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La svastica sul Giglio.

La mattina dell’11 settembre 1943 le truppe naziste entrano a Firenze. La città viene occupata senza colpo ferire. Il generale Chiappi Armellini, responsabile della sua difesa, si arrende mentre le truppe dell’ex alleato circondano e occupano le caserme fiorentine, arrestando i militari. Rapido e tragico epilogo delle ore convulse successive alla diffusione del messaggio del capo del governo, generale Badoglio, la sera dell’8 settembre. Appena avuto notizia dell’armistizio il Comitato interpartito delle forze antifasciste aveva richiesto al generale Chiappi Armellini di distribuire le armi alle forze antifasciste, ma questi si era rifiutato, ligio alle direttive militari, assicurando al tempo stesso la difesa della città. Ma i deboli tentativi di resistenza si erano immediatamente spenti, sia al passo dell’Abetone dove era stata inviata una batteria priva di armamenti adeguati, sia al passo della Futa dove si verifica l’unico scontro fra militari italiani e tedeschi in provincia di Firenze e dove era presente il capitano Carlo Nannoni che avrebbe poi assunto il comando della terza Brigata Rosselli e sarebbe morto combattendo per la liberazione di Firenze. Subito dopo la resa il Comando militare italiano, mentre i nazisti prendono possesso del Comando di Corpo d’Armata in piazza San Marco dove stabiliranno il proprio comando, ordina a ufficiali e soldati di restare o presentarsi alle rispettive caserme; ma molti erano già riusciti a fuggire, sottraendosi alla cattura, potendo contare sul sostegno della popolazione civile che li nasconde e protegge, realizzando così la prima forma di resistenza civile contro l’occupazione. Particolarmente facilitati sono i militari presenti nella caserma della Zecca sul lungarno grazie a un condotto sotterraneo che consente a molti di scappare sul greto del fiume. Oltre alle caserme sono immediatamente occupati due importanti realtà militari quali l’Istituto farmaceutico militare a Castello e l’Istituto geografico militare. Secondo i rapporti tedeschi sono circa 20.0008 settembre 1943: il disarmo e la deportazione degli Internati militari italiani.

La rapida occupazione di Firenze a parte delle forze germaniche si inserisce all’interno della più ampia strategia con cui assumono queste il controllo di tutta la regione all’indomani dell’8 settembre, all’interno delle strategie generali delle forze del Reich e in relazione alla peculiare rilevanza del nostro territorio. La Toscana ha infatti una specifica importanza nello schieramento delle forze naziste come snodo strategico nei collegamenti infrastrutturali fra le regioni del nord e Roma con tutta l’area centro-meridionale; ruolo che manterrà fino all’estate del 1944. Inoltre, dal settembre del ’43, la costa tirrenica assume una centralità assoluta dopo la perdita da parte dei nazisti delle principali grandi isole (Corsica e Sardegna), a fronte dei rischi di sbarchi e attacchi nemici. Una rilevanza che, peraltro, spiega l’intensa successione di attacchi aerei da parte anglo-americana sulle province toscane, in particolare sui sistemi stradali, ferroviari, oltre che sui principali nuclei industriali, accentuando le dinamiche che già avevano interessato in particolare Livorno nei mesi precedenti.
La presenza tedesca si struttura quindi, nelle settimane successive, parallelamente al costituirsi del governo della Repubblica sociale da parte dei fascisti nei vari territori, in due gruppi amministrativi: la Militarkommandantur 1003 con sede a Firenze – che interessa le province di Firenze, Siena, Arezzo e Forlì – e la 1015 di stanza a Lucca – comprendente le province di Lucca, Pistoia, Apuania, Pisa e Livorno – città quest’ultima presidiata dalla Wehrmacht e fatta evacuare fin dal mese di ottobre per la sua rilevanza strategica – (le cui relazioni sono fonti essenziali per lo studio di quei mesi); mentre la provincia di Grosseto viene posta sotto il controllo della M. di Viterbo.

