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“Frankie Goes To Leghorn”

Per i bombardieri americani e inglesi Livorno era solo una coordinata geografica: 43°33’ latitudine nord, 10°18’ longitudine est sul Mar Ligure, costa occidentale della penisola italiana. Un’espressione geografica da bombardare, per costringere i tedeschi ad andarsene. E fu così che dal giugno 1940 al luglio 1944 furono 116 i bombardamenti che colpirono e distrussero gran parte della città. Ben 90 di queste incursioni aeree, le più terribili, furono concentrate tra il 28 maggio del 1943 e il 7 giugno del 1944.

Alla fine la città fu liberata ma il prezzo pagato fu altissimo. I bombardamenti causarono la morte di 1.400 persone tra civili e militari, migliaia furono i feriti, anche la paura era una ferita difficilmente rimarginabile, molti, un numero ignoto, i dispersi; e fu completamente distrutta la zona industriale e portuale della città, e poi le case: furono circa ventimila i vani di abitazioni distrutti, oltre trentamila quelli gravemente lesionati.

Dopo poco più di un mese dall’ultimo terrificante bombardamento del 7 giugno, era la mattina del 17 luglio del 1944, un lunedì, le avanguardie della 34ª divisione “Red Bull” andarono in avanscoperta, con grande cautela, per le strade di una città di fantasmi. Ma la vera liberazione di Livorno avvenne due giorni dopo, il 19 luglio 1944, quando in città entrano i tanks e le jeep americane e le formazioni partigiane che aveva combattuto duramente per liberare Livorno; la popolazione potè finalmente invadere le strade e gioire per un incubo cessato.

Livorno liberata vive e lotta per la sopravvivenza. Quando arriva il generale Mark Clark al comando della Quinta Armata, trasforma Livorno in Leghorn e, dal 1° settembre 1944, nomina il porto labronico come Decimo Porto (10th Port) ovvero distaccamento del Genio USA per le Opere Marittime oltremare.

Circolano le AM lire: il dollaro costa 100 lire, la sterlina 500 lire. Il Governo militare alleato è ai Casini d’Ardenza mentre a Villa Trossi c’è l’Ufficio del Lavoro. In tutta la città ci sono italiani, americani, inglesi, brasiliani, truppe coloniali e prigionieri tedeschi. Nelle strade transitano jeep, dodges, trucks; gli incidenti stradali sono all’ordine anche perché gli autisti, i driver, vanno veloci e spesso sono ubriachi. Sparse su tutto il territorio cittadino ci sono baracche e costruzioni che ospitano le truppe e generi di ogni tipo.

Con l’esercito alleato arrivano anche affaristi privi di scrupoli, ladri, imbroglioni, prostitute e protettori. I berretti rossi della polizia militare inglese e i caschi bianchi della polizia militare americana cercano di porre un freno alla criminalità nascente e al traffico clandestino di merci e materiali USA.

A nord della città la pineta di Tombolo è già tristemente nota come “paradiso nero”. Lo scrittore Nicholas Fersen, nel prologo al suo romanzo “Tombolo” scrisse: «e Tombolo giace là di fronte al mare, inscrutabile, orrida e misteriosa, tenacemente incollata con la sua miseria, la sua storia, alla coscienza degli uomini». Lì, dove sarebbe sorto nel 1951 Camp Darby, base USA per il sud dell’Europa, si compiono traffici illeciti, mercato nero, vi si rifugiano i disertori, centinaia di “segnorine” si prostituiscono.

Con gli americani arriva anche la Coca Cola, il chewing-gum; diventano famosi sport come il basket e il baseball; si ballano e si suonano i ritmi musicali come il boogie-woogie, il blues, e una strana musica: il Jazz. Anche se Livorno aveva sentito questa musica nelle sue prime forme: già negli anni venti e trenta del ‘900 si erano formate molte jazz band. La musica, i nuovi ritmi, ai musicisti livornesi, così come tanti altri musicisti di altre città italiane, soprattutto portuali, erano conosciuti perché alcuni erano emigrati in America, ma anche perché il jazz attinge da tante altre forme musicali come la musica bandistica (a Livorno erano molte le bande musicali attive) la classica, la musica da ballo che a Livorno erano già diffuse all’inizio del ‘900 e che “viaggiavano” costantemente con le navi attraverso l’oceano. Il jazz che i livornesi ascoltano negli anni ’40 e ’50, è quello suonato dalle band al seguito dei militari Usa, ed è il jazz moderno, anche se non c’è una frattura netta fra il prima, degli anni ’20 e ’30, e il dopo in quello che ascoltavano.

Livorno diventa anche crocevia delle star internazionali che incontrano e si esibiscono per le truppe angloamericane. Nella primavera del 1945, Marlene Dietrich, indimenticabile interprete de L’Angelo Azzurro e de La Taverna dei Sette Peccati, partecipa ad alcuni recital cantando per i soldati americani e inglesi feriti in combattimento e ricoverati in ospedali da campo a Livorno: gli inglesi sono a Villa Mimbelli, gli americani a Villa Corridi.

In estate è la volta di Francis Albert Sinatra, noto come Frank Sinatra o con il solo nome, cantante di origine italiana, non ancora “The Voice” ma già famoso nel suo paese, che canta in piazza Magenta di fronte ai soldati americani. Dopo di lui arriverà anche una giovane, non ancora trentenne e già famosa, Ella Fitzgerlad che si esibirà nell’ex Dopolavoro della Società Metallurgica Italiana di via Micali divenuto sede della Red Cross Club (Croce Rossa americana).

 Il Concerto in Magenta Square

 È il 7 luglio, un sabato, ed è l’ultima tappa del Tour USO 1945. Questi Tour sono organizzati dalla United Service Organizations Inc. (USO), una società di beneficenza americana senza scopo di lucro che offre intrattenimento dal vivo con celebrità di Hollywood (comici, attori e musicisti) ai membri delle forze armate degli Stati Uniti e alle loro famiglie, durante la guerra. Lo scopo è di «portare a casa i ragazzi, alla loro casa». Tra il 1941 e il 1945, l’USO mise in piedi 293.738 spettacoli in vari continenti.

Quel sabato pomeriggio, lì sul palco, assieme a Frank Sinatra c’è un giovanissimo pianista, Saul Chaplin, che non era figlio del grande Charles Chaplin “Charlot” come qualcuno, sbagliando, l’ha indicato nell’annotazione che accompagna la storica e unica foto del concerto di piazza Magenta. In realtà Saul Chaplin, il cui vero nome è Saul Kaplan, è nato a Brooklyn, New York, il 19 febbraio 1912, da famiglia ebrea di origine polacca, e ha frequentato la School of Commerce della New York University con l’intenzione di diventare contabile. Pianista autodidatta, ha guadagnato soldi per mantenersi agli studi suonando con band locali.

Saul era molto giovane quando a Livorno accompagnò al piano Sinatra. In seguito, fino alla sua morte avvenuta nel 1997, sarebbe diventato un famoso compositore di colonne sonore del cinema, vincitore di tre Premi Oscar per la migliore colonna sonora per i film Un americano a Parigi (1952);  Sette spose per sette fratelli (1955); West Side Story (1962) come produttore associato con Leonard Bernstein.

Sul retro della foto originale, l’unica che ritrae Sinatra e Chaplin sul palco, vi è l’annotazione che la pubblicazione della foto è autorizzata dal Pentagono con la seguente indicazione: «Se pubblicata, si prega di accreditarla come fotografia dell’esercito americano, scattata dal fotografo Barry Kramer, assegnato per realizzare foto per l’USO (United Service Organizations) oversears tour 1945».  Barry Kramer (1921- 1984) è stato uno dei fotografi più prolifici del suo tempo, conosciuto e venerato più dopo la sua morte che quando era in vita. Nato e cresciuto a New York City, Barry, dopo la laurea alla New York University in pubblicità, fu arruolato nell’esercito nel 1942 e assegnato al corpo fotografico dell’USO, sviluppando nei vari tour stretti rapporti con innumerevoli celebrità dell’epoca come Frank Sinatra, Perry Como, Judy Garland, Tony Bennett, Duke Ellington, Ella Fitzgerald; un’esperienza, questa, che in seguito lo portò a collaborare con importanti riviste come Life e National Geographic. Sue sono inoltre le foto più famose di musicisti jazz nelle loro esibizioni nei jazz club di fama mondiale: Basin Street East, The Village Gate, The Metropol.

Ma prima di ritornare al concerto di piazza Magenta, vediamo come e perché fu decisa la tournée di Sinatra a Livorno.

 L’antefatto

 Come C-4 (codice identificativo d’idoneità al servizio militare ma solo come ausiliario) Frank Sinatra non avrebbe dovuto svolgere il servizio militare almeno fino al 1945, per via di un timpano perforato.

Ma era il 1945 e la guerra mondiale non era ancora finita. Sinatra fu quindi chiamato per una nuova visita medica. «Devo andare all’ospedale militare del New Jersey per verificare la mia idoneità», dichiarò ai giornalisti che smaniavano per intervistare questo giovane cantante italo americano che stava avendo un enorme successo, soprattutto tra le ragazze. E dopo tre giorni di visite Frank a sorpresa fu classificato C-2A che significava che era dichiarato inabile al servizio militare e sarebbe stato quindi esentato anche dal servizio ausiliario.

Apriti cielo, la notizia destò un gran sollievo tra le ammiratrici, ma anche una valanga di proteste su alcuni giornali, uno dei quali aveva definito Sinatra un «cantante caramelloso», e soprattutto tra i giovani in guerra in Europa e le loro madri. Una delle quali scrisse al New York Time: «mi potete spiegare perché gli atleti, gli attori del cinema e del teatro sono così importanti che ci debba essere per loro una speciale dispensa dal servizio militare? ». Una lettera arrivò anche dai militari del padiglione 47-4 dell’Hospital Plant 4118 in Inghilterra che avevano letto che c’erano ragazze a casa che minacciavano perfino di uccidersi se Frank fosse stato arruolato: «ci sono milioni di soldati americani sotto le armi e ci si preoccupa e ci si dispera per un solo uomo?».

Il 5 marzo del 1945 la commissione di leva del New Jersey, sorpresa dalle tante proteste, dichiarò che c’era stato un disguido e che Frank doveva essere considerato ancora un C-4. George Evans, manager di Sinatra, per evitare altre polemiche annunciò che Frank aveva intenzione di fare subito un giro negli ospedali militari e che in giugno sarebbe andato a cantare per le truppe oltreoceano.

«Quando il manager di Frank mi chiese di mettere insieme uno spettacolo per fare il tour con Sinatra in Europa per sei settimane, mi sentii male – disse Phil Silvers, attore, cantante e amico di Sinatra: ero ancora in luna di miele con Jo Carroll […] ma Frank era un amico e non potevo dire di no”». Phil Silvers aveva anche riflettuto su come presentare Sinatra alle truppe, dopo tutte quelle polemiche: «Non potevo certo dire: ed ecco a voi, l’idolo della gioventù americana. Mi avrebbero tirato le gavette. Pensai e suggerì di presentarlo sfottendolo un po’. Lo avrei preso in giro per la sua magrezza, lo avrei schiaffeggiato, lo avrei intimidito con lo sguardo, tutto per scherzo ovviamente, poi avrei attaccato un mio pezzo suonando un clarinetto e storpiando le note […] e a questo punto credo, anzi sono certo, che i soldati chiederanno a gran voce di farlo cantare».

La cosa funzionò e così, con questa trovata, iniziò ogni concerto del tour del 1945: i soldati dopo aver riso della gag tra Silvers e Sinatra chiedevano a gran voce a Frank di cantare una delle sue canzoni più in voga. A Livorno la richiesta cadde su “Nancy with the Laughing Face” che Phil aveva scritto per la festa di compleanno della figlia di Sinatra. Almeno così si raccontava. In realtà il titolo originario era “Bessy with the Laughing Face”, ma quando Silvers, autore del testo, e Jimmy Van Heusen, autore della musica, la cantarono alla festa di compleanno, sostituendo a Bessy il nome della figlia di Sinatra, Nancy, Frank si commosse, pensando che fosse stata scritta apposta per la festa di sua figlia. La verità era però che Silvers e Heusen avevano composto la canzone per il compleanno della moglie, Bessie, del compagno di scrittura di Van Heusen, Johnny Burke. Il titolo, con Nancy, fu poi registrato da Sinatra per la Columbia nel 1944, e così è conosciuto.

La tappa livornese di Sinatra fu l’ultima del 1945 Overseas USO (United Service Organizations) Tour, organizzato dal Comando USA per intrattenere soldati americani di stanza a Terranova, nelle Azzorre, nel Nord Africa e, appunto, in Italia con i concerti a Roma, Capua (Caserta), Cerignola (Foggia), Venezia, Milano, Pomigliano d’Arco, Capri, Bari, Foggia, Manduria (Taranto) e, appunto, Livorno, l’ultima data prima di ritornare in America.

Insieme a Sinatra e al pianista e compositore Saul Chaplin, saliranno sul palco il comico e amico di Frank Phil Silvers, all’anagrafe Philip Silver (il suo nome è iscritto tra le celebrità della Hollywood Walk of Fame. Silvers fu doppiato dall’attore livornese Stefano Sibaldi nei film: La signorina e il cow-boy, Fascino e Sesta colonna, e da un altro attore livornese Carlo Carletto Romano per  20 chili di guai!…e una tonnellata di gioia); con loro Fay McKenzie, attrice e cantante, e Betty Yeaton, acrobatic Cutie (ballerina-contorsionista),  che in Italia aveva già partecipato ad una tournée USO per i soldati della 5a armata americana, con uno spettatore d’eccezione, Winston Churchill, a Marina di Cecina il 3 agosto 1944.

 Livorno 7 luglio 1945 – Magenta Square

 Ci raccontano le cronache di quei giorni che quando Frank Sinatra giunse a Livorno aveva poco meno di trenta anni essendo nato nel dicembre del 1915  a Hoboken, New Jersey, Stati Uniti.

Aveva già alle spalle un’apprezzabile esperienza musicale. A Livorno vi erano migliaia di militari della Quinta Armata. Le truppe, anche se il 25 aprile del 1945, con la Liberazione delle grandi città del Nord e la resa dei tedeschi, l’Italia era stata liberata dal nazifascismo, non avevano certo il morale alle stelle. Soldati giovanissimi erano lontani da casa anche da tre o quattro anni, un oceano fra loro e le fidanzate; bloccati in un paese con abitudini diverse, con una lingua incomprensibile per i più, anche se molti erano gli italo-americani, le generazioni successive a quelle della grande immigrazione italiana negli USA, che non avevano bisogno dell’interprete. C’era bisogno di qualcosa che potesse risvegliare i ricordi della casa lontana. Nulla di meglio che un po’ di musica: lo swing che i livornesi avevano già cominciato ad apprezzare già negli anni Venti grazie ad alcune famose orchestre, come quella di Otello Bacci, e tante jazz band locali.

Il 7 luglio del 1945 faceva caldo. C’era il sole che salutava la prima estate senza più guerra. In Magenta Square, come era chiamata dagli americani, dominata dalla grande chiesa di Santa Maria del Soccorso, si accavallavano i rumori delle martellate e le grida di coloro che erano impegnati a montare il palco.

In piazza (raccontano ancora le cronache del tempo) presero posto migliaia di soldati americani, si dice fossero più di 10mila, ed ecco che davanti al microfono arriva quel ragazzo mingherlino, già famoso fra i soldati americani con il nome di “Frankie”. Proprio negli anni della guerra alcune canzoni da lui interpretate erano già entrate nella top ten di quelle preferite dal pubblico americano. “Frankie” Sinatra sarebbe diventato presto un artista di fama planetaria, e non solo come cantante, ma anche come attore: dai primi musical cantati e ballati con Gene Kelly fino a film di grande spessore interpretativo come Da qui all’eternità girato da Fred Zinnemann e che valse a Sinatra, nel 1954, l’Oscar come migliore attore non protagonista, o come, nel 1955, L’uomo dal braccio d’oro di Otto Preminger, con Sinatra candidato ad una nomination all’Oscar come migliore attore protagonista.

A Livorno, davanti al microfono, Frankie caricò l’animo dei soldati e li fece divertire. Si dice – ma qui le notizie sono frammentarie – che ad aprire il concerto, sotto il palco, fu un’orchestra composta da alcuni musicisti livornesi diretti da Otello Bacci; un’orchestra molto famosa tra le truppe americane perché proponeva “musiche americane” allora in voga.

Di quel concerto di tanti anni fa resta una foto un po’ ingiallita come tutte quelle che si tirano fuori dal cassetto della memoria. Una foto nella quale si vede Sinatra che canta indossando una camicia bianca con le maniche arrotolate sugli avambracci e un paio di pantaloni morbidi a vita alta, come andava di moda all’epoca. Saul Chaplin, il pianista, anche lui in camicia bianca, suonava un pianoforte verticale Steinway & Sons, di colore rosso mogano, portato direttamente dagli States e che era stato scarrozzato per tutte le tappe della tournée, riportando anche alcune “ferite” nella struttura in legno.

Sinatra in piazza della Vittoria cantò otto delle sue canzoni più famose: Nancy (With the Laughing Face) di Phil Silvers e Jimmy Van Heusen; Night and Day di Cole Porter; Candy di Mack David, Joan Whitney e Alex Kramer; Saturday Night di Sammy Cahn e Jule Styne; Ol’ Man River di Hammerstein-Kern; Embraceable You di George e Ira Gershwin; Blue Skies di Irving Berlin; Somebody Loves Me di George Gershwin, BG DeSylva e Ballard MacDonald.

Prima, durante e dopo il concerto fu accompagnato da applausi, urla e fischi, così come usavano fare gli americani quando una cosa piaceva, quindi il concerto di Frank Sinatra aveva avuto successo. Lo stesso giorno Sinatra e tutta la troupe volarono in America.

E questo è quanto si può raccontare sullo storico concerto di Frank “Frankie” Sinatra a Livorno. Ma non è tutto, perché c’è un pianoforte che rimane sul palco e non ritorna negli States. Ed è un’altra storia.

