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Note sulla Repubblica sociale italiana in Maremma

Le recenti polemiche innescate dalla prevista intitolazione a Grosseto di una via a Giorgio Almirante, storico leader del Movimento sociale italiano e già funzionario del Ministero della Cultura Popolare della Repubblica sociale italiana (RSI), hanno riportato all’attenzione del dibattito pubblico locale le responsabilità del fascismo nonché il lascito drammatico della guerra civile, combattutasi con accanimento anche in Maremma tra il 1943 e il 1944[1]. Va comunque notato che a fronte di un precoce – e certo comprensibile – interesse storiografico alla vicenda resistenziale, oggetto sin dalla metà degli anni ’60 di significativi tentativi di indagine, non è corrisposta un’altrettanto vivace attenzione all’esperienza del fascismo repubblicano grossetano, fatte salve le pioneristiche ricerche di Nicla Capitini Maccabruni e il più recente lavoro di Marco Grilli sulla strage fascista di Maiano Lavacchio[2]. Altrettanto significativo è il fatto che a comporre un primo affresco complessivo sulla Repubblica sociale italiana nella provincia, seppur di taglio cronachistico e apologetico, fosse nel 1995 la penna di Vito Guidoni, all’epoca giovane ufficiale della Guardia nazionale repubblicana (GNR)[3].

Nel dicembre 2021, la pubblicazione del volume dell’Istituto Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea Antifascismo, guerra e Resistenza in Maremma – curata da Stefano Campagna e Adolfo Turbanti – ha quindi voluto, tra le altre cose, colmare questo gap conoscitivo, potendo ora contare sulla disponibilità della documentazione prodotta nel corso del cosiddetto “processone”, intentato nel dopoguerra dalla Corte d’Assise speciale di Grosseto per giudicare e punire capi e gregari della RSI in Maremma. Grazie anche a questa ricchissima fonte archivistica, in larga parte inedita, la ricerca ha cercato di ricostruire i caratteri identitari, organizzativi e repressivi di un fascismo repubblicano ben deciso a riappropriarsi del perduto spazio politico sgretolatosi con il brusco crollo del regime mussoliniano, imponendo una propria seppur limitata statualità al riparo delle armi naziste[4].

Alceo Ercolani (Credits: V. Guidoni, Cronache grossetane)

Alceo Ercolani (Credits: V. Guidoni, Cronache grossetane)

All’indomani dell’armistizio e della fulminea occupazione tedesca della penisola, la federazione fascista   riapriva i battenti il 18 settembre 1943. A farsene interpreti, in un contesto segnato tanto dall’incertezza che dalla volontà di rivalsa contro vecchi e nuovi «traditori», erano in primo luogo alcuni esponenti di lunga data del fascismo maremmano: Generoso Pucci, Inigo Pucini e Silio Monti, destinati a ricoprire nei mesi a seguire ruoli politici e istituzionali di primo piano a livello locale. Un aspetto che anche nel caso grossetano lascia intravedere, nonostante i frequenti appelli propagandistici al rinnovamento e a un im­probabile ritorno alle origini sansepolcriste del movimento mussoliniano, quelle linee di continuità, più che di rottura, dell’esperienza della RSI con il defunto regime[5]. A riaffiorare erano inoltre i dissidi interni al fascismo maremmano, trascinatisi lungo tutto il Ventennio[6], che consigliavano la nomina quale commissario federale di una figura del tutto estranea al contesto locale. La scelta sarebbe caduta sul viterbese Alceo Ercolani, già ufficiale del Regio Esercito con alle spalle alcuni importanti incarichi tra le fila del Partito nazionale fascista (PNF), designato poi quale capo della provincia di Grosseto. Nonostante l’attivismo della nuova leadership fascista, il tentativo di mobilitazione ai fini bellici dell’intero corpo sociale si sarebbe dimostrato estremamen­te difficoltoso, scontrandosi da un lato con il palpabile deficit di legittimità della neonata repubblica fascista, gravata dall’invadente presenza dell’«alleato-occupante» e dalla difficile situazione militare[7]; dall’altro, scontando la diffusa indifferenza, quando non l’aperta ostilità, di larga parte della società civile grossetana, stremata da oltre tre anni di conflitto.

Le adesioni al nostro governo repubblicano – sottolineava Ercolani in una relazione stilata nell’ottobre 1943 – pervengono lentamente [e] altrettanto dicasi per le iscrizioni al partito. […] La popolazione nel grossetano è ottima sotto ogni aspetto, ma è perplessa, indecisa politicamente […]. Inoltre l’opera intrapresa da noi viene quotidianamente smantellata dal contegno arrogante e prepotente dei camerati tede­schi. […] Il popolo tutto vede e commenta sfavorevolmente, spronato da coloro che attendono ancora gli inglesi[8].

Un’alterità immediatamente percepibile tanto dal modesto, seppur non trascurabile, numero di iscritti al partito fascista repubblicano – 3.168 aderenti nel marzo 1944, appena una frazione dell’elefantiaco apparato del PNF[9] – che dal disastroso esito delle operazioni di leva, disposte per il Grossetano a partire dalla seconda metà di dicembre 1943. Nonostante l’irrigidimento delle misure coercitive mes­se in campo dalle autorità fasciste, solo un esiguo numero di reclute avrebbe infatti risposto all’appello dell’esercito di Salò, certificando con il proprio dissenso un ormai generalizzato «rifiuto della guerra» impensabile sino ad alcuni mesi prima. Come notava il comando provinciale dell’esercito, a favorire questa vera e propria «renitenza di massa»[10] avrebbe contribuito anche la presenza di «numerose, forti, ben armate […] bande di ribelli», capaci di minacciare la già precaria credibilità e la tenuta stessa dell’ordinamento fascista repubblicano[11]. L’azione via via più aggressiva delle prime formazioni alla macchia – particolarmente intensa nel Massetano e lungo il lembo meridionale della provincia – avrebbe quindi spinto le autorità saloine a mettere in campo una sempre più incisiva reazione repressiva: stante il cauto atteggiamento inizialmente dimostrato dalle forze di occupazione tedesche, scarsamente inclini a intervenire direttamente nella lotta antipartigiana laddove non direttamente minacciati nei propri interessi[12], erano soprattutto i reparti militari e di polizia italiani a rendersi protagonisti, nei primi mesi del 1944, di una serie di operazioni di rastrellamento, sviluppatesi in più occasioni a cavallo delle confinanti province di Siena e Viterbo. Aspetti questi che oltre a rimarcare l’attivismo di Ercolani, già messosi in luce per lo zelo persecutorio dimostrato verso gli ebrei[13], confermano i margini di iniziativa e gli spazi di autonomia – tutt’altro che trascurabili – attribuiti a livello locale alle formazioni armate saloine[14]. Non a caso, è nelle settimane tra febbraio e marzo 1944 che il fascismo repubblicano toscano riusciva a imporsi quale soggetto attivo della violenza, dimostrando sul campo una fattiva e brutale capacità repressiva in larga parte slegata dall’ancora limitata azione antipartigiana condotta dell’alleato tedesco nella regione. Un’offensiva che, come nel caso grossetano, dove numerose erano le camicie nere reduci da una lunga esperienza nel teatro di occupazione balcanico, avrebbe attinto alle pratiche di controguerriglia sperimentate nel corso delle precedenti guerre del fascismo.

La violenta dialettica con le formazioni partigiane trovava in Maremma il massimo sfogo nei tragici episodi del Frassine – dove il 16 febbraio venivano fucilati cinque membri della banda Camicia Rossa – e nella strage perpetrata il 22 marzo successivo a Maiano Lavacchio: in questo caso, 11 tra renitenti e sbandati catturati sui bassi rilievi di Monte Bottigli erano passati per le armi dai militi della GNR dopo un simulacro di processo sommario, alla presenza di alcuni dei familiari delle vittime accorsi dalle vicine case coloniche nel tentativo di salvare i propri cari[15]. La ricercata ostentazione del successo, volta a riaffermare la fermezza e la radicalità d’intenti delle autorità della RSI, tradiva in realtà le malferme fondamenta del potere fascista. In tal senso, ha notato Toni Rovatti, «la debolezza sul piano della legittimità, che caratterizza costituzionalmente il nuovo Stato fascista», si dimostra «una chiave interpretativa essenziale» per comprenderne l’«evoluzione nelle scelte sull’uso politico della violenza» estrema[16]. Gli effimeri successi delle forze nazifasciste non avrebbero in ogni caso impedito il crescente sviluppo del movimento resistenziale, sempre più padrone dell’iniziativa e capace ormai di contendere il controllo di ampie porzioni del territorio maremmano. Con l’inoltrarsi della primavera e la ripresa dell’offensiva alleata sulla Linea Gustav, la situazione era destinata rapidamente a precipitare, mentre le ultime segnalazioni inviate dal capo della provincia denunciavano il senso di abbandono e l’angoscia serpeggiante tra le schiere fasciste, già falcidiate dalle numerose defezioni. «La si­tuazione qui è gravissima e peggiora di giorno in giorno» lamentava Ercolani sul finire di maggio. «Non ho le armi e i pochi ar­mati non sono assolutamente sufficienti a fronteggiare le bande. Da otto mesi chiedo invano […] armi e rinforzi. Finora ho potuto resistere […]; ma ora non più. Bisogna provvedere tempestivamente!»[17].

L’improvvido allontanamento del capo della provincia, assentatosi l’8 giugno per conferire con il ministro dell’Interno, segnava infine il disordinato tracollo delle residue strutture politico-militari ancora presenti nella provincia, che si accompagnava con le ultime violenza sfogate nell’imminenza della disfatta contro una popolazione punita per aver voltato le spalle al fascismo[18]. Difficile azzardare una stima su quanti – tra militari e civili, in diversi casi seguiti dalle proprie famiglie – avrebbero deciso di abbandonare la provincia e riparare oltre l’Appennino, per sfuggire alle incognite della Liberazione e continuare la guerra al fianco delle forze tedesche. Mentre la federazione fascista prendeva sede nel piccolo centro gardesano di Bardolino, i reparti superstiti della GNR convergevano in buona parte verso Vicenza, dimostrando nei mesi a seguire un rinnovato impegno nell’azione di controguerriglia. Interessante infine notare come l’ex-capo della provincia Ercolani, elogiato dal segretario del PFR Pavolini per il «comportamento» tenuto di fronte alla «spinta dei ribelli»[19], fosse dirottato alla guida dell’Ente nazionale per l’assistenza ai profughi e la tutela degli interessi delle province invase, che avrebbe assunto nel corso dell’estate 1944 compiti politicamente assai delicati per la tenuta del residuo consenso al fascismo repubblicano.

All’indomani della Liberazione, la richiesta di giustizia proveniente dalle comunità colpite dalla violenza saloina avrebbe dovuto attendere sino al 18 dicembre 1946, quanto al termine di una lunga e complessa istruttoria, la Sezione speciale della Corte d’Assise di Grosseto pronunciava condanne piuttosto pesanti nei confronti dei maggiori responsabili del fascismo repubblicano maremmano. I successivi esiti giudiziari della vicenda avrebbero però significativamente attenuato le pene spiccate dalle corte grossetana, palesando la difficile e contradditoria transizione dal fascismo alla democrazia[20].

