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La Città Bianca in camicia nera: gli anni della guerra

Poverannoi!”: l’Italia entra in guerra

Quando il 10 giugno 1940 Mussolini si affaccia dal balcone di Palazzo Venezia per annunciare l’ingresso italiano nel conflitto, il regno di Carlo Scorza a Lucca si è concluso da otto anni, e con esso il tentativo del ras cosentano di scalzare “quel gelatinoso collante di interessi” (Umberto Sereni) che costituiva il sistema di potere cittadino. La vita era proseguita, il volto della città stava cambiando: nel corso degli anni ’30 vengono inaugurate nuove infrastrutture (l’autostrada A11 Firenze-Mare, la tratta Montecatini Terme-Lucca, l’aeroporto di Tassignano), i templi del commercio (il Mercato del Carmine) e del pallone (lo stadio Littorio, oggi Porta Elisa, ultima eredità di Scorza che l’aveva fortemente voluto), i luoghi della memoria fascista (il sacrario ai caduti fascisti sul baluardo S. Paolino, oggi sostituito dal monumento al musicista Alfredo Catalani)[1].

La guerra scatenata dalla Germania di Hitler nel 1939 fino a quel momento era sembrata lontana, nonostante le esercitazioni antiaeree, le prime limitazioni sulla vendita di alcuni alimenti e i cortei del maggio 1940 contro Francia e Inghilterra [2]: poi la “spettacolosa adunata del popolo lucchese […] che resterà impressa nei secoli […]. La folla ha avuto un solo sentimento, ha sentito un solo dovere: quello di accorrere attorno ad un altoparlante per udire la parola del Duce”[3]. Così il quotidiano La Nazione; in realtà, ricorda Loredana Pera (classe 1926), non c’è altra scelta:”quando Mussolini dichiarò guerra […] il suo discorso fu trasmesso via radio alla città, e tutti furono obbligati, se non volevi passare dei guai, ad ascoltarlo”[4]. “Una marea di gente”, è la testimonianza di Neva Fontana, nata nel 1927, “ma obbligata ad andarci. Poverannoi!, si stava lustri se non ci si andava!”[5]. È il momento delle delazioni, bastano poche parole tacciabili di disfattismo per ritrovarsi in guai seri: nel migliore dei casi un rimprovero da parte del proprio datore di lavoro, come accade alla madre della Pera, la sigaraia Velia Luporini, denunciata da una collega per aver commentato sarcasticamente le possibilità di una vittoria italiana[6]; altrimenti si aprono le porte del carcere di S. Giorgio, dove alcuni membri della Milizia fascista portano il professor Favilli, uno dei docenti dell’allora sedicenne Divo Stagi, per sottoporlo all’umiliazione dell’olio di ricino [7].

Il giorno successivo le prime partenze per il fronte francese (i miliziani del Battaglione Intrepido); il 15 giugno la benedizione dell’altare, con l’arcivescovo Torrini che esorta i fedeli lucchesi all’obbedienza in tempo di mobilitazione: porta la stessa data la circolare del Ministero dell’Interno che dispone l’arresto degli ebrei stranieri tra i diciotto e i sessant’anni, ritenuti “elementi indesiderabili imbevuti di odio contro i regimi totalitari” [8]. In provincia di Lucca per coloro che sono ad un tempo nemici dello Stato e della presunta purezza razziale, dopo i primi provvedimenti limitativi sul commercio disposti dalla Questura nel marzo 1940 [9], si aprono le porte delle sedi di internamento di Castelnuovo Garfagnana, Bagni di Lucca e Altopascio [10]: i successivi due anni sarebbero stati all’insegna delle privazioni e del più totale isolamento, tanto che i severissimi regolamenti impediscono agli internati persino di disporre di denaro e gioielli di valore [11].

Dalla caduta alla rinascita: la prima fase della RSI a Lucca

Sono passati tre anni dall’inizio dell’avventura bellica italiana: la “guerra parallela” prefigurata da Mussolini si è rivelata un fallimento su tutti i fronti, portando al definitivo crollo del regime ufficialmente suggellato nelle drammatiche ore del 25 luglio 1943 [12]. Il fascismo si scioglie con una rapidità tale da lasciare sconcertati gli alleati tedeschi, e nemmeno la nomina di Carlo Scorza a segretario del PNF qualche mese prima – nel segno di un ritorno all’instransigenza delle origini – è bastata a invertire il declino [13]. La sera dell’8 settembre l’annuncio dell’armistizio, accolto dai lucchesi con la gioia di chi vi scorge l’imminente fine del conflitto: pochi giorni dopo la liberazione di Mussolini per mano tedesca, la rinascita del fascismo sulle rive del Garda e, il 16 settembre, la riapertura del fascio lucchese sotto la guida di Michele Morsero – parallelamente alla nascita delle prime formazioni partigiane capeggiate da Manrico Ducceschi e Carlo Del Bianco [14].

Per tutti i dodici mesi successivi fino alla liberazione di Lucca (5 settembre 1944), la Repubblica sociale avrebbe cercato in ogni modo di legittimarsi agli occhi della popolazione con scarsi risultati: tre capi si sarebbero alternati al vertice della provincia dopo Morsero (il duro Mario Piazzesi, il più moderato Luigi Olivieri e infine il fedelissimo di Pavolini, l’empolese Idreno Utimpergher), scontrandosi da un lato con la disobbedienza civile di fatto della Chiesa lucchese (che non raccoglie l’invito delle autorità repubblicane a convincere i giovani a rispondere ai bandi di leva, disertati in massa [15], e anzi fornisce assistenza e aiuto a ebrei, prigionieri di guerra in fuga e partigiani [16]), dall’altro scontando la crescente ostilità della popolazione civile causata dalla pratica dei rastrellamenti, effettuati allo scopo di scovare renitenti o braccia abili da destinare al lavoro coatto in Germania (è quanto accade ad esempio il 21 agosto 1944 proprio nel capoluogo di provincia, dove pur non essendovi alcuna vittima i fascisti si lasciano andare a veri e propri atti di brigantaggio a danno degli arrestati [17]). Il tutto senza dimenticare la guerra ancora in corso, che lambisce sempre più da vicino il territorio: il 1° novembre viene bombardata Viareggio, il 6 gennaio 1944 è la volta di Lucca stessa. E mentre da sud le truppe Alleate avanzano, il morale vacilla – e così pure le sempre più deboli istuzioni repubblicane: resta loro, come mezzo di autoaffermazione, soltanto l’esercizio della violenza, l’esibizione della forza per mascherare la debolezza.

Il “posto d’onore”: la XXXVI° “Mussolini” e gli ultimi colpi del fascismo lucchese

Quando a cavallo tra il 1943 e il 1944 inizia a prendere corpo la militarizzazione del nuovo Partito fascista repubblicano, decisa al I° congresso del Partito fascista repubblicano di Verona (anche per far fronte al disastroso risultato dei bandi di leva della RSI), Lucca si trova a giocare il ruolo fondamentale di “città campione” (C. Giuntoli), la prima in assoluto nell’Italia sottoposta a occupazione tedesca a veder costituita sul proprio territorio una Brigata Nera – la famigerata XXXVI “Mussolini”, nata con ben otto giorni di anticipo rispetto a quanto stabilito dal decreto costitutivo che ne autorizzava la creazione e comandata da Utimpergher. “Le ragioni della scelta di Pavolini […]”, ha sottolineato Carlo Giuntoli, “furono probabilmente legate a tutta una serie di ragioni tattiche, Lucca era infatti una delle poche città toscane […] non ancora minacciate dalle truppe anglo-americane”; al contempo però gioca un ruolo non secondario la “fiducia che [Pavolini] nutriva in questo gruppo di fedelissimi” [18]. Sono gli stessi “fedelissimi” che avevano rivendicato dalle colonne dell’Artiglio – il foglio del fascismo lucchese – il proprio “posto d’onore” nelle neo-costituite BN [19].

Scarsa in termini numerici tanto da essere una brigata soltanto nel nome (236 effettivi [20], in larga parte veterani e reduci della Grande guerra e del primo squadrismo, oppure giovani nati e cresciuti sotto il regime[21]), la XXXVI° di Utimpergher rinuncia anche a quel poco di copertura istituzionale che la RSI aveva cercato di ammantare le proprie azioni fino al giugno 1944: i brigatisti neri sono entusiasti collaboratori, nelle vesti di spie e delatori, dei tedeschi nell’opera di ripulitura delle retrovie del fronte, un’occasione unica per portare avanti vendette personali e rappresaglie: come nel caso della Certosa di Farneta, presso la quale si rifugiava l’ex direttore dell’ospedale psichiatrico di Maggiano e antifascista militante, Guglielmo Lippi Francesconi, arrestato ai primi di settembre dai tedeschi assieme al resto degli occupanti del convento e fucilato a Massa pochi giorni dopo, vittima della delazione del collega/rivale Vittorio Marlia, acceso sostenitore del regime[22]; oppure il camaiorese Amedeo Biancalana, sospettato autore di scritte antifasciste consegnato ai tedeschi che lo giustizieranno dal vicecomandante locale della XXXVI° Cirillo [23]; e ancora le spedizioni punitive, come quella di San Lorenzo a Vaccoli (la prima in assoluto, il 3 agosto 1944), per vendicare l’attentato contro due commilitoni e vede i brigatisti razziare il paese e arrestare 5 uomini, poi deportati in Germania [24].

Il 5 settembre 1944 Lucca viene liberata, ma i brigatisti neri continuano a spargere sangue: il 23 settembre a seguito di un’azione partigiana viene colpita Castelnuovo Garfagnana (8 vittime uccise a colpi di mitra e rivoltellate dai brigatisti neri, che poi completamente ubriachi si danno al saccheggio)[25]; il 29 settembre a Castiglione di Garfagnana, dove il locale presidio repubblicano si accanisce sul partigiano Luigi Berni, legato per il collo ad un camion con un cavo d’acciaio e trascinato per le strade fino alla morte per soffocamento [26]. Lo scempio a danno del Berni è l’ultimo atto della XXXVI° sul territorio toscano: su pressione delle SS i reparti della brigata sarebbero stati trasferiti prima in Emilia e poi in Piemonte, dove avrebbero continuato ad essere operativi fino al drammatico epilogo del fascismo a Dongo: qui Utimpergher viene fucilato il 28 agosto 1945, lo stesso giorno di Mussolini.

1Marco Pomella, La storia di Lucca, Typimedia, Roma 2019, pp. 130-131

2Andrea Ventura (a cura di), La voce dei testimoni, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2020, p. 121

3Cit. in Ibidem, p. 95

4Ivi

5Ibidem, pp. 64-65

6Ibidem, pp. 95-96

7Divo Stagi, Racconto della mia vita, Maria Pacini Fazzi, Lucca 2019, p. 49

8Cit. in Silvia Q. Angelini, Sergio Sensi, L’internamento libero nel comune di Altopascio (1941-1943), p. 39, in “Documenti e Studi” 48/2021, pp. 39-61

9“Il ministro dell’interno […] ha disposto che non debbono rilasciarsi o rinnovarsi licenze per commercio ambulante di articoli di cancelleria e di toilette uso personale a persone appartenenti alla razza ebraica.”, in Virginio Monti, La Questione ebraica in provincia di Lucca e il campo di concentramento di Bagni di Lucca, TraLeRighe Libri, Lucca 2021, p. 19

10Silvia Q. Angelini, Sergio Sensi, Op. cit, p. 40

11Ibidem, pp. 42-43

12 Renzo De Felice, Breve storia del fascismo, Mondadori, Milano 2002, p. 47

13Giorgio Bocca, Storia d’Italia nella guerra fascista , 1940-1943, Mondadori, Milano 1996, p. 474

14Edoardo Longo, I Neri di Mussolini. Repubblica sociale e violenza fascista in Lucchesia, 1943-1944, tesi di laurea magistrale – Università di Pisa, a.a. 2017-2018, pp. 59-60

15 Ibidem, p. 61

16Il ruolo delle istituzioni ecclesiastiche e più in generale dei cattolici nella Resistenza è stato aprofondito nel volume a cura di Gianluca Fulvetti Di fronte all’estremo. Don Aldo Mei, cattolici, chiese, resistenze, edito da Maria Pacini Fazzi nel 2014.

17Edoardo Longo, I Neri di Mussolini…., pp. 79-80

18Carlo Giuntoli, La XXXVI Brigata Nera Mussolini, p. 92, in “Documenti e Studi” nn. 40-41/2016, pp. 89-115

19Ivi, p. 91

20Carlo Giuntoli, La XXXVI Brigata…, p. 94)

21Edoardo Longo, I Neri di Mussolini…, pp. 75-76

22Luciano Luciani, Armando Sestani, Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza, pp. 51-56, in Gianluca Fulvetti (a cura di), Guida ai luoghi della memoria in provincia di Lucca – vol. 3, Pezzini, Viareggio 2016

23 Edoardo Longo, I Neri di Mussolini, pp. 82-83

24 Ibidem, p. 84

25 L’intera vicenda è stata minuziosamente ricostruita da Feliciano Bechelli nel saggio La rappresaglia fascista del 23 settembre 1944 a Castelnuovo, in “Documenti e Studi” 43/2018, pp. 27-57

26 Edoardo Longo, I Neri di Mussolini…, pp. 87-88




«L’officina dei partigiani».

La montagna – ha scritto Dante Livio Bianco – fu […] la culla del partigianato, come ne fu poi la base fondamentale e l’ambiente di sviluppo e di consolidamento. […] Le montagne furono davvero la casa dei partigiani.[1]

Le montagne a cui si riferiva nelle sue memorie partigiane il futuro comandante della 1° Divisione alpina Giustizia e Libertà erano quelle del Cuneese, una delle prime e più importanti culle della Resistenza armata italiana. E tuttavia, l’annotazione del Bianco assume certamente una valenza generale e può infatti estendersi tranquillamente alla totalità della storia della Resistenza partigiana tout court.

Ogni banda partigiana, ogni esperienza resistenziale extraurbana ha avuto infatti le proprie montagne e le proprie vallate di riferimento, nelle quali è nata – spesso stentatamente – ha attecchito, si è sviluppata, talvolta persino sensibilmente radicata, prima che eventi e difficoltà generali costringessero o consigliassero alle formazioni di spostarsi altrove, magari su altri e più impervi rilievi.

Monte Morello 1

Partigiani su Monte Morello (1944). Il secondo ed il terzo da sinistra sono rispettivamente: Gino Bartolini “Bachino” Fernando Bucelli “Grillo”. La ragazza è la Partigiana fiorentina Bruna Parri “Sonia” (Fonte: ANPI Firenze- sezione Oltrarno)

Così è, tra altre, anche per la Resistenza fiorentina, la quale lega la sua storia ad una manciata di rilievi e massicci montuosi attorno ai quali le sue bande armate si sono costituite nel tempo e hanno operato, talvolta prosperando, talaltra invece migrando altrove dietro l’impeto dei rastrellamenti nemici, in direzione di vette ritenute più inaccessibili e quindi più sicure. Da Monte Morello a Monte Senario, da Monte Giovi ai rilievi appenninici del Mugello, dai monti del Chianti al Pratomagno, sino al Casentino: tutte maglie della fitta e complicata trama in cui si è dispiegata la resistenza in armi delle formazioni fiorentine tra il settembre del 1943 e la fine dell’estate del 1944.