 Il pianoforte Steinway & Sons

 Il pianoforte su cui suonò Saul Chaplin e che accompagnò tutto il Tour USO merita un racconto a sé. Sì, perché per questo strumento musicale l’avventura di quel 1945 si concluse proprio a Livorno. Terminato la tournée, il pianoforte per chissà quale motivo non fece parte del bagaglio caricato sull’aereo con cui Frank Sinatra e gli altri artisti se ne ritornarono negli USA.

Che ne fu di quel piano? Oggi, grazie a circostanze casuali, possiamo raccontare la sua storia: il pianoforte Steinway & Sons, nel suo colore tradizionale rosso mogano ma che durante i tour USO fu tinto di un verde militare, su cui suonò Saul Chaplin e la cui musica accompagnò Frank Sinatra, non solo rimase in Italia, ma si trova ancora a pochi chilometri da Livorno. Sul pianoforte, benché di nuovo color rosso mogano e con qualche ferita, si scorgono tutt’oggi tracce di vernice verde.

A tale proposito riportiamo la testimonianza di Marcello Orazio, che ne è stato uno dei proprietari:

 Io lo aveva ricevuto in eredità da mio padre Alberto il quale a sua volta lo aveva acquistato nell’immediato dopoguerra presso la Casa Musicale Pietro Napoli di Livorno. L’acquisto di questo piano gli era stato caldamente raccomandato dal titolare Roberto Napoli (nonno dell’attuale Roberto, figlio di Gian Franco Napoli) come un’eccezionale occasione di qualità e prezzo, riservatagli in seguito agli ottimi rapporti di amicizia e di stima che intercorreva fra loro. Dopo un uso intenso, il piano restò inutilizzato per decenni, poi è emerso che quello non era un pianoforte comune, ma aveva una particolarità storica non indifferente. Si trattava di una versione impreziosita con gusto borghese del glorioso Victory Vertical Steinway, solitamente in verde oliva dei G.I. militari americani, costruito secondo specifiche militari di robustezza e maneggiabilità, adatto anche a essere paracadutato in avamposti del fronte bellico per dare momenti di ricreazione alle truppe. Accertata questa inconfutabile caratteristica si è consolidata in me l’ipotesi che quel piano fosse proprio quello usato per accompagnare Frank Sinatra in occasione del suo concerto per le che truppe in Piazza Magenta a Livorno. Il motore di questa ipotesi fu la casuale visione su una rivista della foto che ritraeva l’evento e nella quale si potevano anche vedere dettagli del pianoforte sul palco. Da questa ipotesi ho cominciato a esaminare da una parte la corrispondenza dei dettagli del pianoforte e d’altra parte a scavare nei ricordi della mia famiglia e in dettagli di per sé apparentemente poco significativi ma che nel contesto assumono oggi una valenza che permette di dare consistenza all’ipotesi.  A proposito del pianoforte, da notare che il piano in oggetto presenta, fin dall’acquisto presso Pietro Napoli, due colonne a lira strutturalmente posticce che, senza incidere sull’originalità del piano, contribuiscono ad assecondare ulteriormente il gusto borghese. Questo lascia pensare a una modifica esteticamente riuscita apportata da validi artigiani della stessa ditta Pietro Napoli che, per il suo già allora influente riferimento alla Steinway & Sons a livello europeo, avrebbe potuto avere quindi un ruolo nell’allestimento dello spettacolo di Frank Sinatra, e nella trattenuta in zona del pianoforte a fine spettacolo.

 Ed è così: fu proprio Roberto Napoli, imprenditore in campo musicale e musicista lui stesso, ad acquistare per primo quel pianoforte lasciato a Livorno al termine del Tour USO 1945, poi venduto alla famiglia Orazio. Marcello Orazio, che da bambino aveva studiato proprio su quel piano, ha di recente saputo che il musicista Andrea Pellegrini faceva parte del Comitato Unesco Jazz Day Livorno: «Lei è Pellegrini, figlio di Gian Franco il pianista jazz? – chiese, dopo averlo contattato, a Pellegrini, la risposta fu affermativa. Allora devo dirle che io ho il pianoforte del concerto del 1945 di Sinatra a Livorno».

Il Comitato UNESCO Jazz Day Livorno, fondato nel 2011, è composto da Andrea Pellegrini, Chiara Carboni e Maurizio Mini; Presidente Onorario Gian Franco Reverberi. Il Comitato organizza a Livorno dal 2012 nel mese di aprile, la JAM Jazz Appreciation Month Livorno, giunta quest’anno alla sua decina edizione (nel 2021, causa Covid, l’evento non si è svolto); un mese di eventi tra concerti, ascolti guidati, libri, film, mostre di pittura e fotografiche, tutto all’insegna del jazz. Livorno è l’unica città in Europa ad organizzare un mese di iniziative sul Jazz per concludersi il 30 di aprile, giornata mondiale Unesco dedicata al Jazz.




GIUGNO 1940: SIRENE D’ALLARME

La gente era intorno e commentava: tutto era ancora nel raggio delle cose possibili e prevedibili; una casa bombardata, ma non si era ancora dentro la guerra, non si sapeva ancora cosa fosse (Italo Calvino, L’entrata in guerra)

Il 10 giugno 1940, dalle ore 13.55 alle 14.05, a Livorno suonarono sinistramente le sirene dell’allarme aereo e «la città si paralizzò». Le disposizioni prevedevano che il segnale durasse 15 secondi, ad intervalli pure di 15 secondi. In realtà si trattava di un falso allarme, causato da un guasto tecnico, ma «nella popolazione si è manifestata una certa apprensione», anche perché per le ore 18 era atteso l’annuncio di Mussolini per l’entrata in guerra dell’Italia fascista contro Francia e Inghilterra, trasmesso dagli altoparlanti dal Palazzo Littorio in piazza Cavour.
All’entusiasmo bellicista, già nella notte tra l’11 e il 12 giugno, il Bomber Command britannico replicava colpendo Torino e Genova, seppure con incursioni aeree di carattere prevalentemente dimostrativo, nonostante alcune vittime civili. Lo stesso comando aveva individuato anche Livorno tra i primi 17 principali «obiettivi industriali in Italia» con riferimento alle raffinerie, ma fortunatamente la città si trovava, per la distanza dalle basi inglesi, al limite dell’autonomia operativa dei bimotori da bombardamento della RAF, Wellington e Whitley.
Regia Aeronautica e Armee de l'AirFu invece l’Armée de l’Air a colpire Livorno e Rosignano, in segno di reazione per l’aggressione voluta da Mussolini per sedersi, con ambizioni espansionistiche, al tavolo dei vincitori (tedeschi) a pochi giorni dalla resa francese.
Dopo aver sostenuto l’offensiva germanica sul fronte occidentale, l’aviazione francese era appena in grado di impiegare pochi velivoli, sovente inadeguati, per lo più singolarmente o in sezioni ridotte, senza difesa da parte della propria caccia, nel tentativo di danneggiare le strutture industriali, militari e portuali italiane, soprattutto delle zone costiere, isole comprese.
Nonostante tali limiti operativi l’effetto propagandistico ed anche psicologico fu comunque conseguito, mostrando al popolo italiano la vulnerabilità del territorio metropolitano e quanto poco fosse affidabile la protezione dagli attacchi aerei, a dispetto delle vantate capacità e dei mezzi della Regia Aeronautica.
Anche la provincia livornese fu raggiunta più volte – pur senza gravi conseguenze materiali – dall’aviazione francese, in quanto per la vicinanza alla Corsica e alla Costa Azzurra, era facilmente raggiungibile, senza peraltro temere danni da parte dell’evanescente reazione della Milizia Artiglieria Contraerei (13ª Legione DICAT) e dei caccia italiani, anche se presso l’aeroporto di Pontedera, in località Curigliana, vi erano dislocate due squadriglie di Fiat G.50 e una di Fiat CR 32.
Su queste incursioni, irrisorie a confronto di quelle ben più devastanti e luttuose del 1943 – ’44 compiute dai bombardieri anglo-americani (ed anche tedeschi), le informazioni sono scarse, confuse e sovente contraddittorie; stante anche la reticenza dei Bollettini di guerra e la censura che impediva – per motivi militari e politici – la pubblicazione di ogni notizia sui giornali, pur se la cittadinanza labronica ne aveva fatto esperienza diretta, tanto da indurre i primi “sfollamenti”.
Infatti, sia il prefetto Zannelli che il questore Roselli di Livorno avevano inoltrato alla stampa locale la seguente velina del Minculpop del 12 giugno: «Giornali non devono dare assolutamente notizie di allarmi incursioni aeree, bombardamenti che non siano comprese nel Bollettino del Quartier Generale delle Forze. Tali notizie non potranno essere né ampliate né commentate».
Nei diversi saggi pubblicati riguardanti i bombardamenti sull’Italia si trova a malapena appena qualche accenno a quelli compiuti da aerei francesi su Livorno e persino il fondamentale saggio di Henri Azeau sul conflitto italo-francese ignora tali incursioni.
RR Bagni PancaldiControversi e discordanti appaiono i riferimenti a date, obiettivi, bombe, antiaerea, numero e tipo degli aerei impiegati che è possibile trovare nei testi (ma anche riviste e siti web) italiani a disposizione; d’altronde persino la documentazione d’archivio esistente è tutt’altro che univoca.
Informazioni utili per la presente ricostruzione, non conclusiva, sono stati desunti da alcuni documenti militari francesi, raffrontati con i rapporti pervenuti o trasmessi dalla Questura di Livorno, peraltro non esenti da inesattezze. Esistono inoltre ben tre diverse e poco concordanti cronologie degli allarmi e dei bombardamenti: il Registro degli allarmi avuti nella città di Livorno nel periodo bellico 1940 – 1945, redatto nel 1946 dal personale addetto all’impianto delle sirene dislocato presso Villa Maria; l’elenco allegato ad una comunicazione del Prefetto di Livorno alla Procura generale della Corte dei Conti, nel marzo 1965; uno schema similare pubblicato nel 1948 all’interno del libro di Gastone Razzaguta, Livorno nostra.
le-jules-verne-avion-corsaire-1In particolare, vi è molta incertezza attorno al primo presunto raid aereo su Livorno.
Secondo quanto riportato in una pubblicazione del Comune di Livorno del 2013, il 13 giugno un Farman 223-2 dell’Armée de l’Air avrebbe colpito, non gravemente, alcuni caseggiati. Per tale data però non vi è alcun riscontro documentale dell’azione, ma nel citato Registro appare riportato un allarme dalle 3.10 alle 3.55 del 12 giugno, con l’improbabile annotazione «bombe sull’Anic», mentre sul Bollettino di guerra n. 2 allo stesso giorno risulta segnalato un più verosimile sorvolo, forse di ricognizione, da parte di aerei nemici.
Su «Il Telegrafo» non venne ovviamente fornita alcuna notizia in merito, ma il 14 giugno vi furono pubblicate le Norme generali per gli allarmi aerei emanate dal Ministero della Guerra. Nella pagina laterale, invece, era possibile leggere una cronaca dettagliata del bombardamento notturno subito da Torino il 12 giugno con 14 morti e decine di feriti ad opera di velivoli inglesi.
Il 15 giugno, ancora sul quotidiano livornese, comparve un promemoria per la Protezione antiaerea in cui, oltre a confermare la «perfetta attrezzatura antiaerea», si ricordavano i doveri della popolazione civile, concludendo che «Livorno s’è messa perfettamente in linea e nella sua veste guerriera attende, con la tranquillità dei forti, al proprio lavoro».
Nei giorni seguenti, sarebbero seguiti altri articoli in cui si richiamavano i compiti dei militi dell’UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea), dei gruppi rionali fascisti e dei «capofabbricato» per l’attuazione puntuale delle misure di oscuramento e prevenzione antincendio.
La prima, accertata, incursione avvenne nelle prime ore del 16 giugno. Il Farman 223-4 “Jules Verne”, decollato da Bordeaux-Mérignac, raggiunse nottetempo Livorno; le sirene d’allarme risuonarono attorno alle ore zero. Dopo aver sorvolato la città per circa un’ora alla ricerca dell’obiettivo, ossia la raffineria Anic a Stagno, sganciò il carico causando solo principi d’incendio nelle vicinanze di una casa colonica, anche se il pilota Henri Yonnet nelle sue memorie vantò un successo completo della missione, descrivendo fuoco e fiamme sul bersaglio.
Facendo rotta verso sud, dall’aereo furono lanciati migliaia di piccoli manifestini, così come era avvenuto su Roma, raccolti in gran numero l’indomani nel quartiere San Jacopo, su cui era possibile leggere:

Il Duce ha voluto la guerra? Eccola! La Francia non ha niente contro di voi. Fermatevi! La Francia si fermerà

Donne d’Italia ! Nessuno ha attaccato l’Italia. I vostri Figli, i vostri Mariti, i vostri Fidanzati
non sono partiti per difendere la Patria. Soffrono, muoiono per soddisfare l’orgoglio d’un uomo. Vittoriosi o vinti, avrete la fame, la miseria, la schiavitù“.

Nel resoconto della Questura non compare alcun cenno alla reazione dell’antiaerea che, invece, alcuni fonti indicano come vivace ad opera delle postazioni al Cantiere navale, nel porto (zona Piloti), a Colline, nonché da un cacciatorpediniere presente nel Cantiere. Analogamente, in alcuni testi il raid viene attribuito a bombardieri medi di diverso tipo (Amiot 143, Leo 451, Martin 167) con danni leggeri arrecati nel quartiere Venezia Nuova, piazza Vittorio Emanuele e piazza Magenta; ma tali riferimenti appaiono incerti e forse riferentesi erroneamente alla successiva incursione del 22 giugno.
Il “Jules Verne”, comandato dal leggendario capitano di marina Henri-Laurent Dailliére, aveva già compiuto sedici rocambolesche missioni, tra cui quelle su Anversa, Berlino (primo bombardamento alleato, 7 giugno 1940), Rostock, Porto Marghera e, la notte precedente, Roma (lancio di migliaia di volantini). Il velivolo, un Farman 223-4, era un imponente quadrimotore (due motori in tandem) dell’Air France nato per voli civili transatlantici, “militarizzato” e incorporato nella Aviation Navale (Escadrille de Bombardement B-5) per dare la caccia alle navi corsare tedesche, assieme ai gemelli “Camille Flamarion” e “Urbain Le Verrier”, ma poi impiegato per azioni offensive a lungo raggio, ultima delle quali fu quella su Livorno.
Cratere bomba alla SolvayLa notte seguente venne il turno di Rosignano: alle ore 3 e 5 minuti del 17 giugno, il Farman 222-2 “Arcturus” n. 16 della Escadrille d’Exploration 10E dell’Aviation Navale (con base algerina ad Oran-La Sénia), colpiva con precisione la fabbrica chimica Solvay in due o tre passaggi, sganciando tredici o quattordici bombe da 100 e 200 kg., così come risultò dalla perizia balistica su una spoletta recuperata. Una di queste abbatté 35 metri di una delle due ciminiere, alta 105 m., mentre altre lesionarono seriamente un’officina meccanica, la palazzina ad uso foresteria per il personale dirigente, condutture elettriche e tubazioni idriche, con danni alle strutture per oltre un milione di lire e la perdita di 168.00 ore lavorative, con conseguente arresto della produzione di soda per 12 giorni e la successiva riduzione ad un terzo, con rilevanti riflessi su quella dell’alluminio e nell’industria tessile.
Oltre alle bombe – per un carico totale di circa 2/2,5 tonnellate – furono lanciati in quantità i soliti volantini di propaganda disfattista su Rosignano e Cecina.
A seguito dell’incursione, alle 3.15 l’allarme suonò anche a Livorno e fu allertata la contraerea, temendo che il bombardiere francese – presumibilmente diretto in Corsica – facesse rotta su Livorno.
propaganda_1940Il 22 giugno, su «Il Telegrafo», veniva pubblicato un articolo sconcertante sulla Psicologia delle masse di fronte ai bombardamenti e, a titolo d’esempio, era riportata l’improbabile testimonianza di una «degna figlia della Roma fascista»: «La prima volta si prova quasi impressione; poi non ci si bada più e quasi ci si piglia gusto…»; ma poche ore prima dell’uscita del giornale nelle edicole, Livorno era stata nuovamente raggiunta da bombe francesi, come riportato dal Bollettino di guerra n. 11 che riferì di «danni rilevanti sulla stazione marittima e abitazioni al centro», pur riferendosi genericamente ad un’incursione nemica.
Su questo bombardamento ci sono abbastanza informazioni, grazie ai rapporti della Questura inerenti i danni riportati, ma è ipotizzabile che le incursioni siano state due, tra le 3.30 e le 4.50. Appare infatti improbabile, considerato il numero delle bombe – esplose e non – che sia stato un solo velivolo a sganciarle, anche perché il carico esplosivo risultava ridotto, per avere una sufficiente riserva di carburante.
Il solito Farman 222-2 “Arcturus”, proveniente da Oran, autore del raid su Rosignano sganciò alcune bombe da 250 Kg. – forse con target l’Accademia navale – sul viale Regina Margherita, diroccando invece l’Albergo Palazzo (già Hotel Palace, prima del fascismo) e i RR. Bagni Demaniali Pancaldi.
La stima dei danni fu di circa Lire 1.200.000 per l’Albergo, 115.000 per i Pancaldi e 25.000 per ripristinare il manto stradale davanti ai Bagni dove era rimasto un cratere di 10 metri nonché la balaustra spazzata via dall’esplosione, mentre nel quartiere erano andati in frantumi i vetri delle finestre di molte abitazioni.
Invece, come indicato dallo storico dell’aviazione Bonacina, alcuni moderni bombardieri francesi LeO 451 provenienti da Istres (Marsiglia), puntarono sulla zona portuale, dove tre bombe colpirono la stazione ferroviaria marittima (allora “Livorno Porto Vecchio”). Gli ordigni produssero crateri di circa 14 metri di diametro e profondi 5, distruggendo una dozzina di scambi e binari, oltre a deragliare tre vagoni (danni stimati per Lire 80.000), mentre altre tre bombe furono rinvenute inesplose.
Danneggiati pure i Macelli comunali presso il Forte S. Giacomo (per 40-50.000 lire) e un serbatoio della società petrolifera “Nafta” (8-10.000 lire), nonchè numerosi edifici delle zone limitrofe.
Una bomba incendiaria colpì il palazzo del Municipio, sul retro, lato scali Finocchietti, rendendo inagibile l’abitazione del segretario generale. Altri edifici colpiti furono segnalati in piazza del Luogo Pio (compreso il Dopolavoro fascista “Dino Rimediotti”), scali Rosciano, viale Caprera, via delle Galere, via della Posta, via Vittorio Emanuele (l’attuale via Grande), via Ernesto Rossi, nonché sugli scali Saffi dove un incendio disastrò il buffet del Teatro Politeama. Una bomba fu rinvenuta inesplosa in piazza Magenta.
Paradossalmente, il radiotelemetro sperimentale RDT3 della Regia Marina, situato presso l’Accademia navale, era stato in grado di rilevare gli aerei nemici in avvicinamento già a 30 km., offrendo in teoria la possibilità di allertare la contraerea e la caccia italiana per intercettarli; ma non vi fu alcun contrasto aereo e soltanto in seguito sarebbe stata piazzata una batteria antiaerea alla Terrazza Mascagni (allora intitolata a Ciano).
Eravamo comunque al baroud d’honneur: nella stessa notte Marsiglia veniva bombardata da velivoli italiani con l’uccisione di almeno 143 civili e due giorni dopo fu firmato l’armistizio tra Italia e Francia, dopo 14 giorni di inutile belligeranza, costata alle truppe italiane 631 morti, 2631 feriti e ben 2151 congelati.
Complessivamente a Livorno, in queste prime incursioni aeree del giugno 1940 risultarono colpiti e danneggiati, oltre alle strutture citate, una settantina di appartamenti privati, con danni stimati attorno a Lire 70-76.000: un preavviso dei bombardamenti che Livorno doveva ancora patire nel corso della guerra fascista, con la distruzione pressoché totale dell’area portuale e del centro storico, nonché di centinaia di vittime, senza che il regime fosse in grado di assicurare adeguate misure di difesa attiva e protezione, dato che pure i rifugi si sarebbero tragicamente rivelati delle tombe collettive.
«La storia apparentemente tecnica della contraerea di Mussolini – come osservato da Nicola Labanca – è in fondo la storia generale di un regime che parla e affretta la guerra senza prepararvisi, anteponendo l’ideologia, la politica e il partito alla razionalità delle esigenze della guerra».