Fin dalle prime settimane successive all’armistizio, le autorità naziste si pongono come la nuova autorità, riempiendo il palese vuoto di potere, come attestato dalle numerose direttive che sono emanate immediatamente e promosse dalla stampa, tutte legittimate da Le leggi di guerra germaniche in vigore nel territorio italiano emanate il 14 settembre. Il 17 il comando supremo nazista emana pene severissime, sino alla morte, per chi ruba o distrugge armi o strumenti bellici, così come per chi presta aiuto ai prigionieri di guerra anglo-americani fuggiti dagli ex campi di prigionia fascisti a seguito dell’8 settembre (minaccia che non limita un’azione solidale portata avanti dalla popolazione e che spesso si manifesta proprio come una delle prime forme di resistenza civile). Il 19 e 20 settembre lo stesso Comando nazista impone la presentazione di tutti gli appartenenti al disciolto regio esercito pena il trasferimento ai tribunali militari di guerra nazisti. Fra fine settembre e inizio ottobre le aree costiere sono segnate dalle ordinanze di evacuazione della popolazione civile, con conseguenze gravose per le vite delle persone, dalla costa grossetana (23 settembre) a Viareggio e Livorno (24 settembre), alla Versilia (ottobre). Centrale (e progressivamente crescente nel tempo) è poi la volontà di sfruttare le risorse economiche del territorio attraverso una diffusa politica di requisizioni di beni che troverà il suo culmine nella cattura degli uomini per il trasferimento coatto della manodopera nei territori del Reich, sancita anche dall’assegnazione a Firenze degli ufici dei comandi economici della Militarverwaltung dal novembre del ’43.
Come attestato dalla storiografia, anche nei mesi successivi e a dispetto delle volontà dei fascisti, questo dominio non verrà mai meno, rendendo evidente la subalternità della Repubblica sociale italiana nei confronti dell'”alleato occupante” secondo la nota e puntuale definizione coniata da Lutz Klinkhammer. Un rapporto ineguale che non elimina un ruolo politico esercitato da parte fascista (sia pure con pochi risultati, a partire dalla questione della leva militare), né l’insostituibile azione di governo amministrativo del territorio che viene affidato alla RSI, ma che certo non favorisce l’accreditamento e la legittimazione della repubblica fra una popolazione sempre più stanca e insofferente.

 




“come se una nuova vita si spalancasse davanti a loro…”