Tra i rilievi che più di altri hanno avuto un ruolo centrale per l’esperienza partigiana fiorentina, soprattutto per quanto riguarda le sue origini e le prime fasi di impianto, un posto di rilievo lo occupa senza dubbio Monte Morello. Qui, infatti, dopo l’armistizio, cominciarono a confluire i primi resistenti del fiorentino – ribelli e non ancora propriamente partigiani – i quali costituirono alcuni dei più precoci esperimenti di bande armate della Toscana, in alcuni casi destinati a divenire gli embrioni delle future brigate partigiane fiorentine. Le ragioni per cui quella che è solitamente indicata come la montagna dei fiorentini, da sempre meta delle loro passeggiate ed escursioni domenicali, può a ragione definirsi anche come la montagna dei partigiani fiorentini, sono piuttosto chiare e immediate e hanno a che fare anzitutto con la rilevanza strategica che la sua posizione geografica e la sua specifica conformazione fisica conferirono al massiccio nel quadro degli eventi storici successivi all’8 settembre 1943.

Monte Morello si erge infatti con le sue tre “vette” (Poggio all’Aia, 934 metri s.l.m.; Poggio Casaccia, 921 metri e Poggio Cornacchiaccia, 892 metri) a pochi chilometri a nord ovest del capoluogo toscano occupando una vasta area delimitata idrogeologicamente, a ovest, dal torrente Marina e dalle propaggini orientali dei monti della Calvana e, a est, dalla val di Mugnone e dal colle di Fiesole, e amministrativamente divisa tra i comuni di Firenze, Vaglia, Sesto Fiorentino e Calenzano. Di estremo interesse ambientale-paesaggistico, con ricchi terreni boschivi frutto si secolari rimboschimenti e risorse idriche diffuse, Morello oggi come allora era lambito altresì da importanti vie di comunicazione, stradali e ferrate, tra le quali: a ovest, la direttissima appenninica che attraverso la Calvana e la Val di Bisenzio collegava dal 1934 la piana fiorentina a Bologna e, a est, la strada carreggiabile bolognese e la linea ferrata faentina che da Firenze conducevano via Vaglia sino in Mugello e da lì in Romagna.

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Monte Morello (1944). Due partigiani russi non identificati. (Fonte: ANPI Firenze – sezione Oltrarno)

Già da questi elementi si intuisce la rilevanza che Monte Morello assumerà nella lotta partigiana ai fini del controllo del territorio e delle comunicazioni nell’area. Di più, la vicinanza del rilievo alla città e ai principali centri abitati della piana fiorentina, unita alla presenza di una rete di piccoli nuclei rurali sparsi un po’ ovunque sulle sue pendici, creavano le condizioni ideali perché i gruppi di partigiani potessero assicurarsi nei mesi di attività rifornimenti, riparo e appoggio logistico. In definitiva, la vicinanza di Morello a Firenze e alla produttiva piana fiorentina è forse il primo e più importante aspetto che inizialmente ne garantì l’indiscussa importanza rispetto alla nascita delle bande, benché poi proprio questa stessa vicinanza sul lungo periodo avrebbe altresì costituito uno dei fattori di maggior pericolosità per la sopravvivenza del movimento armato.

L’essere di fatto la montagna dei fiorentini, ossia la zona impervia più vicina alla città e da essa facilmente raggiungibile, spiega come mai i primi resistenti confluissero su Morello. Bisogna a tal proposito ricordare che le prime bande che si formano in montagna dopo l’8 settembre non nascono tanto (o almeno non solo) con l’intento della lotta armata, quanto con l’obiettivo immediato della sopravvivenza. Tutta l’umana varietà di soggetti che anima le prime bande (ex soldati sbandati fuggiti dai presidi e dalle caserme, ex prigionieri di guerra alleati evasi dai campi di detenzione, renitenti, disertori, perseguitati politici scarcerati, operai e antifascisti compromessisi nei quarantacinque giorni badogliani, giovani studenti ecc.) prende infatti la strada dei monti anzitutto per sfuggire alla propria cattura. È questo un elemento trasversale dal quale non sono esenti neppure i “politici”, coloro cioè che, come quadri e aderenti alle strutture clandestine dell’antifascismo, hanno più chiare di altri le ragioni della necessità e dell’importanza di intraprendere la lotta armata. Non per nulla Gino Tagliaferri, tra gli organizzatori per il Partito comunista della lotta partigiana in provincia di Firenze, ricordando un incontro tenuto il 12 settembre 1943 con alcuni compagni di Campi Bisenzio, nel quale era stato deciso di mandare proprio su Monte Morello una prima squadra di uomini (il gruppo di Lanciotto Ballerini), avrebbe detto:

[…] chi dice (riferendosi al primo giorno o subito ai primi giorni dell’occupazione) che andava in montagna a fare il partigiano, non dice una cosa esatta. Perché ancora non si avevano idee chiare. Io non le avevo ma non le avevano neanche gli altri. Era in generale per tutti noi comunisti una ritirata prudenziale in attesa di vedere come si mettevano le cose e quindi agire di conseguenza. Volenti o nolenti bisognò prendere quella posizione; prima ci si ritirò per sottrarsi ad eventuali arresti, deportazioni, o uccisioni e rappresaglie.[2]

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Monte Morello (1944). partigiano a cavallo non identifiicato, assieme alla partigiana fiorentina Bruna Parri “Sonia” (ANPI Firenze – sezione Oltrarno)

Per chi dopo l’8 settembre e a seguito dell’occupazione tedesca della città voleva sottrarsi a un eventuale arresto e scappare da Firenze in cerca di un rifugio, Monte Morello costituiva una delle mete più immediate e più facilmente raggiungibili in grado di assicurare lungo i suoi declivi boscosi una certa prospettiva di salvezza. E in effetti, sin dopo l’armistizio, esso si popola di militari sbandati, ex-prigionieri alleati e civili in fuga che inizialmente vagano in solitaria ma che finiscono poi in alcuni casi per unirsi in aggregati spuri, destinati a divenire le prime cellule delle successive bande. Alla Cappella di Ceppeto sulle pendici orientali del monte in prossimità del valico tra il torrente Terzolle e il Mugello, nei giorni seguenti all’8 settembre va formandosi ad esempio un primo grande assembramento di ex militari, cui si uniscono ex-prigionieri e anche giovani operai antifascisti.[3] La presenza tra loro di ex prigionieri alleati (angloamericani e slavi) si spiega in particolare con l’esistenza nelle vicinanze di campi di lavoro coatto dipendenti dalle strutture d’internamento militari italiane nei quali, prima dell’8 settembre, erano impiegati come forza lavoro i prigionieri di guerra. Nella provincia fiorentina ve ne erano diversi e uno di questi in particolare era situato sulle pendici settentrionali di Morello nell’azienda agraria degli eredi Corsini al Carlone, nel comune di Vaglia.[4] Fuggiti da questo e da altri luoghi di prigionia essi avevano trovato ospitalità da parte di molte famiglie contadine della zona di Morello, come quelle dei Sarti e dei Biancalani in località Cerreto Maggio e Morlione o come quella dei Venturi a Querceto. Secondo la stima di un ex prigioniero inglese nell’autunno del 1943 in tutta l’area di Morello si trovavano alla macchia sino a 150 ex prigionieri alleati[5], alcuni dei quali si sarebbero poi uniti alle locali bande armate. Il più famoso tra questi sarebbe stato certamente Stuart Hood, prigioniero scozzese evaso dal campo di prigionia di Fontanellato che nel dicembre 1943 proprio su Monte Morello si unì col nome di battaglia di “Carlino” ai partigiani del gruppo campigiano di Lanciotto Ballerini.[6]

La varietà umana che si incontra su Morello nel settembre del 1943 rende la scena delle prime bande assai varia e composita. Accomunate da una precarietà iniziale dettata dalla difficoltà di organizzarsi, nascono diverse formazioni, alcune destinate a durare, altre costrette a vita breve. Le più note sono naturalmente il gruppo del Bruschi e quello di Lanciotto.

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Lanciotto Ballerini (1911-1944): comandante di una delle prime formazioni di Monte Morello, caduto eroicamente a Valibona il 3 gennaio 1944 (Fonte: Wikipedia)

Il primo è guidato dal sestese Giulio Bruschi “Berto”, classe 1901, un militante comunista di lungo corso condannato nel gennaio 1935 a quattro anni di reclusione per attività clandestina e poi assegnato a cinque anni di confino a Ponza e a Ventotene. Il suo gruppo partigiano, che si installa alla metà di settembre sulle pendici di Morello presso un casotto in muratura in località Cipressa vicino alle Croci di Querceto, è sostenuto dall’organizzazione antifascista di Sesto ed è composto inizialmente da altri antifascisti perseguitati tra i quali spiccano Olinto Ceccuti “Cecco”, un artigiano nativo di Casellina e Torri coetaneo di Bruschi, e Rolando Gelli “Mangia”, falegname sestese classe 1911 già schedato dalla polizia fascista e sottoposto ad ammonizione dal Tribunale Speciale.

Anche il gruppo di giovani campigiani che alla guida di Lanciotto Ballerini la sera del 15 settembre 1943 lasciano la colonica di Serafino Colzi della fattoria di Fornello per avviarsi su Monte Morello si è formato a seguito di alcune riunioni tenutesi nei giorni antecedenti tra i principali esponenti dell’antifascismo campigiano nelle quali è stato deciso l’invio sui monti di alcuni uomini. A fianco dell’erculeo Lanciotto (classe 1911, promessa del pugilato locale e con alle spalle una lunga esperienza sui fronti di guerra del fascismo che gli ha lasciato in eredità una spiccata insofferenza per le gerarchie militari e l’autoritarismo fascista) vi è Ferdinando Puzzoli “Nandino”, detto anche “Novatore”, un vecchio militante anarchico e decano degli antifascisti campigiani, che della formazione di Lanciotto diviene commissario politico. Il gruppo, che assumerà il nome di “Lupi Neri”, giunto su Morello si sistema inizialmente alla Fonte del Vecciolino per portare poi il proprio comando al Chiesino di San Michele a Cupo, sul versante più a Nord di Morello, da dove la banda opererà nell’area compresa tra Collinella e Cerreto Maggio.

Alla Cappella di Ceppeto, altri due gruppi partigiani si costituiscono alla metà di settembre. Uno è quello formato inizialmente da circa venti individui che si riuniscono attorno all’ex paracadutista Bruno Bini “Folgore” (classe 1920) e che, oltre ad altri militari sbandati come Spartaco Capestri “Stanlio” o Florio Taccetti “Ivan”, accorpa anche giovani fiorentini come Leandro Agresti “Marco” (classe 1924) figlio di un calzolaio antifascista di Barberino di Mugello e tra i primi a salire a Ceppeto la mattina del 10 settembre. L’altro gruppo è quello guidato dai fratelli Morando e Marino Cosi e formato per lo più da giovani fiorentini delle classi 1923-1925 provenienti dai quartieri a ovest della città, tra Careggi e Castello: «banda delle Panche» infatti è il nome della piccola formazione, dall’odonimo della via di residenza di molti dei suoi componenti. Dalla Cappella di Ceppeto, il gruppo dei Cosi passerà in ottobre in località Case di Maiano, tra il paese di Vaglia e il borgo di Legri, sui contrafforti a nord di Monte Morello. Un terzo gruppo di resistenti, per lo più provenienti ancora dalla zona di Sesto e di Castello, è quello promosso dai tre fratelli Alfio, Renzo e Carlo Fondi che nel pomeriggio del 9 settembre, forte di undici uomini, da Leccio di Calenzano dove si è ritrovato prende la via di Monte Morello.[7]

Come molti altri esperimenti partigiani, questi gruppi che si costituiscono sui rilievi di Morello vivono le prime settimane di vita in uno stato di precarietà e debolezza dovuto all’incertezza del contesto nel quale si trovano a operare. La loro principale attività non è ancora la lotta ai nazifascisti – i quali prima della metà di ottobre non costituiranno una tangibile minaccia per le bande di Monte Morello – quanto tutto ciò che serve alla mera sopravvivenza e alla preparazione della lotta: il che significa soprattutto approvvigionarsi di alimenti e generi di prima necessità e quindi armarsi. Quanto la montagna può offrire di tutto ciò è limitato e a volte appena sufficiente: «si è patita molta fame», avrebbe ricordato più tardi un membro di quelle prime bande:

[…] Si è mangiato di tutto: vitalbe, luppoli, cicerbite, asparagi, radicchio. Tante volte non s’aveva nemmeno l’acqua per lavarli. A volte si trovava le ciliegie o le corbezzole. Quando si trovavano erano una manna […].[8]

Ma pur se parco, Morello, come si è detto, ha il grande vantaggio di consentire un rapido e sicuro contatto con gli abitati della piana e quindi con l’organizzazione clandestina cittadina. Lo stesso Bruschi, ricordando gli esordi incerti della propria formazione, avrebbe ammesso al riguardo:

[…] agivamo un po’ spontaneamente. […] Non avevamo cognizione di quello che vuol dire una lotta di popolo, ma ci accorgemmo subito che se non ci fosse stata la popolazione di Sesto, la quale ci mandava scarpe, calzini e viveri, non avremmo potuto resistere.[9]

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Giulio Bruschi, classe 1901, comunista sestese e perseguitato politico, dopo l’8 settembre comanderà uno dei primi gruppi militari che salgono su Monte Morello (Fonte: ACS, CCP)

Tra la popolazione della piana fiorentina e quella che abita le pendici di Morello si instaura un solidale impegno assistenziale all’indirizzo delle bande partigiane. Molte delle famiglie che vivono sulla montagna danno gratuito e spontaneo aiuto ai partigiani che operano nella zona. In località Lavacchio, sulle pendici meridionali di Morello, le famiglie di Giocondo e Giuseppe Ercoli, ad esempio, ospitano spesso i ribelli della zona, con le figlie Marisa e Graziella che si offrono come staffette, trasportando materiale e avvisando i partigiani in caso di pericolo imminente. La famiglia Scarlini, originaria di Campi Bisenzio, lungo l’alveo del torrente Zambra fa giungere in montagna armi, indumenti e viveri. Ancora assistenza e riparo offrono ai partigiani la famiglia Zetti al podere Solatio, nei pressi della Torre di Carmignanello, e quella dei Gigli a Rofoli. Ma tra i tanti il nucleo familiare più attivo è sicuramente quello dei Lastrucci, i contadini che coltivano il podere della Cipressa sopra Querceto, base di reclutamento e punto d’appoggio dei partigiani, nel quale viene garantito quotidianamente riparo e continuo ristoro tanto ai comandi che al gran numero di reclute che da Sesto si avviano sulla montagna. Un impegno intenso e decisivo, quello dei Lastrucci, che costerà a questi, nella figura di Angelo, anche l’arresto e l’uccisione da parte tedesca. Ma nel piccolo abitato di Querceto non c’è di fatto un solo nucleo familiare che non sia impegnato a dare assistenza ai partigiani. Una solida tradizione antifascista e un tessuto sociale solidale uniti alla stessa ubicazione del borgo che, arroccato com’è su Morello, ne rende disagevole l’accesso ai mezzi pesanti nemici, offrono le condizioni ideali per fare di Querceto un punto logistico fondamentale per l’organizzazione partigiana locale. Concorrono in questo anche i rappresentanti del clero locale nelle figure di don Severino e don Eligio Bortolotti, parroci della chiesa di Querceto, impegnati nell’assistenza e nel supporto ai partigiani, sforzo che al secondo costerà il 6 settembre del 1944 l’arresto e l’uccisione per mano dei tedeschi.

Così come dalla montagna, anche dalla piana fiorentina le prime bande di Morello ricevono assistenza fondamentale. Rifornimenti di generi alimentari da forni e cooperative di consumo, vestiario e scarpe da negozi e da singole famiglie, forniture d’ogni tipo da botteghe e officine affluiscono così a Querceto da tutta l’area sestese e anche al di fuori di essa, grazie alle ramificate trame dell’organizzazione antifascista locale. A mezzo dei contatti stabiliti con alcuni industriali tessili di Prato giungono ad esempio partite di coperte da inviare in montagna, mentre dalla Manifattura Tabacchi di Firenze operaie coraggiose come Corinna Pratesi si adoperano sottraendo dalla produzione piccoli quantitativi di sigarette che poi, tramite i compagni di Sesto, vengono fatte giungere ai partigiani di Monte Morello.

