantasticava da mesi sulla straordinaria abbondanza della macchina bellica statunitense: dove arrivarono, i soldati della “Buffalo” instaurarono fin da subito un legame schietto e cordiale con la popolazione del posto, non lesinando aiuti materiali ed assistenza medica.

Anzitutto, gli Alleati portarono del cibo, molto cibo, solitamente distribuito con generosità presso le cucine dei numerosi accampamenti del territorio: finalmente, dopo mesi di fame e sofferenze, i civili poterono tornare ad assaggiare il sale, lo zucchero, il caffè, il gustoso pane bianco – così diverso dall’insipido “pane nero” dei tedeschi -, e permettersi anche il lusso di assaporare vivande un tempo irraggiungibili, come la cioccolata e le noccioline americane.

Con grande meraviglia, i versiliesi scoprirono lo scatolame, fino ad allora mondo perfettamente sconosciuto: all’interno di lattine multicolori dalle forme più svariate, poterono trovare piselli, fagioli, carne di manzo in gelatina, tonno, sardine, e addirittura prodigiose “zuppe istantanee”. Sensazionale fu poi la rivelazione dei chewing gum e della “Coca-Cola”, novità assolute, che, in pochi mesi di “frequentazione”, seppero inserirsi nelle abitudini alimentari di tutti gli italiani.

Dal canto loro, le truppe alleate manifestarono di gradire vino, cognac e grappe alla frutta fatte in casa: in alcuni casi, li gradirono anche troppo, lasciandosi andare a risse, urlerie, a volte molestie ai danni di qualche ragazza della zona. In cambio di corvée, piccoli servizi di fatica, come il rifornimento di acqua potabile ai comandi o il trasporto di materiali e munizioni, i militari americani dispensavano volentieri birra e sigarette a chi avesse dato loro una mano: fu proprio così che molti versiliesi cominciarono a fumare, giovani compresi. Per i più piccoli, poi, i camion erano sempre ben forniti di biscotti e caramelle. Per approfondire, sono consultabili fra i “Materiali correlati” i ricordi del fortemarmino Mario Pellegrini, che, a quel tempo quindicenne, si ritrovò a trascorrere un lungo periodo a stretto contatto con le truppe afroamericane, vivendo anche momenti di gioia e spensieratezza, ricostruiti con parole semplici ed efficaci.

Enormi progressi si registrarono anche da un punto di vista sanitario: nelle retrovie del fronte, i nuovi arrivati allestirono subito diversi ospedali da campo, dove medici ed infermieri di grande umanità assistettero civili feriti e ragazzi denutriti, distribuendo cure, farmaci e sapone, altrimenti introvabili: merito capitale, gli Alleati portarono la penicillina, miracoloso antibiotico che permise di salvare la vita di moltissimi sfollati versiliesi, debilitati da mesi di pessima igiene e malnutrizione.

Nel successivo inverno di battaglia lungo la Linea Gotica, le truppe angloamericane seppero dunque normalizzare i rapporti interpersonali, restituendo alla gente di Versilia quella rassicurante dimensione di quotidianità, che da troppo tempo aveva perduto: scomparso il timore della violenza arbitraria, recuperata la pienezza e la dignità del corpo, i versiliesi seppero affrontare con rinnovato slancio i residui mesi del conflitto, in attesa di poter far ritorno alle proprie case, e di rimettere assieme i pezzi della propria esistenza.

Federico Bertozzi, laureato in storia contemporanea presso l’Università di Pisa, si occupa di storia della seconda guerra mondiale, con particolare attenzione alle esperienze dei civili in guerra e alla raccolta delle loro memorie. Recentemente ha  pubblicato per Pezzini editore, “Attaccarono i fogli: si doveva sfollà!” – Indagine storico-antropologica sull’esperienza dello sfollamento in Versilia nella Seconda Guerra Mondiale. 