Oberdan Chiesa. Un uomo, una vittima, un mito.

Una delle frasi più famose della narrativa italiana sulla Resistenza è quella del partigiano Kim, tra i protagonisti de Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, «E basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si ritrova dall’altra parte»[1]. Lo stesso Claudio Pavone, nel suo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza utilizzò questo passo letterario per spiegare le ragioni attorno ai diversi schieramenti di campo all’indomani dell’8 settembre 1943, non sempre semplici e spesso legate al caso. Ecco, a me sembra che la frase di Calvino calzi anche per descrivere, almeno in parte, e la scelta antifascista di Oberdan Chiesa – e forse anche del fratello Mazzino, a cui Stefano Gallo ha già dedicato uno studio[2] – anticipata di quasi un ventennio rispetto all’ambientazione originaria della storia, cioè al momento dell’instaurazione del regime fascista. Il «nulla» che colpì i fratelli Chiesa – comunque cresciuti in un ambiente familiare imbevuto di idee repubblicane e socialiste – fu una spedizione squadrista contro il loro quartiere, consumatasi quando entrambi erano degli adolescenti. Ma procediamo con ordine.

La famiglia Chiesa era composta dai genitori, Garibaldo e Ada Cini, e da quattro figli, Corrado-Giovanni, Mazzino, Oberdan e Mazzina. Già i loro nomi tradivano l’orientamento politico che si respirava al numero 54 di via Giuseppe Garibaldi, l’arteria principale del quartiere livornese “Il Pontino” – uno dei centri “sovversivi” della Livorno contemporanea – dove vivevano. Ma dalle memorie dei protagonisti emerge ancora più chiaramente come la spinta alla loro decisa presa di posizione contro il fascismo avvenne nell’ottobre del 1924. Bisogna ricordare come in seguito all’omicidio Matteotti il partito di governo sembrò sbandare, anche sull’onda della costernazione dei circoli conservatori che avevano supportato l’ascesa di Mussolini. La reazione dei fascisti fu contraddistinta da un uso diffuso della violenza squadrista, la stessa del biennio 1921-1922, che si riversò anche su Livorno[3]. Quella sera un gruppo di squadristi invase la fiaschetteria dei fratelli Sirio e Gino Spagnoli, noti repubblicani da poco convertiti al comunismo, per dargli una lezione. I due non si fecero intimidire ed estrassero le armi che tenevano sotto al bancone, ferendo tre degli aggressori e mettendo in fuga gli altri[4]. Come ritorsione un folto gruppo di fascisti si diresse verso il loro appartamento, che era esattamente dal lato opposto a quello dei Chiesa:

Durante la notte mia madre è venuta in camera – chi parla è Mazzino, che ricordava  quell’episodio a mezzo secolo di distanza – terrorizzata, mi ha svegliato dicendomi che i fascisti erano giù e volevano entrare in casa […] Non c’è stato bisogno di andare ad aprire perché avevano già abbattuto la porta ed erano entrati dentro. Sono entrati [sic] in camera dove io dormivo con mio fratello [Oberdan] e tra questi “masnadieri” ho visto uno […] che ha detto “No, no, non sono quelli che stiamo cercando”[…] Quando sono andati via, allora, mi sono alzato [mi sono affacciato alla finestra] e ho assistito ad una scena terrificante: da ogni parte c’era un incendio. Per vendicarsi, siccome i fascisti non avevano potuto trovare quelli che avevano sparato, avevano dato fuoco ai pagliai, perfino a delle pine […] per   fare il fuoco […] e dettero la via ai maiali […]. Come al solito la reazione dei fascisti si riversò nei confronti degli inermi e degli ultimi[5].

Oberdan Chiesa, Barcellona, 1936

Oberdan Chiesa, Barcellona, 1936

L’episodio, per quanto risoltosi in maniera fortunata per i due fratelli Chiesa, fu il trauma – lo affermò lo stesso Mazzino nell’intervista audio –  che decise per un loro percorso di vita votato all’antifascismo. Il primo ad impegnarsi nella lotta aperta contro il partito di governo fu Mazzino, il quale aderì formalmente alla federazione giovanile comunistamettendosi a distribuire manifestini in città e ad aiutare nell’organizzazione comizi clandestini[6]. Oberdan decise di rimanere ancora per un po’ nell’ombra, evitando di esporsi pubblicamente e interiorizzando la propria opposizione al fascismo. Di lì a poco anche lui avrebbe fatto sentire la sua voce, costringendo la polizia politica a mettersi sulle sue tracce. Soprattutto all’estero.

Nel settembre del 1933, all’indomani del servizio militare di leva, Oberdan espatriò per Bona, in Algeria, dove fece il suo battesimo politico partecipando, col fratello – allora già da qualche tempo esule ed agente del Pcd’I clandestino –, all’aggressione al direttore della scuola italiana di quella città[7]. Per quell’episodio fu processato ed espulso dalla colonia francese spostandosi prima a Marsiglia, poi ad Ajaccio, dove risiedette dal gennaio all’agosto 1936, ed infine a Grenoble[8]. In quest’ultima città rimase poco tempo perché, lo stesso giorno del suo arrivo, ebbe modo di parlare con altri emigrati che gli parlarono di cosa stesse accadendo in Spagna. Non sapeva veramente nulla riguardo l’ammutinamento del generale Francisco Franco contro la giovane repubblica? Pur nutrendo alcuni dubbi su questa dichiarazione – che fece lui stesso al momento del rimpatrio – non mi è stato possibile scoprirlo, ma è certa la sua partenza per Barcellona dei giorni seguenti. Partecipò alla Guerra Civil prima tra i ranghi della centuria “Gastone Sozzi”, poi nelle Brigate internazionali e, infine, nella Marina da guerra repubblicana. Nel 1939, al momento della sconfitta, fu costretto a lasciare la Spagna finendo recluso nei campi di prigionia francesi per gli ex volontari. L’ultimo campo fu quello di Vernet, dal quale venne liberato nell’estate del 1941 per essere rimpatriato in Italia. Raggiunse Livorno a settembre, rimanendovi per poche settimane. Iscritto al Casellario politico centrale dal 1934, fu condannato al confino, che scontò sull’isola di Ventotene. All’indomani della caduta del regime fascista venne liberato, rientrando nella sua Livorno solo alla fine del mese di agosto. La città che si trovò di fronte non era certo quella lasciata anni prima, avendo già subito i due grandi bombardamenti del 28 maggio e del 28 giugno 1943[9].

La sua permanenza fu tutto sommato breve, dato che dopo la notizia dell’armistizio con gli angloamericani e l’avvio dell’occupazione nazifascista, trascorsero pochi mesi prima del suo arresto. Oberdan venne fermato dalla squadra politica della Questura di Livorno il 22 dicembre 1943, e quello che fece in questo lasso di tempo, ahimè, non è testimoniato da nessuna fonte. Sicuramente ebbe un ruolo nell’organizzazione della Resistenza livornese, ma non certo così centrale come è stato dipinto nel dopoguerra. Questo emerge abbastanza chiaramente sia nella documentazione prodotta durante il processo ai suoi assassini – sebbene gli inquirenti non dedicarono ampia attenzione ad approfondire le modalità del suo arresto – sia nelle memorie di alcuni tra i principali animatori della lotta partigiana nel livornese. Anche la sua scelta come vittima delle rappresaglia che si consumò per ordine della Prefettura di Livorno sulla spiaggia di Rosignano Solvay il 29 gennaio 1944 conferma questa lettura, a cui è importante aggiungere come in occasione del suo arresto venne fermato anche il principale rappresentante della Resistenza comunista livornese in quelle prime settimane di occupazione, vale a dire Vasco Jacoponi[10]. Al di là di queste interpretazioni – che ci tengo a ribadire come siano del tutto personali, sebbene ancorate ad un ampio scavo archivistico e bibliografico – resta il fatto che quella mattina del gennaio 1944, in risposta ad un attentato fallito contro il maresciallo comandante la stazione dei carabinieri di Rosignano Solvay di poche ore prima, Oberdan venne fucilato da un plotone della Guardia nazionale repubblicana (Gnr) composto da ex militi della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e carabinieri. La sua esecuzione era l’esempio concreto di quella guerra civile che si combatté tra il 1943 e il 1945 in Italia, per cui il ricordo dell’episodio non poteva perdersi tra quelli che costellarono quei mesi. Alla formazione di una solida memoria “popolare” della morte di Oberdan contribuì indubbiamente il processo che venne celebrato nell’estate del 1947 – dopo più di due anni di istruttoria e decine di testimonianze raccolte – contro la catena di comando fascista-repubblicana che aveva ordinato, ed eseguito, la rappresaglia. Sul banco degli imputati finirono: Edoardo Serafino Facdouelle, capo della provincia di Livorno tra il dicembre 1943 e il giugno 1944; Giampaolo Mannelli, segretario particolare di Facdouelle e dirigente dell’ufficio politico della Prefettura di Livorno; Fernando Gori, federale del Partito fascista repubblicano di Livorno tra il dicembre 1943 e il giugno 1944; Renato Simoncini, commissario del fascio repubblicano di Quercianella; Giovanni Giampieri, ispettore federale e commissario del fascio di Piombino; Giuseppe Bartolini, tenente colonnello della Gnr e comandante della 88ª legione di Livorno tra gennaio e aprile 1944; Michele Cioffi, capitano dei carabinieri e comandante del gruppo di Livorno tra l’estate 1942 e quella del 1944; Luigi Carocci, squadrista e capitano della Gnr; Luigi Porquieur, capitano della Gnr e comandante dell’ufficio politico dell’88ª Legione; Luigi Cardile, tenente della Gnr; e Eugenio Bartolini, Sirio Lami e Marino Piga, tutti e tre militi della Gnr livornese. Facdouelle e Mannelli, entrambi latitanti, vennero puniti con l’ergastolo; a Gori furono inflitti 26 anni e 8 mesi di reclusione; a Carocci, latitante anche lui, 20 anni e 8 mesi; a Giuseppe ed Eugenio Bartolini, Cardile, Piga e Lami 13 anni, 9 mesi e 10 giorni; mentre a Cioffi 11 anni, 1 mese e 24 giorni. Tutti furono condannati a pagare le spese processuali e a risarcire la madre di Oberdan, costituitasi parte civile e assistita dall’avvocato Augusto Diaz. In virtù dell’amnistia del 22 giugno 1946, nota come “amnistia Togliatti”, vennero immediatamente condonati 8 anni e 10 mesi a Gori, mentre 5 anni ai due Bartolini, Cardile, Piga, Lami e Cioffi[11].

Livorno, 1947. Foto scattate al processo per l'uccisione di Oberdan.

Livorno, 1947. Foto scattate al processo per l’uccisione di Oberdan.

Ho definito la memoria scaturita dal processo come “popolare” non per caso, in modo da far emergere la differenza con quella “istituzionale” che rese il 29 gennaio una data topica del calendario laico dei livornesi. Perché accadde ciò? A partire dal 1945 la neonata federazione labronica dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia pose una stele commemorativa sul luogo dell’esecuzione di Oberdan quale punto di riferimento soprattutto per gli abitanti di Rosignano Solvay. Nel capoluogo di provincia, invece, gli venne dedicata una via e intitolata una sezione del Pci. A partire dal 1948, a causa del mutato clima internazionale, le cose iniziarono a cambiare e le celebrazioni annuali in sua memoria assunsero un chiaro orientamento politico. A ciò si aggiunse l’offensiva giudiziaria antipartigiana che si aprì nel dicembre 1947 e che investì anche la figura di Oberdan[12]. In questo clima si svolse il processo ad alcuni componenti della banda partigiana “Danesin” – dal nome del suo comandante Sante, e che operò tra i comuni di Rosignano Marittimo, Castellina Marittima e Riparbella – imputati quali autori dell’attentato del 27 gennaio 1944 che portò alla rappresaglia contro Oberdan, ma anche del tentato omicidio del commissario prefettizio di Montecatini Val di Cecina Oreste Giglioli, e degli omicidi dell’ex squadrista di Rosignano Solvay Arturo Gaiozzi, dell’ex podestà di Castellina Marittima Francesco Renzetti, e del maresciallo dei carabinieri di Riparbella Lugi Scordo. Non mi soffermo sulla complessità di questo processo – col primo grado celebrato dalla Corte d’assise di Pisa, il secondo dalla Corte d’appello di Firenze e il terzo dalla Cassazione – ma per comprenderla è sufficiente sapere come solo il dibattimento durò dal 16 febbraio al 30 marzo 1953, e che i principali imputati furono portati in carcere già a partire dal luglio 1951. Il significato del processo, per quanto risoltosi in maniera tutto sommato favorevole a Danesin e ai suoi compagni di lotta, non fu tanto quello di far giustizia di fatti di sangue risalenti a quasi un decennio prima, quanto quello di attaccare ancora una volta l’attività partigiana, cercando di screditarla in un’aula di tribunale. In questo scontro tra le parti finì schiacciata la memoria di Oberdan, che fu completamente riabilitata solo dopo la fine di questa seconda fase di processi. Il 19 luglio 1959, in occasione del 15° anniversario della Liberazione di Livorno, si tenne la consueta orazione del sindaco del capoluogo per commemorare l’evento. Dopo le dimissioni di Furio Diaz, primo cittadino dal 1944 al 1954, le funzioni erano passate a Nicola Badaloni. Nel suo discorso ufficiale, ricordò il nome di Oberdan, ponendolo in continuità con i valori risorgimentali della città e affiancandolo, unico civile, ai numerosi militari livornesi decorati di medaglia d’oro al valore militare[13]. L’inedita attenzione di Badaloni verso la figura di Oberdan non era assolutamente di facciata, ma sintomo di un diverso interesse rispetto a prima per la sua triste vicenda, e il significato pedagogico che avrebbe potuto assumere per tutto il contesto livornese: Oberdan era la figura attorno alla quale coagulare l’antifascismo di una provincia nei suoi vari passaggi dal 1922 al 1945, esaltando l’esperienza del fuoriuscitismo, dell’intervento internazionale in Spagna, del confino fascista e della guerra partigiana. Si spiega così perché in occasione del 18° anniversario della fucilazione di Oberdan, i giornali livornesi pubblicarono, per la prima volta contemporaneamente, il testo di una lettera inviata dall’avvocato Campi a sua madre alcuni anni prima, in cui ricambiava ai ringraziamenti per aver ricordato il figlio nella seduta del consiglio comunale del luglio 1954, tenutasi per decidere sull’apposizione di una targa commemorativa il decimo anniversario della Liberazione nella sala consiliare del municipio[14]. D’altro canto, poi, anche la considerazione del principale esponente della famiglia Chiesa ancora in vita, Mazzino, stava cambiando. Dopo un’iniziale contestazione trasversale a tutte le scelte politiche della federazione comunista, Mazzino “l’anarcoide” era stato escluso dalla vita del Pci. Nel 1957 aveva addirittura rifiutato la tessera perché «nemmeno un gatto della federazione» era intervenuto al funerale della madre. Grazie però ad una lenta mediazione dello stesso sindaco Badaloni si convinse a tornare tra le fila comuniste, avvallando così l’uso pubblico della figura del fratello[15]. A partire dal 1964, in occasione del 20° anniversario della morte Oberdan, la data 29 gennaio si affermò definitivamente nella serie delle celebrazioni annuali della Resistenza in tutta la provincia Livorno.

 *Giovanni Brunetti (Cecina, 1997) è laureato magistrale in Storia e Civiltà presso l’Università di Pisa (maggio 2021), dove ha conseguito anche la laurea triennale in Storia (giugno 2019). Attualmente sta frequentando il biennio 2019-2021 della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Firenze. Dottorando del XXXVII⁰ ciclo di studi (2021-2024) in Scienze archeologiche, storico-artistiche e storiche presso l’Universita degli Studi di Verona.