 

**Note**

[1] Nicola Ciuffoletti, Le vie della discordia. Polemica per l’intitolazione ad Almirante e Berlinguer, «La Nazione» (ed. on line), 15 marzo 2023 (www.lanazione.it/grosseto/cronaca/le-vie-della-discordia-polemica-per-lintitolazione-ad-almirante-e-berlinguer-64674de5). La vicenda è stata oggetto, a più riprese, di attenzione anche dalla stampa nazionale, come ad esempio in Stefano Cappellini, Hanno tutti ragione. Berlinguer, Almirante e la farsa di Grosseto. Si scrive pacificazione, si legge parificazione, «La Repubblica» (ed. on line), 17 marzo 2023 (www.repubblica.it/politica/2023/03/17/news/berlinguer_almirante_grosseto_via_pacificazione_hanno_tutti_ragione-392537736/). Per un più ampio inquadramento si veda inoltre l’approfondimento Perché no a una via intitolata ad Almirante, curato dall’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea (www.facebook.com/isgrec.istitutostoricogr). Tutti gli URL sono stati verificati alla data del 25 maggio 2023.
[2] N. Capitini Maccabruni (a cura di), La Maremma contro il nazi-fascismo, La Commerciale [stampa], s.l. 1985 e M. Grilli (a cura di), Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei martiri d’Istia, Effigi, Arcidosso (Gr) 2014. Per uno sguardo bibliografico d’insieme rimando a S. Campagna – A. Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenza in Maremma, Effigi, Arcidosso (Gr) 2021, pp. 379–382.
[3] V. Guidoni, Cronache grossetane: settembre 1943 – giugno 1944, Associazione Famiglie Caduti e Dispersi della RSI, Grosseto 1995.
[4] Il presente contributo condensa alcuni degli aspetti già messi in luce in L. Pera, Alla periferia della repubblica fascista: caratteri, identità, violenza del fascismo repubblicano grossetano (1943-1945), in S. Campagna – A. Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenza in Maremma, cit, pp. 131–172, cui mi permetto di rinviare per una più ampia e articolata trattazione. Le carte del procedimento della Corte d’Assise speciale di Grosseto, raccolte in quattro corpose buste, sono conservata in Archivio di Stato di Perugia, Corte d’Assise, Processi penali (ultimo versamento), bb. 79-79quater.
[5] Riprendo qui l’interpretazione offerta da D. Gagliani, Biografie di “repubblichini” e continuità e discontinuità culturali e politiche, in S. Bugiardini (a cura di), Violenza, tragedia e memoria della Repubblica sociale italiana, Carocci, Roma 2006, pp. 205–213. Per una concisa ma ricca sintesi dell’esperienza del fascismo repubblicano cfr. A. Osti Guerrazzi, Storia della Repubblica sociale italiana, Carocci, Roma 2012.
[6] Sui caratteri e i profili del fascismo maremmano vedi M. Grilli, Il governo della città e della provincia, in V. Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), Effigi, Arcidosso 2018, pp. 51–153.
[7] Sull’occupazione tedesca della penisola, rimane tutto essenziale il lavoro di L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
[8] ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, b. 1, f. 1/Ris, Grosseto – Situazione politico-economica della provincia, s.d. [ma presumibilmente metà ottobre 1943]. Più in generale cfr. S. Campagna, Civili in guerra e guerra ai civili. Per un profilo storico della provincia di Grosseto tra fascismo e secondo conflitto mondiale, in S. Campagna – A. Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenza in Maremma, cit., pp. 29–72.
[9] Traggo queste cifre da ACS, MI, Gabinetto, RSI, b. 6, f. 45, Prefettura di Grosseto, Situazione politico-economica della provincia – Mese marzo 1944, 1° aprile 1944.
[10] S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004, pp. 218–219. Sul caso grossetano cfr. M. Grilli (a cura di), Per noi il tempo s’è fermato all’alba, cit., pp. 40 segg..
[11] Archivio dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, I-1, b. 10, f. 130, 49° Comando Militare Provinciale, Situazione sulla chiamata alle armi dei militari delle classi 1923-1924-1925 per conto dell’Esercito, 18 febbraio 1944.
[12] C. Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-1945, Einaudi, Torino 2015, pp. 86–87.
[13] L. Rocchi, Ebrei nella Toscana meridionale: la persecuzione a Siena e Grosseto, in E. Collotti (a cura di), Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI. Persecuzione, depredazione, deportazione (1943-1945), Vol. I. Saggi, Carocci, Roma 2007, pp. 254 segg.; più in generale cfr. S. Levis Sullam, I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945, Feltrinelli, Milano 2015, che richiama a sua volta l’attenzione sul caso grossetano.
[14] Su questi aspetti, ben evidenziati dalla più recente storiografia, si veda in particolare T. Rovatti, Leoni vegetariani. La violenza fascista durante la RSI, CLUEB, Bologna 2011 e Id., La violenza dei fascisti repubblicani. Fra collaborazionismo e guerra civile, in G. Fulvetti – P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Il Mulino, Bologna 2016, pp. 145–168.
[15] L. Pera, Alla periferia della repubblica fascista, cit., pp. 158–165 e M. Grilli (a cura di), Per noi il tempo s’è fermato all’alba, cit.. Sull’episodio di Maiano Lavacchio si veda inoltre la mostra virtuale Per noi il tempo si è fermato all’alba.
Storia dei Martiri d’Istia
, raggiungibile all’indirizzo: https://martiridistia.weebly.com.
[16] T. Rovatti, Leoni vegetariani, cit., p. 117.
[17] ACS, MI, Gabinetto, RSI, b. 10, f. 13, Telegramma n. 2522, da capo Provincia Grosseto Ercolani a Ministero Interno Gabinetto, s.d. [ma precedente il 29 maggio 1944].
[18] Tra il 9 e il 10 giugno, nei pressi di Roccalbegna e di Scarlino, militi della GNR venivano uccidevano due civili, presumibilmente le ultime vittime fasciste della provincia.
[19] Lettera di Alessandro Pavolini a Benito Mussolini, 18 giugno 1944, pubblicata in N. Capitini Maccabruni, La situazione della Toscana nel giugno 1944 in alcune lettere di Pavolini al duce, «Ricerche storiche», VIII (1978), n. 2, pp. 538–540.
[20] Sulle vicende del “processone” vedi M. Grilli (a cura di), Per noi il tempo s’è fermato all’alba, cit., pp. 97 segg.. Sulle aspettative e le reazioni della società civile italiana di fronte alla stagione di giustizia di transizione imbastita nel dopoguerra si rimanda, A. Martini, Dopo Mussolini. I processi ai fascisti e ai collaborazionisti (1944-1953), Viella, Roma 2019.



Antifascismo, Antifascismi

Lo scorso marzo si è tenuto a Lucca il convegno nazionale “Antifascismi, antifasciste e antifascisti. Pratiche, ideologie e percorsi biografici”, organizzato dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea, e curato da Gianluca Fulvetti e Andrea Ventura. L’appuntamento si è svolto su due intense giornate di studio e si è inserito all’interno del filone di iniziative promosse dagli istituti storici della Resistenza toscani per l’anniversario della marcia su Roma. La particolarità di questo convegno è che ha rappresentato la tappa in cui per la prima volta al centro del dibattito storiografico collettivo è stato posto il fenomeno stesso dell’antifascismo. Infatti, se negli altri momenti di discussione si era comunque sempre tenuto in considerazione l’intreccio indissolubile al fine della comprensione storica tra fascismo e antifascismo, quest’ultimo ne era rimasto ugualmente in qualche modo schiacciato, visto che ci si era concentrati prettamente sul primo fascismo, sul suo avvento e sul consolidamento del potere durante il ventennio nei vari territori.

L’incontro nazionale ha avuto alcuni importanti meriti, tra cui innanzitutto la capacità di affrontare la riflessione sull’antifascismo in tutta la sua complessità e secondo diversi livelli di analisi: esplicito fin dal titolo, la discussione si è mossa a partire dalla pluralità delle forme del fenomeno, delle sue varie declinazioni, senza dare per scontato un’univoca pratica antifascista, e con la scoperta (o riscoperta) di alcuni percorsi individuali biografici che hanno permesso di dare dignità a singoli spaccati di vita e al tempo stesso di comprendere meglio le specificità dell’agire politico. Anche in questo caso le singolarità non sono state rappresentate come fine a se stesse, ma ricondotte all’interno di una cornice unitaria, seppur multiforme, con un’attenzione non scontata al transnazionalismo come elemento sostanziale alla comprensione dell’antifascismo e delle sue riflessioni teoriche che troveranno poi una concretizzazione nel dopoguerra democratico. Altra caratteristica che secondo chi scrive ha dato un valore aggiunto al convegno è stata la scelta da parte degli organizzatori di raccogliere i contributi grazie ad una call for paper di ampio respiro tematico: ciò non solo ha dato la possibilità a storiche e storici di varie zone d’Italia di avanzare le proprie proposte, indipendentemente dalla provenienza accademica, ottenendo di fatto un allargamento democratico dell’offerta, degli spunti di riflessione e degli ambiti di ricerca, ma ha anche consentito una composizione intergenerazionale fra coloro che hanno esposto la propria relazione, una compresenza fra giovani che per la prima volta si confrontavano con l’esperienza convegnistica, con studiose e studiosi navigati, in una contaminazione che è parsa vincente.

Le relazioni selezionate dal comitato scientifico si sono tenute su due giorni e sono state suddivise all’interno di quattro sessioni: antifascismi come ideologie politiche, biografie dentro la guerra civile europea e le resistenze, antifascismi come vissuto quotidiano, storia e memoria. Assente ufficialmente come blocco tematico, ma presente trasversalmente in molte delle relazioni è stato quello del metodo storico e dell’approccio all’uso delle fonti per la storiografia dell’antifascismo. Durante ogni fase della discussione l’antifascismo, o meglio gli antifascismi, sono stati inquadrati in elaborazioni storiche di lungo periodo, che non di rado guardavano direttamente, pur mantenendo chiare le dovute differenze, anche alla Resistenza (e alle resistenze), se non addirittura al dopoguerra e all’Italia contemporanea. In particolare, in questo senso è stata pensata l’ultima sessione del convegno, in cui i vari interventi hanno portato i risultati di alcune ricerche ancora in corso che dimostrano come la narrazione di determinati avvenimenti storici sia cambiata nel tempo e come questa esprima molto della memoria pubblica. La storiografia e la memoria dell’antifascismo, quindi, come lenti privilegiate per analizzare l’Italia repubblicana.

In generale sono emersi, tra le altre cose, il consolidamento di riflessioni e persino gli avanzamenti sull’uso di fonti considerate classiche per lo studio dell’antifascismo, come ad esempio il Casellario Politico Centrale: da una parte continua ad essere proficuamente utilizzato per riscoprire biografie e costruire dizionari biografici o altre raccolte, dall’altra si studia per valutazioni innovative che riguardano il dopoguerra, per avere un riflesso di come all’indomani del 1945 veniva gestito l’ordine pubblico, quindi sostanzialmente analizzare chi fossero i funzionari dediti a tale lavoro, quali i soggetti controllati dal nuovo Cpc, quali le categorie considerate come possibili sovvertitrici delle nuove istituzioni. Ci permette, cioè, di osservare le ombre dell’Italia del dopoguerra, i motivi dietro la scelta di recuperare uno strumento liberticida e di controllo sociale all’interno di una cornice democratica, che risente fin da subito dell’incombere della guerra fredda. Inoltre, una certa attenzione degna di nota è stata posta alle riflessioni sul metodo riguardo lo studio delle figure femminili dell’antifascismo e della Resistenza con la consapevolezza di dover volgere con maggiore cura uno sguardo alle carte secondo la loro parzialità e contemporaneamente la necessità di fare approfondimenti attraverso un affinamento e fonti non convenzionali e non istituzionali.

Il convegno è stato inaugurato dalla lectio del professor Renato Camurri dell’Università di Verona, che ha posto al centro della sua relazione il carattere transnazionale dell’antifascismo, la particolarità di come biografie, culture e rotte di migrazioni si intreccino e si influenzino nello sviluppo di un’analisi politica collettiva. L’antifascismo degli esuli europei è stato osservato come laboratorio politico e culturale, come una comunità in cui la circolazione dei saperi e la riflessione teorica danno avvio ad un pensiero anticonformista e antitotalitario. All’estero gli antifascisti e le antifasciste si riuniscono e provano a immaginarsi oltre la crisi totalitaria del nazionalsocialismo e del fascismo, si proiettano verso un futuro democratico e iniziano in un certo qual modo a porre quelle che saranno le sue basi nel dopoguerra.

Infine, si riprende la valutazione conclusiva di Ventura su momenti collettivi di studio e discussione come quello lucchese: oltre all’importanza per quanto riguarda il piano della comprensione storica e della ricerca, che si arricchisce dei vari contributi e ci consente evoluzioni nella conoscenza del passato, ritornare ed esplorare i vissuti di uomini e donne che con le loro azioni hanno fatto dell’antifascismo una fondamentale scelta vita, è per noi oggi, a livello puramente personale, un modo per affrontare con maggiore fiducia questo presente così buio.

Tutti gli interventi divisi per sessioni di discussione sono consultabili online nel canale YouTube dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in provincia di Lucca.