Ancora da Sesto e dalla piana affluiscono tramite Querceto ai partigiani di Morello anche armi e munizioni. A seguito di un accordo con un ufficiale dell’Autocentro dell’esercito, già dopo l’8 settembre giunge un primo carico di dotazioni militari che, scaricato tra Querceto e Settimello, è poi portato alla Cipressa. Altre armi vengono invece recuperate attraverso due militari in servizio al polverificio industriale dei fratelli Faini su Monte Morello, mentre le cave di pietra che si trovano a monte di Querceto vengono spesso usate dai partigiani per collaudare le armi, alcune delle quali sono mandate in riparazione a meccanici di fiducia di Sesto. Il resto che ancora necessita alle bande viene da queste sottratto nel corso dei primi assalti compiuti contro depositi e presidi militari, come avviene il 22 settembre 1943 a opera di uomini della formazione del Bini che dalla caserma di via S. Caterina da Siena a Sesto asportano, oltre a vestiario e materiale vario, 150 moschetti e un fucile mitragliatore.

Monumento-a-Checcucci

La targa posta nei pressi di Ceppeto che commemora la morte di Giovanni Checcucci, il primo partigiano caduto su Monte Morello (Fonte: resistenzatoscana.org)

Grazie alla rete di assistenza che garantisce loro la popolazione locale e ai proventi dei primi colpi, le bande di Morello a partire da ottobre possono così organizzare le prime azioni militari. Si tratta più che altro di sabotaggi alle linee telefoniche e alle vie di comunicazione, di interruzioni stradali e del disarmo di pattuglie tedesche e fasciste che transitano lungo le direttrici che lambiscono o si inerpicano sui rilievi di Morello. Seguono così i primi scontri a fuoco con il nemico, nei quali si registrano anche le prime perdite. Il 14 ottobre 1943, un reparto della GNR di Firenze in rastrellamento nell’area di Ceppeto impegna in un conflitto a fuoco un gruppo di partigiani. Al termine della sparatoria rimangono a terra sul campo un milite fascista e Giovanni Checcucci, un operaio comunista della fonderia del Pignone, classe 1906, che nell’aprile del 1939 era stato condannato dal Tribunale Speciale a sei anni di reclusione e che dopo l’8 settembre era stato tra i primi a salire su Monte Morello: di fatto è il primo caduto nelle file del partigianato fiorentino.  Il 21 novembre successivo, presso la Piazzola di Baroncoli, alle propaggini meridionali di Morello che degradano verso Calenzano, due partigiani armati di moschetto si imbattono e disarmano un tenente della milizia. Il miliziano, spogliato della propria pistola d’ordinanza, estrae però una seconda arma e apre il fuoco. Rimane così ucciso uno dei due partigiani, Sirio Romanelli, un giovane fiorentino classe 1924, mentre il giovane compagno, prima di darsi alla fuga, riesce a contrattaccare, ferendo gravemente il miliziano.

Azioni come queste che si protraggono ancora tra novembre e dicembre danno la sensazione che Monte Morello sia oramai base di un gran numero di partigiani; numero che, nelle voci che si propagano incontrollate di bocca in bocca, viene distorto sino ad assumere proporzioni spropositate: «Sono in mille, su Monte Morello», annoterà il partigiano Gianfranco Benvenuti nelle sue memorie riferendo tali sensazionalismi e aggiungendo come qualcuno fosse persino disposto a scommettere che fossero in realtà «diecimila».[10] Ciò, se da un lato contribuisce a corroborare la risonanza di cui la resistenza in armi gode nei settori dell’opinione pubblica popolare e antifascista fiorentina, finisce però per amplificare i timori degli avversari, attraendo così sui partigiani di Morello l’azione repressiva delle forze nazifasciste. Già il 9 novembre, in segno di rappresaglia per l’eliminazione a Sesto di una spia fascista e di un graduato repubblichino compiuta da alcuni partigiani scesi da Monte Morello, i militi fiorentini rastrellano la popolazione di Sesto, ricercando gli oppositori noti, ferendone alcuni e uccidendo un passante. La strategia repressiva delle forze di polizia, prima ancora di imbastire vere e proprie azioni di controguerriglia lungo tutto il massiccio montuoso, si affida soprattutto al lavoro di spie e delatori che cominciano a infiltrarsi nei gruppi partigiani di Morello. Ancora in novembre, a causa della delazione di una spia – il tenente Nino Foini – il gruppo partigiano dei fratelli Fondi viene di fatto scompaginato e tre suoi componenti (Aldo e Luigi Mordini, Luigi Latini) arrestati, incarcerati e torturati.

Esposte così alla minaccia di rastrellamenti e di infiltrazioni nemiche, con l’arrivo della stagione invernale 1943-44 le bande di Morello sono costrette a riconsiderare le condizioni che le avevano spinte ad aggregarsi sul rilievo. La vicinanza alla piana fiorentina, fondamentale per garantire rifornimenti continuativi soprattutto adesso che con l’inverno le scorte si riducono e la montagna ha sempre meno da offrire, diviene sempre più un fattore di rischio a fronte del consolidarsi dell’azione repressiva nazifascista. È così che alcune delle bande superstiti decidono di avviare degli spostamenti che, a tappe successive, le porteranno a sganciarsi da Monte Morello.

Monte Morello

Partigiani su Monte Morello (1944). Il secondo il terzo e il quarto da sinistra sono rispettivamente: Aldo Melani “Gimmi” Egizio Fiorelli “Baffo”, Silio Fiorelli “Saltamacchie” (Fonte: ANPI Firenze – sezione Oltrarno)

La banda di Lanciotto, come noto, alla fine di dicembre del 1943, traversando la Val di Marina, passerà sui monti della Calvana seguendo un itinerario che l’avrebbe dovuta portare a congiungersi sull’Appennino pistoiese con le formazioni al comando di Manrico Ducceschi “Pippo”, se non fosse incappata il 3 gennaio del 1944, durante una sosta a Valibona, nell’accerchiamento dei militi repubblichini, lasciando caduti sul campo Lanciotto Ballerini e altri due componenti del gruppo. Sempre in dicembre, anche la formazione del Bruschi, assunta nel frattempo la denominazione di distaccamento Siro Romanelli in onore del giovane caduto a Baroncoli, inizierà lo spostamento nella zona di Bivigliano-Montescalari, pur lasciando su Morello una propria squadra per accogliere le nuove reclute che da Sesto e da altri comuni della piana continueranno a salire in montagna. Dopo l’esito infausto di Valibona, anche quel che rimane della formazione originaria di Lanciotto ritornerà su Monte Morello ricostituendosi in un gruppo al comando di Renzo Ballerini, fratello di Lanciotto, che manterrà come denominazione il nome di quest’ultimo. Rimangono invece nell’inverno 1943-44 su Morello i gruppi comandati da Marino Cosi e da Bruno Bini. A questi si dovranno tra gennaio e fine marzo del 1944 gli ulteriori colpi che la resistenza fiorentina riesce ancora ad assestare nell’area, non sempre per la verità con esito indolore, come in occasione dell’attacco alla stazione di Montorsoli del 4 aprile 1944 che registrerà la morte di tre componenti del gruppo del Cosi. Tuttavia, con l’avvio del grande ciclo di rastrellamenti antipartigiani dell’aprile 1944 l’organizzazione armata fiorentina riceverà un colpo durissimo proprio su rilievi di Morello dove gli uomini della Hermann Göring nel lunedì di Pasqua del 1944 si rendono protagonisti di rastrellamenti e uccisioni gratuite di civili a Cerreto Maggio, Cercina e Morlione. Anche i gruppi del Bini e del Cosi saranno così costretti a sganciarsi, prima seguendo le altre formazioni fiorentine nello spostamento verso il Falterona, poi attestandosi, il primo, sull’Appennino nei pressi di Firenzuola e, il secondo, su Monte Giovi. Faranno quindi ritorno su Morello per organizzare la fase offensiva finale della liberazione di Firenze e della piana, che affronteranno unendosi assieme e dando origine alla Brigata Garibaldi Bruno Fanciullacci.

Culla delle prime bande fiorentine, teatro di numerose  azioni e di diversi scontri tra partigiani e nazifascisti (con l’ultimo tra questi, in ordine di importanza, consumatosi il 14 luglio 1944 agli Scollini, presso la Fonte dei Seppi, dove 13 partigiani della Fanciullacci caddero combattendo con i tedeschi), Monte Morello reca ancora oggi visibili le tracce storiche della sua centralità nella storia della resistenza fiorentina, a partire dai circa 30 tra cippi e monumenti che costellano a futura memoria il suo territorio.[11] Montagna dei fiorentini per antonomasia, Morello è stata anche la montagna dei primi partigiani fiorentini ma anche – per usare l’espressione di uno di essi – «l’officina dei partigiani toscani».[12] Dalle prime bande che qui si costituirono all’indomani dell’8 settembre del 1943, sarebbero infatti nate attraverso successive dispersioni e riaggregazioni dei loro organici alcune delle principali Brigate che, come la 22° Lanciotto Ballerini, la 10° Caiani o la stessa Bruno Fanciullacci, avrebbero operato nei mesi centrali del 1944 sui monti del fiorentino e dell’Appennino toscano, rendendosi poi protagoniste in agosto della liberazione di Firenze.

[1] D. Livio Bianco, Guerra partigiana, Einaudi, Torino, 1973, pp. 9-10.

[2] AISRT, Fondo Interviste e trascrizioni, b. 1, fasc. 11 Tagliaferri Gino, II Parte della testimonianza di Gino Tagliaferri, s.d., p. 5.

[3] Giuseppe Tarchiani, La scelta di Beppe. Diario di un partigiano delle brigate Lanciotto e Caiani, Sarnus, Firenze, 2012, pp. 22-23.

[4] AUSSME, Fondo Diari Storici, b. 1243, Distaccamenti di lavoro pg. nella provincia di Firenze, l’Ufficio Prigionieri di Guerra dello Stato Maggiore dell’Esercito al Comando difesa territoriale di Firenze, 12 marzo 1943 (documento consultabile su: www.campifascisti.it)

[5] D’Arcy Mander, Mander’s March on Rome, Gloucester, Alan Sutton Publishing, 1987, p. 72.

[6] Stuart Hood, Pebbles from my skull, London, Quartet Books, 1973, poi riedito col titolo di Carlino, Manchester, Carcanet, 1985.

[7] Il gruppo costituirà poi la Compagnia “F” della 1° Divisione Giustizia e Libertà, cfr. AISRT, Fondo Resistenza armata, b. 2, Fasc. “Divisione GL, Cp. F – Sesto F.no”, relazione sull’attività svolta dalla compagnia F, 9 settembre 1944.

[8] Testimonianza di Leandro Agresti in Avevamo vent’anni, forse meno. Provavo una gioia immensa perché nello stesso momento in cui io davo la libertà agli altri la davo anche a me stesso, a cura di Riccardo Bussi, Silvia Cappelli, Francesco Fortunato, ANPI Sezioni di Brozzi, E. Rigacci e Peretola, s.d., p. 27.

[9] Testimonianza di Giulio Bruschi in Più in là, p. 99.

[10] Gianfranco Benvenuti, Ghibellina 24. Cronaca di fatti memorabili per la storia della Resistenza fiorentina, Carlo Zella Editori, Firenze, 2015, p. 35.

[11] David Irdani, Monte Morello: la cima dei partigiani di Firenze, in «Patria indipendente», n. 4, ottobre 2012, p. 24-26.

[12] Testimonianza di Leandro Agresti in Avevamo vent’anni, forse meno, cit. p. 28.




“In circostanze mai chiarite”

Silvano Fedi è con ogni probabilità il partigiano più noto e discusso dalla letteratura storica locale, nonché uno dei personaggi di maggiore spicco nella memoria collettiva della città di Pistoia. Il suo riconoscimento pubblico si ebbe nell’immediato dopoguerra, prima con il conferimento della medaglia d’Argento al Valor Militare, poi con l’intitolazione di un istituto scolastico, di un’associazione sportiva, infine di una piscina e di un corso centrale. Negli ultimi anni, un film (Pistoia 1944. Una storia partigiana) e uno spettacolo teatrale (Una vita per un’idea. La storia di Silvano Fedi) hanno raccontato i suoi ultimi mesi di vita e il suo impegno nella Liberazione. A poca distanza, il riconoscimento del titolo di cittadino illustre, disposto dal consiglio comunale di Pistoia nel 2020, e la recente costruzione di una tomba monumentale (2022) hanno riacceso l’interesse generale per sua persona

Allo stesso tempo, attorno a Silvano Fedi si è sedimentata una sorta di aura mitica, alla quale ha contribuito la ricostruzione storica e memoriale basata sulle circostanze «mai chiarite» della sua uccisione. Queste ultime, ad oggi, possono essere riassunte come segue: più o meno alle 14:00 del 29 luglio 1944, in località Montechiaro (tra Serravalle e Pistoia) le Squadre “Franche” comandate da Fedi furono coinvolte in uno scontro a fuoco da ingenti forze del Pionier-Bataillon 60, un reparto del Genio che dipendeva dal vicino comando del 14. Panzerkorps (localizzato nei pressi di Marliana). I tedeschi uccisero Fedi e altri due membri dello Stato maggiore delle Squadre, uno dei quali venne fatto prigioniero e giustiziato in un secondo momento. Da qui in poi hanno inizio i problemi.

Per molti tra i partigiani e i civili testimoni di quei fatti e gli studiosi che si interessarono alla vicenda nel dopoguerra, quello tra le unità di Silvano Fedi e i tedeschi non fu un incontro casuale, bensì frutto di una delazione; nacque così la teoria di un vero e proprio «agguato», congegnato ai danni della formazione partigiana e del suo comandante. L’idea di una “soffiata” ai danni di Fedi è stata, a un tempo, attribuita a un gruppo di ladri che si erano finti membri della sua formazione oppure, secondo un’altra ipotesi, a «persone che contavano, probabilmente interne alla stessa Resistenza [pistoiese]», che avevano creduto di potersi sbarazzare di «un personaggio scomodo [e] protagonista indiscusso della lotta partigiana». La letteratura storica pistoiese ha avallato ognuna di queste possibili teorie nel corso degli anni e con esse le numerose – e spesso non contestualizzate coi metodi propri della storia orale – testimonianze oculari di chi era presente il giorno in cui Fedi veniva ucciso dai tedeschi. I rapporti che egli aveva intrattenuto con una figura di grande ambiguità come Licio Gelli, il cui peso nella storia italiana successiva ha contribuito a far crescere l’alone di mistero, hanno fatto il resto. Le numerose ipotesi e la relativa sovrapproduzione di materiale secondario hanno così finito col precludere una qualsiasi ricostruzione efficace e scientificamente corretta dell’uccisione del partigiano pistoiese.

Una lacuna particolarmente sensibile in questo quadro generale è quella della documentazione tedesca, che fino a ora è stata utilizzata in modo molto scarno o approssimativo. Un modo per rimettere “in ordine” l’intera vicenda potrebbe essere proprio quello di ripensare l’attacco tedesco a Montechiaro prendendo in esame uno spettro più ampio di fonti e provando a ricostruire i fatti dall’inizio, tenendo come punti fermi genealogia e contesto degli eventi. La domanda iniziale e centrale che ci dobbiamo porre è la seguente: può una delazione essere l’unica ragione logica in grado di spiegare la presenza di un battaglione tedesco a Montechiaro il 29 luglio 1944?