[1] Cfr. I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino, 1964 (ed. or. 1946), p. 146

[2] Cfr. S. Gallo, Mediterraneo antifascista. Sovversivi e porti mediterranei durante il Ventennio, in Salvatore Capasso, Gabriella Corona e Walter Palmieri, Il Mediterraneo come risorsa. Prospettive dall’Italia, il Mulino, Bologna, 2020, pp. 1-17. La ricerca è stata pubblicata anche su questo portale col titolo Mazzino Chiesa, un uomo in mare. Sovversivi e porti mediterranei durante il Ventennio https://www.toscananovecento.it/custom_type/mazzino-chiesa-un-uomo-in-mare/ (consultato il 28 febbraio 2022).

[3] Cfr. T. Abse, Sovversivi e fascisti a Livorno. Lotta politica e sociale (1918-1922). La lotta politica e sociale in una città industriale della Toscana, Quaderni della Labronica, Livorno, 1990; M. Rossi, La battaglia di Livorno. Cronache e protagonisti del primo antifascismo (1920-1923), Bfs, Pisa, 2021.

[4] Cfr. Nicola Badaloni e Franca Pieroni-Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno, 1900-1926, Editori Riuniti, Roma, 1977, pp. 169 e 201.

[5] Pochi mesi prima di morire Mazzino Chiesa rilasciò una lunga intervista audio a Iolanda Catanorchi, per un progetto di raccolta delle memorie di 7 figure storiche dell’antifascismo livornese. Cfr. Mazzino Chiesa, intervista audio di I. Catanorchi per il progetto dal titolo Livornesi sovversivi nel ventennio fascista, 1974, 1.18.00 (d’ora in poi Intervista a Mazzino Chiesa, 1974).

[6] Nel novembre 1926 Mazzino venne arrestato per la prima volta a Napoli, mentre si trovava su una nave proveniente dal Canada, per il ritrovamento di alcuni materiali del “Soccorso rosso” a casa. A tradirlo era stata una lettera alla madre intercettata dalla polizia, già sulle sue tracce per via degli stretti legami con altri comunisti livornesi. Archivio di Stato di Livorno (ASLi), Questura, A8, b. 1398, fasc. «Mazzino Chiesa», verbale di perquisizione del 18 settembre 1926 e sgg. Per una narrazione più precisa della sua attività in questo periodo della sua vita rimando all’intervista a Mazzino Chiesa, 1974, 00.05.00.

[7] Oberdan si dichiarò innocente a più riprese – anche nell’interrogatorio del 1941 al suo rientro dall’esperienza spagnola, scagionando pure il fratello – ma contro di lui le autorità francesi poterono far valere l’espatrio clandestino e l’assenza di un qualsiasi documento d’identità. Archivio Centrale dello Stato, Min. Interno, Cpc, b. 1303, fasc. 47130 «Oberdan Chiesa», verbale di interrogatorio ad Oberdan (28 ottobre 1941).

[8] Si trattava di Leo Franci, un comunista di Colle Vall d’Elsa emigrato a Marsiglia da pochi mesi dopo una fuga rocambolesca dall’Italia. Volontario in Spagna dall’ottobre del 1936, divenne commissario politico della 1° compagnia, 2° battaglione del «Garibaldi», e fu ucciso a Villanueva de Pardillo (nei pressi di Madrid) nel luglio 1937. I. Cansella e F. Cecchetti (a cura di), Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Effegi, Arcidosso, 2012, p. 198.

[9] Cfr. E. Acciai, Una città in fuga. I livornesi tra sfollamento, deportazione razziale e guerra civile (1943-1944), ETS, Pisa, 2016.

Rosignano Solvay, 1988. Celebrazione dell'anniversario della fuciliazione di Oberdan di fronte al nuovo monumento. Sulla destra è visibile il cippo originale.

Rosignano Solvay, 1988. Celebrazione dell’anniversario della fuciliazione di Oberdan di fronte al nuovo monumento. Sulla destra è visibile il cippo originale.

[10] Jacoponi aveva aderito da subito alla svolta comunista del 1921, divenendo segretario della Federazione giovanile comunista di Pisa e Livorno nel 1924. Fu arrestato due anni più tardi, processato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato e assegnato al confino a Lipari. Riuscì a fuggire dall’isola emigrando clandestinamente in Francia e mettendosi al servizio del Pcd’I. Nel 1940 fu rimpatriato dalle autorità francesi, processato una seconda volta e confinato a Ventotene. Nel dopoguerra ricoprì vari incarichi in seno alla Cgil e al sindacato dei portuali di Livorno, risultando eletto alla Camera dei deputati nel 1948, nel 1953 e nel 1958. Cfr. I. Tognarini, Là dove impera il ribellismo. Resistenza e guerra partigiana dalla battaglia di Piombino (10 settembre 1943) alla liberazione di Livorno (19 luglio 1944), Esi, Napoli, 1988, p. 158.

[11] ASLi, Tribunale, Corte d’assise speciale, b. 855, fasc. «1947», sentenza del processo per l’uccisione di Oberdan Chiesa (16 luglio 1947).

[12] Cfr. Guido Neppi Modona, Il problema della continuità dell’amministrazione della giustizia dopo la caduta del fascismo, in Luigi Bernardi (a cura di), Giustizia penale e guerra di liberazione, Milano, Franco Angeli, 1984, pp. 11- 39; Guido Neppi Modona, La giustizia in Italia tra fascismo e democrazia, in Giovanni Miccoli, Guido Neppi Modona, Paolo Pombeni (a cura di), La grande cesura. La memoria della guerra e della resistenza nella vita europea del dopoguerra, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 223-228; Michela Ponzani, L’offensiva giudiziaria antipartigiana nell’Italia repubblicana (1945-1960), Aracne, Roma, 2008; Simeone del Prete, «Fare di ogni processo una lotta politica». Gli avvocati difensori nei processi ai partigiani del secondo dopoguerra, «Contemporanea», articolo in early access  https://www.rivisteweb.it/doi/10.1409/102810 (consultato il 28 febbraio 2022).

[13] Le biografie di questi personaggi erano state raccolte pochi anni prima e pubblicate unitariamente in «Rivista di Livorno. Rassegna di attività municipale a cura del Comune», ed. “Decennale della Resistenza” (1955), fasc. I-II, pp. 17-22. ASLi, Prefettura, b. 37, copia del verbale del consiglio comunale del 14 luglio 1959.

[14] Ricordo del sacrificio di Oberdan Chiesa, «Il Telegrafo», 26 gennaio 1962. Lo stesso articolo fu pubblicato anche su un altro giornale locale con una presentazione alla lettera leggermente diversa, di cui ho trovato solo il ritaglio effettuato dalla polizia senza alcuna indicazione. ASLi, Questura, A4b (1965-1980), b. 497, ritaglio di articolo di giornale Ricordo di Oberdan Chiesa (26 gennaio 1962).

[15] Intervista a Mazzino Chiesa, 1974, 03.19.55. In questo passaggio Mazzino spiegò come quella era la prima volta in cui raccontava come si fossero svolti realmente i fatti, spesso ricondotti alla diaspora di molti comunisti dal partito nel 1956 dopo l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Urss.




Pietra su pietra. Storie d’inciampo

Ci sono forme di arte che aiutano a fare memoria in maniera discreta e informale. Attivano la memoria quando le incontri, quando le scorgi, quando ci inciampi. Le “pietre d’inciampo” racchiudono, nel termine tedesco “stolpern”, questo doppio significato di “inciampare” e “attivare la memoria”. Sono pietre, “stein”, impiantate ormai sulle vie di molte città europee. Misurano 10x10cm, recano inciso sulla loro superficie di ottone i nomi dei deportati nei campi di sterminio durante la Seconda guerra mondiale. Vengono collocati da Gunter Demnig, l’artista tedesco che li ha ideati, sul marciapiede davanti all’abitazione del deportato o al luogo di deportazione[1].

Un progetto ambizioso e “diffuso”, che parte da Colonia nel 1993 quando durante una cerimonia, organizzata per ricordare la deportazione di cittadini rom e sinti, una signora obiettò che in città non avevano mai abitato rom. Demnig, presente alla cerimonia, in segno di provocazione verso chi negava la deportazione e lo sterminio, decise l’installazione delle pietre, oggi presenti in ben 17 paesi europei. Oltre 73.000 pietre, 73.000 nomi di uomini, donne, bambini deportati, che compongono le tessere di un mosaico, ancora “in costruzione”. Un monumento “in progress”, potremmo definirlo. Un progetto ambizioso che si pone l’obiettivo di rendere visibili i nomi dei 10.000.000 di deportati, ebrei, militari, perseguitati politici, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, disabili in tutta Europa.

Un monumento che “difetta” di monumentalità e di effettiva visibilità, non si erge e non emerge, ma ha il pregio di restituire dignità e identità a quanti, a causa delle persecuzioni nazifasciste, ne sono stati violentemente privati[2].

Dignità e identità che sono racchiusi nel nome. Recita il Talmud che “una persona viene dimenticata soltanto quando viene dimenticato il suo nome”.

Ogni nome inciso su un sanpietrino, è anticipato dalla scritta “qui abitava”, seguito da nome e cognome, data di nascita, data e luogo di deportazione, data di morte nel campo di sterminio, quando nota o in alcuni, rari casi, la scritta “sopravvissuto”[3].

adaIl ritorno simbolico, alla propria dimora, nella propria città, è l’uscita definitiva per i deportati dall’anonimato, dall’oblio cui la follia umana dei campi di sterminio li avrebbe costretti. La pietra restituisce con sé la storia, una storia che costringe a riattivare la memoria, a fermarsi, a riflettere, a conoscere.

Il 26 gennaio a Livorno sono state installate altre due pietre d’inciampo. Sono le ultime di una serie di 18 che dal 2013 sono diventate parte del tessuto urbano cittadino[4].

Le pietre ricordano Ada Attal e Benito Attal. Rispettivamente madre e figlio ebrei. Nel censimento del 1938 risultano registrati e residenti in via San Francesco 32, in pieno centro storico, a pochi passi dall’antico tempio, il più bello e il più grande d’Europa, insieme ad altri componenti della famiglia. Ada, ragazza madre, vive insieme al padre David, venditore ambulante, alla madre, alle sorelle Irma, Renata e Dina[5] e altri componenti della famiglia. Una famiglia numerosa gli Attal, un’altra sorella, sposata con Mario Bueno, proprietario di un negozio in via del Giglio e di un banco di merceria al mercato, sostengono con il loro lavoro anche Ada e il figlio Benito di 10 anni[6].

La loro storia si inserisce nella più ampia cornice della storia della Comunità ebraica livornese. Una comunità importante, anche numericamente. Negli anni Trenta risulta essere la terza in Italia in termini relativi alla popolazione complessiva, comprendente anche quella provinciale[7]. Gli ebrei livornesi risultano essere residenti nel territorio urbano e al loro interno spicca una forte dicotomia sociale che vede nel ceto popolare, più povero, non una minoranza, ma più della metà della Comunità locale, diversamente da quanto è possibile registrare nelle altre comunità italiane.

Ada e Benito Attal, sono tra i pochi livornesi ad essere arrestati e deportati dalla città nell’aprile del 1944[8].

La città di Livorno era stata pesantemente bombardata nel 1943 e sotto la minaccia di ulteriori incursioni, la popolazione era sfollata quasi interamente trovando ospitalità nelle campagne dei comuni e delle province vicine[9]. Molte delle catture di ebrei, sono infatti avvenute nei luoghi di sfollamento, a seguito della recrudescenza delle persecuzioni dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943. La persecuzione delle vite raggiunge gli ebrei dispersi nelle campagne, raggruppati per nuclei familiari, in cerca di salvezza dai bombardamenti, nel tentativo di sopravvivere comunque anche alla fame e alle condizioni eccezionali dovute allo stato di guerra.

Il 13,6% degli ebrei livornesi, 204 in tutto, su un totale di 1500 (tanti risultano registrati al censimento del 1938), viene arrestato e deportato nei campi di sterminio nazisti, per lo più passando attraverso i campi di concentramento di Fossoli e in qualche raro caso di Milano, Bolzano o Trieste[10].

Furono solo sei gli arresti, oltre a quello di Frida Misul, che vennero effettuati in città. Tra questi anche Ada e il figlio Benito.

Senz’altro la povertà e, forse, il pericolo e le necessità sopraggiunte a causa della guerra, avevano spinto Ada ad affidare il figlio all’orfanotrofio Israelitico che aveva sede in Via Paoli 36 a Livorno[11]. Sede che l’orfanotrofio mantenne almeno fino allo sfollamento, probabilmente avvenuto fra gli ultimi giorni del 1942 e il gennaio del 1943, per motivi di sicurezza. Con la direttrice Olga Coen, le inservienti Palmira Finzi e Stefania Molinari, la maestra Liliana Archivolti, i bambini e i ragazzi[12] dell’orfanotrofio soggiornarono presso Villa Biasci (di proprietà del locale segretario fascista signor Biasci) a Sassetta, a sud della provincia di Livorno, sulle colline della Val di Cornia, fino a quando il 5 aprile del 1944 fu comunicato loro l’ordine di lasciare la villa per dirigersi, l’indomani mattina, verso la stazione di Vada. Da qui avrebbero raggiunto, in treno, il campo di concentramento di Fossoli.

Il 6 aprile vennero caricati su un treno, ma dopo aver percorso poche centinaia di metri il convoglio, colpito da cinque caccia inglesi, si arrestò e grazie a don Antonio Vellutini, parroco di Vada, sopraggiunto a seguito dell’attacco per prestare soccorso ai passeggeri, i bambini e i ragazzi, trovarono rifugio in paese presso le famiglie locali. Per procedere all’esecuzione dell’ordine di deportazione, dopo qualche giorno, furono nuovamente raccolti dai carabinieri, e trasferiti su di un camion nelle aule della Scuola “Carducci”, situata ad Ardenza, una frazione a sud della città di Livorno. Qui rimasero per circa una settimana.

benito Alcuni, più grandi, riuscirono comunque a scappare, data la scarsa sorveglianza, altri, circa una decina, nati da matrimoni  misti, come Luciana e Ugo Bassano, furono riconsegnati alle famiglie. Altri bambini, insieme alla direttrice Coen, furono riportati dai carabinieri, su insistenza di don Antonio Vellutini, a Sassetta e qui affidati al parroco don Carlo Bartolozzi che se ne prese cura fino all’arrivo degli Alleati[13].

Solo Benito Attal rimase presso la scuola. Qui la madre si era recata per prelevarlo personalmente rischiando la vita in quanto “ebrea pura”. Forse a causa di una delazione[14], entrambi furono arrestati e trasferiti a Fossoli con il convoglio n. 10 partito il 16 maggio 1944. Da qui proseguirono per Auschwitz dove Benito fu subito selezionato all’arrivo e dove morì il 23 maggio 1944. Anche la madre divise con il figlio la stessa sorte e non fece più ritorno.

Una storia di povertà e di persecuzione, di ebrei su cui pesò la “purezza del sangue”. Benito, ricorda Ugo Bassano, era un bambino taciturno, divenuto incontinente nell’orfanotrofio, il più fragile e il più esposto anche perché figlio di una ragazza madre[15].

Una storia “d’inciampo”, che oggi due pietre in via San Francesco a Livorno, ci ricordano. Inciampo alla nostra coscienza, alla nostra memoria, alla nostra storia.

[1] In alcuni casi tali abitazioni non esistono più, perché abbattute o demolite nell’immediato dopoguerra, o come nel caso di città come Livorno, distrutte dai bombardamenti. Le pietre vengono allora poste presso il numero civico corrispondente al luogo di abitazione precedente la guerra.

[2] Per un inquadramento storico-artistico delle “Stolpersteine”, si veda il saggio di A. Zevi, Monumenti per difetto, dalle Fosse Ardeatine alle pietre d’inciampo, ed. Donzelli, 2016, pp. 171-197.

[3] La ricostruzione topografica e toponomastica viene svolta in collaborazione con gli uffici dei municipi coinvolti, su segnalazione di amici, conoscenti e parenti delle persone deportate.

[4] Le pietre sono state installate per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio. Le prime quattro sono state impiantate nel 2013 e dedicate a due bambine ebree Franca Baruch e Perla Beniacar, un ragazzo, Enrico Menasci, e suo padre Raffaello. Altre due sono state impiantate nel 2014 e dedicate a Isacco Bayona e Frida Misul, testimoni dell’orrore della Shoah per almeno due generazioni di studenti livornesi. Le stolpersteine del 2015 sono state dedicate a Dina e Dino Bueno, quelle del 2017 a Ivo Rabà e Nissim Levi, nel 2018 a Matilde Beniacar, ultima sopravvissuta livornese ai campi di sterminio. Nel 2020 sono state impiantate nelle strade livornesi sei pietre di inciampo, quattro in via Strozzi e due in via del Mare: le prime sono dedicate a Rosa Adut, Abramo Levi e ai loro due figli Mario Mosè e Selma, Nissim il terzo figlio fu ricordato nel 2017; le altre sono dedicate a Piera Galletti e a sua figlia Lia Genazzani. Nel 2021 in via Verdi è stata posta la pietra d’inciampo in ricordo di Gigliola Finzi nata il 19 marzo 1943, uccisa a soli tre mesi all’arrivo ad Auschwitz il 23 maggio del 1943.

[5] Archivio di Stato di Livorno (ASLI), busta Comune di Livorno, Censimento degli ebrei al 22 agosto 1938.

[6] Testimonianza di Edi Bueno rilasciata il 20 gennaio 2022 presso la Comunità di Sant’Egidio. Durante la guerra le famiglie Attal e Bueno sfollano a Marlia in provincia di Lucca. Qui verranno arrestati e poi deportati la madre, il fratello, il nonno Davide gli zii e i cugini di Edi. Solo Edi e il fratello Luciano si salvano: Il padre Mario riesce a salvarli dalla deportazione, nascondendoli dentro una piccola stanza, per poi scappare subito dopo. I tre si rivedranno molto tempo dopo.