Nel Centenario della Marcia su Roma… aria di revoca… a Montecatini Val di Cecina

Venerdì 28 ottobre 2022 il Consiglio comunale di Montecatini Val di Cecina ha votato all’unanimità la revoca della “Cittadinanza onoraria” conferita a Benito Mussolini l’11 maggio 1924[1] e la rettifica delle denominazioni di “Piazza della Repubblica” e di “Via Ettore Muti”, as-segnate dal commissario prefettizio il 20 novembre 1943[2].
Deliberazioni poi mai revocate, di cui siamo venuti a conoscenza fortuitamente durante il riordi-no, tuttora in corso, delle carte dell’Archivio storico comunale, in precedenza pressoché inaccessibile alla consultazione e mancante di gran parte del materiale documentario risalente proprio al Ventennio.
Tant’è che, ad esempio, la documentazione relativa al conferimento della “Cittadinanza onoraria a Mussolini”, non essendo più disponibile il Registro delle Delibere di Consiglio dell’anno 1924, è stata rinvenuta per puro caso all’interno del faldone contenente il Carteggio del 1930.
Si tratta, appunto, della Deliberazione[3] che faceva seguito all’invito inoltrato ai Comuni, tramite i prefetti, dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo affinché le Amministrazioni riconoscessero il Capo del Governo “Cittadino onorario” entro il 24 maggio 1924, IX Anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia nonché giorno d’insediamento del nuovo Governo (due settimane dopo sarebbe stato assassinato Giacomo Matteotti).
Non sappiamo se unanime, ma grande fu sicuramente l’adesione da parte dei Comuni. Nel caso nostro, a differenza di altre Amministrazioni della Provincia di Pisa, nelle motivazioni del confe-rimento, oltre all’esaltazione della figura del Duce, è possibile riscontrare un evidente risentimen-to ed un senso di rivalsa sull’egemonia socialista iniziata nel lontano 1895. Ma questo è possibile semmai constatarlo consultando il testo della delibera e gli articoli pubblicati nell’occasione sia su “Il Corazziere”[4] sia su “l’Idea Fascista”[5].

A Montecatini le elezioni amministrative del 7 gennaio 1923 sancirono la vittoria della lista fasci-sta che «grazie all’instancabile operosità del Commissario Prefettizio sig. Giulio Malmusi del Fa-scio di Pisa […] ebbe unanime approvazione conquistando maggioranza e minoranza»[6].
La nuova Amministrazione, che faceva seguito a quella socialista eletta il 19 settembre 1920 e di-missionaria dai primi di novembre 1922, non aveva quindi opposizione ed era composta da fa-scisti della prima ora, da ex combattenti e da nazionalisti aderenti al fascismo immediatamente dopo il 28 ottobre, data fatidica che procurò un repentino “mutamento di idee” ed una massiccia iscrizione al Fascio.
Oltre ad una forte rappresentanza del cosiddetto notabilato paesano, per anni relegato ad un ruolo marginale nella politica locale, a far da gregariato nella composizione del Consiglio troviamo ex socialisti massimalisti ed esponenti del sindacalismo rivoluzionario, alcuni dei quali era-no stati protagonisti della Marcia su Roma mentre altri aderirono al PNF giusto in tempo per es-sere annoverati tra i fascisti antemarcia, tramite opportuno ravvedimento pubblico[7].
Nel fervore iniziale, la Giunta guidata da Anselmo Tonelli, non mise tempo in mezzo e nella seduta di insediamento deliberò l’adesione alla Federazione dei Comuni Fascisti[8]; mentre nella riunione del 23 aprile 1923[9], fu stipulato l’abbonamento a “l’Idea Fascista”, organo della Federa-zione Provinciale Pisana, su proposta del Sindaco che ne motivò l’utilità in quanto «in detto giornale si pubblicano i resoconti della Federazione dei Comuni Fascisti».
Fu quello un anno ricco di manifestazioni di gaudio e di esaltazione del regime che culminò con l’inaugurazione del Parco della Rimembranza del 4 novembre, preceduta di pochi giorni dalla Commemorazione della Marcia su Roma nel suo primo anniversario. Una grandiosa celebrazio-ne di cui “Il Corazziere” , oltre a farci partecipi dei discorsi del segretario politico della Sezione fascista, Francesco Mori, e del sindaco Anselmo Tonelli che parlò «in assenza dell’oratore ufficiale Prof. Fanciulli» (esponente di spicco dello squadrismo fiorentino, legato al Fascio X di Lar-derello organizzato da Piero Ginori-Conti, fu assai noto per le scorribande punitive anche in Val di Cecina) sull’opera svolta in un anno dal governo nazionale, ci offre uno spaccato del clima di allora, ben manifesto soprattutto nelle parole di don Cesari che, a quanto risulta, officiò più da “prete prefettizio” che da “pastore di anime”.

[…] Suggestiva la Messa al Campo, nuova per Montecatini, detta in Piazza Vittorio Emanuele, apposi-tamente addobbata, alla quale ha partecipato qualche migliaia di persone. Il paese era imbandierato e molte abitazioni elegantemente addobbate con drappi e arazzi.
[…Dalla Piazza del Municipio (Piazza Garibaldi); n.d.r.] il corteo per Via XX Settembre raggiunse Piazza Vittorio. Dopo l’attenti con la tromba l’arciprete inizia la Messa. Al Vangelo pronunciò un ispirato di-scorso di circostanza esaltante l’opera del Capo del Governo, il sublime sacrificio dei Caduti Fascisti, morti per un grande ideale, per una causa santa: la salvezza dell’Italia dal nemico interno che voleva ri-durre la Patria nostra come fu ridotta la Russia dal bolscevismo […].

Il 1924 si aprì invece con un altro evento di grido: l’annessione di Fiume. Alla notizia della firma del Trattato Italo Jugoslavo del 27 gennaio, a quel che riporta il corrispondente de “l’Idea Fascista”[11], vi fu una vera e propria manifestazione di esultanza per l’avvenimento, con inneggiamenti di piazza a Gabriele D’Annunzio e a Benito Mussolini per aver restituito Fiume all’Italia. Nella Sala del Consiglio «i signori Mario Mori (Segretario politico della Sezione Arditi; n.d.r.), Cav. Anselmo Tonelli, Sindaco e Tertulliano Borri[12], Segretario Comunale […] esaltarono l’opera illumi-nata del Capo del Governo, i Legionari volontari la cui gloria soltanto ora è riconosciuta e valo-rizzata ed ebbero parole di fuoco verso i governanti del passato che col loro nefasto po-li[ti]cantismo tradirono la Città olocausta».
Una dialettica politica segnata dal delirio populista, cui da tempo anche noi abbiamo purtroppo dovuto abituarci.
La partecipazione e l’esultanza per l’avvenimento fu talmente grande che – prosegue il corrispondente Marino Bartolini – «per acclamazione fu approvato l’invio del seguente telegramma a S.E. Mussolini: Popolazione montecatinese dopo manifestazione tripudio per annessione di Fiume sente dovere inviare eccellenza vostra sensi devozione ammirazione sagace opera vostra di Governo. Sindaco Tonelli».
In un contesto simile è facile comprendere perché Montecatini, noto per le sue lontane tradizioni socialiste, risultò tra i Comuni più solerti della provincia di Pisa a conferire la cittadinanza onora-ria a Mussolini, precedendo in quella “rincorsa simbolica” la città di Pisa, seduta del 23 maggio[13]; Pontedera, 22 maggio[14]; e altre località come Volterra, 16 maggio 1924.
Vale la pena, credo, riportare parte della Deliberazione del Consiglio comunale dell’11 maggio 1924[15].

Adunanza del giorno 11 Maggio 1924 di 1a convocazione
Oggetto: Conferimento della cittadinanza onoraria a S.E. Benito Mussolini.
L’anno millenovecentoventiquattro e questo giorno undici del mese di Maggio, alle ore 10,30 in Monte-catini, nella sala delle adunanze […] si è riunito il consiglio Comunale […] Assiste il sottoscritto (Tertul-liano Borri) Segretario per le funzioni di legge […]

Su proposta del Sindaco Cav. Anselmo Tonelli
a sua Eccellenza l’On. Benito Mussolini, Capo del Governo Nazionale, Duce del Fascismo, artefice primo dei più grandi immancabili destini della Patria, valorizzatore della Vittoria, assertore della sacra civiltà latina, che prepara con mano sicu-ra, con cuore ardente, con volontà tenace, la nuova grandezza della Patria Italiana
IL CONSIGLIO COMUNALE,
nella prossima ricorrenza del 24 Maggio
memore, fedele, devoto
a piena entusiastica unanimità
CONFERISCE
la Cittadinanza Onoraria del Comune di Montecatini Val di Cecina, e dà mandato al Sindaco di effettuarne la partecipa-zione mediante un telegramma da esso proposto e così concepito:

«Eccellenza Mussolini,
Civico consesso Montecatini Val di Cecina, adunato Consiglio Comunale, constatato il lavacro elettorale alla fama trentennale sovversivismo questo Comune, riaffermando devozione Governo Nazionale, ammiratore vostre magnifiche doti di Duce e di Capo del Governo Nazionale, seguendo esempio capitale, decreta entusiasto conferimento vostra Eccellenza cittadinanza ono-raria. Sindaco Tonelli»

Tutto il Consiglio in piedi, applaude lungamente al Capo del Governo con entusiastica associazione del pubblico presente. Dal che si è redatto il processo verbale.
Il Presidente: Cav. Anselmo Tonelli – L’Anziano: Orzalesi Adon Noè – Il Segretario: Borri Tertulliano

Ettore Muti

Da notare che in calce all’estratto della Delibera, anch’esso convalidato dal sottoprefetto di Volterra, è riportata la seguente annotazione, alquanto bizzarra ma forse perfettamente in linea con i tempi: «Si dà atto che tutti gli altri Consiglieri assenti dalla adunanza hanno aderito alla presente deliberazione».
Ovviamente dopo la Liberazione erano ben altre le problematiche da risolvere, poi, come spesso accade, il trascorrere del tempo affievolì la memoria o più probabilmente indusse alla rimozione di certi episodi del passato che, a vario titolo, vedevano coinvolti non pochi concittadini che magari nel frattempo con una certa disinvoltura erano abilmente passati a galleggiare se non a sguazzare in acque diverse. Dalle carte in nostro possesso non risulta infatti che la Cittadinanza sia mai stata revocata.
Da qui – senza retropensiero alcuno ma certi delle garanzie offerte dal nostro sistema democrati-co e consapevoli di non trovarci attualmente nelle condizioni in cui versava l’Italia nel primo do-poguerra – la proposta che proprio nel giorno del Centenario della Marcia su Roma, data assai significativa della Storia d’Italia, il Consiglio fosse chiamato a valutare l’opportunità della revoca.
Sappiamo bene che non è possibile disconoscere o mutare la storia (certamente non potrà farlo un atto simbolico a distanza di un secolo).
Ma dovremmo anche sapere che indagare e prender coscienza del nostro passato può aiutare a comprendere e gestire meglio il presente e ad affrontare il futuro con maggior consapevolezza. Nell’esprimersi a favore dell’annullamento di quanto deliberato l’11 maggio 1924, il Consiglio ha colto anche l’opportunità di rafforzare quel comune sentimento di antifascismo che è il principio cardine della nostra Costituzione.
Analogamente, nella medesima riunione consiliare, è stata accolta anche la proposta di rettifica delle denominazioni di Piazza della Repubblica e di Via Ettore Muti (novembre 1943) che rap-presentarono, forse, l’ultimo atto di esaltazione fine a sé stesso di un regime agonizzante.
Una denominazione che tuttavia andò ad assumere (per i successivi 79 anni) un sapore beffardo per la comunità montecatinese, la cui piazza principale era ancora ufficialmente dedicata non alla nostra Repubblica Democratica che prese vita il 2 giugno 1946, ma a quella che fu la Repubblica Sociale Italiana o di Salò. Il disorientamento generale che fece seguito agli eventi del 25 luglio e poi dell’8 settembre 1943, non risparmiò neppure l’Istituzione prefettizia di Pisa[16] .
Dopo la caduta del fascismo e le conseguenti dimissioni del podestà Francesco Mori, il prefetto badogliano Ferdinando Flores, designò Lino Sinicco commissario prefettizio di Montecatini. A seguito poi degli eventi dell’8 settembre fu nominato prefetto di Pisa Francesco Adami, ex con-sole della Milizia nonché fondatore del Fascio repubblicano, che si rese protagonista di atti di violenza, intimidazioni e arresti indiscriminati, tanto da essere ben presto rimosso da tale carica dallo stesso suo patrocinatore, ossia il «Ci penso io» pisano allora ministro dell’Interno, Guido Buffarini Guidi[17].
Adami, nel breve tempo che rimase in carica, nominò commissario del Comune di Montecatini il ragionier Vincenzo Paglianti, fascista della prima ora di Orciatico/Lajatico, un duro e puro assurto ben presto ad incarichi di un certo prestigio, poi esponente non di secondo piano del Fa-scio Repubblicano di Volterra: personaggio, insomma, ad immagine e somiglianza dell’Adami stesso[18].
Questi, immediatamente prima di essere rimosso e sostituito da Oreste Giglioli, con Delibera del 20 novembre 1943[19], in omaggio al «Nuovo Stato Repubblicano» provvide a variare la denomi-nazione di Piazza Vittorio Emanuele in Piazza della Repubblica, che tale sarebbe rimasta, senza alcuna rettifica, anche dopo il 2 giugno 1946.
Non solo, intitolò anche un tratto di Via Roma[20] a Ettore Muti[21]. Fino dai primi di settembre la propaganda fascista presentò Muti come un martire, tanto che a Roma gli fu subito dedicata una piazza. Dedica che avvenne poi in molti Comuni, senza però entrare mai nell’uso comune (Montecatini fu liberato 7 mesi dopo), tanto che Via Roma, pur permanendo l’ufficialità della Delibera commissariale, in pratica non perse mai la denominazione originaria.