Il 25 luglio la formazione di Fedi aveva iniziato lo spostamento delle Squadre Franche verso il Montalbano per compiere azioni di disturbo e sabotaggio contro le truppe che si stavano ritirando sotto la pressione alleata. Il piano era stato concordato il giorno precedente nel corso di un incontro con esponenti del CLN locale, in particolar modo del Partito comunista italiano e del Partito d’Azione. Dunque le premesse sono quelle di una operazione di guerriglia contro l’occupante, in linea con quanto stava accadendo nelle «aree vicine al fronte», dove i tedeschi avevano notato un incremento sensibile dell’attività partigiana. Questa situazione, nel corso dell’estate, aveva già spinto i comandi militari a dare il via a tre grosse operazioni «contro le bande» (nomi in codice «Wallenstein») sull’Appennino tra la Garfagnana e il Modenese e ad intensificare la pressione sulle retrovie con tutti i reparti della Wehrmacht e della polizia disponibili. La prima ipotesi che sembra logico prendere in considerazione è perciò quella di un rastrellamento preventivo, i presupposti per il quale, anche con l’utilizzo di numeri non indifferenti di uomini da parte dei Comandi superiori, ci sarebbero tutti: il fronte arretrava rapidamente e l’attività partigiana nei pressi della Linea Gotica stava aumentando; c’è poi da tenere conto del dilagare della cosiddetta «psicosi delle bande», che da sola stava mettendo in seria difficoltà i nervi delle truppe tedesche, ossessionate e convinte che «alle [loro] spalle ci fosse un esercito partigiano» e di essere costantemente «in trappola. Come a Stalingrado». A questo proposito, va però aggiunto che la lotta antipartigiana in Italia può essere solo parzialmente ricondotta a un fenomeno di isteria da parte nei confronti della Resistenza in armi. La «psicosi delle bande» è uno dei tanti fattori che possono contribuire a contestualizzare la vicenda e, nel nostro caso, non è comunque l’elemento predominante

La ricerca sulle mappe del fondo «RH 2-KART/OKH» del Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo ha finora portato alla luce un solo nuovo elemento, ancorché molto significativo. A fine luglio, un’intera divisione meccanizzata tedesca (la 90. Panzer-Grenadier-Division) aveva ricevuto l’ordine di trasferirsi dal fronte alle retrovie, per l’esattezza nei pressi di Modena. L’intero reparto raggiunse la Valdinievole proprio la mattina del 29 luglio 1944, per poi attraversare il Serravalle e cominciare risalire l’Appennino nelle ore successive. Al momento non è possibile stabilire se qualche reparto della divisione abbia partecipato o meno ai combattimenti di Montechiaro, ma la sua presenza servirebbe a spiegare una maggiore attenzione dei comandi militari per le aree limitrofe.

Va poi preso in esame un altro dettaglio, forse tra i più esacerbati da parte delle ricostruzioni sull’uccisione di Fedi proposte finora. Nel dopoguerra, in molte delle testimonianze rilasciate dagli ex-partigiani pistoiesi si può riscontrare un certo accordo sul fatto che quella dei tedeschi fosse stata un’imboscata preparata in modo tale da colpire il nucleo delle Squadre. Questa osservazione però non è mai stata vagliata criticamente, sebbene ci sia tanto da dire su di essa, a partire dal fatto che chiunque venga colto di sorpresa in un conflitto a fuoco abbia quasi sempre la percezione di essere stato messo in trappola. Né si è tentato di elaborare ulteriormente uno dei bollettini dell’Armeeoberkommando 14, già noto, nel quale si legge che il 29 luglio furono le truppe tedesche a subire un attacco dai partigiani e non il contrario. Cosa non difficile da credere, se si pensa che nelle relazioni delle Squadre Franche si fa menzione di un altro conflitto a fuoco, avvenuto quella stessa mattina e che ebbe come protagonista una delle pattuglie poste da Fedi a copertura del centro della formazione. Il comandante partigiano non era stato messo a conoscenza di questa prima schermaglia, ma se assumiamo che questo scontro abbia effettivamente avuto luogo (fatto del quale ci danno conferma sia la relazione delle Squadre Franche che i documenti tedeschi), ciò potrebbe anche suggerire un’altra spiegazione ai fatti di quel giorno. In breve, l’incontro tra i pionieri e la formazione partigiana potrebbe essere avvenuto a seguito della battaglia mattutina, la quale avrebbe poi spinto le unità del Pi. Batl. 60 a indagare più a fondo nelle zone a sud di Pistoia. Un altro dettaglio a questo proposito è costituito dalle operazioni alle quali era stata originariamente destinata l’unità responsabile dell’uccisione di Fedi: il 29 luglio 1944, infatti, i pionieri del 14. Panzerkorps dovevano minare un tunnel ferroviario nei pressi di Serravalle insieme a una unità del Genio ferroviario, la Eisenbahn-Pionier-Kompanie 84. In questo documento non si parla né di rastrellare una precisa area, né tantomeno di dare la caccia a una specifica squadra partigiana, il che alimenta l’ipotesi (pur senza confermarla) di un incontro avvenuto per caso o a seguito di un attacco della pattuglia di Fedi a una delle due formazioni nemiche (se non a entrambe). 

Le testimonianze di chi era presente quel giorno a Montechiaro concordano poi su un altro dettaglio, ovvero che i tedeschi sapessero «senz’altro dove andare» e che quindi avessero puntato direttamente sul luogo dove si trovava il grosso della formazione partigiana. Tuttavia, anche questo racconto dovrebbe essere analizzato in maniera più critica alla luce di due considerazioni: la prima è che le truppe di occupazione, soprattutto i reparti del Genio, conoscevano e avevano cartografato la zona periferica di Pistoia da circa un anno (lo stesso Pionier-Bataillon 60 era già stato di stanza a Pistoia nell’autunno del 1943, alle dipendenze della 44. Infanterie-Division); in secondo luogo, non si è mai presa in esame la possibilità che la zona tra Vinacciano e Serravalle potesse avere una qualche importanza strategica per i tedeschi. A questo proposito, vale la pena ricordare la presenza della tratta ferroviaria che da Pistoia conduce ancora oggi a Montecatini e il fatto che le medesime unità della Eisenbahn-Pi. Kp. 84 avevano sondato più volte quell’area nei mesi di giugno e luglio. Quello che è certo, dunque, è che nell’estate del 1944 quella zona possedeva ancora una grande importanza per le forze armate dell’occupante. 

Alcuni appunti finali. Il giorno successivo all’uccisione di Fedi, il 30 luglio 1944, il Pionier-Bataillon 60 venne inviato a rastrellare tutto il territorio compreso tra Vinacciano e la zona a sud di Prato. Il risultato complessivo di questa azione fu di settanta uomini catturati, tra i quali «otto noti capibanda» e, nel solo Pratese, di 146 persone. Al momento non è dato sapere se questo tipo di operazione fosse o meno una risposta ai fatti di Montechiaro e, più precisamente, al rinvenimento dei famosi «documenti importanti» sul corpo di Silvano Fedi. Tuttavia, come si è avuto modo di leggere, l’utilizzo di un ventaglio più largo di fonti fa già assumere alle «circostanze mai chiarite» un significato diverso: unite alle testimonianze orali del periodo, che dovranno essere esaminate di nuovo e con criteri diversi, e alla letteratura che finora è stata prodotta su Fedi e sulle sue Squadre Franche, le carte tedesche possono apportare un contributo nuovo e determinante alla ricostruzione di un quadro storicamente corretto delle vicende del 29 luglio 1944.

Note: Sono stati consultati i seguenti fondi: Aisrpt, Fondo Relazioni, Relazione delle Squadre Franche a carattere patriottico, Gruppo “Silvano”; Aisrt, microfilm (US-NARA) T-312, Roll 491, f. 8.084.451, Armeeoberkommando 14, Pi. Tagesmeldungen 1 Jul.-30 Sep. 1944; BA-MA, RH 2/663, fo. 0128, Oberbefehlschaber Südwest, bollettini mattinali dell’Ufficio operazioni Ia e bollettini dell’Ufficio informazioni Ic, giugno 1944; BA-MA, RH 2/9693 K, Morgenmeldungen, Lagerkarte (mappa) del 29 luglio 1944; BA-MA, RH 24-14/153: Armee-Pionierführer (A.Pi.Fü.). Pionier-Tagesmeldungen, messaggi e bollettini delle truppe del Genio, 1° luglio-30 settembre 1944

Edoardo Lombardi è dottore magistrale in Scienze storiche presso l’Università degli Studi di Firenze. Dal 2018 collabora con l’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia (Isrpt), per il quale svolge attività di ricerca e di didattica sul territorio. Nel 2020 entra a far parte della redazione del periodico dell’istituto, «Farestoria. Società e storia pubblica». I suoi interessi di studio riguardano soprattutto la storia culturale della Germania e dell’Italia in Età contemporanea. Per conto dell’Isrpt sta attualmente svolgendo una ricerca sull’occupazione tedesca di Pistoia. Tra i suoi lavori, segnaliamo “Uno stato senza nazione. L’elaborazione del passato nella Germania comunista” (Unicopli, 2022). 



LIVORNO 25 LUGLIO 1943: cadono le bombe, cade il Regime.

Ultimi scoppi lontani e chiarori d’incendi.
Poi il cielo ritorna silenzioso e stellato, dopo un’ora di tregenda provocata
dall’aviazione inglese, un’ora che è sembrata un’infernale eternità.
(Gastone Razzaguta, 25 luglio 1943)

La data del 25 luglio 1943, passata alla storia nazionale per la crisi del regime fascista e le dimissioni di Mussolini, a Livorno è ricordata per il pesante e luttuoso bombardamento subito dalla città nella notte del 24 sul 25; poco nota è invece la circostanza per la quale tra i due eventi vi era una diretta correlazione.
Innanzi tutto, va precisato che l’incursione non fu “americana” ma inglese: anche le storiche Michela Ponzani e Laura Fedi hanno ripetuto in tempi recenti l’erronea paternità, nonostante che quella corretta fosse stata già indicata dal memorialista locale Gastone Razzaguta nel 1948 e dallo storico dell’aviazione Giorgio Bonacina nel suo saggio del 1970. D’altronde, è notorio che i bombardamenti notturni sull’Italia erano prerogativa strategica della Raf mentre quelli diurni dell’Usaaf.
Avro LancasterAll’origine del bombardamento vi era l’annullamento della “Operazione Dux” progettata del capo del Bomber Command della Raf, l’air chief marshal Arthur Travers Harris, intenzionato ad eliminare il duce con un bombardamento di precisione sulle sue residenze romane (Villa Torlonia e Palazzo Venezia).
Ancor prima di un pronunciamento del primo ministro britannico, nonché ministro della difesa, Winston Churchill, su ordine di Harris furono dislocati due squadron nell’aereoporto di Blida, in Algeria, dove erano giunti dall’Inghilterra il 17 luglio, dopo aver sganciato le proprie bombe su Arquata Scrivia, San Polo d’Enza, Reggio Emilia e Bologna, mirando alle centrali elettriche.
I due squadron – tra cui il 617°, famoso per la demolizione delle dighe tedesche sui fiumi Eder, Sorpe e Mõhne – erano inizialmente composti da 24 (12+12) bombardieri quadrimotori Avro 683 “Lancaster” e, una volta atterrati a Blida in 22, rimasero in attesa di ordini, venendo nuovamente caricati di bombe, finchè giunse da Londra il contrordine di Churchill, dopo il parere negativo anche del ministro degli esteri Eden. Nel frattempo atterrarono a Blida altri 16 “Lancaster” reduci dal bombardamento sulle centrali elettriche di Cislago Laghetto e Brughiero, aggiungendosi ai due squadron.
L’esito della progettata missione sulla Capitale appariva incerto e rischioso – anche per la presenza del Vaticano – e comunque poteva rivelarsi controproducente in una fase agonica del regime; inoltre, nel giorno previsto per l’azione (19 luglio), il duce sarebbe stato a Feltre per incontrare Hitler. L’Operazione Dux fu dunque annullata, anche se nello stesso giorno Roma fu pesantemente colpita da due bombardamenti diurni statunitensi.
Gli squadron inglesi rimasero quindi a Blida in attesa di direttive, finchè non giunse l’ordine per il rimpatrio dei velivoli, con strike su Livorno lungo la rotta di rientro verso la Gran Bretagna.
Fu così che a Livorno alle ore 0,19 del 25 luglio suonò l’allarme e la gente corse nei rifugi antiaerei, mentre a bordo dei 33 Lancaster i puntatori si predisponevano ad individuare gli obiettivi nell’area portuale-industriale, non particolarmente preoccupati della reazione antiaerea.
Paradossalmente, le bombe in origine destinate a Mussolini fecero correre qualche rischio alla figlia Edda che si trovava in vacanza con i figli presso la villa dei Ciano ad Antignano, tanto che nelle sue memorie ricordò di aver veduto «incendi dappertutto».
porto di Livorno sotto le bombeSecondo le diverse relazioni delle autorità civili e militari, «rotearono sulla città per circa 35 minuti e lanciarono numerosi artifici illuminanti, seguiti da sgancio di bombe e numerosi spezzoni incendiari da quota variabile da 1700 a 5200 metri». Furono lanciate circa 200-300 bombe per un totale approssimato di 85 tonnellate, ossia un carico ridotto rispetto a quello massimo consentito, in quanto gli aerei trasportavano il carburante necessario per raggiungere l’Inghilterra, ma anche arance e pompelmi algerini.
L’elenco delle distruzioni e dei danni conferma la prevalente intenzione di colpire le strutture del porto, il silurificio Moto Fides in via Salvatore Orlando e l’Anic, anche se con scarsi risultati. Presso la Stazione marittima furono gravemente danneggiati 4 carri merci, ma l’efficace intervento dei vigili del fuoco riuscì ad arginare il vasto incendio divampato nella zona portuale, mentre presso l’ANIC bruciarono alcuni depositi di petrolio e annessi baraccamenti. Lo stabilimento del Gommificio italiano in via delle Sorgenti andò completamente distrutto dalle fiamme; danneggiate anche alcune strutture produttive minori: i cortili dello stabilimento Fornace, la fabbrica della Borotalco sul Pontino, un laboratorio di dolciumi in via Pompilia.
Le perdite umane apparvero contenute, ma con un risvolto tragico: su 44 morti ben 43 vennero raccolte presso l’Istituto Maddalena, quarantuno bambini e due suore. Le persone ferite furono appena una decina, mentre invece gli edifici andati distrutti o lesionati più o meno gravemente apparvero molti – secondo i resoconti del Genio Civile rispettivamente 150 e 380 – sul Voltone, a Torretta, sugli Scali delle Cantine e in via Erbosa (l’attuale via Solferino) ma anche nei quartieri periferici di Sorgenti e Salviano, forse coinvolti per la prossimità di stabilimenti o per l’adiacenza della linea ferroviaria.
Colpito, inspiegabilmente – se non per la ferrovia – pure il borgo di Quercianella.
La città venne inoltre completamente paralizzata dalla distruzione dei servizi: acquedotto, energia elettrica, gas, linee telefoniche; gravemente colpito anche il palazzo delle Poste in piazza Carlo Alberto (l’attuale piazza della Repubblica).
Purtroppo, il peggio per Livorno doveva ancora venire.




“Frankie Goes To Leghorn”

Per i bombardieri americani e inglesi Livorno era solo una coordinata geografica: 43°33’ latitudine nord, 10°18’ longitudine est sul Mar Ligure, costa occidentale della penisola italiana. Un’espressione geografica da bombardare, per costringere i tedeschi ad andarsene. E fu così che dal giugno 1940 al luglio 1944 furono 116 i bombardamenti che colpirono e distrussero gran parte della città. Ben 90 di queste incursioni aeree, le più terribili, furono concentrate tra il 28 maggio del 1943 e il 7 giugno del 1944.