[7] P.L. Orsi, La comunità ebraica di Livorno dal censimento del 1938 alla persecuzione, pp. 203-223 in Ebrei di Livorno tra due censimenti (1841-1938) memoria e identità familiare a cura di M. Luzzati, Belforte editore, 1990

[8] Vedi L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), p. 123.

[9] Si calcola che furono almeno 90.000 su una popolazione di 130.000 a sfollare dalla città. Vedi E. Acciai, Una città in fuga. I livornesi tra sfollamento, deportazione razziale e guerra civile (1943-1944), ed. ETS, pp. 69-70.

[10] Tra i 204 si contano 82 donne e 17 bambini. Solo 16 tornarono dai campi. Per questa e altre notizie si rimanda agli studi di C. Sonetti, tra gli altri vedi: La vicenda di Frida Misul nel quadro della deportazione dei livornesi, pp. 42-45 in Per Frida Misul. Donne e uomini ad Auschwitz a cura di F. Franceschini, Livorno Salomone Belforte, 2019

[11] Sulle vicende dei bambini dell’orfanotrofio israelitico vedi: S. Trovato e T. Arrigoni, Dalla casa nel bosco al grande mondo. Storie di bambini ebrei tra la Toscana e Israele, La bancarella Editrice, 2014

[12] Di età compresa tra i 7 e i 16 anni, risultavano essere in numero di 22 nel maggio del 1943, vedi documento n. 10, “Orfanotrofio Israelitico – maggio 1943. Movimento personale e ricoverati” elenco trascritto in L. Bientinesi, Don Antonio Vellutini: un prete con i cattolici nell’Antifascismo e nella resistenza livornese, Benvenuti e Cavaciocchi, 2006, p. 151. Tra questi è compreso anche Benito Attal, insieme a Luciana e Ugo Bassano, sopravvissuti e testimoni ancora della vicenda.

[13] Su don Carlo Bartolozzi vedi L. Bientinesi, Un prete alla macchia: don Ivon Martelli. Il ruolo dl clero e dei cattolici nel livornese, Comune di San Vincenzo, 1995

[14] Luciana Bassano riferisce che fu la delazione di un’insegnante di musica, forse la stessa che denunciò Frida Misul, a segnare la loro fine. S. Trovato e T. Arrigoni, op. cit., p. 50

[15] Ibidem




Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento

Un legame inscindibile. Non può essere definita altrimenti la connessione storica tra Livorno e il Partito comunista italiano, tutt’oggi percepibile nonostante l’epilogo dettato tra il novembre 1989 e il febbraio 1991 dalla svolta della Bolognina. Uno spazio politico, amministrativo e sociale che la mostra organizzata dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Livorno (Il Pci a Livorno. Dal dopoguerra allo scioglimento) ha saputo intelligentemente ricostruire, regalando uno spaccato trasversale di quello che il Pci ha rappresentato per la vita repubblicana della città labronica.

Al lavoro di Catia Sonetti, Erika Schiano e Michela Molitierno sono certamente attribuibili vari meriti, in particolare quello di aver riassunto la correlazione tra la storia del partito e la storia del lavoro nella scelta di installare i pannelli all’interno di appositi container portuali. Estrapolata da un’ipotetica cornice museale, la mostra – itinerante e composta da 350 foto – è stata così capace di accentuare ulteriormente uno spazio di rappresentazione orizzontale, lontano dal verticismo istituzionale e concentrato sulla dimensione di piazza e sulla partecipazione della base militante.

241334402_447766106962840_1613773604018022445_nA ciò si sommano altri due aspetti su cui mi vorrei brevemente soffermare. In primo luogo, la valorizzazione della fotografia come documento storico. Gli scatti inseriti nella mostra, per larga parte inediti e provenienti dal fondo Pci dell’Archivio Istoreco e dagli archivi privati di Antonio Brugnoli e Roberto Leonardi, risultano imprescindibili nel consegnare un’impressione più chiara della popolarità, della militanza e dell’evoluzione politica del partito. E ciò tanto per il loro impatto visivo, quanto per il messaggio da essi veicolato. Come sottolineato nell’introduzione al Catalogo da Catia Sonetti, «guardare queste immagini ci [trasmette]» la «percezione precisa del cambiamento sociale, […] antropologico, che ha vissuto il nostro Paese: dai volti di donne e uomini degli inizi del secondo dopoguerra, magri, severi, con i bambini che si fanno carico […] di manifestare con i loro abiti dismessi […], alle immagini degli ultimi decenni di questa storia, con i volti più sorridenti, […] più patinati, […] più televisivi»[1].

Allo stesso tempo, è possibile osservare i frammenti dei cortei o delle adunate come «eventi fotografici»[2] in grado di mostrare il frutto delle scelte compositive dell’autore e la crescente importanza rivestita sul piano proselitistico dalla componente mediatica. Ciò è particolarmente evidente in una delle sei sezioni che compongono la mostra, quella denominata Vita di Partito[3]: ai meravigliosi manifesti ideati da Oriano Niccolai si sommano una serie di scatti capaci di enfatizzare volutamente aspetti specifici dell’universo comunista, dalla “democraticità” delle sezioni[4] alla presenza femminile nelle attività organizzative, passando per le calche durante i comizi e i flussi di militanti (con una particolare attenzione riservata ai più giovani) diretti verso le Feste de l’Unità.

Il secondo punto concerne invece l’importanza dell’infografica elettorale posta all’inizio della mostra. La ricchezza dei dati esposti (dalle amministrative alle politiche) apre invero ad una duplice possibilità: da un lato, quella di valutare l’impatto dei processi nazionali sul piano locale; dall’altro, il peso giocato sulle percentuali dall’intreccio politico cittadino. A ben vedere, il risultato – tra i picchi dell’immediato secondo dopoguerra e la stabilizzazione sopra al 50% degli anni 1976-1987 – mostra una solidità evidente e un’area di riferimento assai vasta, protesa ad andare ben oltre lo «zoccolo duro della base» e a mettere in evidenza l’egemonia giocata dal partito sul versante sociale, politico e culturale della città. Se questa lente bifocale si riflette sulle foto nelle diverse istanze rivendicative (dalla trasformazione delle tematiche occupazionali alle grandi questioni internazionali) e nell’impatto sempre più tangibile della società dei consumi, dal punto di vista statistico può quindi aiutarci a valutare l’incidenza sul contesto labronico del clima del 1948, della crisi del 1956 o delle conseguenze del 1968-1969, fino alla grande stagione di crescita collocabile attorno alla metà degli anni Settanta. A rifletterlo sono altresì i manifesti elettorali e i volantini propagandistici che si alternano alle istantanee, contribuendo a proiettare sui visitatori anche la portata iconografica delle istanze rivendicative ed elettorali.

Attraverso questa molteplicità di aspetti, pertanto, la mostra Il Pci a Livorno ci fornisce un prezioso strumento di analisi e di riflessione. Esperimento unico sul piano regionale, quello avanzato dalle curatrici è stato un tentativo di andare oltre il centenario del Partito comunista d’Italia, così da collocarne le vicende in una cornice di problematizzazione storiografica distante da eventuali letture politicizzate. Un percorso a cui si è aggiunta anche la pubblicazione del volume Pci in Toscana dalla liberazione allo scioglimento. Racconto per immagini (ETS, Pisa 2021), tracciando il pregevole impegno dell’Istoreco Livorno nel ripercorrere con piglio esegetico la narrazione politica predominante sul piano regionale e la sua declinazione su versanti anche poco esplorati come quello sportivo[5].

In sintesi, l’obiettivo posto alla base del progetto può dirsi perciò pienamente raggiunto. Ovvero, quello di dare voce alle immagini per creare un autentico spazio di riflessione, favorendo un supporto reciproco tra storia e memoria (arricchita dagli appuntamenti organizzati nel corso della mostra)[6] oramai sempre più imprescindibile per ipotizzare risposte concrete e formulare al presente le giuste domande.

[1] C. Sonetti (a cura di), Il Partito comunista a italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento. Catalogo della mostra, Istoreco Livorno, Livorno 2021, p. 8.

[2] Cfr. A. Mignemi, Lo sguardo e l’immagine. La fotografia come documento storico, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

[3] Le altre cinque sono: Lavoro, Battaglie civili, Pace e questione internazionale, Feste de l’Unità e Sport.

[4] Si veda ad esempio la foto a pagina 82 in: C. Sonetti (a cura di), Il Partito comunista a italiano a Livorno, cit.

[5] Tra le altre iniziative riconducibili al centenario, si ricordano la pubblicazione del volume La vicenda non comune di un militante comunista. Bruno Bernini e le sue carte, scritto da Catia Sonetti e da Michela Molitierno, e il convegno Storia generale e percorsi biografici tra stalinismo e antistalinismo, che si terrà online il prossimo 10 dicembre (2021) e conterà sugli interventi di Antonella Salomoni, Alexander Höbel, Patrick Karlsen, Anna Tonelli e Claudio Rabaglino.

[6] Il 23 settembre, in Piazza Saragat, si è tenuto l’appuntamento Feste de l’Unità: il racconto dei protagonisti e osservatori, durante il quale Catia Sonetti e Michela Berti hanno dialogato con Maurizio Paolini e Claudio Seriacopi. Ha fatto poi seguito l’incontro del 30 settembre, Il Porto e il lavoro a Livorno tra passato e futuro, quando al Palazzo del Portuale è stata allestita una tavola rotonda che ha coinvolto Luciano Guerrieri, Enzo Raugei, Gianfranco Simoncini, Catia Sonetti e Fabrizio Zannotti.




Il governatore, il prefetto e il delegato.

Il tema delle sanzioni contro il fascismo è stato ampiamente studiato nel corso dei decenni scorsi, mettendo in risalto soprattutto gli elementi di continuità organica e istituzionale dello Stato italiano, oltre al sostanziale fallimento dei vari provvedimenti di legge adottati, privilegiando uno sguardo dall’alto e di ricostruzione politica degli eventi[1]. Nell’arco degli ultimi anni l’attenzione degli storici si è spostata sull’analisi dei soggetti attivi e passivi di questo passaggio fondamentale per la storia italiana, oltre che sul loro bagaglio culturale e sulle modalità performative del fenomeno, con l’obbiettivo di uscire dalle secche storiografiche della cosiddetta “epurazione” quale il vulnus originale del sistema democratico italiano[2]. Se ci accostiamo ad un caso esemplificativo come quello della provincia di Livorno è piuttosto immediato cogliere le ragioni di questo cambio di rotta nei lavori sul tema, a dimostrazione che la transizione non fu affatto solo, e fin da subito, una «burletta»[3]. Alla luce di tutto ciò prenderò in esame le tre figure che gestirono, con tempi e modi diversi, la defascistizzazione livornese: il tenente colonnello statunitense John F. Laboon, governatore alleato della provincia di Livorno tra l’estate del 1944 e la primavera 1945; il prefetto di carriera Francesco Biagio Miraglia, inviato a Livorno direttamente da Roma nell’agosto del 1944; e il delegato provinciale dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo, l’avvocato ebreo e comunista Ugo Bassano.

Il tenente colonnello Laboon era un ingegnere civile militarizzato all’indomani dell’invasione dell’Italia, col preciso compito di doversi occupare della riorganizzazione logistica e amministrativa delle provincie appena liberate. Le sue presunte capacità nel settore derivavano dal fatto che aveva occupato diversi incarichi di responsabilità manageriale sia all’interno del sistema ferroviario della Pennsylvania sia come dirigente regionale della Work project administration, l’agenzia più importante per l’assistenza ai disoccupati e la rimessa in ordine dell’economia americana nell’ambito del New Deal. Prima di giungere a Livorno era stato brevemente governatore della città di Foggia e della provincia di Pescara, ripristinando in breve tempo le funzionalità del porto della città adriatica. Cattolico particolarmente devoto – dei 6 figli ben 4 abbracciarono la vita religiosa[4] – cercò di ostacolare in tutti i modi i partiti di sinistra orbitanti nel Comitato provinciale di Liberazione Nazionale (Cpln) di Livorno, accusandoli di essere la causa di ogni genere di disordine sociale presente sul territorio di sua competenza[5]. Questo dato è fondamentale da tenere in considerazione poiché il suo arrivo a capo del territorio toscano corrispose ad una netta inversione di tendenza da parte della Commissione Alleata di Controllo (Acc) in materia di defascistizzazione. Secondo gli Alleati, visti i pessimi risultati dei loro tentativi di bonifica dell’amministrazione pubblica nell’Italia meridionale, questo tema doveva essere gestito dal governo cobelligerante italiano, quello di Roma per intendersi, con un supporto esterno da parte degli enti di governo degli Alleati[6]. In prima battuta, quindi, la questione relativa all’allontanamento degli ex fascisti dai posti di lavoro doveva passare dalle mani dei prefetti, figure istituzionali gradualmente reinsediate al vertice delle province dal governo italiano nelle settimane successive alla liberazione dei capoluoghi. Inoltre Laboon si trovò a doversi confrontare con la defascistizzazione livornese all’indomani della pubblicazione del Decreto Legislativo Luogotenenziale (Dll) 27 luglio 1944, n. 159, quello che è stato giustamente definito la «Magna Charta delle sanzioni contro il fascismo»[7]. Per cui, rispettando le indicazioni che ricevettero in agosto i governatori militari alleati delle province italiane liberate, egli fece completo affidamento sul prefetto Miraglia, ammonendolo di iniziare con «urgenza»[8] l’epurazione amministrativa, al fine di tenere a bada l’ordine pubblico[9].

Il prefetto Francesco Biagio Miraglia

Il prefetto Francesco Biagio Miraglia

Miraglia giunse a Livorno nemmeno un mese dopo la liberazione della città, il 12 agosto 1944, toccando con mano il profondo stato di distruzione materiale e morale dell’intero territorio labronico. In un appunto per un collega di poche settimane più tardi espresse tutta la sua rassegnazione per la realtà nella quale era stato catapultato, lui che aveva trascorso quasi tutta la carriera tra gli uffici del Ministero dell’Interno. Miraglia era nato nel 1894 a Castrovillari (Cs), aveva partecipato alla Prima guerra mondiale e si era laureato nel 1919 in giurisprudenza. L’anno dopo era risultato vincitore del concorso per vicecommissari di polizia, salvo transitare quasi subito alla carriera prefettizia. Svolse i primi incarichi da consigliere di prefettura nelle sedi di Voghera, Cosenza e Reggio Calabria. Nel 1927 fu chiamato a lavorare presso il Ministero, dove nel 1941 divenne direttore generale del personale e, nel 1943, ispettore generale. Quest’ultima promozione coincise con la sua nomina a prefetto di 2ª classe, senza avere il tempo per poter esercitare l’incarico a causa della fine del regime fascista e dell’armistizio. Dopo la fuga del re e del governo da Roma, fu tra quei funzionari che rimasero in servizio al Viminale fin quando non venne chiesto loro di prestare giuramento alla Repubblica sociale italiana (Rsi) e prepararsi al trasferimento verso nord. Al suo rifiuto di collaborare con le autorità repubblicane corrispose il collocamento a riposo d’ufficio. In contatto con il fronte resistenziale romano durante tutto l’inverno 1944, la mattina del 4 giugno ricevette l’ordine di tornare subito in servizio e occuparsi della riorganizzazione del Ministero dell’Interno per preparare il ritorno in sede del governo italiano, fino ad allora a Salerno[10]. Miraglia si era dimostrato piuttosto freddo verso il regime fascista, nonostante l’adesione formale e il tesseramento al Partito nazionale fascista (Pnf), perciò l’Acc e lo stesso Ivanoe Bonomi, presidente del Consiglio e ministro degli Interni ad interim, lo selezionarono per andare a dirigere la provincia toscana, una delle più importanti per i piani strategici degli Alleati. Va detto che questa “restaurazione” nei ruoli dirigenziali della periferia non escludeva il fatto che il personale prefettizio fosse messo politicamente sotto esame per escludere la presenza di evidenti compromissioni con l’ex regime di governo. Le regole erano le stesse che valevano per l’epurazione delle altre categorie di funzionari statali, per cui era sufficiente che i prefetti non godessero di benemerenze fasciste, come l’essere stati squadristi o aver partecipato alla Marcia su Roma, e non avessero aderito alla Rsi. Non veniva presa in considerazione l’effettiva partecipazione del dirigente alla vita pubblica del fascismo – che era innegabile dato che costoro avevano ricoperto i maggiori ruoli di responsabilità nel meccanismo dello Stato fascista, come esemplificato dalla biografia di Miraglia – per una ragione sia pratica che politica. Per il governo italiano cobelligerante i prefetti rappresentavano l’ossatura dello Stato unitario, perciò, soprattutto nelle condizioni in cui versava l’Italia liberata dell’estate 1944, la loro presenza era considerata come l’unica in grado di garantire la sopravvivenza della nazione[11]. Il 5 settembre, in seguito all’invito del governatore Laboon di occuparsi dell’epurazione, il prefetto firmò una circolare diretta a tutti gli enti locali per informarli sul contenuto del Dll 27 luglio 1944 n. 159, e, in particolare, su che cosa fosse stato previsto per l’allontanamento di alcune categorie di ex fascisti dalle pubbliche amministrazioni, come gli squadristi o i collaborazionisti. Ciò che emerge dai carteggi tra Miraglia e i singoli enti per approvare, o rigettare, le sospensioni – che furono oltre 80 solo nel primo mese di entrata in vigore del Dll, raddoppiando alla fine dell’inverno successivo – risulta che il prefetto considerasse la questione epurativa come estremamente chiara. Secondo lui, ma ritengo che si possa giustamente estendere questa considerazione a molti funzionari pubblici che esercitarono ruoli di responsabilità in quel determinato frangente storico, dal momento che esistevano delle norme nazionali che regolavano un tema così delicato come quello delle sanzioni agli ex possessori di titoli onorifici del regime, l’unica scelta possibile per coloro che erano chiamati a gestire il complesso processo di defascistizzazione era applicare le regole così come erano scritte[12].