Tutto era ormai compiuto. Nella notte fra il 24 e il 25 luglio il Gran Consiglio del fascismo aveva votato, Mussolini, presentatosi al cospetto del Re credendo di riceverne il sostegno, che mai era mancato, era stato invece arrestato; il generale Badoglio aveva costituito il nuovo governo. Eppure l’annunzio viene trasmesso solo a tarda sera, alle ore 22.48, con due proclami del Re e di Badoglio. Chiusa in casa la popolazione resta quasi attonita prima di sprigionare pianti e risa di gioia che si intrecciano negli incontri per le scale dei condomini, mentre la voce si sparge anche nelle famiglie che non hanno la radio.
Ma è soprattutto dalla mattina del 26 luglio che anche a Firenze, come in molte città italiane esplode la gioia della popolazione in numerose manifestazioni spontanee caratterizzate dall’esposizione dei tricolori nazionali. Mentre viene annunciato il passaggio dei poteri dalle autorità civili a quelle militari con la proclamazione del coprifuoco e dello stato d’assedio.
La “caduta” di Mussolini era immediatamente identificata con il concretizzarsi della fine della guerra e di una svolta positiva nelle proprie vite a fronte delle paure e dei disagi causati dal conflitto, aggravatisi con il passare dei mesi, che avevano suscitato una crescente insofferenza e quindi un progressivo distacco dal regime. Nessuno presta fede alle parole del maresciallo Badoglio. “. . la guerra continua..“. Ecco perché, quando pochi giorni dopo, la mattina del 28 luglio, si diffonde la voce incontrollata che sarebbe stato firmato l’armistizio dal nuovo governo, le fonti di polizia avvertono il capo della Polizia Senise che i fiorentini si sono subito abbandonati a manifestazioni di gioia nel centro della città. Nonostante venga subito fatta sgombrare ogni manifestazione e sia chiarità la falsità della notizia, nella popolazione “traspare un vivo, immenso desiderio di pace e di tranquillità” (da Relazione Commissario Capo PS Ingrassia a capo della polizia Senise, 28 luglio 1943).,”I cittadini che s’incontravano per le strade e negli uffici si abbracciavano con effusione, come se una nuova vita si spalancasse davanti a loro, come se la possibilità di esprimere quanto covava nel loro animo da tempo creasse un nuovo rapporto sociale e desse un significato dimenticato alle parole patria e nazione.” [C. Francovich, La Resistenza a Firenze, La Nuova Italia editrice, 1961, p. 16]
Si formano cortei esultanti, pur senza parole d’ordine. Convergono in piazza Vittorio Emanuele) ora piazza della Repubblica) e quindi in piazza del Duomo cantando i vecchi inni del Risorgimento. Si sventolano i tricolori, si inneggia al Re e al Badoglio, forse sperando che avessero davvero la ricetta per portare l’Italia fuori della terribile situazione nella quale era stata condotta dal Regime. Una speranza che certo non temeva conto di complicità e responsabilità passate che invischiavano tutta la classe dirigente del Paese, ben oltre il Duce e la sua stretta più ristretta, ma soprattutto delle dinamiche internazionali e in particolare dell’interesse militare strategico che il controllo della penisola aveva per l’alleato germanico. Eppure, una speranza comprensibile, nella sua stessa ingenuità, come sollievo temporaneo dopo mesi di timori, lutti, miserie. Una speranza che responsabilizza ed evita in quelle ore scontri o assalti ai luoghi fascisti, stupendo lo stesso servizio d’ordine immediatamente attivato dalla Questura che temeva disordini “sovversivi”. Ma una speranza destinata a infrangersi presto. Un’altra manifestazione è animata in piazza San Marco, sede del rettorato, da parte degli studenti universitari e delle scuole medie: sventolano i tricolori e gridano “viva la pace” anche se carabinieri e forze dell’ordine intervengono e li disperdono.
Tuttavia in quelle prime ore, è la gioia la nota dominante. La popolazione festeggia gli stessi presidi dei militari schierati per mantenere l’ordine pubblico. I fascisti quasi paiono svanire nel prendere atto di un mutamente generale ed inarrestabile. Pochissimi incidenti: qualche percossa e qualche giacca strappata a fronte di quei fascisti che avevano deciso di mantenere comunque il distintivo del partito all’occhiello. Ma nessuna violenza grave viene registrata; solo scontri con qualche sparatoria sul ponte alla Carraia. Anche le voci sul presunto omicidio del ras di San Frediano, Gambacciani, che sarebbe stato gettato in Arno come lui aveva fatto nel 1938 con un giovane antifascista è del tutto falsa, visto che il fascista riapparirà vivo e vegeto dopo l’8 settembre. Tra il 26 e il 27 secondo la Nazione solo 30 persone si presentano ai vari ospedali cittadini per ferite da percosse (di cui solo uno grave). Certo sono indici di violenza comunque praticate, ma comunque minime se si considera ciò che avrebbe potuto accadere dopo tanti anni di soperchierie, angosce, brutalità praticate dai fascisti, dopo le sofferenze di quei mesi di guerra e nel contesto di violenza radicale di quel conflitto. La rabbia si scatena contro i quadri e i busti del Duce, le targhe di strade e piazze intitolate a esponenti o simboli del regime.