I nostri Consiglieri, con la rettifica delle suddette denominazioni – decisione democraticamente valutata e da tutti condivisa – hanno inteso prodigarsi in un segnale simbolico ma non demagogico che restituendo verità e dignità storica al nostro Comune, potesse contribuire a rafforzare l’identità locale, in ossequio ai valori espressi dalla Carta costituzionale dai quali non possiamo prescindere.
Come di consueto, nonostante la particolarità degli argomenti all’ordine del giorno, il Consiglio comunale riunito in sessione straordinaria si è tenuto in pressoché totale assenza di pubblico.
Probabilmente non lo ravvisiamo, ma la mancanza di partecipazione e di attenzione per ciò che esula dal privato, sicuramente ci rende meno liberi.

[…] Vorrei essere libero come un uomo

Come un uomo che ha bisogno
di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio
solamente nella sua democrazia

Che ha il diritto di votare
e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare
ha trovato la sua nuova libertà

La libertà
non è star sopra un albero
non è neanche avere un’opinione
la libertà non è uno spazio libero
libertà è partecipazione […].

Forse attratti da altro, rinunciamo spesso e con facilità a quella libertà cantata da Giorgio Gaber[22], i cui versi, che prendono ispirazione dalla riflessione filosofica di Rousseau, avevano un tempo suggestionato e teoricamente risvegliato le coscienze di molti. Ma partecipare, lo sappia-mo bene, è un esercizio che porta via testa, tempo e denaro, cosicché finiamo frequentemente per delegare altri a rappresentarci nelle nostre istanze e nei nostri pensieri, accontentandoci di un modo diverso di sentirsi liberi.
Consci di vivere da anni una fase storica socialmente buia, dobbiamo comunque sperare che, in mezzo a sì tanta disaffezione e disimpegno, quel segnale scaturito dal Consiglio comunale del 28 ottobre sia stato in qualche modo recepito con lo stesso spirito che ha caratterizzato la discussio-ne nella medesima seduta.
Per ricordare tale evento e dar maggior risalto a quanto deliberato all’unanimità nel Consiglio comunale del 28 ottobre scorso, giorno in cui altrove, con anacronistiche parate e senza remora alcuna, veniva celebrato il Centenario della Marcia su Roma, abbiamo pensato che presentare e distribuire un piccolo volume inerente all’argomento, fosse il modo migliore o più opportuno per onorare i valori ereditati dall’antifascismo nell’anno del 75° Anniversario dell’entrata in vi-gore della Costituzione (1° gennaio 1948). Una correlazione tra due date storiche – 28 ottobre (1922) e 25 aprile (1945) che determinarono l’inizio e la fine dell’era fascista con la Liberazione e, grazie anche all’indubbio contributo della Resistenza, l’avvio di un nuovo percorso democratico.

NOTE:

[1] Si veda il mio A proposito del concittadino Benito Mussolini, in “La Spalletta” del 4 giugno 2022.

[1] Si veda il mio «Una piazza, un nome, due significatiPiazza della Repubblica… Si, ma quale Repubblica?», in “La Spalletta” del 10 settembre 2022.

[1] Archivio Storico Comunale di Montecatini V.C. [ASCMVC], Delibera di Consiglio n. 138 dell’11 maggio 1924.

[1] “Il Corazziere”, a. XLIII, n. 22, 1° maggio 1924.

[1] “l’Idea Fascista”, a. IV, n. 20, 20 maggio 1924.

[1] “Il Corazziere”, a. XLII, n. 2, 14 gennaio 1923; su Malmusi, fascista pisano tra i più esagitati, rimando al mio articolo, L’avvio del Ventennio a Montecatini, in “La Spalletta”, 4 dicembre 2021.

[1] Si veda, ad esempio, “l’Idea Fascista”, a. I, n. 29, 8 ottobre 1922.

[1] ASCMVC, Deliberazioni di Giunta 1921-1926, Del. 18, 11 febbraio 1923.

[1] Ibid…, Del. n. 114.

[1] “Il Corazziere”, a. XLII, n. 44, 4 novembre 1923.

[1] “l’Idea Fascista”, a. IV, n. 5, 3 febbraio 1924.

[1] Tertulliano Borri, il cui incarico era stato ratificato nella seduta consiliare del 18 novembre 1923, ricopriva allora la carica di decurione della MVSN. Addivenuto nel 1926 alla funzione di Commissario di PS, per fatti risalenti al 1935, Borri (Montalcino, 1899 – Cagliari, 1952) nel 1941 fu condannato dal Tribunale Speciale per la Sicurezza dello Stato a 30 anni di reclusione per tradimento – «con la minorante del vizio parziale di mente»: venne evidenziata la «strana condotta tenuta dal Borri sin da ragazzo e nel corso del primo conflitto mondiale (fu decorato al V.M. e quindi congedato con il grado di capitano)» e lo si descrive con il dubbio che fosse stato un «ingenuo e nevrotico funzionario patriottico in cerca di gloria e di promozioni, o un nemico dello Stato» –, quindi, nel giugno 1944, venne scarcerato e deportato in Germania per poi essere rimpatriato nel dicembre 1945.

[1] “l’Idea Fascista” del 25 maggio 1924.

[1] “l’Idea Fascista” del 15 giugno 1924.

[1] ASCMVC, Deliberazioni del Consiglio comunale, Del. n. 138, 11 maggio 1924.

[1] In merito, si veda Alberto Cifelli, L’Istituto prefettizio dalla caduta del Fascismo all’Assemblea Costituente. I Prefetti della Liberazione, Roma, Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno, 2008, http://www.ssai.interno.it

[1] Il più estremista e filotedesco dei ministri della Repubblica Sociale Italiana – non estraneo neppure all’eccidio delle Fosse Ardeatine – inviso persino a Mussolini che a fine 1944 lo dimissionò. Con il 25 aprile, dopo aver tentato inutilmente di convincere Mussolini a seguirlo nella fuga in Svizzera, fu arrestato alla frontiera mentre cercava, appunto, di mettersi al sicuro in terra straniera. Condannato a morte da una Corte d’Assise straordinaria, dopo un tentativo fallito di suicidio venne poi giustiziato nel luglio 1945: fu questa l’unica esecuzione delle 35 condanne emesse dalla Corte.

[1] Una cospicua biografia di Paglianti è riportata da Alberto Simoncini nel volume Dal Rosso al Nero, Peccioli, Grafitalia, 2022.

[1] Delibere commissariali n. 1291 e n. 1292 del 20 novembre1943, da ASCMVC, “Libro Delibere Podestà e Giunta 1941-1951”.

[1] Da notare che la denominazione Via Roma era stata assegnata (a Via delle Miniere) nel 1931, per soddisfare la disposizione di Mussolini (1° agosto 1931/IX) di intitolare una via non secondaria dei capoluoghi alla Città Eterna (Culto di Roma: 21 aprile del 753 a.C. Natale di Roma = Festa del Lavoro, dal 1924 in luogo del Primo Maggio).

[1] A Ettore Muti fu intitolato il tratto di Via Roma che dall’incrocio con Via Sant’Antonio conduce fino al Ponte. Fascista della prima ora, eroico aviatore in tutte le guerre del Ventennio, politico, già segretario del PNF, Muti fu ucciso il 24 agosto a Fregene dai Carabinieri mentre cercava di sfuggire all’arresto che, a quanto sembra, si era reso necessario essendo stato segnalato come facente parte di un complotto di fascisti e tedeschi per un attacco su Roma da tenersi il 28 agosto.

[1] Giorgio Gaber, La Libertà, dall’album “Dialogo tra un impiegato e un non so”, Tracce, 1972-1973.

L’articolo è tratto dal volume curato da Rosticci, Un Consiglio comunale particolare, presentato e distribui-to in occasione della ricorrenza del 25 Aprile 2023.
Una manifestazione “un po’ fuori dall’ordinario”, senza la presenza esclusiva dell’oratore di tur-no ed il rituale delle ridondanti frasi di circostanza ma con il coinvolgimento diretto dei giovani, svoltasi nella Sala del Consiglio del Comune di Montecatini Val di Cecina (Pisa) al cospetto di un pubblico insolitamente numeroso.
Forse siamo riusciti a coinvolgere, ad appassionare la gente comune, a renderla, una volta tanto, “protagonista” di una cerimonia che, come di frequente accade, non risulta che fine a sé stessa. E sappiamo bene che le ricorrenze di facciata a lungo andare disamorano, rivelandosi spesso assai più utili al presenzialismo, alla visibilità del personaggio (di solito un politico) chiamato a far da primo attore, che non alle finalità istituzionali.




Antifascista per sé: Cristina Lenzini (1903-1944)

In seguito ad un accanito rastrellamento operato da ingenti forze tedesche contro la formazione, l’Ardemanni che proteggeva con la mitragliatrice il ripiegamento dei suoi compagni, veniva colpita gravemente da un colpo di mortaio nemico per cui decedeva all’istante.”[1] Con queste parole la Commissione regionale per il riconoscimento partigiano attribuisce a Cristina Lenzini in Ardimanni la qualifica di partigiana combattente caduta[2].