Alla fine la città fu liberata ma il prezzo pagato fu altissimo. I bombardamenti causarono la morte di 1.400 persone tra civili e militari, migliaia furono i feriti, anche la paura era una ferita difficilmente rimarginabile, molti, un numero ignoto, i dispersi; e fu completamente distrutta la zona industriale e portuale della città, e poi le case: furono circa ventimila i vani di abitazioni distrutti, oltre trentamila quelli gravemente lesionati.

Dopo poco più di un mese dall’ultimo terrificante bombardamento del 7 giugno, era la mattina del 17 luglio del 1944, un lunedì, le avanguardie della 34ª divisione “Red Bull” andarono in avanscoperta, con grande cautela, per le strade di una città di fantasmi. Ma la vera liberazione di Livorno avvenne due giorni dopo, il 19 luglio 1944, quando in città entrano i tanks e le jeep americane e le formazioni partigiane che aveva combattuto duramente per liberare Livorno; la popolazione potè finalmente invadere le strade e gioire per un incubo cessato.

Livorno liberata vive e lotta per la sopravvivenza. Quando arriva il generale Mark Clark al comando della Quinta Armata, trasforma Livorno in Leghorn e, dal 1° settembre 1944, nomina il porto labronico come Decimo Porto (10th Port) ovvero distaccamento del Genio USA per le Opere Marittime oltremare.

Circolano le AM lire: il dollaro costa 100 lire, la sterlina 500 lire. Il Governo militare alleato è ai Casini d’Ardenza mentre a Villa Trossi c’è l’Ufficio del Lavoro. In tutta la città ci sono italiani, americani, inglesi, brasiliani, truppe coloniali e prigionieri tedeschi. Nelle strade transitano jeep, dodges, trucks; gli incidenti stradali sono all’ordine anche perché gli autisti, i driver, vanno veloci e spesso sono ubriachi. Sparse su tutto il territorio cittadino ci sono baracche e costruzioni che ospitano le truppe e generi di ogni tipo.

Con l’esercito alleato arrivano anche affaristi privi di scrupoli, ladri, imbroglioni, prostitute e protettori. I berretti rossi della polizia militare inglese e i caschi bianchi della polizia militare americana cercano di porre un freno alla criminalità nascente e al traffico clandestino di merci e materiali USA.

A nord della città la pineta di Tombolo è già tristemente nota come “paradiso nero”. Lo scrittore Nicholas Fersen, nel prologo al suo romanzo “Tombolo” scrisse: «e Tombolo giace là di fronte al mare, inscrutabile, orrida e misteriosa, tenacemente incollata con la sua miseria, la sua storia, alla coscienza degli uomini». Lì, dove sarebbe sorto nel 1951 Camp Darby, base USA per il sud dell’Europa, si compiono traffici illeciti, mercato nero, vi si rifugiano i disertori, centinaia di “segnorine” si prostituiscono.

Con gli americani arriva anche la Coca Cola, il chewing-gum; diventano famosi sport come il basket e il baseball; si ballano e si suonano i ritmi musicali come il boogie-woogie, il blues, e una strana musica: il Jazz. Anche se Livorno aveva sentito questa musica nelle sue prime forme: già negli anni venti e trenta del ‘900 si erano formate molte jazz band. La musica, i nuovi ritmi, ai musicisti livornesi, così come tanti altri musicisti di altre città italiane, soprattutto portuali, erano conosciuti perché alcuni erano emigrati in America, ma anche perché il jazz attinge da tante altre forme musicali come la musica bandistica (a Livorno erano molte le bande musicali attive) la classica, la musica da ballo che a Livorno erano già diffuse all’inizio del ‘900 e che “viaggiavano” costantemente con le navi attraverso l’oceano. Il jazz che i livornesi ascoltano negli anni ’40 e ’50, è quello suonato dalle band al seguito dei militari Usa, ed è il jazz moderno, anche se non c’è una frattura netta fra il prima, degli anni ’20 e ’30, e il dopo in quello che ascoltavano.

Livorno diventa anche crocevia delle star internazionali che incontrano e si esibiscono per le truppe angloamericane. Nella primavera del 1945, Marlene Dietrich, indimenticabile interprete de L’Angelo Azzurro e de La Taverna dei Sette Peccati, partecipa ad alcuni recital cantando per i soldati americani e inglesi feriti in combattimento e ricoverati in ospedali da campo a Livorno: gli inglesi sono a Villa Mimbelli, gli americani a Villa Corridi.

In estate è la volta di Francis Albert Sinatra, noto come Frank Sinatra o con il solo nome, cantante di origine italiana, non ancora “The Voice” ma già famoso nel suo paese, che canta in piazza Magenta di fronte ai soldati americani. Dopo di lui arriverà anche una giovane, non ancora trentenne e già famosa, Ella Fitzgerlad che si esibirà nell’ex Dopolavoro della Società Metallurgica Italiana di via Micali divenuto sede della Red Cross Club (Croce Rossa americana).

 Il Concerto in Magenta Square

 È il 7 luglio, un sabato, ed è l’ultima tappa del Tour USO 1945. Questi Tour sono organizzati dalla United Service Organizations Inc. (USO), una società di beneficenza americana senza scopo di lucro che offre intrattenimento dal vivo con celebrità di Hollywood (comici, attori e musicisti) ai membri delle forze armate degli Stati Uniti e alle loro famiglie, durante la guerra. Lo scopo è di «portare a casa i ragazzi, alla loro casa». Tra il 1941 e il 1945, l’USO mise in piedi 293.738 spettacoli in vari continenti.

Quel sabato pomeriggio, lì sul palco, assieme a Frank Sinatra c’è un giovanissimo pianista, Saul Chaplin, che non era figlio del grande Charles Chaplin “Charlot” come qualcuno, sbagliando, l’ha indicato nell’annotazione che accompagna la storica e unica foto del concerto di piazza Magenta. In realtà Saul Chaplin, il cui vero nome è Saul Kaplan, è nato a Brooklyn, New York, il 19 febbraio 1912, da famiglia ebrea di origine polacca, e ha frequentato la School of Commerce della New York University con l’intenzione di diventare contabile. Pianista autodidatta, ha guadagnato soldi per mantenersi agli studi suonando con band locali.

Saul era molto giovane quando a Livorno accompagnò al piano Sinatra. In seguito, fino alla sua morte avvenuta nel 1997, sarebbe diventato un famoso compositore di colonne sonore del cinema, vincitore di tre Premi Oscar per la migliore colonna sonora per i film Un americano a Parigi (1952);  Sette spose per sette fratelli (1955); West Side Story (1962) come produttore associato con Leonard Bernstein.

Sul retro della foto originale, l’unica che ritrae Sinatra e Chaplin sul palco, vi è l’annotazione che la pubblicazione della foto è autorizzata dal Pentagono con la seguente indicazione: «Se pubblicata, si prega di accreditarla come fotografia dell’esercito americano, scattata dal fotografo Barry Kramer, assegnato per realizzare foto per l’USO (United Service Organizations) oversears tour 1945».  Barry Kramer (1921- 1984) è stato uno dei fotografi più prolifici del suo tempo, conosciuto e venerato più dopo la sua morte che quando era in vita. Nato e cresciuto a New York City, Barry, dopo la laurea alla New York University in pubblicità, fu arruolato nell’esercito nel 1942 e assegnato al corpo fotografico dell’USO, sviluppando nei vari tour stretti rapporti con innumerevoli celebrità dell’epoca come Frank Sinatra, Perry Como, Judy Garland, Tony Bennett, Duke Ellington, Ella Fitzgerald; un’esperienza, questa, che in seguito lo portò a collaborare con importanti riviste come Life e National Geographic. Sue sono inoltre le foto più famose di musicisti jazz nelle loro esibizioni nei jazz club di fama mondiale: Basin Street East, The Village Gate, The Metropol.

Ma prima di ritornare al concerto di piazza Magenta, vediamo come e perché fu decisa la tournée di Sinatra a Livorno.

 L’antefatto

 Come C-4 (codice identificativo d’idoneità al servizio militare ma solo come ausiliario) Frank Sinatra non avrebbe dovuto svolgere il servizio militare almeno fino al 1945, per via di un timpano perforato.

Ma era il 1945 e la guerra mondiale non era ancora finita. Sinatra fu quindi chiamato per una nuova visita medica. «Devo andare all’ospedale militare del New Jersey per verificare la mia idoneità», dichiarò ai giornalisti che smaniavano per intervistare questo giovane cantante italo americano che stava avendo un enorme successo, soprattutto tra le ragazze. E dopo tre giorni di visite Frank a sorpresa fu classificato C-2A che significava che era dichiarato inabile al servizio militare e sarebbe stato quindi esentato anche dal servizio ausiliario.

Apriti cielo, la notizia destò un gran sollievo tra le ammiratrici, ma anche una valanga di proteste su alcuni giornali, uno dei quali aveva definito Sinatra un «cantante caramelloso», e soprattutto tra i giovani in guerra in Europa e le loro madri. Una delle quali scrisse al New York Time: «mi potete spiegare perché gli atleti, gli attori del cinema e del teatro sono così importanti che ci debba essere per loro una speciale dispensa dal servizio militare? ». Una lettera arrivò anche dai militari del padiglione 47-4 dell’Hospital Plant 4118 in Inghilterra che avevano letto che c’erano ragazze a casa che minacciavano perfino di uccidersi se Frank fosse stato arruolato: «ci sono milioni di soldati americani sotto le armi e ci si preoccupa e ci si dispera per un solo uomo?».

Il 5 marzo del 1945 la commissione di leva del New Jersey, sorpresa dalle tante proteste, dichiarò che c’era stato un disguido e che Frank doveva essere considerato ancora un C-4. George Evans, manager di Sinatra, per evitare altre polemiche annunciò che Frank aveva intenzione di fare subito un giro negli ospedali militari e che in giugno sarebbe andato a cantare per le truppe oltreoceano.

«Quando il manager di Frank mi chiese di mettere insieme uno spettacolo per fare il tour con Sinatra in Europa per sei settimane, mi sentii male – disse Phil Silvers, attore, cantante e amico di Sinatra: ero ancora in luna di miele con Jo Carroll […] ma Frank era un amico e non potevo dire di no”». Phil Silvers aveva anche riflettuto su come presentare Sinatra alle truppe, dopo tutte quelle polemiche: «Non potevo certo dire: ed ecco a voi, l’idolo della gioventù americana. Mi avrebbero tirato le gavette. Pensai e suggerì di presentarlo sfottendolo un po’. Lo avrei preso in giro per la sua magrezza, lo avrei schiaffeggiato, lo avrei intimidito con lo sguardo, tutto per scherzo ovviamente, poi avrei attaccato un mio pezzo suonando un clarinetto e storpiando le note […] e a questo punto credo, anzi sono certo, che i soldati chiederanno a gran voce di farlo cantare».

La cosa funzionò e così, con questa trovata, iniziò ogni concerto del tour del 1945: i soldati dopo aver riso della gag tra Silvers e Sinatra chiedevano a gran voce a Frank di cantare una delle sue canzoni più in voga. A Livorno la richiesta cadde su “Nancy with the Laughing Face” che Phil aveva scritto per la festa di compleanno della figlia di Sinatra. Almeno così si raccontava. In realtà il titolo originario era “Bessy with the Laughing Face”, ma quando Silvers, autore del testo, e Jimmy Van Heusen, autore della musica, la cantarono alla festa di compleanno, sostituendo a Bessy il nome della figlia di Sinatra, Nancy, Frank si commosse, pensando che fosse stata scritta apposta per la festa di sua figlia. La verità era però che Silvers e Heusen avevano composto la canzone per il compleanno della moglie, Bessie, del compagno di scrittura di Van Heusen, Johnny Burke. Il titolo, con Nancy, fu poi registrato da Sinatra per la Columbia nel 1944, e così è conosciuto.

La tappa livornese di Sinatra fu l’ultima del 1945 Overseas USO (United Service Organizations) Tour, organizzato dal Comando USA per intrattenere soldati americani di stanza a Terranova, nelle Azzorre, nel Nord Africa e, appunto, in Italia con i concerti a Roma, Capua (Caserta), Cerignola (Foggia), Venezia, Milano, Pomigliano d’Arco, Capri, Bari, Foggia, Manduria (Taranto) e, appunto, Livorno, l’ultima data prima di ritornare in America.

Insieme a Sinatra e al pianista e compositore Saul Chaplin, saliranno sul palco il comico e amico di Frank Phil Silvers, all’anagrafe Philip Silver (il suo nome è iscritto tra le celebrità della Hollywood Walk of Fame. Silvers fu doppiato dall’attore livornese Stefano Sibaldi nei film: La signorina e il cow-boy, Fascino e Sesta colonna, e da un altro attore livornese Carlo Carletto Romano per  20 chili di guai!…e una tonnellata di gioia); con loro Fay McKenzie, attrice e cantante, e Betty Yeaton, acrobatic Cutie (ballerina-contorsionista),  che in Italia aveva già partecipato ad una tournée USO per i soldati della 5a armata americana, con uno spettatore d’eccezione, Winston Churchill, a Marina di Cecina il 3 agosto 1944.

 Livorno 7 luglio 1945 – Magenta Square

 Ci raccontano le cronache di quei giorni che quando Frank Sinatra giunse a Livorno aveva poco meno di trenta anni essendo nato nel dicembre del 1915  a Hoboken, New Jersey, Stati Uniti.

Aveva già alle spalle un’apprezzabile esperienza musicale. A Livorno vi erano migliaia di militari della Quinta Armata. Le truppe, anche se il 25 aprile del 1945, con la Liberazione delle grandi città del Nord e la resa dei tedeschi, l’Italia era stata liberata dal nazifascismo, non avevano certo il morale alle stelle. Soldati giovanissimi erano lontani da casa anche da tre o quattro anni, un oceano fra loro e le fidanzate; bloccati in un paese con abitudini diverse, con una lingua incomprensibile per i più, anche se molti erano gli italo-americani, le generazioni successive a quelle della grande immigrazione italiana negli USA, che non avevano bisogno dell’interprete. C’era bisogno di qualcosa che potesse risvegliare i ricordi della casa lontana. Nulla di meglio che un po’ di musica: lo swing che i livornesi avevano già cominciato ad apprezzare già negli anni Venti grazie ad alcune famose orchestre, come quella di Otello Bacci, e tante jazz band locali.

Il 7 luglio del 1945 faceva caldo. C’era il sole che salutava la prima estate senza più guerra. In Magenta Square, come era chiamata dagli americani, dominata dalla grande chiesa di Santa Maria del Soccorso, si accavallavano i rumori delle martellate e le grida di coloro che erano impegnati a montare il palco.

In piazza (raccontano ancora le cronache del tempo) presero posto migliaia di soldati americani, si dice fossero più di 10mila, ed ecco che davanti al microfono arriva quel ragazzo mingherlino, già famoso fra i soldati americani con il nome di “Frankie”. Proprio negli anni della guerra alcune canzoni da lui interpretate erano già entrate nella top ten di quelle preferite dal pubblico americano. “Frankie” Sinatra sarebbe diventato presto un artista di fama planetaria, e non solo come cantante, ma anche come attore: dai primi musical cantati e ballati con Gene Kelly fino a film di grande spessore interpretativo come Da qui all’eternità girato da Fred Zinnemann e che valse a Sinatra, nel 1954, l’Oscar come migliore attore non protagonista, o come, nel 1955, L’uomo dal braccio d’oro di Otto Preminger, con Sinatra candidato ad una nomination all’Oscar come migliore attore protagonista.

A Livorno, davanti al microfono, Frankie caricò l’animo dei soldati e li fece divertire. Si dice – ma qui le notizie sono frammentarie – che ad aprire il concerto, sotto il palco, fu un’orchestra composta da alcuni musicisti livornesi diretti da Otello Bacci; un’orchestra molto famosa tra le truppe americane perché proponeva “musiche americane” allora in voga.