28 novembre 1944: si scioglie la Divisione Garibaldi Lunense

A tre mesi dalla sua formazione, la Divisione Partigiana Garibaldi Lunense, attiva nel territorio garfagnino e lunigiano ancora sotto occupazione nazifascista, si trova, alla metà di novembre del 1944, di fronte a un bivio: rispettare il proclama Alexander – che chiede la cessazione di operazioni militari su vasta scala – e proseguire in attività di sabotaggio contro le strade e i ponti della Garfagnana, oppure portare fino in fondo un’azione per la quale i preparativi sono in corso già da un mese. Il piano è così descritto dal comandante della 1° Brigata Garfagnina, Abdenago Coli:

trasferire il Comando di Divisione da Monte Tondo a Foce di Careggine, costituire nelle immediate retrovie nemiche una zona partigiana comprendente il territorio del Comune di Careggine e parte del territorio di Castelnuovo Garfagnana, fare affluire nella zona da altri reparti della Divisione gli uomini necessari all’attuazione del piano (i 360 uomini della I Brigata erano pochi per la bisogna), richiedere al Comando Alleato un aviolancio di giorno garantendo la sicurezza della zona, aviolancio che avrebbe dovuto rifornirci di armi, munizioni e vivere in scatola; non appena ottenuto il lancio, tentare lo sfondamento del fronte tedesco con conseguente liberazione della Garfagnana”.

E’ un’idea non soltanto ambiziosa, ma probabilmente pure oltre la capacità militare della Garibaldi Lunense. Per organizzarla, il comandante di Divisione Anthony John Oldham, un ex maggiore dell’esercito inglese fuggito da un campo di prigionia dopo l’armistizio, e il commissario di guerra Roberto Battaglia, già da metà ottobre si sono trasferiti da Monte Tondo a Foce di Careggine. Affinché il tutto possa funzionare, è indispensabile che i partigiani da nord e le truppe alleate da sud agiscano in modo coordinato.

I rischi militari sono evidenti, ma i comandanti della Garibaldi Lunense da un lato sono anche desiderosi di mostrare agli angloamericani il loro potenziale offensivo e, dall’altro lato, attraversano un momento di oggettiva difficoltà: agendo in zona occupata da truppe tedesche e della Repubblica Sociale Italiana, gli approvvigionamenti alimentari sono problematici, i rifornimenti di armi e munizioni sono molto scarsi e, con l’arrivo dell’autunno, anche le condizioni sanitarie peggiorano giorno dopo giorno. Un’offensiva sul fronte, per quanto difficile, è la carta che viene deciso di giocare.

L’azione prevede che il grosso dei partigiani attivi in Lunigiana si sposti in Garfagnana e, dopo un aviolancio alleato con i rifornimenti necessari, parta un attacco in due punti del fronte, sulle Apuane, nei pressi della Pania Secca, tra Molazzana e Vergemoli: il passo delle Rocchette, a quota 999, e Monte d’Anima, a quota 832. L’aviolancio avviene il pomeriggio del 22 novembre.

Tra il 22 e il 23 novembre, un gruppo di una cinquantina di uomini del 3° Battaglione (soprannominato “Casino” per la quantità e l’efficacia delle azioni) guidati da Giovanni Battista Bertagni coglie di sorpresa un gruppo di bersaglieri aggregati alla divisione San Marco, a quota 999 e li cattura: il varco sulla linea Gotica è aperto e i prigionieri vengono dallo stesso Bertagni consegnati agli americani a Vergemoli; questi però non approfittano della situazione. Così i partigiani devono ripiegare. Ma l’azione li ha convinti che l’impresa è possibile. E così, nella notte tra il 26 e il 27 novembre scatta l’operazione che dovrebbe essere decisiva: Bertagni deve riconquistare la quota 999, un’altra colonna diretta da Oldham ha l’obiettivo del Monte d’Anima, mentre da sud devono arrivare gli alleati.

Va quasi tutto storto.Soltanto Bertagni porta a termine la missione, riconquistando la quota assegnatagli. Gli altri falliscono e gli americani non si muovono come dovrebbero.

Il giorno 28 è chiaro a tutti che il piano non ha avuto buon esito e la sera viene deciso ufficialmente lo scioglimento della Divisione Garibaldi Lunense, per l’impossibilità materiale di continuare a operare nelle condizioni in cui si è trovata nelle ultime settimane: centinaia di partigiani giunti a rinforzo dalla Lunigiana tornano, sbandati, da dove sono venuti; Bertagni si congiunge agli americani e ai Patrioti Italiani dell’XI Zona di Manrico Ducceschi “Pippo” da dove proseguirà la sua lotta partigiana; Oldham, Battaglia, Coli e molti altri attraversano il fronte con l’idea di ricostituire un reparto da sud, ma gli alleati li portano prima a Viareggio e poi a Firenze e per loro la guerra di Liberazione di fatto finisce lì; altri partigiani ricostituiranno due piccole formazioni collegate l’una ai Patrioti Apuani di Pietro Del Giudice e l’altra alle Brigate Garibaldi operanti a Reggio Emilia, compiendo nei mesi successivi azioni di sabotaggio tra i Comuni di Castelnuovo di Garfagnana, Pieve Fosciana, San Romano, Piazza al Serchio e Sillano.