L’8 agosto 1944 sul monte Gabberi le compagnie III e IV della X bis brigata Garibaldi “Gino Lombardi”, guidate da Bandelloni, Palma e dal Porto, sono impegnate contro nazisti e fascisti per la seconda volta nel giro di pochi giorni dopo gli scontri sul monte Ornato, con pochi mezzi e isolate rispetto al resto della Brigata che ha deciso di ripiegare sul Lucese[3].
Lo scontro s’inserisce pienamente nel contesto dell’estate 1944 in cui alla guerra civile (patriottica e di classe) s’intreccia la cosiddetta “guerra ai civili”: la linea Gotica – che rappresenta uno spazio di demarcazione tra due eserciti regolari stranieri, due modelli di occupazione, e due schieramenti opposti di italiani, e un territorio che le comunità vedono mutare profondamento grazie alla guerra -, diventa per i nazisti uno spazio da “bonificare” integralmente, in cui è necessaria una “omogeneizzazione” per il dominio e lo sfruttamento, le cui retrovie devono essere epurate dal pericolo dei banditen, e in cui anche le popolazioni locali vengono ritenute responsabili, assimilate ai partigiani, e quindi soggette alla punizione .
Ma, tornando alla Lenzini, quello in cui perde la vita combattendo è soltanto uno dei tanti momenti in cui la donna lotta contro il fascismo. Purtroppo alla fase attuale della ricerca la sua biografia è ripercorribile a singhiozzi, il periodo antifascista precedente al 1944 è possibile intuirlo tra le pieghe delle fonti di polizia relative agli uomini a cui era legata. Infatti Cristina Lenzini in Ardimanni nata a Pisa nel 1903 da Angelo (Angiolo), bracciante, e Bartolai Rosa, casalinga, è sostanzialmente la moglie di Alfredo Ardimanni nel fascicolo del Casellario Politico Centrale, schedato come comunista (ma vicino anche agli ambienti anarchici); è con lui che condivide le idee antifasciste e con cui nel 1924, insieme al figlio Alberto, sceglie come molti la strada del fuoriuscitismo in Francia, dopo che sarebbero stati proprio due suoi fratelli squadristi a consigliarle, secondo quanto ricostruito dall’Anpi Versilia, di espatriare per evitare le persecuzioni fasciste.
A quanto si apprende dall’interrogatorio di Alfredo, arrestato a Ventimiglia nel 1943, sappiamo qualcosa sulla loro vita in Francia: dalla possibile attività di Alfredo come intercettatore di volontari per la guerra civile in Spagna (negata nelle dichiarazioni ufficiali), al suo internamento allo scoppio della guerra nel campo di S. Cyprien al confine tra Francia e Spagna, dall’andamento altalenante della loro relazione, cui l’Ardimanni attribuisce responsabilità alla condotta morale della moglie Cristina, alla sua messa a disposizione volontaria insieme al figlio per lavorare al servizio dei tedeschi e poi delle truppe di occupazione italiane a Tolone. Non abbiamo fonti a sufficienza che possano smentire o confermare ciò che Alfredo afferma durante l’interrogatorio, non possiamo garantire che sia frutto di una dissimulazione per un estremo tentativo di salvataggio o se si tratti di opportunismo politico.
Nel frattempo ritroviamo Cristina, che per i funzionari di pubblica sicurezza “[è] immune da pregiudizi penali e politici, risulta di buona condotta in genere”, nel 1932 fra la documentazione relativa a Bucchioni Azelio, schedato come pericoloso comunista nel Cpc[4]; originario di Pisa, dove “abitava in prossimità delle abitazioni di Di Paco Ferdinando detto Umberto, del quale ha assunto le generalità, e del comunista Ardimanni Alfredo di Abele col quale era in intimi rapporti di amicizia. Il Bucchioni conviverebbe presentemente con certa Lenzini Cristina, moglie del comunista Ardimanni Alfredo col quale egli avrebbe perciò troncato ogni rapporto di amicizia”.
È, quindi, una storia personale che possiamo percepire solo fra gli interstizi della documentazione, ma guardare in controluce ci permette di osservare possibili vuoti da colmare e di provare a formulare ipotesi di ricerca. Cristina Lenzini è pensata talmente all’ombra delle figure maschili che non ha un fascicolo di riferimento, sintomo che i funzionari di P.S. non pensavano potesse svolgere attività politica, o quantomeno non che potesse farlo in autonomia per propria identità e coscienza, a fianco, insieme e in condivisione delle idee con gli uomini sopra citati: è sorvegliata perché è la moglie di Ardimanni, la convivente o amante di Bucchioni. Esattamente come altre donne antifasciste la Lenzini viene osservata col filtro di uomini che di fatto non concepiscono che le donne possano uscire dalla sfera privata cui dovrebbero essere relegate per svolgere attività politica in autonomia[5]. Non abbiamo fonti al momento che possano colmare i buchi, non siamo a conoscenza, ad esempio, se la donna sia attiva durante la guerra civile in Spagna o quale sia il suo percorso dagli anni Trenta ai Quaranta, ma sappiamo che nel 1942 torna a sua volta in Italia e che entro il 1944 ha maturato con determinazione la scelta resistente.
L’attività partigiana è perciò soltanto l’ultimo atto di un’antifascista di lungo corso, in cui la scelta di resistere imbracciando le armi è probabilmente una decisione vissuta come una necessità di fronte alle violenze del nemico[6]. Una scelta presa per sé, in autonomia, con convinzione e doppiamente in libertà perché, come pure per tutte le donne protagoniste delle varie forme di resistenza, svincolata dagli obblighi imposti agli uomini dai bandi di arruolamento della Rsi: la guerra civile, seppur fase di crisi, permette che si aprano spazi pubblici, politici e militari, che le donne possono occupare, sconfinando dalla sfera privata e al di fuori dal tracciato tradizionale per assumersi la responsabilità delle proprie azioni e trovare una diversa collocazione sociale[7]. Cristina Lenzini, come altre nella sua condizione, decide di resistere rompendo l’ordine naturale delle cose per il quale tradizionalmente la militarizzazione femminile è vista come un fenomeno eccezionale e di disturbo, poiché infrange la statica divisione dei ruoli per cui le armi sono attributi prettamente maschili, mentre alle donne è demandato l’onere riproduttivo. Quest’ultime, concepite “per natura” come più pacifiche rispetto agli uomini, nel momento in cui imbracciano le armi vengono viste come anomalie, dal comportamento sessuale in qualche modo irregolare, “sessualmente libere e disponibili, oppure dalla sessualità «sospesa>» o proibita come le vedove o le vergini”[8]. Ed effettivamente dalle testimonianze raccolte dall’Anpi Versilia e dal linguaggio utilizzato nella documentazione partigiana emerge che la figura della Lenzini è vista o come una eroina spersonalizzata, una combattente pronta all’estremo sacrificio con la mitragliatrice in mano per permettere la ritirata dei compagni, o una donna sola, al pari di una vedova, ricordata dal partigiano Moreno Costa come “una donna decisa, pareva come una mamma con i suoi quarant’anni, a noi che eravamo quasi tutti molto giovani”. Eppure, nonostante questa correlazione con il tradizionale ruolo di madre, ciò non sovrasta o riduce il suo operato, e Cristina è riconosciuta sia formalmente sia informalmente come una combattente dal contributo fondamentale[9]. A lei, che per tutta la vita è stata osservata e giudicata dalla pubblica sicurezza fascista perché antifascisti erano gli uomini con cui aveva relazioni affettive, le viene finalmente riconosciuto, in una singolare forma di giustizia postuma, il merito della scelta e la determinazione nell’averla portata avanti.
Ricostruire biografie fuor di retorica, tentando comunque di restituire un percorso individuale di partecipazione attiva all’antifascismo e alla Resistenza, ci permette oggi di avviare ricerche e approfondimenti che possano riportare alla luce storie personali per provare sia a ridare dignità a chi come singolo ha lottato contro i fascismi, sia ad aggiungere un tassello nella complessiva storia dei fenomeni di antifascismo e Resistenza.

Note:

1. AISRECLU, Ricompart, b. 237, L. Bandelloni, fasc. Ardemanni Cristina.
2. F. Bergamini, G. Bimbi, «Per chi non crede». Antifascismo e Resistenza in Versilia, a cura dell’ANPI Versilia, 1983.
3. Sono i luoghi lungo il versante occidentale della linea Gotica in cui la ritirata aggressiva di nazisti e fascisti è caratterizzata dalle stragi e da episodi di violenza che risulterebbero essere 49 soltanto in Versilia e nelle aree collinari e montane, tra cui citiamo la strage di tipo eliminazionista di Sant’Anna di Stazzema. Cfr. G. Fulvetti, P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Bologna, Il Mulino, 2016; Cfr. M. Battini, P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997; Cfr. P. Pezzino, Sant’anna di Stazzema. Storia di una strage, Bologna, Il Mulino, 2013; Cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2006; Cfr. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943 – 1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.
4. ACS, Cpc, b. 877, fasc. Bucchioni Azelio; http://www.antifascistispagna.it/?page_id=758&ricerca=852 [ultima consultazione: 31/03/2023]. Bucchioni Azelio emigra in Francia, in Belgio e poi in Corsica, immerso in una discreta rete di antifascisti comunisti, fa attività di propaganda e nel 1936 durante la guerra civile in Spagna partecipa come combattente nella Sezione italiana. Nel 1941 è in Francia nuovamente dove pare svolgere “attività politica di orientamento anarchico” e poi arrestato in Belgio nel 1943, da cui viene deportato dalle autorità tedesche prima nel campo di concentramento di detenzione temporanea e di transito di Herzogenbusch in Olanda e successivamente a Neuengamme (Amburgo), dove muore il 18 febbraio 1945. Su Bucchioni Azelio si v. anche la voce nel Dizionario biografico degli anarchici italiani online: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/13256-bucchioni-azelio?i=0 [ultima consultazione: 31/03/2023]
5. M. Guerrini, Donne contro. Ribelli, sovversive, antifasciste nel Casellario Politico Centrale, Milano, Zero in condotta, 2013; G. De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.
6. Cfr. L. Martin, «Come ti ho fatto ti disfo». Intorno a donne e violenza agita nella Resistenza, «Zapruder», n. 32, 2013,
7. Cfr. D. Gagliani, E. Guerra, L. Mariani, F. Tarozzi (a cura di), Donne, guerra, politica. Esperienze e memorie della Resistenza, Clueb, Bologna 2000; R. Fossati, Donne guerra e Resistenza tra scelta politica e vita quotidiana, «Italia contemporanea», n. 199, 1995.
8. P. Di Cori, Partigiane, repubblichine, terroriste. Le donne armate come problema storiografico in (a cura di) G. Ranzato, Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; Ead., Donne armate e donne inermi. Questioni di identità sessuale e di rapporto tra le generazioni in Laura Derossi (a cura di), 1945. Il voto alle donne, Milano, F. Angeli, 1998.
9. A. Bravo, Resistenza armata, resistenza civile in ivi.




Alcune considerazioni sul 100° anniversario della marcia su Roma (1922-2022).

D. – Il centenario della marcia su Roma ha rappresentato un’opportunità per avviare una discussione collettiva a tutto tondo sull’avvento del fascismo e sul ventennio di dittatura, per approfondire questioni e scardinare luoghi comuni troppo a lungo dati per assodati. Tuttavia ci pare che il contesto politico odierno e la concomitanza con le elezioni politiche non abbia contribuito in senso positivo e abbia, per così dire, inquinato la discussione, appiattendo sostanzialmente il dibattito su un allarmistico ritorno del fascismo da un lato e una pervicace apologia dall’altro. Qual è la sua sensazione?

R. – Sono abbastanza d’accordo sulla lettura della discussione in atto sul centenario, su queste due tendenze parallele. Nella storia, come sappiamo, nessun fenomeno politico si ripropone alla perfezione: in questo caso infatti non c’è, a mio parere, nessuna ripetizione del fascismo, seppur sia presente un’apologia molto superficiale, che si affida a luoghi comuni viventi nell’immaginario collettivo.
La mia impressione è che la vera valutazione non può che essere prematura. Abbiamo assistito ad un anno di numerose iniziative e convegni, c’è stato un enorme sforzo collettivo di discussione ed elaborazione sul tema da parte non solo dell’ambiente accademico, ma anche di tutte quelle istituzioni fuori dal circuito universitario, come la rete nazionale dell’Istituto Parri, circoli e associazioni, che da decenni ormai operano con attività di ricerca e divulgazione. Infatti credo che, per quanto siano presenti dei limiti, non sia da sottovalutare questo impulso dato dall’anniversario, che ha portato – com’è naturale – ad allargare il focus dalla marcia su Roma a tutto il ventennio, come pure al periodo del primo dopoguerra, e che per osservare gli effetti sollecitati dai dibattiti si debba attendere qualche anno, o quantomeno aspettare la pubblicazione degli atti.
Oggigiorno abbiamo a disposizione innumerevoli strumenti e possibilità di accesso libero e diretto ad archivi, biblioteche, luoghi di cultura in cui poter confrontarsi con la storia e le sue fonti. È costante l’impegno per scuole, istituti, università libere e della terza età affinché avvenga un processo di professionalizzazione della storia e della sua complessità. Si tratta ovviamente di un continuo tentativo in atto in questo senso per comunicare la storia in modo friendly, per renderla alla portata di tutte e tutti. Quello che mi chiedo quindi, e purtroppo non ho una risposta, è come mai di fronte a questo contesto in cui tutto sommato abbiamo a disposizione materiale, strumenti e possibilità di approfondimento, continui questo fenomeno di edulcorazione di un passato che si preferisce o rimuovere o evocare con tono qualunquistico. E qui c’è un problema che riguarda la politica italiana: il decadimento della preparazione politica, della serietà dell’approccio della classe politica da almeno trent’anni è un processo evidente che, legittimato dai media, ha inciso negativamente nel contrastare quella che abbiamo chiamato la professionalizzazione della storia e della sua fruizione.

D. – Abbiamo attraversato un momento in cui un revival del tema del fascismo ha portato una discreta produzione, spesso accompagnata da una troppo comoda semplificazione degli avvenimenti, da una visione banalizzante – se non proprio edulcorata e mitizzante – e colma di ingombranti rimozioni. Forse attualmente manca una sorta di educazione alla complessità, non nel senso che tutto debba essere raccontato in modo complicato, tutt’altro: una delle missioni degli storici e delle storiche deve essere quella di rendere la disciplina fruibile ad un pubblico ampio, parlando della storia senza omettere le sue sfaccettature, promuovendo sì una semplificazione attraverso una selezione ragionata degli avvenimenti, pur senza creare un racconto rigido di causa – effetto o di date svuotate di significato. Che ne pensa, è possibile invertire questa tendenza ed educare in questo senso alla complessità della storia?

R. – Sarebbe sicuramente un grande obiettivo, di cui a mio avviso potrebbe essere un passaggio fondamentale quello di investire maggiormente sullo studio della storia del XX secolo. La priorità dovrebbe essere quella di promuovere, a partire dalle scuole di ogni ordine e grado, la conoscenza del Novecento, cui purtroppo ad oggi sono dedicate poche ore di didattica e spazio ridotto nei manuali, affinché si permetta a studentesse e studenti di comprendere come elementi del passato condizionino anche il nostro presente.
Credo però che un passo in avanti sia necessario: ci troviamo di fronte ad una situazione in cui la storia è poco conosciuta non solo fra i giovani, per cui forse si potrebbe pensare ad una sorta di educazione permanente alla complessità della disciplina e allo studio, che vada oltre il confine scolastico. Bisognerebbe infatti in qualche modo, educare a contestualizzare il quotidiano in relazione al passato, senza che della storia venga attuato un appiattimento, cui spesso assistiamo da decenni soprattutto attraverso alcune operazioni attuate dai mass media e da parte della politica. Secondo me la storia professionalizzata, e non come rigido accademismo, è da considerare un bene comune; sarebbe d’avanguardia l’insegnamento al valore dei beni comuni e culturali, di quella che possiamo definire come una cultura diffusa, che sappiamo essere oggetto di percorsi innovativi in alcuni istituti.
Dunque l’obiettivo di un progetto politico-culturale per un domani caratterizzato dalla centralità dell’educazione alla complessità, dovrebbe essere quello di superare questo appiattimento che allo stato attuale non può che produrre un senso di smarrimento nella cittadinanza tutta.