Intanto le forze antifasciste iniziano a muoversi. Accanto allo spontaneismo delle prime manifestazioni operano i gruppi antifascisti, almeno i più organizzati. In particolare i comunisti si ritrovano già la mattina del 26 luglio nella casa di Fosco Frizzi (dirigente del movimento giovanile comunista, arrestato e condannato al carcere durante il ventennio) e stampano in ciclostilato un primo appello alla popolazione. Uno degli obiettivi che viene posto per le manifestazioni dei giorni successivi è la liberazione dei prigionieri politici dal carcere delle Murate. Vengono mobilitate le cellule clandestine del partito, in particolare quelle presenti negli stabilimenti industriali come la Galileo, presidiati dai carabinieri.
Ma è l’insieme delle forze antifasciste a muoversi, riunite nel Comitato interpartitico, composto da Marino Mari e Aldobrando Medici Tornaquinci per i liberali, Enzo Enriquez Agnoletti e Carlo Furno per gli azionisti, Arturo Bruni, Alfredo Bruzzichelli e Diego Giurati per i socialisti, Mario Augusto Martini e Adone Zoli per il partito dei cattolici: la Democrazia cristiana; Giulio Montelatici per i comunisti. Il Comitato interpartitico si reca in Prefettura per chiedere lo scioglimento del fascio, provvedimenti contro i fascisti, la liberazione dei detenuti politici. Il prefetto si limita a trasmettere al Ministero le richieste. Grande prudenza anche da parte delle autorità militari, con il Comando del Corpo d’Armata che tiene i soldati consegnati nelle caserme, evitando incontri con la popolazione. Il 30 agosto all’Università è nominato rettore Piero Calamandrei.
Nel mondo del lavoro si cerca di coinvolgere gli operai con l’Appello dell’Unione proletaria di Firenze, pubblicato sulla Nazione del 28 luglio, edizione sequestrata:
In questo momento critico, in cui i nostri animi si aprono alla speranza siamo ancora esposti alle insidie dei nostri nemici. Per venti anni avete ascoltato gli ordini di chi vi ha sempre ingannato, promettendovi molto e non concedendovi nulla.
L’Unione proletaria è il fronte di tutte le organizzazioni che durante l’oppressione fascista non hanno cessato di combattere per i nostri diritti. Oggi l’unione proletaria è l’unico organo in grado di dirigervi e di mettervi in guardia contro gli agenti della reazione. […]
Operai! Attenti a non ripetere gli errori del ’20 che cadrebbero a nostro danno. Attenti agli atti inconsulti! Vigilate sui macchinari delle fabbriche che sono la garanzia della nostra vita! Operai imparate a conoscervi! I soldati sono vostri fratelli. Non diffidate di voi stessi. Unitevi! Viva la libertà! Viva l’Italia!“.
Nelle industrie sono costituite le “commissioni di fabbrica” che iniziano ad avanzare richieste riguardanti i salari e l’alimentazione. L’Unione dei commercianti intanto indice un referendum fra i soci per eleggere le proprie cariche.
Nelle settimane successive i partiti antifascisti cercano di organizzarsi, uscendo dalla clandestinità. Il 22 agosto i socialisti costituiscono la sezione del Partito in casa del vecchio Gaetano Pieraccini, fra i fondatori del PSI nel 1892. Il Partito d’Azione tiene la propria assemblea regionale nella sede di “la scena illustrata” in lungarno Guicciardini e dal 5 al 7 settembre terranno proprio a Firenze, in casa di Carlo Furno e Enriquez Agnoletti il primo congresso nazionale. Sempre il 5 settembre i liberali si riorganizzano nel movimento “Ricostruzione liberale”; nasce anche un raggruppamento della Democrazia del Lavoro. Il partito comunista , che la sera del 20 agosto aveva ricostituito il comitato provinciale, si rafforza con l’arrivo di dirigenti di grande spessore politico e organizzativo come Giuseppe Rossi, Mario Fabiani, Guido Mazzoni, Mario Garuglieri e all’Università viene costituito il Fronte della Gioventù. Fra i dirigenti comunisti molti affermano con sicurezza che i tedeschi occuperanno presto il Paese, soprattutto se il Governo Badoglio non farà appello al popolo e non farà consegnare le armi dall’esercito. A favore della richiesta di una mobilitazione popolare per la pace e contro la presenza nazista convergono anche socialisti e azionisti nel corso di una riunione tenuta con i comunisti il 3 settembre. Escono I primi periodici antifascisti: il partito d’Azione pubblica “oggi e domani”, i socialisti “Socialismo”, La Pira pubblica due numeri del bollettino “San Marco” che illustra il suo programma cristiano-sociale; i comunisti distribuiscono 2L’Unità” che arriva da Milano e diffondono manifestini vari.
Ma la Storia segue un corso diverso. Queste timide tendenze saranno presto bloccate da un nuovo proclama nella notte. E per gli uomini e le donne, le forze sociali e politiche si aprirà una stagione terribile, a fronte del prolungarsi della guerra totale, del manifestarsi dell’occupazione nazista e del governo fascista collaborazionista di Salò. E tutti si troveranno di fronte alla sfida decisiva per cambiare il futuro di se stessi, della città e del Paese.