La Garfagnana verrà liberata solamente il 20 aprile 1945.

Feliciano Bechelli si è laureato in Scienze politiche presso l’Università di Pisa e collabora con l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Lucca. Giornalista pubblicista, è direttore responsabile della rivista dell’Istituto “Documenti e studi”.




“Mi sa che avevano sensazioni confuse là in basso”

Il 24 ottobre 1943 gli Inglesi bombardarono per la prima volta la città, come nei giorni precedenti avevano colpito Prato, il 2 settembre, e Firenze, il 23. Che per Pistoia si stesse avvicinando lo stesso destino lo si poteva quindi supporre, un opuscolo della protezione antiaerea infatti avvertiva il 18 ottobre: «All’inizio della guerra Pistoia fu classificata di scarsa importanza agli scopi bellici. Oggi però la guerra è entrata in una fase talmente attiva e violenta che anche Pistoia ha assunto importanza ai detti effetti, e occorre mettere in atto quanto è al momento possibile, affinché la popolazione possa affrontare con animo sereno una eventuale offesa aerea».
Quella notte l’allarme durò 2 ore e 40 minuti e uno stormo di aerei Wellington britannici bombardò la città dalle 23.25 alle 24.10. Gli obiettivi sensibili della città erano sia le linee di comunicazione che le postazioni di valore militare: Pistoia infatti rappresentava un importante snodo ferroviario di collegamento tra il sud ed il nord del Paese, dato che si trovava lungo la linea ferroviaria Porrettana che costituiva un collegamento verso nord in alternativa alla linea “direttissima” da Prato. Erano poi presenti in città tre caserme militari ed un’importante industria per la riparazione di velivoli e apparati militari di notevole importanza. Le Officine Meccaniche San Giorgio erano infatti adibite alla riparazione di velivoli della Regia Aeronautica e si ipotizza che nel campo di volo adiacente alla fabbrica, presidiato da circa 300 militari tedeschi, si trovassero alcuni Messerschmitt ME323 Gigant, il più grande modello di aereo costruito durante la Seconda Guerra Mondiale.

16Il vero dramma per Pistoia fu che gli obiettivi si trovavano a ridosso del centro abitato: molte bombe sganciate per colpire i punti prefissati caddero sulle abitazioni civili nella zona a sud della città e, nonostante le precauzioni prese dalle autorità cittadine, i danni furono ingenti. Era l’UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea) a gestire i rifugi pubblici pistoiesi (una quarantina) pronti ad ospitare circa 10.000 cittadini anche grazie al fatto che, data la necessità, furono classificati come rifugi tutti gli scantinati agibili dei palazzi della città, benché non garantissero sempre una reale sicurezza. Dalla mappa dei rifugi si può vedere come la popolazione residente nella zona della “Pistoia bene”, dove i palazzi signorili erano dotati di scantinati adattabili, risultasse maggiormente protetta; diversa era invece la situazione dei quartieri popolari dove lo stesso Comitato ammise che era stato impossibile impiantare alcun tipo di rifugio. Nonostante le precauzioni in quella notte i morti furono molti; anche se il numero non è tutt’oggi ufficiale, data la discordanza delle cifre e degli elenchi delle vittime ancora sparsi tra vari archivi, una ricognizione di tutte le liste reperite attesta che le vittime siano state 157.