Di quel concerto di tanti anni fa resta una foto un po’ ingiallita come tutte quelle che si tirano fuori dal cassetto della memoria. Una foto nella quale si vede Sinatra che canta indossando una camicia bianca con le maniche arrotolate sugli avambracci e un paio di pantaloni morbidi a vita alta, come andava di moda all’epoca. Saul Chaplin, il pianista, anche lui in camicia bianca, suonava un pianoforte verticale Steinway & Sons, di colore rosso mogano, portato direttamente dagli States e che era stato scarrozzato per tutte le tappe della tournée, riportando anche alcune “ferite” nella struttura in legno.

Sinatra in piazza della Vittoria cantò otto delle sue canzoni più famose: Nancy (With the Laughing Face) di Phil Silvers e Jimmy Van Heusen; Night and Day di Cole Porter; Candy di Mack David, Joan Whitney e Alex Kramer; Saturday Night di Sammy Cahn e Jule Styne; Ol’ Man River di Hammerstein-Kern; Embraceable You di George e Ira Gershwin; Blue Skies di Irving Berlin; Somebody Loves Me di George Gershwin, BG DeSylva e Ballard MacDonald.

Prima, durante e dopo il concerto fu accompagnato da applausi, urla e fischi, così come usavano fare gli americani quando una cosa piaceva, quindi il concerto di Frank Sinatra aveva avuto successo. Lo stesso giorno Sinatra e tutta la troupe volarono in America.

E questo è quanto si può raccontare sullo storico concerto di Frank “Frankie” Sinatra a Livorno. Ma non è tutto, perché c’è un pianoforte che rimane sul palco e non ritorna negli States. Ed è un’altra storia.

 Il pianoforte Steinway & Sons

 Il pianoforte su cui suonò Saul Chaplin e che accompagnò tutto il Tour USO merita un racconto a sé. Sì, perché per questo strumento musicale l’avventura di quel 1945 si concluse proprio a Livorno. Terminato la tournée, il pianoforte per chissà quale motivo non fece parte del bagaglio caricato sull’aereo con cui Frank Sinatra e gli altri artisti se ne ritornarono negli USA.

Che ne fu di quel piano? Oggi, grazie a circostanze casuali, possiamo raccontare la sua storia: il pianoforte Steinway & Sons, nel suo colore tradizionale rosso mogano ma che durante i tour USO fu tinto di un verde militare, su cui suonò Saul Chaplin e la cui musica accompagnò Frank Sinatra, non solo rimase in Italia, ma si trova ancora a pochi chilometri da Livorno. Sul pianoforte, benché di nuovo color rosso mogano e con qualche ferita, si scorgono tutt’oggi tracce di vernice verde.

A tale proposito riportiamo la testimonianza di Marcello Orazio, che ne è stato uno dei proprietari:

 Io lo aveva ricevuto in eredità da mio padre Alberto il quale a sua volta lo aveva acquistato nell’immediato dopoguerra presso la Casa Musicale Pietro Napoli di Livorno. L’acquisto di questo piano gli era stato caldamente raccomandato dal titolare Roberto Napoli (nonno dell’attuale Roberto, figlio di Gian Franco Napoli) come un’eccezionale occasione di qualità e prezzo, riservatagli in seguito agli ottimi rapporti di amicizia e di stima che intercorreva fra loro. Dopo un uso intenso, il piano restò inutilizzato per decenni, poi è emerso che quello non era un pianoforte comune, ma aveva una particolarità storica non indifferente. Si trattava di una versione impreziosita con gusto borghese del glorioso Victory Vertical Steinway, solitamente in verde oliva dei G.I. militari americani, costruito secondo specifiche militari di robustezza e maneggiabilità, adatto anche a essere paracadutato in avamposti del fronte bellico per dare momenti di ricreazione alle truppe. Accertata questa inconfutabile caratteristica si è consolidata in me l’ipotesi che quel piano fosse proprio quello usato per accompagnare Frank Sinatra in occasione del suo concerto per le che truppe in Piazza Magenta a Livorno. Il motore di questa ipotesi fu la casuale visione su una rivista della foto che ritraeva l’evento e nella quale si potevano anche vedere dettagli del pianoforte sul palco. Da questa ipotesi ho cominciato a esaminare da una parte la corrispondenza dei dettagli del pianoforte e d’altra parte a scavare nei ricordi della mia famiglia e in dettagli di per sé apparentemente poco significativi ma che nel contesto assumono oggi una valenza che permette di dare consistenza all’ipotesi.  A proposito del pianoforte, da notare che il piano in oggetto presenta, fin dall’acquisto presso Pietro Napoli, due colonne a lira strutturalmente posticce che, senza incidere sull’originalità del piano, contribuiscono ad assecondare ulteriormente il gusto borghese. Questo lascia pensare a una modifica esteticamente riuscita apportata da validi artigiani della stessa ditta Pietro Napoli che, per il suo già allora influente riferimento alla Steinway & Sons a livello europeo, avrebbe potuto avere quindi un ruolo nell’allestimento dello spettacolo di Frank Sinatra, e nella trattenuta in zona del pianoforte a fine spettacolo.

 Ed è così: fu proprio Roberto Napoli, imprenditore in campo musicale e musicista lui stesso, ad acquistare per primo quel pianoforte lasciato a Livorno al termine del Tour USO 1945, poi venduto alla famiglia Orazio. Marcello Orazio, che da bambino aveva studiato proprio su quel piano, ha di recente saputo che il musicista Andrea Pellegrini faceva parte del Comitato Unesco Jazz Day Livorno: «Lei è Pellegrini, figlio di Gian Franco il pianista jazz? – chiese, dopo averlo contattato, a Pellegrini, la risposta fu affermativa. Allora devo dirle che io ho il pianoforte del concerto del 1945 di Sinatra a Livorno».

Il Comitato UNESCO Jazz Day Livorno, fondato nel 2011, è composto da Andrea Pellegrini, Chiara Carboni e Maurizio Mini; Presidente Onorario Gian Franco Reverberi. Il Comitato organizza a Livorno dal 2012 nel mese di aprile, la JAM Jazz Appreciation Month Livorno, giunta quest’anno alla sua decina edizione (nel 2021, causa Covid, l’evento non si è svolto); un mese di eventi tra concerti, ascolti guidati, libri, film, mostre di pittura e fotografiche, tutto all’insegna del jazz. Livorno è l’unica città in Europa ad organizzare un mese di iniziative sul Jazz per concludersi il 30 di aprile, giornata mondiale Unesco dedicata al Jazz.




GIUGNO 1940: SIRENE D’ALLARME

La gente era intorno e commentava: tutto era ancora nel raggio delle cose possibili e prevedibili; una casa bombardata, ma non si era ancora dentro la guerra, non si sapeva ancora cosa fosse (Italo Calvino, L’entrata in guerra)

Il 10 giugno 1940, dalle ore 13.55 alle 14.05, a Livorno suonarono sinistramente le sirene dell’allarme aereo e «la città si paralizzò». Le disposizioni prevedevano che il segnale durasse 15 secondi, ad intervalli pure di 15 secondi. In realtà si trattava di un falso allarme, causato da un guasto tecnico, ma «nella popolazione si è manifestata una certa apprensione», anche perché per le ore 18 era atteso l’annuncio di Mussolini per l’entrata in guerra dell’Italia fascista contro Francia e Inghilterra, trasmesso dagli altoparlanti dal Palazzo Littorio in piazza Cavour.
All’entusiasmo bellicista, già nella notte tra l’11 e il 12 giugno, il Bomber Command britannico replicava colpendo Torino e Genova, seppure con incursioni aeree di carattere prevalentemente dimostrativo, nonostante alcune vittime civili. Lo stesso comando aveva individuato anche Livorno tra i primi 17 principali «obiettivi industriali in Italia» con riferimento alle raffinerie, ma fortunatamente la città si trovava, per la distanza dalle basi inglesi, al limite dell’autonomia operativa dei bimotori da bombardamento della RAF, Wellington e Whitley.
Regia Aeronautica e Armee de l'AirFu invece l’Armée de l’Air a colpire Livorno e Rosignano, in segno di reazione per l’aggressione voluta da Mussolini per sedersi, con ambizioni espansionistiche, al tavolo dei vincitori (tedeschi) a pochi giorni dalla resa francese.
Dopo aver sostenuto l’offensiva germanica sul fronte occidentale, l’aviazione francese era appena in grado di impiegare pochi velivoli, sovente inadeguati, per lo più singolarmente o in sezioni ridotte, senza difesa da parte della propria caccia, nel tentativo di danneggiare le strutture industriali, militari e portuali italiane, soprattutto delle zone costiere, isole comprese.
Nonostante tali limiti operativi l’effetto propagandistico ed anche psicologico fu comunque conseguito, mostrando al popolo italiano la vulnerabilità del territorio metropolitano e quanto poco fosse affidabile la protezione dagli attacchi aerei, a dispetto delle vantate capacità e dei mezzi della Regia Aeronautica.
Anche la provincia livornese fu raggiunta più volte – pur senza gravi conseguenze materiali – dall’aviazione francese, in quanto per la vicinanza alla Corsica e alla Costa Azzurra, era facilmente raggiungibile, senza peraltro temere danni da parte dell’evanescente reazione della Milizia Artiglieria Contraerei (13ª Legione DICAT) e dei caccia italiani, anche se presso l’aeroporto di Pontedera, in località Curigliana, vi erano dislocate due squadriglie di Fiat G.50 e una di Fiat CR 32.
Su queste incursioni, irrisorie a confronto di quelle ben più devastanti e luttuose del 1943 – ’44 compiute dai bombardieri anglo-americani (ed anche tedeschi), le informazioni sono scarse, confuse e sovente contraddittorie; stante anche la reticenza dei Bollettini di guerra e la censura che impediva – per motivi militari e politici – la pubblicazione di ogni notizia sui giornali, pur se la cittadinanza labronica ne aveva fatto esperienza diretta, tanto da indurre i primi “sfollamenti”.
Infatti, sia il prefetto Zannelli che il questore Roselli di Livorno avevano inoltrato alla stampa locale la seguente velina del Minculpop del 12 giugno: «Giornali non devono dare assolutamente notizie di allarmi incursioni aeree, bombardamenti che non siano comprese nel Bollettino del Quartier Generale delle Forze. Tali notizie non potranno essere né ampliate né commentate».
Nei diversi saggi pubblicati riguardanti i bombardamenti sull’Italia si trova a malapena appena qualche accenno a quelli compiuti da aerei francesi su Livorno e persino il fondamentale saggio di Henri Azeau sul conflitto italo-francese ignora tali incursioni.
RR Bagni PancaldiControversi e discordanti appaiono i riferimenti a date, obiettivi, bombe, antiaerea, numero e tipo degli aerei impiegati che è possibile trovare nei testi (ma anche riviste e siti web) italiani a disposizione; d’altronde persino la documentazione d’archivio esistente è tutt’altro che univoca.
Informazioni utili per la presente ricostruzione, non conclusiva, sono stati desunti da alcuni documenti militari francesi, raffrontati con i rapporti pervenuti o trasmessi dalla Questura di Livorno, peraltro non esenti da inesattezze. Esistono inoltre ben tre diverse e poco concordanti cronologie degli allarmi e dei bombardamenti: il Registro degli allarmi avuti nella città di Livorno nel periodo bellico 1940 – 1945, redatto nel 1946 dal personale addetto all’impianto delle sirene dislocato presso Villa Maria; l’elenco allegato ad una comunicazione del Prefetto di Livorno alla Procura generale della Corte dei Conti, nel marzo 1965; uno schema similare pubblicato nel 1948 all’interno del libro di Gastone Razzaguta, Livorno nostra.
le-jules-verne-avion-corsaire-1In particolare, vi è molta incertezza attorno al primo presunto raid aereo su Livorno.
Secondo quanto riportato in una pubblicazione del Comune di Livorno del 2013, il 13 giugno un Farman 223-2 dell’Armée de l’Air avrebbe colpito, non gravemente, alcuni caseggiati. Per tale data però non vi è alcun riscontro documentale dell’azione, ma nel citato Registro appare riportato un allarme dalle 3.10 alle 3.55 del 12 giugno, con l’improbabile annotazione «bombe sull’Anic», mentre sul Bollettino di guerra n. 2 allo stesso giorno risulta segnalato un più verosimile sorvolo, forse di ricognizione, da parte di aerei nemici.
Su «Il Telegrafo» non venne ovviamente fornita alcuna notizia in merito, ma il 14 giugno vi furono pubblicate le Norme generali per gli allarmi aerei emanate dal Ministero della Guerra. Nella pagina laterale, invece, era possibile leggere una cronaca dettagliata del bombardamento notturno subito da Torino il 12 giugno con 14 morti e decine di feriti ad opera di velivoli inglesi.
Il 15 giugno, ancora sul quotidiano livornese, comparve un promemoria per la Protezione antiaerea in cui, oltre a confermare la «perfetta attrezzatura antiaerea», si ricordavano i doveri della popolazione civile, concludendo che «Livorno s’è messa perfettamente in linea e nella sua veste guerriera attende, con la tranquillità dei forti, al proprio lavoro».
Nei giorni seguenti, sarebbero seguiti altri articoli in cui si richiamavano i compiti dei militi dell’UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea), dei gruppi rionali fascisti e dei «capofabbricato» per l’attuazione puntuale delle misure di oscuramento e prevenzione antincendio.
La prima, accertata, incursione avvenne nelle prime ore del 16 giugno. Il Farman 223-4 “Jules Verne”, decollato da Bordeaux-Mérignac, raggiunse nottetempo Livorno; le sirene d’allarme risuonarono attorno alle ore zero. Dopo aver sorvolato la città per circa un’ora alla ricerca dell’obiettivo, ossia la raffineria Anic a Stagno, sganciò il carico causando solo principi d’incendio nelle vicinanze di una casa colonica, anche se il pilota Henri Yonnet nelle sue memorie vantò un successo completo della missione, descrivendo fuoco e fiamme sul bersaglio.
Facendo rotta verso sud, dall’aereo furono lanciati migliaia di piccoli manifestini, così come era avvenuto su Roma, raccolti in gran numero l’indomani nel quartiere San Jacopo, su cui era possibile leggere:

Il Duce ha voluto la guerra? Eccola! La Francia non ha niente contro di voi. Fermatevi! La Francia si fermerà

Donne d’Italia ! Nessuno ha attaccato l’Italia. I vostri Figli, i vostri Mariti, i vostri Fidanzati
non sono partiti per difendere la Patria. Soffrono, muoiono per soddisfare l’orgoglio d’un uomo. Vittoriosi o vinti, avrete la fame, la miseria, la schiavitù“.