Ovviamente, il lavoro di Miraglia era solo preliminare, visto che non si trattava di entrare nel merito dei singoli casi, giudicarli e comminare una pena. Per questo passaggio, sempre sulla scorta del Dll 27 luglio 1944, n. 159 era stato creato l’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo con le sue ramificazioni provinciali, le delegazioni provinciali. A capo di quella livornese venne posto l’avvocato ebreo e comunista Ugo Bassano, già consigliere giuridico del Cpln ed elemento di collegamento con il governo militare alleato (Amg) diretto da Laboon. Il suo profilo biografico è piuttosto illuminante della sua personalità: proveniente da una famiglia dell’antica borghesia ebraica livornese, si era laureato in giurisprudenza nel 1931, iniziando da subito ad a fare l’avvocato. Nel 1938, in seguito all’emanazione delle leggi razziali, fu privato della possibilità di esercitare in proprio, venendo assunto da un altro avvocato ebreo livornese, Giuseppe Lumbroso, che si era convertito al cattolicesimo nel 1936 ed aveva ottenuto la “discriminazione” per poter continuare con la professione. Questo lavoro semiclandestino si adattava male ad una mente brillante come la sua, perciò accettò una borsa di studio per trasferirsi a Washington ed approfondire così gli studi in legge. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale gli precluse la strada dell’espatrio, costringendolo a rimanere a Livorno fino alla primavera del 1943. In questo periodo, grazie ad un incontro casuale con Lanciotto Gherardi – futuro commissario politico livornese –, si avvicinò al Partito comunista italiano (Pci), rimanendo comunque appartato anche dopo l’8 settembre per la sua appartenenza religiosa. Non prese parte attiva alla lotta clandestina e si trovò a vagare senza meta per la Toscana durante i mesi dell’occupazione nazifascista[13]. In base a quello che ho precedentemente detto del rapporto tra Laboon e il Cpln è naturale chiedersi come mai una figura come quella di Bassano venne scelta per gestire fattivamente la defascistizzazione livornese. A mio avviso per due ragione: la prima di ordine politico, e riguarda i mesi della prima crisi del governo Bonomi, con l’uscita dal governo di socialisti e azionisti e la tenuta dei comunisti[14]; l’altra, di tipo pratico, riguarda il fatto che Bassano si dimostrò particolarmente affidabile e degno di fiducia agli occhi di Laboon e Miraglia nei sui compiti precedenti di collegamento tra l’Amg, la prefettura e il Cpln[15]. La nomina ufficiale di Bassano a delegato provinciale dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo avvenne il 19 dicembre, e fu accompagnata da una lettera da parte dell’Alto commissariato aggiunto per l’epurazione, il comunista Mauro Scoccimarro, che gli intimò di «iniziare immediatamente […] un’oculata istruttoria ai fini del giudizio di epurazione»[16] per tutte le pubbliche amministrazioni della provincia. Il suo compito, così come definì lui stesso alcune settimane più tardi in un’intervista per il neonato quotidiano livornese «Il Tirreno», era quello di «un Pubblico Ministero che prende le sue decisioni, ma non fa parte del Tribunale»[17]. I giudizi finali, infatti, sarebbero spettati ad un’apposita commissione presieduta da un magistrato togato, coadiuvato da un membro scelto dalla delegazione e uno di nomina prefettizia. Oltre ad occuparsi delle sole sanzioni amministrative, Bassano, in virtù delle revisioni alla legislazione sulle sanzioni contro il fascismo, seppe gestire anche le sanzioni di tipo fiscale, le cosiddette indagini sugli “illeciti arricchimenti”, e quelle di tipo penale, vale a dire le indagini sui “crimini fascisti”, rendendo la delegazione provinciale la vera e unica macchina della defascistizzazione della periferia livornese[18].

Ugo Bassano

Ugo Bassano

Questa breve analisi su tre delle figure principali della defascistizzazione livornese, vale a dire il primo governatore alleato della provincia, il prefetto e il delegato dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo permette, a mio parere, di cogliere alcuni dati fondamentali. In primo luogo, l’importanza delle biografie di coloro che gestirono fattivamente il passaggio dal fascismo alla democrazia all’indomani della Liberazione in periferia, oltre ai loro legami personali e ai differenti rapporti di forza, e appartenenza, politica. Secondariamente, la complessità di un fenomeno in continuo divenire e che si dovette confrontare con la relativa “fascistizzazione” dei territori, le ferite dello squadrismo (1919-1922) e della guerra civile (1943-1945). Tutto ciò dimostra quanto sia importante non limitarsi a giudicare la transizione solo sulla base degli effetti di precise scelte politiche, come l’amnistia del 22 giugno 1946, bensì cercare di andare oltre alle perplessità verso il «colpo di spugna sui crimini fascisti»[19] e cogliere quelle continue tensioni tra continuità e innovazione, teoria e prassi, centro e periferia, che segnarono l’avvio dell’esperienza repubblicana in Italia[20].

 *Giovanni Brunetti (Cecina, 1997) è laureato magistrale in Storia e Civiltà presso l’Università di Pisa (maggio 2021), dove ha conseguito anche la laurea triennale in Storia (giugno 2019). Attualmente sta frequentando il biennio 2019-2021 della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Firenze. Dottorando del XXXVII⁰ ciclo di studi (2021-2024) in Scienze archeologiche, storico-artistiche e storiche presso l’Universita degli Studi di Verona.

[1] Cfr. C. Pavone, La continuità dello Stato, in Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, pp. 70-159 (ed. or. 1974); M. Flores, L’epurazione, in G. Quazza (a cura di), L’Italia dalla Liberazione alla Repubblica, Feltrinelli, Milano, 1976, pp. 413-467; L. Mercuri, L’epurazione in Italia (1943-1948), L’arciere, Cuneo, 1988; R. P. Domenico, Processo ai fascisti (1943-1948). Storia di un’epurazione che non c’è stata, Rizzoli, Milano, 1996 (ed. or. 1991); H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, il Mulino, Bologna, 1997 (ed. or. 1996); R. Canosa, Storia dell’epurazione in Italia. Le sanzioni contro il fascismo 1943-1948, Baldini&Castoldi, Milano, 1999.

[2] Cfr. G. Focardi e C. Nubola (a cura di), Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italiana repubblicana, il Mulino, Bologna, 2015; C. Nubola, P. Pezzino, T. Rovatti, Giustizia straordinaria tra fascismo e democrazia. I processi presso le Corti d’assise e nei tribunali militari, il Mulino, Bologna, 2019; A. Martini, Dopo Mussolini. I processi ai fascisti e ai collaborazionisti (1944-1953), Viella, Roma, 2019.

[3] A. Galante-Garrone, Il fallimento dell’epurazione: perché?, in R. P. Domenico, Processo ai fascisti, cit., pp. 11-15.

[4] Uno di questi era l’omonimo John F. Laboon, ufficiale sommergibilista durante la Seconda guerra mondiale e cappellano militare nella Guerra del Vietnam. Cfr. R. Gribble, Navy Priest: The Life of Captain Jake Laboon, The Catholic University of America Press, Whashington D.C., 2015.

[5] Sono piuttosto illuminanti in questo senso le relazioni di Laboon presenti in R. Absalom (a cura di), Gli Alleati e la ricostruzione in Toscana (1944-1945), voll. I-II, Olschki, Firenze, 2001, in part. pp. 227-228.

[6] Cfr. N. Gallerano, L’influenza dell’amministrazione militare alleata sulla riorganizzazione dello Stato italiano (1943-1945), in M. Legnani (a cura di), Regioni e Stato dalla Resistenza alla Costituzione, il Mulino, Bologna, 1975, pp. 103-104; D. W. Ellwood, L’alleato nemico. La politica di occupazione degli anglo-americani in Italia 1943-1945, Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 240-245; H. Woller, I conti con il fascismo, cit., pp. 217-218.

[7] H. Woller, I conti con il fascismo, cit., p. 193.

[8] ASLi, Prefettura, b. 168 «Epurazione Enti locali (1944-1946)», fasc. 1 «Massime», Lettera di Laboon per il prefetto Miraglia (1° settembre 1944).

[9] Nella primavera 1945, terminata l’esperienza di governatore in Italia, Laboon venne rimpatriato negli Usa dopo un breve incarico in Austria. Tornato alla vita civile si dedicò della gestione del sistema idraulico della contea di Allegheny, in Pennsylvania, pur continuando a mantenere un canale di comunicazione con Livorno grazie alle ripetute donazioni in favore degli enti religiosi assistenziali della provincia. Cfr. John Laboon… Honoray Citizen, «The Pittsburgh Press», May 22, 1955; John F. Laboon, «Pittsburgh Post-Gazette», December 10, 1985.

[10] Cfr. G. Tosatti (a cura di), L’ombra del potere. Biografie di capi di gabinetto e degli uffici legislativi, Icar, giugno 2016, pp. 160-161; G. Miraglia, Riorganizzare lo Stato alla liberazione di Roma (4 giugno 1944). Un documento dell’archivio del prefetto Francesco Miraglia, «Sintesi dialettica per l’identità democratica. Rivista online a carattere scientifico», n. 4, 06/2007 http://www.sintesidialettica.it/index.php (consultato il 26 settembre 2021).

[11] Nel caso della provincia di Firenze, ad esempio, il Comitato toscano di Liberazione Nazionale (Ctln) aveva deliberatamente evitato di nominare un proprio prefetto dopo la liberazione. Questo non certo perché si attendesse una designazione da Roma, bensì perché appariva controproducente ripristinare la figura al vertice di quel governo periferico che si pensava sarebbe stato riformato alla fine della guerra. Era evidente infatti che, se fosse stato scelto anche un prefetto di estrazione politica, e avesse svolto tutte le funzioni tipiche del suo ruolo, si sarebbe data l’opportunità al governo di provvedere, anche in un secondo momento, al ripristino del modello tradizionale di controllo centro-periferia. Cfr. A. Cifelli, L’istituto prefettizio dalla caduta del fascismo all’Assemblea costituente. I Prefetti della Liberazione, Ssai, Roma, 2008, pp. 106-111; M. De Nicolò, L’epurazione “interna”: l’istituto prefettizio, in M. De Nicolò e E. Fimiani (a cura di), Dal fascismo alla Repubblica: quanta continuità? Numeri, questioni, biografie, Viella, Roma, 2019, pp. 21-45.

[12] Come ha ampiamente dimostrato Mariuccia Salvati, il caso di Miraglia non era certamente unico, né un gesto di semplice opportunismo, quanto piuttosto l’esempio dell’appartenenza ad una specifica cultura amministrativa fortemente legalitaria e garantista che, solo inizialmente, era stata anche contrastata dalla rivoluzione fascista. Cfr. M. Salvati, Il regime e gli impiegati. La nazionalizzazione piccolo-borghese nel ventennio fascista, Laterza, Bari-Roma, 1992, pp. 10-12. Vedi anche G. Melis, La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, il Mulino, Bologna, 2018.

[13] Cfr,. L. Savelli, Il percorso dei Bassano, in M. Luzzati (a cura di), Ebrei di Livorno tra due censimenti (1841-1938). Memoria familiare e identità, Belforte, Livorno, 1990, pp. 77-85.

[14] La spaccatura nel primo esecutivo nazionale del Cln si originò attorno al tema dell’epurazione nella pubblica amministrazione. Da un lato c’erano i socialisti e gli azionisti, che spingevano per una manovra radicale che garantisse l’estirpazione di ogni residuo di fascismo dagli uffici pubblici, dall’altra la moderazione dei liberali e democristiani che, invece, ritenevano già fin troppo energica l’azione del governo italiano con la promulgazione del decreto di luglio. Tra i due contendenti stava il Pci con Togliatti che vedeva in questa crisi la prima concreta possibilità del crollo del fronte ciellenistico. La fine del governo Bonomi non avrebbe significato, per i comunisti, solo la perdita di qualche poltrona, ma di quella legittimità per poter rimanere alla guida del paese e non essere più tacciati come dei fuorilegge. Cfr. R. P. Domenico, Processo ai fascisti, cit., p. 147; H. Woller, I conti con il fascismo, cit. pp. 260-282.

[15] Bassano era laureato e parlava piuttosto bene l’inglese e il francese, così come Furio Diaz, il giovane sindaco comunista del capoluogo dal 1944 al1954. Questi aspetti legati alle personalità dei singoli potrebbero apparire come del tutto secondari rispetto agli importanti ruoli che rivestirono, ma sappiamo da testimonianze coeve come furono fondamentali ai fini di scardinare ogni pregiudizio politico su di loro. Cfr. L. Piazzano, Leghorn decimo porto. Cronaca di un dopoguerra 1944-1947, Debatte, Livorno, 1979, p. 22; G. C. Falco, Le giunte Diaz e la ricostruzione a Livorno, in «Nuovi studi livornesi», vol. XX (2013), pp. 67-130, in part. pp. 68-69.

[16] ASLi, Prefettura, b. 168 «Epurazione Enti locali (1944-1946)», fasc. 1 «Massime», sottofasc. 1 «Delegato provinciale», Lettera di nomina di Bassano (19 dicembre 1944).

[17] R. Miglietta, L’epurazione a Livorno (nostra intervista con l’Avvocato Bassano), «Il Tirreno», 27 febbraio 1945.

[18] Per una trattazione puntuale ed approfondita mi permetto di rimandare al mio lavoro Dio non paga il sabato. La defascistizzazione della provincia di Livorno (1943-1947), tesi di laurea magistrale in Storia e Civiltà, Università di Pisa, rel. Prof. Gianluca Fulvetti, aa. 2019-2020.

[19] M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano, 2006.

[20] Sebbene con una chiave interpretativa diversa e rivolta all’analisi dei processi per i crimini di guerra cfr. L. Baldissara, Sulla categoria di “transizione”, «Italia contemporanea», n. 254, 2009, pp. 61-74.




La mostra “Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento”

Una mostra sul Pci a Livorno. Perché siamo nel centenario? Anche. Perché è stato il partito egemone nella città e nella provincia di Livorno fino ed oltre il suo scioglimento? Certamente. Perché è stato uno dei protagonisti della vicenda politica, sociale e culturale del secolo scorso, e non solo nel panorama italiano? Di sicuro.

Ma anche per altre ragioni, intrinseche al ruolo e agli scopi di un Istituto come l’Istoreco.  Al primo posto metterei la conservazione e la cura del patrimonio documentale di un partito politico. Custodia e cura che non potevano però prescindere dalla sensibilità di alcuni dei suoi protagonisti. Mi riferisco in particolare all’ex segretario di federazione dei DS, Marco Ruggeri, che ci affidò l’archivio della Federazione molti anni or sono. Perché le carte che raccontano una storia non vanno solo prodotte, vanno anche conservate e, quando è possibile, anche affidate ad istituti od enti terzi, penso ad istituti come il nostro o agli stessi archivi di Stato provinciali, che le possono valorizzare e che sono capaci di renderle disponibili a tutti per la ricerca e la consultazione. Lo stadio successivo della loro conservazione è svilupparne le potenzialità, digitalizzarle e renderle fruibili al pubblico più vasto tramite la rete. Sono operazioni che richiedono competenze specifiche, passione, e risorse economiche, ma non ultimo anche armadi idonei alla conservazione.

L’Istoreco di Livorno ha fatto una parte di questo cammino grazie all’aiuto di molti, soprattutto della Regione Toscana e della Fondazione Gramsci di Roma, appoggiato in questa operazione dalla sensibilità della Sovrintendenza archivistica della Toscana.

Il centenario ci ha indotto a proporre una Mostra che rappresenta in sintesi una specie di percorso di lettura dentro gli anni che vanno dal 1944 al 1991, cioè dalla Liberazione della città labronica allo scioglimento di quella compagine politica. Il nostro archivio conserva anche carte successive a quel periodo, relative alle successive evoluzioni di quella compagine politica. Ma abbiamo deciso di dedicarci alla componente più omogena del nostro deposito. Quello che viene dopo è un’altra storia.

E così abbiamo deciso di organizzare questa proposta proprio nell’anno dell’anniversario. Poiché il 1921, l’anno della fondazione del Pcd’I, partito fondato fra l’altro, e non è del tutto casuale, proprio nella città di Livorno, questa operazione c’è apparsa ancora più appropriata.

Abbiamo optato per questo mezzo comunicativo che ha dei limiti enormi. Il primo immediatamente evidente a chiunque, è l’impossibilità di proporre un approfondimento, un percorso critico ben sviluppato e appoggiato alla enorme bibliografia esistente, ma che ha pure il vantaggio assolutamente non trascurabile di diventare una narrazione facile da comprendere, emozionante, ma anche ricca di dettagli. Del resto l’Istoreco, in questo anno reso difficile dal Covid ha organizzato significativi momenti seminariali di approfondimento[1], prodotto e pubblicato un volume su una figura di assoluto rilievo, come quella di Bruno Bernini[2], presentato volumi su questa storia.[3] Non solo. Sta organizzando da adesso alla fine dell’anno, altri appuntamenti, diciamo più tradizionali, per riflettere insieme agli addetti ai lavori, su quella vicenda. Appuntamenti nei quali dare la preminenza all’indagine storiografica e alle ultime acquisizioni della ricerca.

Ma la decisione di ricorrere ad una Mostra, cioè ad un mezzo che fosse ricco di immagini, di fotografie di militanti che potessero ancora oggi riconoscersi, di documenti di archivio come volantini e manifesti, legati alla storia del Pci ma anche alla storia di questa città, c’è apparso il mezzo più immediato, quello più suggestivo, ma anche in qualche modo anche quello più democratico, che provasse ad avvicinare tutti, gli esperti ed i giovani estranei a quella vicenda, i vecchi militanti e gli indifferenti, perché quella vicenda prendesse l’aspetto della vita vissuta, prendesse la forma dei volti e dei corpi che occupavano le piazze, che lanciavano slogan, che discutevano nelle sezioni.

Appena ci siamo messi in cammino per la sua realizzazione, realizzazione per la quale abbiamo trovato talvolta anche aiuti insperati, siamo stati avvicinati da due fotografi-militanti o militanti-fotografi (Roberto Leonardi e Antonio Brugnoli) che hanno arricchito la nostra proposta mettendoci a disposizione la loro raccolta iconografica.