Marco Palla, Mussolini e il fascismo. L'avvento al potere, il regime, l'eredità politica, Giunti Editore, 2019D. – Abbiamo già citato i rischi dell’uso pubblico della storia da una parte, e dall’altra della necessità della costruzione di una memoria collettiva basata su ricerche scientifiche portate avanti da storiche e storici. Eppure ci pare che la ricerca storica sia sempre meno finanziata e che l’insegnamento della disciplina sia preso sempre meno in considerazione nel sistema scuola. Secondo lei qual è lo stato di salute della ricerca storica in Italia?
R. – È innegabile che negli anni c’è stata una diminuzione dei finanziamenti per scuola, università e ricerca che ha inevitabilmente portato ad un depotenziamento della conoscenza e della scuola. Purtroppo possiamo affermare che nei decenni passati i governi di orientamenti politici differenti hanno preferito la strada di una cosiddetta razionalizzazione, che si è concretizzata sostanzialmente in tagli, che hanno portato ad un progressivo peggioramento rispetto alla prassi esistente un tempo di una classe dirigente in generale quantomeno sensibile ad ammodernare e ad investire. Ciò ha prodotto, appunto, una decrescita di cui oggi sono facilmente visibili le conseguenze. Probabilmente, e anche questa è una scelta che al momento non mi pare sia presente nell’agenda politica, una soluzione ai definanziamenti potrebbe arrivare dal ridurre anziché aumentare le già ingenti spese militari. Gli archivi, le biblioteche, gli istituti, che promuovono e permettono di fatto la ricerca, hanno altresì bisogno di risorse, sono servizi che devono essere realmente liberi e accessibili e che in quanto tali lo Stato deve garantire alla comunità tutta. Inoltre, fatemi dire una cosa su cui già molti colleghi si sono espressi e su cui sono d’accordo: sono contrario all’istituzione dell’alternanza scuola-lavoro, per me la scuola deve rimanere un luogo di saperi liberi. Credo fortemente in una scuola gratuita, pubblica, laica, pluralistica e libera da un insegnamento etico ereditato dalla scuola gentiliana fascista.
Per quanto riguarda la realtà universitaria penso sia necessario un ampio cambiamento, ad esempio con una stabilizzazione dei finanziamenti soprattutto per i percorsi post-laurea, lasciando libero spazio a rigorose ricerche innovative nel campo della storia di genere o della storia culturale e provando a scardinare l’attuale concezione della ricerca storica, che sembra irrigidita verso narrazioni militari e di storia della politica. Per far sì che questo avvenga, e che ci sia una vera e propria valorizzazione della ricerca, sono necessarie, appunto, maggiori risorse, che permettano davvero un sostentamento decoroso per giovani ricercatori e ricercatrici. Pensiamo, giusto per fare un esempio, ai dottorati senza borsa che sono stati istituiti recentemente: rappresentano una farsa per cui poi rischia di risultare accettabile soltanto per chi è già in condizione di sostenersi (o essere sostenuto) economicamente.

D. – Ultimamente vari studi, come il volume curato da Ceci e Albanese I luoghi dell’Italia fascista, che fa da corredo al portale da poco consultabile online, hanno evidenziato come ancora oggi siano molteplici le tracce evidenti e concrete di un passato fascista. Non sempre oggetto di commemorazioni, vie, piazze, edifici e monumenti fanno comunque parte della vita quotidiana della cittadinanza e, senza che questa se ne accorga, possono diventare di fatto simboli dei nostri valori (o meglio, disvalori).

R. – Penso che sulla questione della toponomastica l’approccio debba essere complesso e differenziato senza che l’idea sia semplicemente quella di abbattere tutto: alcune cose si possono cambiare con un tratto di penna, altre abbisognano di didascalie o altri strumenti che documentino i segni del passato che la repubblica italiana riconosce; perché il fascismo fa parte della storia d’Italia e non può essere messo fra parentesi né tantomeno dimenticato, va studiato e contestualizzato. Poi questo è un discorso complesso perché oltre ad alcuni monumenti o vie che richiamano direttamente alla simbologia e al fascismo stesso, esistono anche una serie di opere che si rifanno più a movimenti artistici esistenti durante il fascismo che alla sua ideologia, si pensi al razionalismo architettonico. Alla fine credo che sia una riflessione di buon senso quella di Giorgio Candeloro: non tutto quello che è stato costruito, studiato, fatto durante il fascismo va attribuito al fascismo, e al tempo stesso neanche separato da quello che il fascismo è stato. Dall’altra parte ci sono le battaglie, veramente di retroguardia, che fanno le amministrazioni di destra a livello sia nazionale che locale, come quella per non cancellare la cittadinanza onoraria a Mussolini. Questo dovrebbe essere quasi un automatismo, una scelta immediata. Eppure quanti sono oggi i comuni che hanno cancellato questa onorificenza? C’è inoltre da parte di alcune amministrazioni locali addirittura la promozione di nuove celebrazioni con statue e intitolazioni a presunti patrioti italiani, che in realtà non sono altro che parte della classe dirigente fascista, si pensi ad esempio al busto di Graziani nella sua città natale.
Quindi direi che è importante contestualizzare, differenziare, per decidere quali dei lasciti del fascismo mantenere e quali no, coinvolgendo la cittadinanza e cercando di rendere visibile e comprensibile ciò che conserviamo, magari interpellando anche storici ed esperti. Azzardo in aggiunta un’ultima considerazione riguardo le leggi razziali: oggi nel 2023 non c’è stato alcun risarcimento reale per le comunità ebraiche, i cui membri furono espulsi dall’ambito civile. Questo sarebbe un atto di civiltà minimo.

Ghezzano (PI), 30 gennaio 2022

**Caterina Carpita dottoranda dell’Università degli studi di Napoli L’Orientale e Teresa Catinella dottoranda dell’Università di Pisa.




Cattolici e fascismo nella Toscana nord-occidentale (1920-1922)

Ritratto mons. Maffi

Grazie all’apertura graduale degli archivi vaticani, la storiografia ha chiarito ormai nelle sue linee essenziali il rapporto tra cattolicesimo e fascismo. Se per quanto riguarda i vertici la relazione è stata restituita alla storia, lo stesso non può dirsi per il piano locale, su cui disponiamo di informazioni lacunose. Il problema emerge chiaramente nel caso toscano, alla cui conoscenza questo scritto vuole contribuire concentrandosi sull’area nord-occidentale della regione prima della marcia su Roma. L’obiettivo è evidenziare, senza pretese di esaustività, i caratteri fondamentali della vicenda, a cominciare dalla preminenza di Pisa – dovuta soprattutto alla presenza del cardinale-arcivescovo Pietro Maffi, il più noto e influente esponente del cattolicesimo in quell’area e uno dei principali sul piano nazionale, al punto da risultare tra i papabili al conclave del 1922.

Gli studi più accurati hanno individuato nel 1921 l’inizio del confronto tra cattolici e fascisti. Se, infatti, in precedenza le due parti si erano sostanzialmente ignorate, dalla primavera del 1921 s’intensificò l’azione squadrista contro le sinistre e, in misura molto più ridotta, i popolari, suscitando proteste e commenti nel mondo cattolico. Reazioni che, è bene sottolinearlo, non giunsero mai a una piena equiparazione tra socialismo (oggetto di una condanna inappellabile) e fascismo (di cui si deplorarono gli eccessi, cioè le violenze contro i cattolici).
Uno sguardo gettato sulla Toscana nord-occidentale conferma la validità sostanziale di questa cronologia, nonostante differenze significative tra le varie diocesi. Il caso Ritratto Gronchipisano spicca per la presenza di due personalità di rilievo nazionale: il deputato e futuro presidente della Repubblica Giovanni Gronchi che, membro dell’ala sinistra del PPI, sarebbe stato sottosegretario di Stato al ministero dell’Industria e del commercio nel governo Mussolini (1922-1923); e il già citato Maffi che, alfiere dell’ala conciliatorista dell’episcopato italiano e in ottimi rapporti con i Savoia, nel 1915-1918 si era distinto per l’appoggio entusiastico allo sforzo bellico, fino a divenire il simbolo dell’unione tra fede e patria. Sotto l’impulso del cardinale, il movimento cattolico raggiunse uno sviluppo considerevole, attestato tra le altre cose dal successo del giornale «Il Messaggero toscano» (l’unico quotidiano della città). A Pisa, inoltre, la solida presenza dei movimenti e partiti “sovversivi” fu contrastata da uno squadrismo assai violento, animato da autentici assassini come Alessandro Carosi e dilaniato da faide interne. Nell’insieme, questi elementi fanno di Pisa un osservatorio di prim’ordine per studiare i rapporti tra cattolici e fascismo nel primo dopoguerra – rapporti tesi, perché agli occhi della cittadinanza Maffi incarnava quel patriottismo di cui le camicie nere rivendicavano l’esclusiva. A dire il vero, da parte cattolica non mancò la volontà di trovare un terreno d’incontro con i fascisti, sulla base dell’antisocialismo e del culto dei caduti: caduti della Grande Guerra, come si vide in occasione delle onoranze al Milite Ignoto, il 4 novembre 1921, cui il cardinale partecipò; e caduti della rivoluzione fascista, come si vide invece durante le esequie degli squadristi Zoccoli e Menichetti nel 1921, legittimate dalla presenza rispettivamente di Maffi e del suo segretario, mons. Calandra. Tuttavia, queste aperture non ebbero l’esito sperato, come emerse nel 1922. In giugno, a Pisa, le camicie nere si piazzarono all’esterno della cattedrale impedendo il regolare svolgimento della tradizionale processione del Corpus Domini e sollevando le proteste del cardinale. In settembre, a Buti, il pievano Cascioni Poli (reduce della guerra e sostenitore del PPI) sparò un colpo di pistola in aria per attirare l’attenzione delle forze dell’ordine e mettere in fuga i fascisti che nottetempo stavano tentando di irrompere nella canonica, allontanandosi poi dal paese per ragioni di sicurezza. Si tratta, com’è evidente, di episodi limitati ma utili a comprendere gli attriti che a Pisa caratterizzano i rapporti tra cattolici e fascisti fino al termine della faida Santini-Morghen e per qualche verso anche dopo.

Ricostruire le vicende delle altre diocesi risulta più complesso, date la mancanza tanto tra il clero quanto tra i laici delle personalità di rilievo nazionale e la debolezza del movimento cattolico nelle zone dove le sinistre erano più radicate. A Livorno, ad esempio, la voce cattolica più autorevole era rappresentata dal «Fides» – un bisettimanale che, cessato al termine del 1921, nella veste grafica e nelle idee (rigidamente integriste, in linea con il pensiero del suo direttore don Giovanni Casini) rivelava una posizione non certo all’avanguardia, preoccupata dalle trame di massoni, ebrei e socialisti più che dal fascismo[1].
Nemmeno a Massa la situazione era favorevole al movimento cattolico, che però si mostrò più battagliero. Ai contrasti tra la curia vescovile e i popolari si sommavano infatti le vivaci polemiche tra il settimanale fascista «Giovinezza» e il corrispettivo cattolico «La Difesa popolare» che, diretto dall’avv. Carlo Perfetti, aveva come motto: «Lavoratori di tutto il mondo, unitevi in Cristo». Lo scontro culminò nel marzo-aprile 1922, quando i fascisti parlarono di «pericolo clerico bolscevico», accusando il PPI di essere una «forza antinazionale» sostenuta da sacerdoti «traditori della nostra fede». Parole respinte con sdegno dalla controparte, secondo cui se i principi cristiani fossero rimasti confinati nelle chiese per timore della violenza, le «masse sfruttate» non avrebbero mai ottenuto la «giusta mercede» né l’Italia avrebbe ritrovato la pace[2].
Ancora diversa l’atmosfera a Lucca, dove la Chiesa esercitava un’influenza considerevole sulla vita politica e sociale. Qui, non a caso, i fascisti capeggiati da Carlo Scorza agirono con cautela. Il loro obiettivo era chiaro (separare i cattolici dal PPI) ma di difficile realizzazione, perché il foglio cattolico di riferimento (il settimanale «L’Esare») respinse con fermezza qualsiasi ipotesi di doppia militanza; inoltre, nel maggio 1921 il bollettino diocesano precisò che i cattolici potevano esercitare attività politica ma non militare nei partiti liberali né accettare i principi del socialismo, lasciando come unica opzione il PPI. Pur a fronte di un’opposizione ferma, prima della marcia su Roma le camicie nere evitarono di avviare una vasta campagna di violenze contro i cattolici, limitandosi a rare aggressioni e qualche scritta sui muri. In questo senso, il caso lucchese risulta emblematico del livello di violenza nei rapporti tra cattolici e fascisti, che a queste date restava ancora contenuto.