Nel resoconto della Questura non compare alcun cenno alla reazione dell’antiaerea che, invece, alcuni fonti indicano come vivace ad opera delle postazioni al Cantiere navale, nel porto (zona Piloti), a Colline, nonché da un cacciatorpediniere presente nel Cantiere. Analogamente, in alcuni testi il raid viene attribuito a bombardieri medi di diverso tipo (Amiot 143, Leo 451, Martin 167) con danni leggeri arrecati nel quartiere Venezia Nuova, piazza Vittorio Emanuele e piazza Magenta; ma tali riferimenti appaiono incerti e forse riferentesi erroneamente alla successiva incursione del 22 giugno.
Il “Jules Verne”, comandato dal leggendario capitano di marina Henri-Laurent Dailliére, aveva già compiuto sedici rocambolesche missioni, tra cui quelle su Anversa, Berlino (primo bombardamento alleato, 7 giugno 1940), Rostock, Porto Marghera e, la notte precedente, Roma (lancio di migliaia di volantini). Il velivolo, un Farman 223-4, era un imponente quadrimotore (due motori in tandem) dell’Air France nato per voli civili transatlantici, “militarizzato” e incorporato nella Aviation Navale (Escadrille de Bombardement B-5) per dare la caccia alle navi corsare tedesche, assieme ai gemelli “Camille Flamarion” e “Urbain Le Verrier”, ma poi impiegato per azioni offensive a lungo raggio, ultima delle quali fu quella su Livorno.
Cratere bomba alla SolvayLa notte seguente venne il turno di Rosignano: alle ore 3 e 5 minuti del 17 giugno, il Farman 222-2 “Arcturus” n. 16 della Escadrille d’Exploration 10E dell’Aviation Navale (con base algerina ad Oran-La Sénia), colpiva con precisione la fabbrica chimica Solvay in due o tre passaggi, sganciando tredici o quattordici bombe da 100 e 200 kg., così come risultò dalla perizia balistica su una spoletta recuperata. Una di queste abbatté 35 metri di una delle due ciminiere, alta 105 m., mentre altre lesionarono seriamente un’officina meccanica, la palazzina ad uso foresteria per il personale dirigente, condutture elettriche e tubazioni idriche, con danni alle strutture per oltre un milione di lire e la perdita di 168.00 ore lavorative, con conseguente arresto della produzione di soda per 12 giorni e la successiva riduzione ad un terzo, con rilevanti riflessi su quella dell’alluminio e nell’industria tessile.
Oltre alle bombe – per un carico totale di circa 2/2,5 tonnellate – furono lanciati in quantità i soliti volantini di propaganda disfattista su Rosignano e Cecina.
A seguito dell’incursione, alle 3.15 l’allarme suonò anche a Livorno e fu allertata la contraerea, temendo che il bombardiere francese – presumibilmente diretto in Corsica – facesse rotta su Livorno.
propaganda_1940Il 22 giugno, su «Il Telegrafo», veniva pubblicato un articolo sconcertante sulla Psicologia delle masse di fronte ai bombardamenti e, a titolo d’esempio, era riportata l’improbabile testimonianza di una «degna figlia della Roma fascista»: «La prima volta si prova quasi impressione; poi non ci si bada più e quasi ci si piglia gusto…»; ma poche ore prima dell’uscita del giornale nelle edicole, Livorno era stata nuovamente raggiunta da bombe francesi, come riportato dal Bollettino di guerra n. 11 che riferì di «danni rilevanti sulla stazione marittima e abitazioni al centro», pur riferendosi genericamente ad un’incursione nemica.
Su questo bombardamento ci sono abbastanza informazioni, grazie ai rapporti della Questura inerenti i danni riportati, ma è ipotizzabile che le incursioni siano state due, tra le 3.30 e le 4.50. Appare infatti improbabile, considerato il numero delle bombe – esplose e non – che sia stato un solo velivolo a sganciarle, anche perché il carico esplosivo risultava ridotto, per avere una sufficiente riserva di carburante.
Il solito Farman 222-2 “Arcturus”, proveniente da Oran, autore del raid su Rosignano sganciò alcune bombe da 250 Kg. – forse con target l’Accademia navale – sul viale Regina Margherita, diroccando invece l’Albergo Palazzo (già Hotel Palace, prima del fascismo) e i RR. Bagni Demaniali Pancaldi.
La stima dei danni fu di circa Lire 1.200.000 per l’Albergo, 115.000 per i Pancaldi e 25.000 per ripristinare il manto stradale davanti ai Bagni dove era rimasto un cratere di 10 metri nonché la balaustra spazzata via dall’esplosione, mentre nel quartiere erano andati in frantumi i vetri delle finestre di molte abitazioni.
Invece, come indicato dallo storico dell’aviazione Bonacina, alcuni moderni bombardieri francesi LeO 451 provenienti da Istres (Marsiglia), puntarono sulla zona portuale, dove tre bombe colpirono la stazione ferroviaria marittima (allora “Livorno Porto Vecchio”). Gli ordigni produssero crateri di circa 14 metri di diametro e profondi 5, distruggendo una dozzina di scambi e binari, oltre a deragliare tre vagoni (danni stimati per Lire 80.000), mentre altre tre bombe furono rinvenute inesplose.
Danneggiati pure i Macelli comunali presso il Forte S. Giacomo (per 40-50.000 lire) e un serbatoio della società petrolifera “Nafta” (8-10.000 lire), nonchè numerosi edifici delle zone limitrofe.
Una bomba incendiaria colpì il palazzo del Municipio, sul retro, lato scali Finocchietti, rendendo inagibile l’abitazione del segretario generale. Altri edifici colpiti furono segnalati in piazza del Luogo Pio (compreso il Dopolavoro fascista “Dino Rimediotti”), scali Rosciano, viale Caprera, via delle Galere, via della Posta, via Vittorio Emanuele (l’attuale via Grande), via Ernesto Rossi, nonché sugli scali Saffi dove un incendio disastrò il buffet del Teatro Politeama. Una bomba fu rinvenuta inesplosa in piazza Magenta.
Paradossalmente, il radiotelemetro sperimentale RDT3 della Regia Marina, situato presso l’Accademia navale, era stato in grado di rilevare gli aerei nemici in avvicinamento già a 30 km., offrendo in teoria la possibilità di allertare la contraerea e la caccia italiana per intercettarli; ma non vi fu alcun contrasto aereo e soltanto in seguito sarebbe stata piazzata una batteria antiaerea alla Terrazza Mascagni (allora intitolata a Ciano).
Eravamo comunque al baroud d’honneur: nella stessa notte Marsiglia veniva bombardata da velivoli italiani con l’uccisione di almeno 143 civili e due giorni dopo fu firmato l’armistizio tra Italia e Francia, dopo 14 giorni di inutile belligeranza, costata alle truppe italiane 631 morti, 2631 feriti e ben 2151 congelati.
Complessivamente a Livorno, in queste prime incursioni aeree del giugno 1940 risultarono colpiti e danneggiati, oltre alle strutture citate, una settantina di appartamenti privati, con danni stimati attorno a Lire 70-76.000: un preavviso dei bombardamenti che Livorno doveva ancora patire nel corso della guerra fascista, con la distruzione pressoché totale dell’area portuale e del centro storico, nonché di centinaia di vittime, senza che il regime fosse in grado di assicurare adeguate misure di difesa attiva e protezione, dato che pure i rifugi si sarebbero tragicamente rivelati delle tombe collettive.
«La storia apparentemente tecnica della contraerea di Mussolini – come osservato da Nicola Labanca – è in fondo la storia generale di un regime che parla e affretta la guerra senza prepararvisi, anteponendo l’ideologia, la politica e il partito alla razionalità delle esigenze della guerra».




«Guerra e Resistenza nel fiorentino. La 22a Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini»

«[…] Bisogna scrivere questi fatti, perché fra qualche decennio una nuova retorica patriottarda o pseudoliberale non venga a esaltare le formazioni dei purissimi eroi. Siamo quello che siamo […]» [1]

Le parole che il partigiano giellista ebreo Emanuele Artom consegna alle pagine del suo diario nel novembre 1943, poco prima di essere catturato dai fascisti, torturato dai tedeschi e brutalmente assassinato, colgono i dubbi e le inquietudini, comuni a tanti altri protagonisti di quell’esperienza di lotta, su come quelle vicende sarebbero state raccontate negli anni a venire.

Ricostruire quei fatti nella giusta prospettiva, per evitare sterili agiografie, come temeva Artom o, come è divenuto costume in anni più recenti, vili dannazioni di memoria, non è esercizio vuoto o consunto, ma una operazione oggi quanto mai necessaria[2]: sul piano memoriale e identitario, per tamponare i sempre più insistenti rigurgiti fascisti; in termini storiografici e di ricerca, dal momento che la prosecuzione degli studi reca con sé ulteriori scoperte e approfondimenti; per colmare lacune ancora presenti in specifici contesti territoriali.

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Lanciotto Ballerini, partigiano di Campi Bisenzio, caduto eroicamente a Valibona il 5 gennaio 1944 e insignito della medaglia d’oro al valor militare. Al suo nome venne intitolata la 22° Brigata Garibaldi (nella foto, Lanciotto sotto le armi sul fronte etiope, esperienza che rafforzò in lui un sentimento di ripudio per la cultura militarista e aggressiva del fascismo. Fonte: ANPI Campi Bisenzio)

Il recente volume di Francesco Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino. La 22a Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini (Viella, 2021), promosso dall’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Firenze, riesce con perizia a fare tutto questo: depurare dalle distorsioni apportate dal tempo e dalla memoria, ricucire dagli sfilacciamenti che l’appropriazione politica di quegli eventi ha prodotto, ristabilendo equilibrio e riportando all’interno di una seria e rigorosa ricerca storica le vicende della Resistenza fiorentina.

Molto è stato scritto in merito a questa importante esperienza di lotta in grado di anticipare i fenomeni di opposizione politica e militare più avanzati che presero avvio a Nord: note sono la maturità politica dimostrata dal fronte cittadino e l’autonomia rivendicata dal Comitato Toscano di Liberazione (Ctln) rispetto agli Alleati, aspetti fondamentali nel rendere possibile quello che fu il primo esperimento di autogoverno della Resistenza.

Sebbene determinante, la dimensione urbana e cittadina della stessa ha finito per oscurare le altre esperienze di lotta armata nate e sviluppatesi in provincia, spesso ricordate solo in relazione alla liberazione di Firenze. Eppure la presenza di bande e gruppi partigiani “fuori dalle mura”, prima dell’11 agosto 1944, non fu affatto marginale: ce lo ricorda bene il volume di Francesco Fusi che – ne dà nota il sottotitolo – ricostruisce la genesi di uno dei principali gruppi garibaldini fiorentini, la 22 Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini. Una scelta d’indagine non casuale, che tiene conto del maggior peso e dalla più solida dimensione armata che nella guerra in montagna ebbe l’organizzazione garibaldina, dal momento che quella azionista si radicò maggiormente nel contesto cittadino esprimendo la sua leadership politica all’interno del Ctln[3].

Così come altrove, anche nel contesto fiorentino, in particolare nelle zone di Monte Morello, di Monte Giovi, del Mugello si costituirono, subito dopo l’8 settembre, i primi raggruppamenti partigiani, tra questi anche i primitivi nuclei delle quattro brigate Checcucci, Fabbroni, Lanciotto e Romanelli che tra cambi interni, avvicendamenti, trasferimenti, aggregazioni e scissioni, nei mesi a seguire, il 24 maggio 1944, confluirono nella 22a Brigata Garibaldi Lanciotto agli ordini della Delegazione Toscana del Comando Generale delle Brigate Garibaldi, sotto la guida di Aligi Barducci “Potente” e intitolata a Lanciotto Ballerini, comandante partigiano caduto il 3 gennaio 1944 a Valibona in uno scontro con i fascisti.

L’attenzione dell’autore va, fin dalle prime battute, all’analisi delle motivazioni morali ed esistenziali della scelta partigiana di quanti animarono le formazioni originarie: l’obbiettivo è puntato sugli individui, le loro scelte. Proprio il confronto con i percorsi personali e biografici degli “uomini in banda”, che animano le pagine del primo capitolo, permette di mettere in luce il carattere spontaneo del movimento, ridimensionando il ruolo giocato nelle prime fasi dal personale politico e dalle avanguardie organizzate. La scelta partigiana viene così a configurarsi come «[…] un caleidoscopio di fattori, tra loro distinti, che tuttavia sovente si intrecciano, finanche a sovrapporsi l’un l’altro. Motivazioni soggettive e condizioni oggettive, scelte consapevoli mosse da idealità e slanci ribellistici o, di contro, costrizioni imposte dagli eventi alle quali ci si vuol sottrarre […]» [4].

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Giulio Bruschi “Berto”. Antifascista di Sesto Fiorentino, perseguitato politico e tra i primi organizzatori dopo l’8 settembre 1943 del movimento partigiano su Monte Morello. Divenne in seguito Commissario politico della 22° Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini (foto: ACS, Casellario Politico Centrale)

Sono i percorsi di vita, le specifiche condizioni sociali, l’educazione e l’ambiente familiare, le esperienze e le conoscenze pregresse a spingere alla lotta; si tratta di una scelta individuale che riesce a raggiungere una reale maturazione quando l’orizzonte politico lontano e sbiadito dell’antifascismo delle origini trova nella banda armata[5], che si organizza e diviene comunità, i suoi contorni più definiti. Nella parabola della scelta partigiana, dunque, l’antifascismo politico e l’appartenenza partitica assumono i contorni vivi di un approdo, anziché configurarsi come un punto di partenza[6].

Ripulendo la narrazione da sterili eroismi, il volume mette in luce i limiti delle prime bande che si costituiscono subito dopo l’armistizio e a cui prendono parte soldati italiani sbandati ed ex prigionieri evasi (inglesi, americani, russi e slavi), ai quali si aggiungono in modo sparso i civili: dissidenti e detenuti politici da poco scarcerati, giovani e studenti mossi da una generica esigenza di riscatto. Sono i personalismi, l’impreparazione mista a un’ingenua e talvolta pericolosa impulsività nell’armarsi a dominare. L’attività svolta è all’inizio embrionale e circoscritta, fatta di azioni che mirano a consolidare la propria presenza sul territorio, “disturbando” il nemico. «Ognuno sta nella vita partigiana con il suo abito d’origine […]» [7] ha scritto Roberto Battaglia, ce lo conferma anche il ritratto schietto, quasi dissacrante di Lanciotto Ballerini, ricostruito nel testo attraverso le testimonianze di altri resistenti: un partigiano in “carne e ossa”, una figura umanissima, con le sue grandezze e i suoi limiti, caratteri dissonanti che non ne limitano il successo, anzi, concorrono ancora oggi a farcelo vicino sentire.

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Aligi Barducci “Potente”. Primo comandante della 22° Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini, poi comandante della Divisione Garibaldina Arno protagonista della liberazione di Firenze. Ferito mortalmente l’8 agosto 1944 in Piazza S. Spirito, sarà insignito della medaglia d’oro al valor militare (Foto: Wikipedia)

Evidenzia l’autore come, tra le bande nate nel settembre del 1943, quelle che sopravvissero all’inverno furono proprio le formazioni che avevano tratto origine da contesti e situazioni entro cui operavano le reti e le strutture dell’antifascismo organizzato. Fu così per le due principali formazioni che a partire dall’8 settembre scelsero come propria sede il Monte Morello: il gruppo di Giulio Bruschi e quello, appunto, di Lanciotto Ballerini. Su entrambi avevano diretto i loro sforzi sia le reti dell’antifascismo locale sia l’organizzazione clandestina fiorentina, con particolare riguardo a quella comunista, nel caso del gruppo di Sesto Fiorentino di Bruschi, mentre per la formazione di Campi Bisenzio, legata a Ballerini, fu attivo un insieme composito di forze che, oltre al Pci, annoverava anche azionisti e libertari: «un’eterogeneità che in seguito aprirà una disputa su chi dovesse rivendicare l’organizzazione del gruppo partigiano Lanciotto e di conseguenza l’identità politica di quest’ultimo»[8]. La questione dei contrasti, delle tensioni e delle conflittualità politiche e militari, esterne e interne, che connota l’esperienza resistenziale delle principali forze dell’antifascismo fiorentino, è uno dei nodi centrali dell’intera narrazione e consente, ancora una volta, di depurare il campo da una acritica visione della guerra di liberazione come processo unitario e lineare.