Una Mostra, come è ovvio e, come ha scritto anche con senso poetico, l’assessore alla Cultura di Livorno, Simone Lenzi, è anche un’operazione che si caratterizza per leggerezza[4]. Ma sempre seguendo il suo ragionamento, accanto alla leggerezza del linguaggio, si accosta la pesantezza del contenitore, dei containers. Simbolo per eccellenza del lavoro in una città che è stata sempre ancorata al porto e a tutte le attività che si svolgono sulle sue banchine. Non casualmente l’appoggio più significativo l’abbiamo trovato proprio fra i soggetti che vivono e lavorano sul porto. Ma la Mostra non si sarebbe realizzata senza la compartecipazione generosa del Comune di Livorno. Quindi il nostro è il risultato di uno sforzo collettivo, di privato e pubblico, di istituzionale e personale. Tutti insieme, noi che ci abbiamo lavorato, chi ci ha dato un contributo in lavoro e mezzi, chi in denaro, a tutti quei volontari che si sono messi a disposizione per abbassare i costi dell’allestimento, va il nostro più sentito ringraziamento. L’operazione però cosa ci insegna? Che li singoli, i soggetti economici e istituzionali, sono stati disponibili, ad affiancare un’operazione di questo tipo perché hanno compreso che era una operazione culturale, con nessun retro pensiero nostalgico, né tantomeno una laudatio temporis acti, ma una iniziativa che voleva innescare una discussione sul nostro passato e sul nostro presente. Un presente così deficitario dal punto di vista politico, nel quale ognuno di noi, ogni cittadino democratico, avrebbe piacere di ritrovare un filo rosso che capace di proporre un progetto di futuro, un orizzonte di convivenza civile meno violento e più solidale, da tutti i punti di vista. E che dentro questo progetto ci sia uno sguardo e un impegno per ridare piena dignità al mondo del lavoro, quel lavoro così pesantemente attaccato dalla precarietà e dalla insicurezza, spesso incapace anche di riportare a fine turno, la vita, a casa.

E proprio perché questo ragionamento che sottostà in gran parte alla nostra proposta, abbiamo aperto la mostra proprio sul tema del Lavoro scrivendo:

“Non c’è agitazione industriale che non sia accompagnata dalla solidarietà delle organizzazioni di Partito e dall’intervento delle amministrazioni locali, governate da Pci, per una soluzione della vertenza, per il superamento della crisi. Come a dire: la piazza e la mediazione politica. Non sempre, come è ovvio, l’intervento e le agitazioni operaie e sindacali sono sufficienti a superare tutti gli scogli. Spesso le decisioni vengono prese altrove, in luoghi di potere lontani dall’influenza che quella compagine può esercitare.” L’altrove di adesso spesso è in un altro continente o in una Holding senza testa, apparentemente, perlomeno. Nelle nostre immagini sfilano migliaia di partecipanti in difesa dei diritti di chi lavora, dal Cantiere, alla Spica, dal Porto alla Motofides, dal lavoro nelle campagne alla denuncia del doppio lavoro delle donne.

Nella Mostra subito dopo il tema del Lavoro abbiamo messo la sezione sulle Battaglie civili, quelle battaglie che spesso non sono rappresentabili con facilità con una foto o  uno slogan, ma sono quelle nelle quali si sono realizzate le alleanze migliori. Per la riforma agraria, per una sanità pubblica, per il diritto di famiglia o la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Quelle battaglie che hanno reso più civile il nostro Paese, anche quelle dove il Pci non si è trovato in prima linea, pensiamo alla Statuto dei lavoratori che fu approvato con l’astensione dei suoi rappresentanti. Ma pensiamo anche a come in Toscana, a partire da Arezzo, Lucca, Volterra, si è combattuta quella grande battaglia civile per la chiusura dei manicomi o per il trionfo della legge sul divorzio e sull’aborto.

La sezione Vita di Partito, possiamo dire è quella più interna alle vicende di quel grande corpo sociale organizzato che fu il Pci.  Abbiamo scritto:

“Dalle grandi assisi con il ritratto di Stalin e di Togliatti che campeggiano su tutto, alle fotografie degli anni Settanta con le ragazze con i pantaloni a zampa d’elefante, con i volti degli uomini e delle donne meno austeri e più pieni (la fame dell’immediato secondo dopoguerra è solo un ricordo lontano).Le scuole di partito organizzate con poche cerimonie ma con molta partecipazione per una base di militanti e di quadri con un basso livello scolastico ma che dimostra un forte desiderio di conoscenza fino alle immagini più leggere che testimoniano un’idea di partecipazione diversa, l’emergere della dimensione del privato, di un impegno meno totalizzante rispetto a quello degli anni Cinquanta.”

Il mondo cambiava e cambiava anche il Pci dentro quell’Italia che aveva cominciato ad andare di corsa.

La sezione sulle Feste de l’Unità, è a nostro parere, quella più allegra e partecipata. Immagini di uomini e di donne che con orgoglio e caparbietà, rinunciando anche alle ferie, lavorano per costruire gli stands, per riempirli di persone, per proporre una immagine di sé e del partito, che incarnano l’idea di essere una grande forza di massa, partecipata e organizzata. Una vetrina per il mondo che sta intorno, per gli amici e i nemici. É anche la sezione dove emergono con forza, anche se non la sola, alcuni dei bellissimi manifesti disegnati dal grafico della Federazione livornese, Oriano Niccolai.[5] Un grande anche nel panorama nazionale.

La Mostra continua con altre due sezioni: quella sulla Pace e la questione internazionale e quella sullo Sport che chiude il nostro allestimento. Proviamo a soffermarci sulla prima che in questo momento, con le terribili notizie che provengono dall’Afghanistan, è di una attualità sconcertante. Poco dopo la fine del secondo conflitto mondiale, si aprirono altri scenari di guerra: la Corea, la guerra civile in Grecia, l’Indocina, i movimenti di liberazione negli ex paesi coloniali etc etc. Non solo. Gli uomini e le donne usciti salvi dalla guerra temevano più di tutto le armi atomiche. Il ricordo di Hiroshima e Nagasaki era evidentemente ancora vivo nei loro cuori e nelle loro teste per non destare preoccupazione. Ed era un sentimento che si rafforzava nelle file comuniste con un forte sentimento antiamericano. Quando ci fu l’attacco all’Afghanistan da parte dell’allora Unione Sovietica, non ci furono manifestazioni a favore della pace. Era un mondo bipolare e questa storia ce lo racconta anche nella sua dimensione periferica, quella di una provincia italiana del centro Italia. Ci racconta anche una capacità di mobilitarsi accanto ai popoli in lotta per la libertà, dalla Spagna di Franco all’Algeria del dominio francese, dalla Cuba prima di Castro alla lotta dei Viet-cong. Sicuramente spesso erano articolazioni di una posizione troppo filosovietica ma erano anche, e lo si vide a partire dai carri armati a Praga, l’espressione di un percorso autonomo di solidarietà e di convivenza che perlomeno albergava tra le masse, e non solo fra quelle comuniste. Era un sentimento che si esprimeva anche con gesti concreti di solidarietà, con l’impegno dato in prima persona. Un atteggiamento che raccontava la capacità di aprire le porte dell’accoglienza e rifiutava la logica della costruzione dei muri. Un atteggiamento che non considerava l’altro un “diverso”, uno straniero, ma che lo percepiva soltanto come una persona in difficoltà. Di questi tempi con le sirene di quelli che vorrebbero gettare a mare i richiedenti asilo, questa attitudine all’inclusione, ci manca.

La Mostra poi si chiude con una sezione importante ma anche allegra. La sezione dello Sport. Per rendere omaggio alla città più medagliata d’Italia, Livorno, per rendere omaggio alla rete di attività sportive promosse dall’organizzazione giovanile di quel partito, dalla rete dell’Uisp ai Circoli Arci, ai comitati delle gare remiere. Quella rete che promosse dall’interno di una sezione comunista, quella della Venezia, la Coppa di gara remiera intitolata ad Ilio Barontini, ardente antifascista, fuoruscito in Russia e in Francia, combattente di Spagna e molto altro ancora. Perché lo sport non è un modo qualsiasi di riempire il tempo libero e non ha valore per lo sforzo individuale. Lo sport è condivisione di valori, solidarietà praticata sul campo, impegno e disciplina, vita di comunità. È uno strumento ideale per avvicinare i giovani e coinvolgerli in un impegno a tutto campo; è uno strumento per allontanarli dalla strada in una città fortemente colpita dalla guerra e dai bombardamenti prima, e poi per tenerli lontani dalle suggestioni della droga. Non era e non è poco.

[1] Alcuni percorsi di protagoniste nel Pci: Edda Fagni, con Carla Roncaglia, Presidente Istoreco e Alessandra Mancini autrice del volume, Edda Fagni, L’innovazione pedagogica, Edizioni del Boccale, Livorno, 2010.

[2] Michela Molitierno, Catia Sonetti, La vicenda non comune di un militante comunista, Ets, Pisa, 2020.

[3] Il 14 aprile 2021 abbiamo presentato il volume scritto da Mario Lenzi, O miei compagni. Una testimonianza, Comune di Livorno, Livorno, 2013; il 23 marzo 2021, il volume di Mario Tredici, Gli altri e Ilio Barontini, Ets, Pisa, 2017 eil 17 maggio quello su Bruno Bernini

[4] Simone Lenzi, Prefazione del Catalogo su: Il Partito comunista italiano a Livorno dal dopoguerra allo scioglimento, in corso di pubblicazione.

 [5] Rosso creativo. Oriano Niccolai. 50 anni di manifesti, a cura di Margherita Paoletti e Valentina Sorbi, Debatte, Livorno, 2013.




«Luridi finocchi in guanti gialli»

Il 27 novembre 1928 sarebbe dovuto essere un giorno come tanti per il comm. Guido Farello, un prefetto di vecchia data del Regno. Quando quella mattina si accomodò alla sua scrivania del bel palazzo in cui viveva ormai da un paio di anni, la sua attenzione fu colta da una lettera che emergeva fra le altre. Essa era indirizzata specificatamente a lui, a «S. E. il Prefetto di Livorno», e inizialmente pensò ad un invito per qualche evento di beneficienza. La cosa strana era però che la busta non presentasse segni particolari di riconoscimento, o rimandasse a qualche ente o istituto a lui noto. In prima battuta pensò di lasciarla perdere e dedicarsi esclusivamente al lavoro, poi la curiosità montò e decise di non indugiare oltre[1].

Iniziò a leggere e rimase di pietra. Quella lettera non lo invitava a partecipare a qualche occasione mondana, bensì lo metteva al corrente del comportamento «immondo» di un gruppo di distinti uomini dell’alta borghesia cittadina. Secondo gli scriventi – che si firmarono come degli «anonimi livornesi ben informati» – della lettera questi «luridi finocchi in guanti gialli», benché tutti sapessero cosa stessero facendo, non erano mai stati perseguitati dalle forze dell’ordine.

Farello era stato colto in fallo e temeva che la notizia giungesse rapidamente alle orecchie del pater patriae livornese, il potente ministro Costanzo Ciano. Sapeva che la sua carriera sarebbe potuta terminare da un momento all’altro, e in malo modo, se «ganascia» avesse voluto rivolgergli contro quella brutta storia. Per questo motivo inoltrò la missiva al suo omologo poliziotto, il questore Giovan Battista Masci, affinché si occupasse del caso attraverso indagini «riservate».

Archivio di Stato di Livorno (ASLi), Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 59, fasc. 34 «Antonio F. ed altri», Denuncia anonima (26 novembre 1928)

La denuncia anonima del 26 novembre 1928 (Archivio di Stato di Livorno)

Scartabellando tra gli archivi della Questura venne fuori quasi spontaneamente la soluzione più ragionevole per la faccenda, cioè quella adottata dal suo predecessore, il prefetto Angelo Barbieri, nella gestione di un caso simile. Qualche anno prima l’ambiguo rapporto tra un alunno e un insegnante dell’Istituto nautico cittadino venne rimandato ad altri organi di governo – statali e non – aspettando una loro risoluzione. Il docente, infatti, non solo era un tenente di vascello di marina in congedo, ma anche un eroe di guerra pluridecorato al valore militare ed uno squadrista. In quel caso «l’ignoranza del vizio» da parte delle autorità governative aveva trionfato. Avrebbe funzionato anche in questo caso?

Prima di entrare nel merito delle due indagini che voglio presentare è necessario capire quale fosse l’atteggiamento comune verso gli individui identificati omosessuali, «pederasti», «invertiti» o «urningi» o «uranisti»[2].

Lo sviluppo positivista della scienza aveva proposto tante, e diverse, interpretazioni per l’omosessualità. La medicina europea si era mossa fin dalla prima metà dell’Ottocento per individuare le cause, e quindi i rimedi, della «degenerazione» sessuale che sembrava avvolgere in maniera sempre più asfissiante la società occidentale. Il termine venne introdotto proprio per indicare il sentimento di generale decadenza dal sociologo ungherese Max Nordau[3] nel 1892, il quale lo ricondusse alle passioni sfrenate che portavano gli uomini del suo tempo a godere della vita in ogni modo, anche cercando esperienze sessuali insolite. Alla base di quella che ben presto venne diagnosticata come una vera e propria patologia c’era, secondo Nordau, l’incapacità dei suoi contemporanei ad adeguarsi alle innovazioni tecniche, così tante e ottenute in poco tempo.

L’omosessualità venne ben presto classificata come uno degli effetti della malattia descritta dal sociologo magiaro, in quanto forma di piacere egoista che negava la riproduzione della specie umana, quindi la vita. Da peccato di sodomia chiamato in causa dai prelati per spaventare i credenti alla messa, venne ben presto classificato come una forma evidente di psicopatia, perché pareva scontato che l’uomo attratto da un individuo dello stesso sesso fosse affetto da una chiara patologia. Quando però ci si accorse come la medicina non fosse in grado di evidenziare una qualche forma tangibile della malattia, bensì solo una «passione colpevole, ributtante, schifosa finché volete, ma passione»[4], allora gli omosessuali vennero tacciati come i nemici della parte sana delle società e perseguitati, in forme diverse, per ogni nazione.

Da una parte si posero quei paesi, come la Germania, che ritennero necessario inserire il reato di omosessualità nel proprio codice penale, dall’altra quelli che, come l’Italia, considerarono più efficace usare strumenti che non dessero pubblicità al problema. La codificazione di tale reato, infatti, avrebbe significato ammettere l’esistenza di una “questione omosessuale”, e il necessario intervento da parte dello Stato per risolverla. Inoltre, sarebbe stato più semplice creare – come accadde a Berlino nel 1897 – dei comitati per l’abolizione dell’articolo di legge, accrescendo la pubblicità del problema. La strategia dell’occultamento risultò la scelta migliore anche nella revisione del Codice penale italiano nel 1889 e nel 1930, nonostante le pressioni per l’incriminazione degli omosessuali.

Il fascismo fu abile nell’inserirsi dopo poco tempo nei canali della cosiddetta «rispettabilità borghese», proponendosi come l’unico ente in grado di rinvigorire la nazione uscente dalla «Pace mutilata», a cui seguì una vera e propria santificazione della famiglia tradizione. Tutto ciò venne presto destinato per fornire in tempi rapidi «otto milioni di baionette» per le future guerre di conquista del regime, e con ciò si spiegano le ragioni del vasto investimento del fascismo verso la politica demografica.

Un uomo non sposato, oppure senza prole, una donna mascolina o impegnata nel lavoro, vennero presto etichettati agli occhi dell’opinione pubblica come esseri diversi, viziosi e antipatriottici. Costoro, in particolare gli uomini, rifiutandosi di svolgere il compito di pater familias e quindi di procreatori di futuri soldati italiani, dimostravano pubblicamente di essere impotenti e incapaci.

Più o meno velatamente tutte queste caratteristiche contrarie alla norma dovevano rimandare all’idealtipo omosessuale e al suo essere un malato. Diventava necessario “curarlo” solo quando l’individuo patologico si dimostrava conciliante con le autorità e le sue richieste, mentre diventava un problema di ordine sociale e politico quando rifiutava le terapie mediche e dimostrava pubblicamente la propria diversità.

In estrema sintesi possiamo dire che: coloro che si mettevano in mostra andavano fermati perché esempi viventi del caos e della sovversione dei generi, nonché possibili bacilli infettivi per la società; gli altri, invece, nonostante si prestassero a pratiche disdicevoli per la morale comune, ricoprivano comunque un ruolo maschile e sarebbe stato possibile per loro accoppiarsi anche con le donne. Il modello virile fascista respingeva l’omosessualità assumendo un atteggiamento che era in sostanza quello del secolo precedente. Il conformismo alle regole morali di stampo liberale ben si prestava alle necessità del regime, il quale comprese come fosse particolarmente importante gestire il problema dell’omossessuale in maniera discreta e con gli strumenti di controllo originariamente destinati a combattere i suoi veri nemici, quelli politici.

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Costanzo Ciano

Il caso di omosessualità che fece “scuola” per i poliziotti livornesi fu quello dell’ex comandante Luigi P. Il 29 ottobre 1924 era ricominciato da poche settimane l’anno scolastico al R. Istituto Nautico «Alfredo Cappellini» di Livorno e, come al solito, il suono dell’ultima campanella segnalava la fine della giornata di lavoro per studenti e professori. Mentre tutti stavano uscendo dalla scuola, l’attenzione generale venne catturata da una serie di schiamazzi provenienti da un vicoletto vicino: un ragazzo si stava azzuffando con un insegnante dandogli dell’omosessuale. Il diverbio tra i due creò un certo imbarazzo negli spettatori, anche perché il soggetto offeso non era solo un docente, ma anche un fervente fascista, un eroe di guerra e un ufficiale superiore della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn). Esteriormente la questione venne tacciata come l’escandescenza di un alunno poco ligio ai propri doveri scolastici, ma l’accusa apparve troppo circostanziata e lesiva per l’onore dell’insegnante per non essere approfondita dalle autorità competenti. Perciò, la settimana seguente, il prefetto di Livorno, Barbieri, inoltrò al questore Masci la richiesta del preside dell’Istituto di investigare sull’accaduto e sul passato del professore[5].