Ritratto mons. Simonetti

Ritratto mons. Simonetti

L’eccezione maggiore è costituita dal delitto di Collodi, frazione di Pescia, che a conoscenza di chi scrive costituisce l’episodio più grave occorso nell’area in questione. Qui nell’ottobre 1921 i fratelli Lamberti, militanti fascisti e proprietari di una cartiera chiusa a causa di uno sciopero, uccisero a colpi di pistola Ubaldo Ciomei, consigliere comunale di Pescia e attivista dell’Unione del lavoro di Lucca, dandosi poi alla latitanza. Il settimanale cattolico locale, «Il Popolo di Valdinievole», condannò con fermezza i responsabili e presentò la vittima nelle vesti di «martire», senza che si giungesse peraltro a una vera e propria rottura con il fascismo. Al risultato contribuì il vescovo di Pescia Angelo Simonetti, i cui inviti alla pace e alla fratellanza favorivano di fatto il partito più forte; inoltre, fin dal dicembre 1920 egli aveva dichiarato in una lettera a «Il Popolo di Valdinievole» che «la vera azione cattolica non è né deve essere per sé e per i suoi fini politica, né deve perciò confondersi affatto con quella di un partito» – una sconfessione del PPI che certo non aiutò ad arginare l’ascesa del fascismo nella diocesi .

La formazione del governo Mussolini, che includeva esponenti popolari, fu accolta dai cattolici se non con gioia almeno con fiducia in un avvenire più ordinato. I mesi e gli anni seguenti videro in realtà un aumento sensibile degli attacchi contro di loro, senza che per questo si verificasse un ripensamento. Anzi, com’è noto il rappresentante principale dell’antifascismo cattolico, don Sturzo, fu costretto all’esilio dai superiori; il PPI fu sciolto; e sulla memoria di don Minzoni, il parroco ferrarese ucciso dagli squadristi nell’agosto 1923, calarono censura e oblio. Sull’esito incise la minaccia del manganello, certo, ma anche elementi di più lungo periodo, sedimentati a fondo nella mentalità cattolica, come l’insistenza sui doveri più che sui diritti e la convinzione che in mancanza di un accordo con l’autorità politica la missione della chiesa sarebbe fallita. Per queste ragioni, benché consapevoli del carattere agnostico e violento del fascismo, nella grande maggioranza dei casi i cattolici lo ritennero un male minore rispetto al nemico tradizionale: il socialismo. Questa prospettiva caratterizzò tutto il pontificato di Pio XI, che solo negli ultimi mesi di regno cominciò a distaccarsene, con una scelta che peraltro il successore si guardò bene dal sottoscrivere. Solo le sconfitte patite nel corso della Seconda guerra mondiale convinsero il papato e i cattolici italiani a voltare definitivamente le spalle a Mussolini.

Nota:
1. Cfr. ad es. La mala bestia, in «Fides», 16 gennaio 1921.
2. Il cinquantenario della morte di Giuseppe Mazzini ha visto Dio ridotto a portabandiera del P.P. e il popolo insidiato dalla coppia Sturzo-Lenin, in «Giovinezza!», 19 marzo 1922; «Giovinezza» sulle furie!, in «La Difesa popolare», 1° aprile 1922, p. 2.

L’articolo è la relazione presentata in occasione del seminario organizzato il 20 ottobre 2022 dalla Biblioteca F. Serantini dal titolo 1922: Pisa e la Toscana tra fascismo e antifascismo.




Il caso di Shangai a Livorno, 1930-2017.

Introduzione

L’obiettivo di questo breve articolo è quello di ripercorrere la storia del quartiere di Shangai di Livorno, partendo dalla sua nascita, alla fine degli anni ’20 del ‘900, per arrivare ai giorni nostri.
Il focus sarà quello di determinare le ragioni che hanno portato alla nascita di un quartiere problematico, e riflettere su quelle azioni, quelle scelte che, nel tempo, sono riuscite ad offrire nuove opportunità e possibilità per i suoi abitanti. In particolare emergerà che il periodo più positivo vissuto dagli abitanti del quartiere corrisponde a quello che va dagli anni ’70, con l’inaugurazione della sezione del PCI di Shangai[1] fino al primo decennio degli anni 2000. Durante questi anni, infatti, diverse associazioni e realtà religiose e politiche, portate avanti dagli stessi abitanti di Shangai, hanno risollevato le sorti di un quartiere difficile sotto molti punti vista, promuovendo senso di comunità, cooperazione e coesione sociale. Nel 2017 è stato chiuso il “Punto Incontro Donna” di Shangai, uno degli ultimi e più saldi pilastri sociali del quartiere, e la situazione già precaria del popolare e degradato rione, ha iniziato a peggiorare gradualmente nonostante i molti investimenti e tentativi di miglioramento da parte dell’amministrazione comunale.

Prima delle origini

Nell’area che corrisponde oggi al quartiere, fino all’inizio del ‘900 si trovavano “solo orti, campi, acquitrini, e rovi”[2]. Era una zona conosciuta dai livornesi soprattutto per la strada che portava al cimitero cittadino, la via del Camposanto. Vi abitavano poche persone, e vi erano insediate alcune fabbriche come la Parodi dove si lavorava l’olio, la Gallinari che produceva coloranti e bitume e la famosa fabbrica della Richard Ginori. Era quasi un’area verde di campagna, perfino con un corso d’acqua, il Rio Cigna[3].

Origini

La nascita del quartiere risale al 1930, quando l’Istituto Case Popolari di Livorno iniziò la costruzione di blocchi abitativi detti “popolarissimi”[4].
La decisione di costruire questo nuovo quartiere a nord della città, che sembra prendere il nome proprio da quanto lontano, disagiato e sovraffollato fosse, in richiamo anche alla città cinese, mancante di tutto quello che invece era presente nel centro, è da ricollegarsi addirittura alla fine dell’800. Fu allora infatti che la questione dei fabbisogni abitativi iniziò ad assumere sempre maggiore importanza. La Livorno postunitaria infatti era in espansione, con un numero crescente di iniziative imprenditoriali. Il commercio portuale fioriva, ma soprattutto la città necessitava un “riassetto organico edilizio del degradato centro cittadino”[5]. Le epidemie di colera nei blocchi del centro (intorno alla centralissima attuale via Grande) erano estremamente comuni, a cavallo tra ‘800 e ‘900, proprio in questi “fatiscenti e insalubri edifici del centro… occupati da miserabili che non possono certamente permettersi di procurarsi una casa in buone condizioni”[6].
In realtà questa necessità di alleggerire il centro abitato da “miserabili” aveva anche delle motivazioni di tipo politico. Nel 1922 i fascisti conquistarono violentemente il Municipio, costringendo il sindaco Mondolfi e l’intera giunta a dimettersi[7]. Solo tre anni prima, nel 1919, vi erano state proteste e saccheggi nel centro cittadino per il caroviveri. Quindi per evitare il ripetersi di tali eventi, il nuovo governo cittadino nel ’26 decise di cedere a titolo gratuito terreni per case popolari da costruire in vista dello sventramento dei blocchi “insalubri”, abitati da persone difficili da tenere sotto controllo, del centro. Questi appezzamenti di terreno comunale erano stati prima (nel 1923 circa) cedute ad associazioni di combattenti, di madri o vedove di guerra che tuttavia non riuscirono ad utilizzarli e dovettero restituirli al Comune, che a sua volta li cedette all’Istituto Case Popolari[8]. Inoltre le case “popolarissime” di Shangai nacquero all’interno della politica di disurbanizzazione, ovvero quella che l’architetto Calza-Bini, presidente dell’I.C.P. di Roma aveva esposto in un’intervista al “Giornale d’Italia” nel 1928 in cui affermò che tutti coloro che non avevano necessità di stare in città dovevano essere trasferiti in periferia tramite la costruzione, da parte dei vari istituti di case popolari, di nuove case in parti periferiche, agricole e/o industriali, delle città. In particolare Calza-Bini nominò in quegli anni una commissione che pubblicò nel 1926 un testo intitolato “Per la costruzione di case popolari rapide ed economiche”, che descriveva i casamenti a cortile chiuso di Shangai[9].
Costanzo Ciano, mano destra di Mussolini, e livornese, spese molte energie per dare l’avvio ad un’edilizia popolare per quei ceti costretti a lasciare il centro e andare nelle nuove abitazioni[10], soprattutto per soddisfare i suoi interessi economici personali[11].
Dallo sventramento dei palazzi insalubri del centro, le famiglie furono traferite nelle abitazioni che iniziarono ad essere costruite a Shangai, caratterizzate dalle “stimmate del degrado e della bassissima qualità abitativa”[12]. È un fenomeno molto comune nelle vicende abitative dei poveri: i bassifondi scompaiono in un posto e riappaiono in un altro[13]. Si trattava di caserme, costruite con materiali scadenti, dove andarono ad abitare famiglie molto povere e numerose. Non solo i materiali delle costruzioni erano di pessima qualità, anche l’impianto delle stesse era di basso livello (quasi sempre l’unico servizio igienico si trovava direttamente in cucina, le abitazioni erano mono affaccio).
I blocchi continuarono ad essere costruiti negli anni successivi, senza però un piano di sviluppo di servizi, infrastrutture e stradario adeguato al popoloso nuovo quartiere che rimase quindi isolato dal resto della città[14]. I bambini inoltre non avevano nemmeno un oratorio dove andare a giocare, anche se almeno la prima scuola del quartiere, le “Campana”, fu costruita pochi anni dopo il primo blocco abitativo, sempre negli anni ’30. Dopo la seconda guerra mondiale, infine, venne terminato il cosiddetto blocco delle “signorine” perché’ subito occupato da prostitute, attirate dalla presenza di una grande base di soldati americani nelle vicinanze[15].

[prosegue]

NOTE: 1. Susini Marco, Shangai:
un quartiere e la sua gente, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 2004. p.31.
2. Ibidem, p.17.
3. Ibidem, p.18.
4. Ibidem, p.19.
5. Ulivieri Denise, “Primato livornese: edilizia popolare d’autore”, in Nuovi Studi Livornesi, Vol. XIX- 2012, Debatte editore, Livorno. pp.99-101.
6. Ibidem, pp.97-120.
7. Mazzoni Matteo, Costanzo Ciano, il fascismo a Livorno, in Quaderni di Fare storia, Anno XIII – N.2-3 maggio –
dicembre 2011, I.S.R.Pt Editore, Pistoia. p.22.
8. Bartolotti Lando, Livorno dal 1748 al 1958. Profilo storico urbanistico, Di Lando Bortolotti, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 1977, p.327.
9. Ibidem, p.349.
10) Ulivieri D., Primato…,cit., p.102.
11. Mazzoni M., Costanzo Ciano…,cit., pp.21,22.
12) Susini M., Shangai…,cit., p.19.
13. Forgacs David, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi, Ed. Laterza, Roma-Bari, 2015. p.41.
14. Pia Margherita, La riqualificazione dei quartieri nord in I programmi per i quartieri nord di Livorno. Il contratto di quartiere “Corea”, in Qualità e Città/1, a cura di Landini Franco, ALINEA editrice, Firenze, 1999, p.11.
15) Susini M., Shangai…,cit., pp.19-22.




La Città Bianca in camicia nera: gli anni della guerra

Poverannoi!”: l’Italia entra in guerra

Quando il 10 giugno 1940 Mussolini si affaccia dal balcone di Palazzo Venezia per annunciare l’ingresso italiano nel conflitto, il regno di Carlo Scorza a Lucca si è concluso da otto anni, e con esso il tentativo del ras cosentano di scalzare “quel gelatinoso collante di interessi” (Umberto Sereni) che costituiva il sistema di potere cittadino. La vita era proseguita, il volto della città stava cambiando: nel corso degli anni ’30 vengono inaugurate nuove infrastrutture (l’autostrada A11 Firenze-Mare, la tratta Montecatini Terme-Lucca, l’aeroporto di Tassignano), i templi del commercio (il Mercato del Carmine) e del pallone (lo stadio Littorio, oggi Porta Elisa, ultima eredità di Scorza che l’aveva fortemente voluto), i luoghi della memoria fascista (il sacrario ai caduti fascisti sul baluardo S. Paolino, oggi sostituito dal monumento al musicista Alfredo Catalani)[1].