La progressiva maturazione umana, organizzativa e politica degli uomini e delle bande di afferenza, ricostruita attraverso le pagine del volume, si lega all’evoluzione della lotta in corso e agli eventi che si succedono nei mesi a seguire. Tra gennaio e marzo 1944 molteplici furono i momenti di crisi che portarono allo stallo delle operazioni, dai drammatici fatti di Valibona, al progressivo abbandono dell’ormai pericolosa zona di Monte Morello verso il Mugello, dove si avvicendarono, tra contrasti e discussioni, i comandi interni. Inquietudini e tensioni endogene furono inoltre generate dal problema della sicurezza delle formazioni: i numerosi arresti da parte della polizia fascista, sia di membri del partito comunista che di quello d’azione, in città e tra le bande, furono il segno tangibile che l’opera di raccolta di informazioni del nemico, attraverso il significativo apporto di spie e delatori, stava funzionando a pieno ritmo.

Iniezioni di fiducia furono invece rappresentate dai rifornimenti che iniziarono ad arrivare con i primi aviolanci alleati, e che, pur generando tra le formazioni comuniste e azioniste screzi e polemiche per ripartizioni giudicate poco equilibrate, così come accuse reciproche di furti, costituirono un passo in avanti sul piano delle potenzialità offensive. Lo dimostra bene l’operazione che, il 6 marzo 1944, i partigiani condussero con esito positivo presso Vicchio: un attacco in pianura interamente pianificato e coordinato dalle bande di montagna su un obiettivo stabilmente presidiato dal nemico. I fatti, ricostruiti in dettaglio nel volume, ebbero ampia risonanza e un importante significato politico-militare per le stesse formazioni che avevano promosso con successo l’iniziativa. Nessuno in realtà considerò i rischi, in particolare quelli di rappresaglia sulla popolazione.

Proprio il ciclo repressivo lanciato di lì a poco dai comandi tedeschi su tutto l’arco appenninico contribuì ad avviare, per i gruppi partigiani, una nuova fase carica di difficoltà e pericoli, ma pure foriera di nuove e necessarie scelte.

La decisione di costituire una formazione unitaria con un ruolo strategico nella zona di Pratomagno riconosciuta dal comando militare del Ctln, politicamente diretta dal Pci fiorentino e in cui potessero confluire le diverse bande garibaldine attestatesi su Monte Giovi, tra il Mugello e la Valdisieve, dopo i rastrellamenti nazifascisti e la dispersione subita in aprile sul Falterona , segnò un definitivo passo in avanti nell’organizzazione e nella maturazione politica dei diversi gruppi che a essa furono aggregati. Dell’operazione che portò alla nascita della 22a Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini l’autore sottolinea le problematicità logistiche legate alla scarsità di vettovagliamento e di armi in una zona già satura di sfollati e in cui si accalcavano nuove reclute sfuggite alla chiamata di leva; non di minore importanza le difficoltà psicologiche ed emotive: il persuadere degli uomini abituati a una loro autonomia a sottostare a una nuova disciplina non si dimostrò cosa facile e portò talvolta ad accuse di prevaricazione ai danni di tutti quei gruppi che avevano mostrato la loro contrarietà nel farsi assorbire.

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La prima pagina del ruolino degli effettivi della 22° Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini (ISRT, Fondo resistenza armata)

Il volume rivela come la disorganizzazione e l’approssimazione con cui i primi resistenti erano scesi in campo vennero superate all’interno del nuovo gruppo grazie alla maggiore esperienza e alla coesa organizzazione interna, affiancata anche da una pedagogica attività di educazione politica (spesso di avvicinamento al partito) portata avanti per orientare e consapevolizzare i combattenti, in molti casi connotati da atteggiamenti politici confusi e ingenui.

Nonostante la cronica mancanza di armi, la Lanciotto fu in grado di sostenere sul Pratomagno un’attività di guerriglia senza precedenti, anche se la stessa non si rivelò immune da errori, superficialità, eccessivi azzardi, che in molte occasioni posero il gruppo in conflitto con la popolazione del luogo. Ricorda l’autore come «la condotta dei partigiani di Potente su Pratomagno ancora oggi è al centro di ricostruzioni piene di livore che li dipingono nel migliore dei modi come irresponsabili o peggio dei fanatici ideologizzati colpevoli d’aver condotto una guerra sporca insensibile alla sorte delle comunità locali sulle quali avrebbero attirato una serie di atroci rappresaglie»[9]. Il gruppo viene dunque percepito come un attore esogeno che interviene a turbare gli equilibri locali.

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Romeo Fibbi “Romeo”. Appartenente a una famiglia di antifascisti di Compiobbi (Fiesole) emigrata in Francia per sfuggire alle persecuzioni del Fascismo. Volontario militare in Spagna assieme al padre Enrico con le Brigate internazionali, quindi recluso nei campi di prigionia francesi. Rientrato in Italia, dopo l’8 settembre Romeo si pone in collegamento con l’organizzazione comunista fiorentina, assumendo poi il comando di un gruppo di partigiani nel Mugello. Rileverà il comando militare della 22° Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini dopo che Aligi Barducci “Potente” passerà alla guida della Divisione Arno (Foto: ACS, Casellario Politico Centrale)

Il tema chiave del rapporto tra partigiani e popolazione locale, che trova ampio spazio all’interno della narrazione, offre l’opportunità di mettere in luce la «natura instabile» e problematica della reciproca e forzata convivenza, una relazione mutevole nel tempo che fu necessario via via rinegoziare, lo dimostrano bene i fatti di Montemignaio e Cetica, a cui l’autore dedica ampia trattazione.

Si tratta di una questione che si lega a un problema cruciale, quello della violenza -pre e post liberazione – rispetto a cui il libro fornisce valide interpretazioni e molteplici spunti di riflessione. Quanto e perché la violenza partigiana agita e procurata poté considerarsi più legittima e giustificabile? In che modo i resistenti provarono a disciplinarla e a renderla moralmente più accettabile? Vi riuscirono davvero?

Il prezzo pagato dai partigiani nella battaglia per la liberazione di Firenze fu alto (205 caduti, 400 feriti, 18 dispersi tra squadre cittadine e partigiani)[10], anche a causa delle numerose difficoltà, ripercorse nel testo, che le forze resistenti si trovarono inaspettatamente ad affrontare. La Divisione Arno, la formazione unitaria in cui, il 6 luglio, era confluita la stessa Brigata Lanciotto, assieme alla Caiani, la 22a Bis Sinigaglia e la Fanciullacci, registrò la perdita totale di oltre 50 uomini, con la morte del suo stesso comandante “Potente”.

Ci ricorda l’autore, senza voler in alcun modo sminuire questo importante contributo di sangue, come la liberazione della città non sarebbe stata possibile senza la schiacciante superiorità strategico-militare degli Alleati, sottolineando, tuttavia, come il contributo dell’azione partigiana rispose invece a una importante finalità politica: «se le forze resistenziali volevano avere una chance di condizionare i futuri assetti politici e sociali del paese in senso democratico, esse dovevano per forza presentarsi agli alleati come militarmente in grado di contribuire alla liberazione, a prescindere dai costi»[11].

La storia che si apre a seguire, ripercorsa dell’ultime pagine del volume, è quella di ritorno all’ “ordinario”, segnata dai bisogni, dalle difficoltà materiali e umane che caratterizzarono l’immediato dopoguerra. Il disarmo dei partigiani fiorentini a opera degli Alleati creò in molti sentimenti di delusione e rabbia, anche a fronte di istanze di cambiamento e rinnovamento parzialmente tradite; in alcuni il sentimento di frustrazione si trasformò invece in spinta per continuare a combattere fino alla completa liberazione del paese. Per molti altri ancora tener viva la fiamma della Resistenza significò continuare a operare attivamente nell’ambito delle nascenti istituzioni repubblicane, all’interno della politica dei partiti democratici e delle organizzazioni sindacali.

«[…] Gli uomini sono uomini, bisogna cercare di renderli migliori e a questo scopo per prima cosa giudicarli con spregiudicato e indulgente pessimismo»[12], scriveva ancora Emanule Artom.

Al libro di Francesco Fusi il merito di non aver giudicato, ma di aver ricostruito attraverso una solida documentazione quelle vicende: storie di uomini che nella loro normalità, ciascuno con le proprie risorse e capacità, scelsero di non tirarsi indietro.

 

 

 

[1] Emanuele Artom, Diari di un partigiano ebreo. Gennaio 1940-febbraio 1944, a cura di G. Schwarz, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pp. 609-616, in Chiara Colombini, Anche i partigiani però…, Laterza, Roma-Bari, 2021, p. 37.

[2] Riprendo tali considerazioni da Francesco Filippi, Un libro di storia smonta tutte le “fake news” sui partigiani, in «Micromega», 10 marzo 2021 Url: <https://www.micromega.net/anche-i-partigiani-pero/>.

[3] Francesco Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino. La 22a Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini, Viella, Roma, 2021, p. 13.

[4] Ivi, p. 65.

[5] Cfr., ivi, pp. 65-66.

[6] Alberto De Bernardi, Un contributo per discutere e scrivere la storia della Resistenza e della Repubblica, in «Italia Contemporanea», 276 (2004), p. 520, in F. Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino, cit., p. 67.

[7] Roberto Battaglia, Un uomo un partigiano, Il Mulino, Bologna, 2004 [ed. or. 1945], pp. 147, 151, in F. Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino, cit., p.111.

[8] F. Fusi, Guerra e Resistenza nel fiorentino, cit., pp. 87-88.

[9] Ivi, p. 253.

[10] Ivi, p. 347.

[11] Ivi, p. 348.

[12] Si faccia riferimento alla nota 1 di questo testo.




Guerra ai renitenti: le fucilazioni del marzo ’44

Leandro Corona, Ottorino Quiti, Antonio Raddi, Adriano Santoni, Guido Targetti: erano questi i nomi dei 5 giovani – di età compresa fra i 21 e i 23 anni – fucilati il 22 marzo del 1944 a Firenze allo stadio di Campo di Marte a seguito di una condanna a morte per renitenza alla leva, emanata dal Tribunale militare speciale. All’esecuzione sono fatti assistere tutti i militari del presidio militare di Firenze, come monito. I drammatici momenti di quell’eccidio ci sono restituiti dalla relazione redatta da don Angelo Becherle, il cappellano chiamato a impartire l’estrema unzione ai cinque ragazzi. Nel racconto del sacerdote – subito trasmesso al cardinale di Firenze Elia Dalla Costa – emerge tutta la tragedia delle giovani vite di fronte alla morte: “Quiti cominciò a tremare, voleva alzarsi e scappare: anche il Raddi e il Corona ebbero un momento di terribile esasperazione: riuscii a quietarli  […] avvenne la scarica del plotone. Il Targetti, il Raddi ed il Santoni morirono subito. Non così il Quiti, che ancora vivo, legato alla sedia si dimenava e gridava « Mamma, mamma!». […] Fu il maggiore Carità, il famigerato comandante delle SS, che dopo alcuni istanti intervenne e diede il colpo di grazia”. La gravità del fatto è tale che sconvolge i testimoni e resta ben vivo nella memoria della città che ha poi onorato la memoria dei martiri con il monumento che ancora oggi li ricorda sotto la “Curva Ferrovia” dello stadio di calcio.

Peraltro non si tratta di episodio isolato. In quello stesso mese di marzo fatti simili si erano verificati in tutta la Toscana. Ad esempio il 13 a Siena dove 4 giovani renitenti erano stati condannati dal tribunale militare speciale e fucilati nella caserma “La Marmora”; sono 11 quelli fucilati in quello stesso 22 marzo a Maiano Lavacchio nel grossetano, insieme ad un militare tedesco che aveva disertato;  il 24 tocca a due giovani viareggini presso il cimitero della città e il giorno seguente altri due a Lucca; il 27 marzo due a Pisa e il 31 quattro renitenti sono fucilati a Pistoia sotto le mura della Fortezza di Santa Barbara.

Una vera e propria guerra alla renitenza,  nella quale i giovani che non si presentano alla leva sono di fatto equiparati a nemici, e come tali trattati. Per capire la radicalità e capillarità di questa strategia, frutto non tanto delle scelte dei singoli Tribunali locali, quanto di una compiuta strategia della Repubblica sociale italiana, è necessario considerare l’importanza attribuita dal governo di Salò alla leva militare.

Per il governo collaborazionista fascista la formazione di un esercito nazionale, secondo l’impostazione del generale Graziani, Ministro della Difesa nazionale, è infatti obiettivo prioritario per dimostrare la propria esistenza come Stato agli italiani, ma anche ai potenti quanto ingombranti alleati nazisti. Per questo, oltre al tentativo di “recuperare” i soldati arresisi dopo l’armistizio e condotti nei lager del Reich come internati militari, è fondamentale soprattutto il coinvolgimento dei giovani attraverso l’emanazione dei bandi di leva. Per questo fin dal 16 ottobre del ’43 Graziani preannuncia la chiamata alle armi dei nati nel ’24 e nel ’25, riattivati gli uffici di leva, nella seconda metà di novembre. L’operazione è vista con diffidenza dai nazisti che puntano piuttosto ad usare gli italiani come lavoratori a proprio servizio. Ma soprattutto si scontra con la diffusa stanchezza e la crescente ostilità per il conflitto fra gli italiani. Atteggiamenti certo accentuati dall’odiosa disposizione del generale Gambarra dello Stato maggiore dell’Esercito che intima l’arresto dei padri in caso di mancata presentazione dei figli alla leva. Nonostante un crescente clima di minacce la maggioranza dei ragazzi non si presenta.

Il decreto legislativo del 18 febbraio 1944 che stabilisce la pena di morte per renitenti e disertori è la più efficace dimostrazione del fallimento del bando di novembre. Il ricorso alla pena estrema svela l’inefficacia di ogni altro mezzo, a partire dalla propaganda, e la crescente delusione negli ambienti fascisti. Una consapevolezza rafforzata dalla lettura della stampa fascista che indica sempre più in renitenti e disertori nemici da abbattere più che ragazzi da convincere. Esemplare è quanto si legge sulle testate delle federazioni toscane, come quella lucchese: “la diserzione, quindi, e il macchiai olismo di tanti, di troppi giovani nostri, per non servire la mamma Italia e in un’ora delle più tragiche per Essa, sono spregevoli al massimo grado” (“L’Artiglio”, 21 aprile 1944). Sulla stessa linea il periodico pistoiese “Il Ferruccio” che definisce i renitenti “sabotatori”, mentre quello fiorentino “Repubblica”, già dal dicembre del ’43 aveva esteso la denuncia ai familiari: “vili sono tutti coloro che proibiscono e non incitano i figli perché accorrano a cacciare il nemico” (“Repubblica”, 11 dicembre 1943).

La successiva tattica del “bastone e della carota” – con il decreto 336 che esenta dalla pena coloro che si presentino entro il 9 marzo 1944 – non muta la sostanza dei fatti. Né ottenere risultati significativi. Tanto che il successivo decreto del 24 marzo stabilisce sanzioni economiche per i renitenti e i disertori come la confisca dei beni, propri e familiari, oltre alla cancellazione delle tessere annonarie, così da piegare i giovani, con il ricatto che grava sui parenti. In questo contesto vanno quindi collocati gli episodi che insanguinano anche la Toscana nel marzo del ’44 con le varie fucilazioni di renitenti. Esse non sono solo azioni di repressione, ma tremendi atti dimostrativi tesi a terrorizzare gli altri ragazzi e tutta la popolazione per cercare di piegare con la paura chi non si era riuscito a convincere con ragionamenti ed emozioni retoriche ormai vanificate dal conflitto e dai suoi tremendi effetti. Violenze gravi che, quasi per contrappasso, ottengono l’effetto di favorire un rafforzamento del movimento partigiano, con la fuga alla “macchia” di tanti giovani, e più in generale di favorire un sentimento di ostilità della popolazione contro la Repubblica sociale, contribuendo così a quella crescita della Resistenza, in ogni sua forma, che si dispiegherà nei mesi successivi contribuendo alla liberazione di gran parte del territorio della Toscana.