Perché in quella notte le sensazioni furono confuse? Innanzitutto, come emerge dalle testimonianze, il bombardamento risultò del donnatutto inaspettato e la popolazione si ritrovò disorientata, nonostante i ripetuti avvertimenti delle autorità. Dalle testimonianze emerge poi che in una parte della popolazione erano diffuse ostilità nei confronti del vecchio regime e fiducia negli alleati liberatori, ma la stampa locale, ancora sotto controllo fascista, presentò il bombardamento come un attacco terroristico ed in effetti “i liberatori” in quell’occasione risultarono la causa della distruzione diretta della città: furono loro a portare la guerra nelle case, cosa che fino a quel momento non era mai avvenuta. Quindi le sensazione confuse furono causate proprio dalla difficoltà di concepire i drammi causati dal bombardamento di quella notte come un tassello di una più ampia manovra militare di liberazione della penisola italiana. Si diffusero per questo irragionevoli interpretazioni, come che i piloti fossero ubriachi :«Quella sera si dormiva tutti. Ci svegliò mia madre perché vide i bengala e disse: “Brucia tutto il mondo!” […]ma mi avevano detto che quando si spengevano i bengala finivano di bombardare, invece fu un bombardamento terroristico perché quando finì la luce intensa dei bengala incominciò il bombardamento vero dove morì diversa gente. Poi si venne a sapere che gli aerei e i piloti erano inglesi e per di più ubriachi».

Con difficoltà questa interpretazione ha lasciato il campo a più verosimili spiegazioni di strategia militare: in realtà, ancora oggi, nella rielaborazione della memoria pubblica, la distruzione causata dai bombardamenti alleati si annovera tra quegli episodi difficilmente inseribili sia nella rappresentazione degli eventi condivisa dalla cultura istituzionale antifascista sia in un percorso di attribuzione della totalità delle colpe al nazifascismo; infatti solo negli anni Duemila sono state affisse in città due targhe in ricordo della tragedia, piccole e senza riferimenti storici precisi.

Francesca Perugi è ricercatrice presso l’ISRPt e membro della redazione dei Qauderni di Farestoria. Ha curato la mostra e l’omonimo numero monografico di QF “Cupe vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti”




Firenze in Guerra, 1940-1944

Il 23 ottobre, alle ore 17.00, si aprirà a Palazzo Medici Riccardi la mostra storica Firenze in guerra, 1940-1944; l’evento è promosso dall’Istituto storico della Resistenza in Toscana col sostegno della Regione Toscana, della Provincia e del Comune di Firenze. Documenti, immagini, voci, filmati, nonché fotografie provenienti dall’Archivio Foto Locchi animeranno un ampio percorso espositivo ideato dagli architetti Giacomo Pirazzoli e Francesco Collotti. Intrecciando storie individuali e esperienze collettive, la narrazione attraverserà i primi anni di guerra fino agli ultimi mesi dell’occupazione tedesca, quando la città e la provincia furono violentemente investite dal conflitto.

Uno spazio di condivisione interattiva sarà garantito dal progetto Memory Sharing, che ha l’obiettivo di raccogliere e valorizzare documenti, fotografie, storie di vita relative agli anni del conflitto. Tutti possono contribuire al progetto, rivolgendosi alla postazione allestita all’interno della mostra oppure partecipando online, attraverso il sito www.firenzeinguerra.com (in costruzione).

Al Rondò di Bacco, nel complesso monumentale di Palazzo Pitti, un film sonoro e la serie completa delle fotografie scattate dall’architetto Nello Baroni permetteranno di immergersi nell’esperienza dei “giorni dell’emergenza”, quando migliaia di fiorentini furono costretti a lasciare le case del centro storico per rifugiarsi nelle sale di Palazzo Pitti.

La mostra, curata da Valeria Galimi e Francesca Cavarocchi – con la supervisione scientifica di Enzo Collotti – si snoderà attraverso tre scenari: la città della guerra (1940-1943), la città dell’occupazione (1943-1944) e la città della Liberazione.

Fin dagli anni ’20 il regime assegna al capoluogo toscano un ruolo chiave nel progetto di fascistizzazione della cultura: importante polo accademico e editoriale, Firenze ospita una serie di riviste e istituzioni di rilievo nazionale, dal “Selvaggio” al “Bargello”, fino al Maggio musicale. Nella seconda metà degli anni ’30 la città diviene una delle sedi privilegiate nella produzione e diffusione della pubblicistica antisemita.

I primi tre anni di guerra hanno un impatto crescente sulla vita quotidiana dei fiorentini. Mentre migliaia di cittadini partono per i vari fronti, l’intera popolazione è chiamata a mobilitarsi per sostenere lo sforzo bellico, ad esempio attraverso le periodiche raccolte di ferro, metalli e vettovaglie destinate ai soldati. Il razionamento dei beni alimentari si fa sempre più severo, affiancato dalla rapida crescita del mercato nero. Gli stessi spazi pubblici si trasformano progressivamente, in seguito alle misure di protezione antiaerea sui monumenti o alla creazione degli ‘orti di guerra’ nei giardini e nelle piazze.