La guerra scatenata dalla Germania di Hitler nel 1939 fino a quel momento era sembrata lontana, nonostante le esercitazioni antiaeree, le prime limitazioni sulla vendita di alcuni alimenti e i cortei del maggio 1940 contro Francia e Inghilterra [2]: poi la “spettacolosa adunata del popolo lucchese […] che resterà impressa nei secoli […]. La folla ha avuto un solo sentimento, ha sentito un solo dovere: quello di accorrere attorno ad un altoparlante per udire la parola del Duce”[3]. Così il quotidiano La Nazione; in realtà, ricorda Loredana Pera (classe 1926), non c’è altra scelta:”quando Mussolini dichiarò guerra […] il suo discorso fu trasmesso via radio alla città, e tutti furono obbligati, se non volevi passare dei guai, ad ascoltarlo”[4]. “Una marea di gente”, è la testimonianza di Neva Fontana, nata nel 1927, “ma obbligata ad andarci. Poverannoi!, si stava lustri se non ci si andava!”[5]. È il momento delle delazioni, bastano poche parole tacciabili di disfattismo per ritrovarsi in guai seri: nel migliore dei casi un rimprovero da parte del proprio datore di lavoro, come accade alla madre della Pera, la sigaraia Velia Luporini, denunciata da una collega per aver commentato sarcasticamente le possibilità di una vittoria italiana[6]; altrimenti si aprono le porte del carcere di S. Giorgio, dove alcuni membri della Milizia fascista portano il professor Favilli, uno dei docenti dell’allora sedicenne Divo Stagi, per sottoporlo all’umiliazione dell’olio di ricino [7].

Il giorno successivo le prime partenze per il fronte francese (i miliziani del Battaglione Intrepido); il 15 giugno la benedizione dell’altare, con l’arcivescovo Torrini che esorta i fedeli lucchesi all’obbedienza in tempo di mobilitazione: porta la stessa data la circolare del Ministero dell’Interno che dispone l’arresto degli ebrei stranieri tra i diciotto e i sessant’anni, ritenuti “elementi indesiderabili imbevuti di odio contro i regimi totalitari” [8]. In provincia di Lucca per coloro che sono ad un tempo nemici dello Stato e della presunta purezza razziale, dopo i primi provvedimenti limitativi sul commercio disposti dalla Questura nel marzo 1940 [9], si aprono le porte delle sedi di internamento di Castelnuovo Garfagnana, Bagni di Lucca e Altopascio [10]: i successivi due anni sarebbero stati all’insegna delle privazioni e del più totale isolamento, tanto che i severissimi regolamenti impediscono agli internati persino di disporre di denaro e gioielli di valore [11].

Dalla caduta alla rinascita: la prima fase della RSI a Lucca

Sono passati tre anni dall’inizio dell’avventura bellica italiana: la “guerra parallela” prefigurata da Mussolini si è rivelata un fallimento su tutti i fronti, portando al definitivo crollo del regime ufficialmente suggellato nelle drammatiche ore del 25 luglio 1943 [12]. Il fascismo si scioglie con una rapidità tale da lasciare sconcertati gli alleati tedeschi, e nemmeno la nomina di Carlo Scorza a segretario del PNF qualche mese prima – nel segno di un ritorno all’instransigenza delle origini – è bastata a invertire il declino [13]. La sera dell’8 settembre l’annuncio dell’armistizio, accolto dai lucchesi con la gioia di chi vi scorge l’imminente fine del conflitto: pochi giorni dopo la liberazione di Mussolini per mano tedesca, la rinascita del fascismo sulle rive del Garda e, il 16 settembre, la riapertura del fascio lucchese sotto la guida di Michele Morsero – parallelamente alla nascita delle prime formazioni partigiane capeggiate da Manrico Ducceschi e Carlo Del Bianco [14].

Per tutti i dodici mesi successivi fino alla liberazione di Lucca (5 settembre 1944), la Repubblica sociale avrebbe cercato in ogni modo di legittimarsi agli occhi della popolazione con scarsi risultati: tre capi si sarebbero alternati al vertice della provincia dopo Morsero (il duro Mario Piazzesi, il più moderato Luigi Olivieri e infine il fedelissimo di Pavolini, l’empolese Idreno Utimpergher), scontrandosi da un lato con la disobbedienza civile di fatto della Chiesa lucchese (che non raccoglie l’invito delle autorità repubblicane a convincere i giovani a rispondere ai bandi di leva, disertati in massa [15], e anzi fornisce assistenza e aiuto a ebrei, prigionieri di guerra in fuga e partigiani [16]), dall’altro scontando la crescente ostilità della popolazione civile causata dalla pratica dei rastrellamenti, effettuati allo scopo di scovare renitenti o braccia abili da destinare al lavoro coatto in Germania (è quanto accade ad esempio il 21 agosto 1944 proprio nel capoluogo di provincia, dove pur non essendovi alcuna vittima i fascisti si lasciano andare a veri e propri atti di brigantaggio a danno degli arrestati [17]). Il tutto senza dimenticare la guerra ancora in corso, che lambisce sempre più da vicino il territorio: il 1° novembre viene bombardata Viareggio, il 6 gennaio 1944 è la volta di Lucca stessa. E mentre da sud le truppe Alleate avanzano, il morale vacilla – e così pure le sempre più deboli istuzioni repubblicane: resta loro, come mezzo di autoaffermazione, soltanto l’esercizio della violenza, l’esibizione della forza per mascherare la debolezza.

Il “posto d’onore”: la XXXVI° “Mussolini” e gli ultimi colpi del fascismo lucchese

Quando a cavallo tra il 1943 e il 1944 inizia a prendere corpo la militarizzazione del nuovo Partito fascista repubblicano, decisa al I° congresso del Partito fascista repubblicano di Verona (anche per far fronte al disastroso risultato dei bandi di leva della RSI), Lucca si trova a giocare il ruolo fondamentale di “città campione” (C. Giuntoli), la prima in assoluto nell’Italia sottoposta a occupazione tedesca a veder costituita sul proprio territorio una Brigata Nera – la famigerata XXXVI “Mussolini”, nata con ben otto giorni di anticipo rispetto a quanto stabilito dal decreto costitutivo che ne autorizzava la creazione e comandata da Utimpergher. “Le ragioni della scelta di Pavolini […]”, ha sottolineato Carlo Giuntoli, “furono probabilmente legate a tutta una serie di ragioni tattiche, Lucca era infatti una delle poche città toscane […] non ancora minacciate dalle truppe anglo-americane”; al contempo però gioca un ruolo non secondario la “fiducia che [Pavolini] nutriva in questo gruppo di fedelissimi” [18]. Sono gli stessi “fedelissimi” che avevano rivendicato dalle colonne dell’Artiglio – il foglio del fascismo lucchese – il proprio “posto d’onore” nelle neo-costituite BN [19].

Scarsa in termini numerici tanto da essere una brigata soltanto nel nome (236 effettivi [20], in larga parte veterani e reduci della Grande guerra e del primo squadrismo, oppure giovani nati e cresciuti sotto il regime[21]), la XXXVI° di Utimpergher rinuncia anche a quel poco di copertura istituzionale che la RSI aveva cercato di ammantare le proprie azioni fino al giugno 1944: i brigatisti neri sono entusiasti collaboratori, nelle vesti di spie e delatori, dei tedeschi nell’opera di ripulitura delle retrovie del fronte, un’occasione unica per portare avanti vendette personali e rappresaglie: come nel caso della Certosa di Farneta, presso la quale si rifugiava l’ex direttore dell’ospedale psichiatrico di Maggiano e antifascista militante, Guglielmo Lippi Francesconi, arrestato ai primi di settembre dai tedeschi assieme al resto degli occupanti del convento e fucilato a Massa pochi giorni dopo, vittima della delazione del collega/rivale Vittorio Marlia, acceso sostenitore del regime[22]; oppure il camaiorese Amedeo Biancalana, sospettato autore di scritte antifasciste consegnato ai tedeschi che lo giustizieranno dal vicecomandante locale della XXXVI° Cirillo [23]; e ancora le spedizioni punitive, come quella di San Lorenzo a Vaccoli (la prima in assoluto, il 3 agosto 1944), per vendicare l’attentato contro due commilitoni e vede i brigatisti razziare il paese e arrestare 5 uomini, poi deportati in Germania [24].

Il 5 settembre 1944 Lucca viene liberata, ma i brigatisti neri continuano a spargere sangue: il 23 settembre a seguito di un’azione partigiana viene colpita Castelnuovo Garfagnana (8 vittime uccise a colpi di mitra e rivoltellate dai brigatisti neri, che poi completamente ubriachi si danno al saccheggio)[25]; il 29 settembre a Castiglione di Garfagnana, dove il locale presidio repubblicano si accanisce sul partigiano Luigi Berni, legato per il collo ad un camion con un cavo d’acciaio e trascinato per le strade fino alla morte per soffocamento [26]. Lo scempio a danno del Berni è l’ultimo atto della XXXVI° sul territorio toscano: su pressione delle SS i reparti della brigata sarebbero stati trasferiti prima in Emilia e poi in Piemonte, dove avrebbero continuato ad essere operativi fino al drammatico epilogo del fascismo a Dongo: qui Utimpergher viene fucilato il 28 agosto 1945, lo stesso giorno di Mussolini.

1Marco Pomella, La storia di Lucca, Typimedia, Roma 2019, pp. 130-131

2Andrea Ventura (a cura di), La voce dei testimoni, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2020, p. 121

3Cit. in Ibidem, p. 95

4Ivi

5Ibidem, pp. 64-65

6Ibidem, pp. 95-96

7Divo Stagi, Racconto della mia vita, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2019, p. 49

8Cit. in Silvia Q. Angelini, Sergio Sensi, L’internamento libero nel comune di Altopascio (1941-1943), p. 39, in “Documenti e Studi” 48/2021, pp. 39-61

9“Il ministro dell’interno […] ha disposto che non debbono rilasciarsi o rinnovarsi licenze per commercio ambulante di articoli di cancelleria e di toilette uso personale a persone appartenenti alla razza ebraica.”, in Virginio Monti, La Questione ebraica in provincia di Lucca e il campo di concentramento di Bagni di Lucca, TraLeRighe Libri, Lucca 2021, p. 19

10Silvia Q. Angelini, Sergio Sensi, Op. cit, p. 40

11Ibidem, pp. 42-43

12 Renzo De Felice, Breve storia del fascismo, Mondadori, Milano 2002, p. 47

13Giorgio Bocca, Storia d’Italia nella guerra fascista , 1940-1943, Mondadori, Milano 1996, p. 474

14Edoardo Longo, I Neri di Mussolini. Repubblica sociale e violenza fascista in Lucchesia, 1943-1944, tesi di laurea magistrale – Università di Pisa, a.a. 2017-2018, pp. 59-60

15 Ibidem, p. 61

16Il ruolo delle istituzioni ecclesiastiche e più in generale dei cattolici nella Resistenza è stato aprofondito nel volume a cura di Gianluca Fulvetti Di fronte all’estremo. Don Aldo Mei, cattolici, chiese, resistenze, edito da Maria Pacini Fazzi nel 2014.

17Edoardo Longo, I Neri di Mussolini…., pp. 79-80

18Carlo Giuntoli, La XXXVI Brigata Nera Mussolini, p. 92, in “Documenti e Studi” nn. 40-41/2016, pp. 89-115

19Ivi, p. 91

20Carlo Giuntoli, La XXXVI Brigata…, p. 94)

21Edoardo Longo, I Neri di Mussolini…, pp. 75-76

22Luciano Luciani, Armando Sestani, Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza, pp. 51-56, in Gianluca Fulvetti (a cura di), Guida ai luoghi della memoria in provincia di Lucca – vol. 3, Pezzini, Viareggio 2016

23 Edoardo Longo, I Neri di Mussolini, pp. 82-83

24 Ibidem, p. 84

25 L’intera vicenda è stata minuziosamente ricostruita da Feliciano Bechelli nel saggio La rappresaglia fascista del 23 settembre 1944 a Castelnuovo, in “Documenti e Studi” 43/2018, pp. 27-57

26 Edoardo Longo, I Neri di Mussolini…, pp. 87-88