Le indagini su Luigi P. fecero emergere come l’ex ufficiale di carriera della Regia marina, lodato e temuto per il suo prestigio politico, fosse stato congedato a causa di accuse scottanti e molto simili a quelle che gli aveva rivolto lo studente. Egli, secondo quanto erano riusciti a scoprire gli investigatori, si era ritrovato fuori dalla forza armata dall’oggi al domani a causa di alcuni episodi equivoci con dei marinai. Naturalmente su tutto ciò i vertici militari avevano fatto cadere una pesante coltre di riserbo, che sarebbe dovuta rimanere tale per sempre, in cambio del suo passaggio ad un altro incarico[6].

Proprio in ragione delle sue qualifiche fasciste, nonché dell’appartenenza alla Mvsn, Barbieri ritenne necessario avvertire l’organo direttivo del Partito nazionale fascista (Pnf) cittadino. Il prof. P., infatti, era iscritto al partito dal gennaio 1920 e aveva militato nella squadra d’azione «Mario Asso»[7] fino alla Marcia su Roma, transitando poi nei quadri della Milizia dal momento della sua costituzione. Per tale ragione il questore Masci, nella sua nota per il prefetto del 18 novembre successivo, riassunse gli esiti dell’indagine consigliando al superiore di lasciar perdere il caso ed evitare di doverlo gestire personalmente, in quanto «dell’incidente» se ne stavano occupando «il Direttorio del Fascio e il comando Mvsn». Il prefetto sembrò condividere l’idea del questore, lasciando quindi che venisse archiviata l’inchiesta sul docente.

Ma a distanza di appena tre anni la polizia livornese tornò a doversi occupare del prof. P. Il 14 ottobre 1927 il Ministero della Marina chiese notizie su P. in quanto risultava aver rifiutato l’ordine di trasferimento ad una nuova sede d’insegnamento. Gli Istituti nautici, infatti, fin dal 1917 erano di competenza di quel ministero, compreso il corpo dei docenti. Da quanto emerse nella nuova inchiesta affidata, non a caso, alla squadra politica della Questura di Livorno, il “fattaccio” del 1924 non era stato senza ripercussioni per la vita del professore, essendosi ritrovato radiato dal Pnf con l’accusa di «grave immoralità». Venne fuori però una cosa ancora peggiore agli occhi degli inquirenti, cioè che P. frequentava privatamente alcuni adolescenti per prepararli all’esame di ammissione per l’Accademia navale senza alcuna autorizzazione, abusando del suo grado e delle sue qualifiche fasciste. Di quest’ultima cosa il prefetto Farello – succeduto a Barbieri nel marzo 1925 – pensò non fosse necessario avvertire il Ministero dato che, secondo le stesse indagini, il professore poteva contare su influenti agganci al vertice delle forze armate[8]. Stando alle testimonianze di alcuni informatori sembrava che l’idea del professore fosse quella di abbandonare la scuola pubblica, e creare un convitto a carattere militare per formare i concorrenti per l’accesso agli istituti di formazioni militare.

La notizia dovette creare non poco subbuglio in seno ai vertici cittadini del Pnf, tanto che gli inquirenti assicurarono al federale – era appena asceso alla carica l’avv. Carlo Alberto Cempini Meazzuolli – come senza l’autorizzazione del provveditore agli studi di Firenze tutte le conoscenze per quanto influenti del professore, al centro, erano pressoché inutili.

Come previsto, nel marzo del 1928, giunse al Provveditorato per gli studi per la Toscana la richiesta formale del prof. P. di aprire il suo istituto di formazione. Ciò creò un certo imbarazzo allo stesso provveditore quando venne informato della delicatezza politica del caso, anche perché la domanda appariva del tutto legale e in linea con la legislazione in materia per gli istituti paritari. Il provveditore decise quindi di recarsi personalmente a Livorno il 12 aprile successivo e ricevere direttamente dalla voce del questore le motivazioni da addurre per rigettare la richiesta, notificandole a P. nei giorni seguenti:

Per le speciali condizioni in cui è venuto a trovarsi in Livorno cioè di non appartenere più alla [Mvsn] ed al [Pnf] e di essere stato trasferito, per servizio in seguito ad inchiesta, dal R. Istituto Nautico di Livorno a quello di Piano di Sorrento, non gode in Livorno del prestigio necessario per garantire un funzionamento veramente educativo dell’istituto che intende aprire e dirigere[9].

 Ricollegandoci al caso proposto in apertura di questo intervento – quello che fece sobbalzare Farello nel novembre del 1928 – bisogna segnalare che le accuse anonime si concentrarono immediatamente sulla figura del principale esponente del gruppo, cioè il conte Antonio F. Costui proveniva da una famiglia di recente creazione nobiliare – il nonno, un omonimo mercante di origini umbre, era stato ammesso a far parte della nobiltà toscana nel 1832 –, famiglia molto ricca e proprietaria di una fabbrica di saponi. Assieme a lui erano riportati i nomi di due fratelli, gli avvocati Emo e Tommaso P., anch’essi membri dell’alta borghesia livornese e, rispettivamente, presidente della commissione per le imposte dirette della provincia e vice console del Regno di Spagna. Il quarto personaggio incriminato era un grossista di pelli, Alessandro R.-P., più anziano rispetto agli altri ma proveniente comunque dallo stesso ambiente sociale. Infine venne chiamato in causa anche un giovane perito chimico, Giorgio M., di origini infinitamente più modeste ed impiegato nello stabilimento di proprietà del conte.

La squadra politica della Questura aprì un fascicolo il 7 dicembre successivo e, dopo aver delineato le biografie di tutti i protagonisti citati nella lettera anonima, mise a conoscenza del questore le voci che circolavano già sullo “scandalo”. Dalle informazioni raccolte risultava che tutti fossero effettivamente considerati degli omosessuali all’infuori di Emo P., probabilmente chiamato in causa solo a causa del fratello. Sia quest’ultimo, l’avocato Tommaso P., che il conte F. risultavano frequentatori dell’Hotel Palace, il grandioso albergo cittadino, dove si incontravano regolarmente con esponenti della società più in vista di Livorno. La solerzia degli inquirenti si spinse oltre e ripescò una storia simile ma ormai dimenticata dai più, quella della «Tavola Rotonda di Ardenza». Questo termine, tanto in voga all’inizio del secolo a causa dello scandalo Harden-Eulenburg[10], serviva per designare incontri di omosessuali di una certa caratura sociale e, difatti, coloro che frequentavano questo villino di Ardenza erano tutti personaggi eminenti della società locale dei primi anni del Novecento.

Senza una spiegazione apparante l’indagine sul conte venne messa a tacere per diversi mesi dagli inquirenti, fino al marzo 1929 quando, sempre l’ufficio politico della polizia, inoltrò al questore una nota prodotta da un proprio informatore. Lo scrivente si affrettava subito a smentire l’esistenza di una qualsiasi forma di «associazione» tra gli omossessuali livornesi, non potendo però fare a meno di confermare il comportamento sessuale del conte e dei suoi «amici». Dopo questa ulteriore conferma l’indagine venne chiusa e apparentemente dimenticata da tutti. Gli unici a ricordarsene furono i poliziotti livornesi, che iniziarono a seguire gli spostamenti dei denunciati aprendo dei fascicoli d’indagini per ognuno di loro[11].

Inquirenti e indagati che ho sinteticamente presentato finora, e che si mossero a cavallo tra il 1924 e il 1929, vivevano in una città che risultava tradizionalmente singolare e ricca di paradossi. L’ascesa del fascismo a Livorno non aveva certo mutato questi aspetti ma, piuttosto, era stato il movimento a declinarsi secondo lo stile di vita cittadino.

Riducendo all’osso la complessità, e le ricadute, di questo fenomeno, possiamo dire che i sommovimenti sociali causati dalla guerra e dal dopoguerra spinsero, da una parte, i ceti popolari a schierarsi in maniera compatta per i socialisti, i repubblicani, anarchici e poi comunisti, per un cambiamento effettivo delle condizioni di vita, mentre dall’altra, la borghesia livornese verso quei movimenti che promettevano il mantenimento dell’ordine esistente. Tutti sapevano che la partita si sarebbe giocata all’interno dell’area industriale della città e del porto e dei quartieri a nord dove erano concentrate le presenze popolari.

Una garanzia di successo i fascisti la ottennero con la discesa in campo di un personaggio come Costanzo Ciano, ex eroe di guerra. La sua candidatura alle elezioni politiche del 1921 nelle lista del Blocco nazionale fu sostenuta da numerosi esponenti del mondo militare, i quali non ebbero timori ad esporsi anche durante i suoi comizi. Ciano seppe sdebitarsi con loro una volta eletto alla Camera, sfruttando abilmente questo legame con il ceto dirigente e conservatore del suo collegio. La cosiddetta «Marcia su Livorno» dell’agosto 1922, pur diretta sul campo dal comandante degli squadristi toscani Dino Perrone-Compagni, simboleggiò il trionfo della restaurazione di quella classe di notabili che aveva saputo vedere nel fascismo, e nei suoi rappresentanti locali, un mezzo utile al raggiungimento dei loro obbiettivi.

L'Accademia Navale di Livorno

L’Accademia Navale di Livorno

Ripercorrere in maniera estremamente sommaria gli anni che vanno dalla fine della guerra al 28 ottobre 1922 è fondamentale al fine di contestualizzare e capire i contorti rapporti familiari, o clientelari, che le famiglie notabili di Livorno avevano con il nuovo partito di governo. È importante che sia chiaro, anche per il tema che sto raccontando, come il fascismo livornese, rispetto al modello maggioritario che si diffuse in Toscana così come in Emilia Romagna, non fu un fenomeno agrario o legato ad un’eversione di sinistra, ma piuttosto una chiara rappresentazione di quel sistema di potere che, dopo le elezioni amministrative del 1920, si trovò in profonda difficoltà nell’essere ancora rappresentato dai movimenti politici prebellici. La presenza del porto, di un’industria navale come quella dei cantieri Orlando e di tutto il loro indotto, e di una pluralità di altri stabilimenti industriali, concentrava nella sola città di Livorno un bacino operaio provato dalla crisi del dopoguerra, disponibile a tutto pur di vedersi riconosciuti una serie di diritti in gran parte rosicchiati dal periodo bellico.

Perciò la violenza dei fascisti divenne l’unico elemento, secondo i maggiorenti livornesi, in grado frenare un’ascesa inarrestabile del socialismo massimalista e dentro un panorama nazionale che si caratterizzava per molti elementi simili.

Dalla loro parte avevano anche un asso nella manica da poter giocare, cioè l’Accademia Navale, il prestigioso istituto presente in città dal 1881. Esso rappresentava il più evidente e concreto simbolo dell’ordine e non è un caso, per quello che ci siamo detti finora, che buona parte dei fascisti livornesi della prima ora fossero militari, in particolare ufficiali della Regia marina. È superfluo citare ancora la personalità di Ciano come colui in cui si legano al meglio gli aspetti militari e clientelari del fascismo livornese, spinto a scendere in politica anche dalle adulazioni di Max Bondi, amministratore delegato delle acciaierie di Piombino, nonché finanziatore del fascismo primigenio della provincia[12].

Questo rapido approfondimento sulla fisionomia del fascismo livornese delle origini potrebbe apparire poco attinente rispetto alle indagini al centro di questa ricerca. In realtà esso risulta fondamentale per comprendere al meglio le carte della polizia, facendo attenzione sui vari profili degli indagati. Le famiglie da cui provenivano gli omosessuali vicini al conte F., infatti, condividevano una condizione sociale agiata e in linea con quella dei promotori del fascismo livornese. Nel caso dell’ex comandante P., invece, la qualifica di squadrista e ufficiale della Mvsn non necessita di ulteriori spiegazioni rispetto ai suoi sentimenti politici. Anche per tali ragioni, in entrambi i casi, fu garantito un certo riserbo da parte degli inquirenti durante la fase delle indagini, dimostrando come questo genere di faccende andassero trattate esclusivamente in forma privata con i diretti interessati. Al contrario, qualora le autorità di governo ritenessero necessario creare un “caso”, allora era importante dare pubblicità all’evento ed assicurare a particolari strumenti sussidiari della legge – quello medico, del confino coatto o manicomiale – gli autori degli atti definiti come «contro natura».

Non è un caso che le indagini presentate in questo intervento vadano proprio in una di queste due direzioni – o entrambe se consideriamo che forse l’ex comandante Luigi P. potrebbe essere finito al centro di una macchinazione politica per screditarlo, in quanto esponente dell’area intransigente del fascismo labronico –, esemplificando meglio di ogni formula astratta la capacità che ebbe il fascismo di controllare la società italiana, anche sfruttando elementi culturali preesistenti.

*Giovanni Brunetti (Cecina, 1997) è laureato magistrale in Storia e Civiltà presso l’Università di Pisa (maggio 2021), dove ha conseguito anche la laurea triennale in Storia (giugno 2019). Attualmente sta frequentando il biennio 2019-2021 della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Firenze.

[1] Archivio di Stato di Livorno (ASLi), Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 59, fasc. 34 «Antonio F. ed altri», Denuncia anonima (26 novembre 1928).

[2] Questi ultimi due termini erano molto in voga nella scienza medica positiva e avevano origine dal termine tedesco «urning» per indicare il “terzo sesso” a cui appartenevano le persone omosessuali. Questo neologismo prendeva ispirazione dalla Afrodite Uraniana citata da Platone nel Simposio, e venne coniato nel 1864 dal poeta e letterato Karl Heinrich Ulrichs.

[3] Max Simon Nordau (1849 – 1923) fu tra le altre cose un fervente sostenitore della causa sionista, a fianco del connazionale Theodor Herzl.

[4] P. Mantegazza, Gli amori degli uomini. Saggio di una etnologia dell’amore, 1886, pp. 148-150.

[5] ASLi, Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 37, fasc. 8 «Luigi P.», Relazione per il prefetto (17 novembre 1924).

[6] Classe 1890, Luigi P. entrò alla R. Accademia Navale di Livorno a 16 anni, uscendone con i gradi da guardiamarina in tempo utile per partecipare alla guerra Italo-turca del 1911. Promosso al grado superiore partecipò alla Prima guerra mondiale prima a bordo di varie navi di presidio nell’Adriatico, poi come ufficiale d’artiglieria navale destinato a terra. Fu comandante di una delle batterie poste a difesa della laguna di Venezia dopo la battaglia di Caporetto. Venne congedato nel 1921 per mezzo della Legge n. 474 del 26 maggio 1911, per la quale gli ufficiali che non potevano ricoprire il grado superiore per una mancata idoneità dovevano essere posti a riposo. Nonostante la giovane età e il curriculum di tutto rispetto venne escluso dalla promozione appena una settimana prima di essere congedato, a dimostrazione di come il suo destino fosse già segnato. Dal suo Stato di servizio, oltre che dalle indagini dei poliziotti livornesi, risulta infatti come era stato richiamato un paio di volte, e sottoposto a sanzioni disciplinari, per il suo comportamento nella sfera privata. Ministero della Difesa, Dir. Gen. Per. Mil., Doc. Matricolare, «Marina», Stato di servizio, Luigi P. (1906-1956).

[7] La squadra d’azione era intitolata al sottotenente dei bersaglieri di Livorno Mario Asso (1899-1920), morto a Fiume durante l’offensiva del regio esercito italiano per prendere il controllo della città.

[8] Vennero fatti i nomi dei generali Francesco De Pinedo e Italo Balbo per l’Aeronautica, e dell’ammiraglio Franco Nunes per la Marina e di altri alti ufficiali della Mvsn e dell’Esercito.

[9] ASLi, Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 54, fasc. 53 «Luigi P.», Decreto di rigetto della richiesta della domanda per l’apertura di un convitto navale (12 aprile 1928). Perso l’incarico di insegnante P. non demorse e pochi anni dopo cercò maggior fortuna nella compravendita di materiale nautico per ufficiali della Regia marina e i marinai di stanza a Livorno. La polizia venne nuovamente messa sulle sue tracce da una denuncia proveniente dall’ammiraglio in capo della zona marittima dell’Alto Tirreno, il quale era stato informato dell’uso improprio che P. faceva del grado militare. Egli, infatti, risultava solito qualificarsi come «comandante», screditando perciò il buon nome della forza armata. ASLi, Questura, A1 «Informazioni Personali», b. 76, fasc. 27 «Luigi P.».

[10] Lo scandalo Harden-Eulenburg fu il più vasto affare relativo all’omosessualità e riguardò l’entourage del kaiser Guglielmo II e parte dello Stato Maggiore dell’esercito tedesco. Da qui proviene il termine «tavola rotonda» – chiaro riferimento al consiglio dei ministri imperiale – che veniva usato per designare un gruppo di omosessuali.

[11] L’avvocato Tommaso P. e il conte F. furono coloro che la polizia controllò più spesso, e difatti sono rimaste maggiori tracce dei loro spostamenti nello stesso fondo dell’Archivio di Stato. L’avvocato P. si trasferì in Spagna nel 1932, sicuramente sfruttando le agevolazioni della carica consolare che aveva a Livorno, mentre il conte viaggiò molto per l’Italia. Le ultime carte su quest’ultimo risalgono al 1939 e sono relative ad una richiesta, sua e della sorella, per il riconoscimento del titolo di «Nobili di Gubbio» da aggiungere al blasone di famiglia. Nella breve biografia che il questore dell’epoca fece per il prefetto ricordò la sua omosessualità, la mancata iscrizione al Pnf e i suoi legami familiari.

[12] Massimo “Max” Bondi (1881 – ignoto) fu uno dei principali esponenti della siderurgia italiana nei primi due decenni del Novecento. Venne eletto in Parlamento nel 1919, facendo coincidere l’avvio della carriera politica con un momento di grave difficoltà per le sue aziende. La crisi delle fonderie di Piombino del biennio 1920-1921, nonché la bancarotta fraudolenta del 1925, lo costrinsero ad una fuga tumultuosa dall’Italia. Cfr. F. Bonelli e M. Barsali, ad vocem, Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, vol. 11, 1969.