La seconda visita di Hitler alla città, il 28 ottobre 1940, si tiene in un’atmosfera cupa e spettrale, molto diversa dai festeggiamenti inscenati nel 1938, quando era stato celebrato il rafforzamento del patto fra i due regimi. Nei primi anni di guerra Firenze diventa una delle ambientazioni privilegiate degli incontri volti a rinsaldare l’alleanza con Berlino e gli altri paesi dell’Asse; frequenti sono gli eventi culturali e le manifestazioni giovanili interalleate, con l’obiettivo di sottolineare il contributo della civiltà italiana al Nuovo ordine europeo perseguito dal Reich tedesco.

Dall’8 settembre 1943 gli occupanti e la Repubblica Sociale Italiana (RSI) tentano di attuare uno stretto controllo del territorio, mentre iniziano i bombardamenti e le condizioni di vita della popolazione si fanno sempre più difficili. L’area metropolitana di Firenze spicca nel quadro regionale sia per la complessità del suo tessuto economico e sociale sia per la concentrazione di strutture tedesche e repubblichine; una circostanza che contribuisce a spiegare l’intensità della persecuzione antiebraica, nonché più in generale l’efficacia degli apparati repressivi (ad esempio in seguito agli scioperi del marzo 1944). In città e nei dintorni si va nel frattempo riorganizzando un esteso tessuto antifascista, che trova la sua specificità nell’ampia articolazione delle posizioni culturali e politiche e nel coinvolgimento di settori sociali differenziati; il capoluogo, sede del Comitato toscano di liberazione nazionale, si distingue per la pluralità e la ricchezza delle reti resistenziali, che affiancano all’iniziativa più propriamente militare (specie nell’arco collinare e appenninico) un ampio spettro di attività, dalla raccolta di informazioni fino al soccorso ad ebrei, renitenti, ex prigionieri alleati.

Gli angloamericani raggiungono la Toscana a metà giugno del 1944, dopo la liberazione di Roma. A partire dalla metà di luglio la provincia di Firenze è teatro di intensi e lunghi combattimenti, prima sulle colline a Sud del capoluogo e poi in città: attuando la chiamata all’insurrezione da parte del CTLN, i partigiani sono protagonisti della battaglia per la liberazione del capoluogo, anticipando di alcune ore l’entrata degli Alleati e sostenendo per circa un mese lo scontro coi tedeschi e i “franchi tiratori”. Fallite definitivamente le trattative per la “città aperta”, il 30 luglio le forze tedesche impongono l’evacuazione del settore circostante i Lungarni, a cui fa seguito fra il 3 e il 4 agosto la distruzione dei ponti e di un’ampia area attorno al Ponte Vecchio. Nel mese di agosto la linea del fronte si assesta per lunghi tratti attorno alla linea dell’Arno, mentre le propaggini settentrionali della provincia saranno liberate solo nella seconda metà di settembre, quando le forze alleate raggiungeranno la linea Gotica. In provincia la ritirata dell’esercito tedesco ha come effetto notevoli distruzioni di fabbricati e vie di comunicazione ed è accompagnata da diffuse violenze e spoliazioni.

Il periodo dell’emergenza e del passaggio del fronte è certo quello che maggiormente si staglia nella memoria dei fiorentini. Per comprendere a pieno l’impatto sulla vita quotidiana delle popolazioni e le trasformazioni sociali e culturali innescate dal conflitto è necessario tuttavia allargare lo sguardo agli anni precedenti, perché è nei primi anni di guerra che si accumulano processi e trasformazioni destinati ad esplodere nell’estate del ’44 e nei mesi successivi alla liberazione, quando si inizierà un lento ma decisivo processo di ricostruzione e democratizzazione della vita pubblica.

Informazioni sulla mostra:

Palazzo Medici-Riccardi 24 ottobre 2014 – 6 gennaio 2015

10:00 – 18:00 (chiuso il mercoledì)

Rondò di Bacco 24 ottobre 2014 – 4 gennaio 2015

 Venerdì 15:00 – 17:30 / sabato e domenica: 11:00 – 17:30

 Ingresso libero

 Per Informazioni, prenotazioni e visite guidate tel. 055.284296 dal lunedì al venerdì 10:00 – 15:00