Note sulla Repubblica sociale italiana in Maremma

Le recenti polemiche innescate dalla prevista intitolazione a Grosseto di una via a Giorgio Almirante, storico leader del Movimento sociale italiano e già funzionario del Ministero della Cultura Popolare della Repubblica sociale italiana (RSI), hanno riportato all’attenzione del dibattito pubblico locale le responsabilità del fascismo nonché il lascito drammatico della guerra civile, combattutasi con accanimento anche in Maremma tra il 1943 e il 1944[1]. Va comunque notato che a fronte di un precoce – e certo comprensibile – interesse storiografico alla vicenda resistenziale, oggetto sin dalla metà degli anni ’60 di significativi tentativi di indagine, non è corrisposta un’altrettanto vivace attenzione all’esperienza del fascismo repubblicano grossetano, fatte salve le pioneristiche ricerche di Nicla Capitini Maccabruni e il più recente lavoro di Marco Grilli sulla strage fascista di Maiano Lavacchio[2]. Altrettanto significativo è il fatto che a comporre un primo affresco complessivo sulla Repubblica sociale italiana nella provincia, seppur di taglio cronachistico e apologetico, fosse nel 1995 la penna di Vito Guidoni, all’epoca giovane ufficiale della Guardia nazionale repubblicana (GNR)[3].

Nel dicembre 2021, la pubblicazione del volume dell’Istituto Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea Antifascismo, guerra e Resistenza in Maremma – curata da Stefano Campagna e Adolfo Turbanti – ha quindi voluto, tra le altre cose, colmare questo gap conoscitivo, potendo ora contare sulla disponibilità della documentazione prodotta nel corso del cosiddetto “processone”, intentato nel dopoguerra dalla Corte d’Assise speciale di Grosseto per giudicare e punire capi e gregari della RSI in Maremma. Grazie anche a questa ricchissima fonte archivistica, in larga parte inedita, la ricerca ha cercato di ricostruire i caratteri identitari, organizzativi e repressivi di un fascismo repubblicano ben deciso a riappropriarsi del perduto spazio politico sgretolatosi con il brusco crollo del regime mussoliniano, imponendo una propria seppur limitata statualità al riparo delle armi naziste[4].

Alceo Ercolani (Credits: V. Guidoni, Cronache grossetane)

Alceo Ercolani (Credits: V. Guidoni, Cronache grossetane)

All’indomani dell’armistizio e della fulminea occupazione tedesca della penisola, la federazione fascista   riapriva i battenti il 18 settembre 1943. A farsene interpreti, in un contesto segnato tanto dall’incertezza che dalla volontà di rivalsa contro vecchi e nuovi «traditori», erano in primo luogo alcuni esponenti di lunga data del fascismo maremmano: Generoso Pucci, Inigo Pucini e Silio Monti, destinati a ricoprire nei mesi a seguire ruoli politici e istituzionali di primo piano a livello locale. Un aspetto che anche nel caso grossetano lascia intravedere, nonostante i frequenti appelli propagandistici al rinnovamento e a un im­probabile ritorno alle origini sansepolcriste del movimento mussoliniano, quelle linee di continuità, più che di rottura, dell’esperienza della RSI con il defunto regime[5]. A riaffiorare erano inoltre i dissidi interni al fascismo maremmano, trascinatisi lungo tutto il Ventennio[6], che consigliavano la nomina quale commissario federale di una figura del tutto estranea al contesto locale. La scelta sarebbe caduta sul viterbese Alceo Ercolani, già ufficiale del Regio Esercito con alle spalle alcuni importanti incarichi tra le fila del Partito nazionale fascista (PNF), designato poi quale capo della provincia di Grosseto. Nonostante l’attivismo della nuova leadership fascista, il tentativo di mobilitazione ai fini bellici dell’intero corpo sociale si sarebbe dimostrato estremamen­te difficoltoso, scontrandosi da un lato con il palpabile deficit di legittimità della neonata repubblica fascista, gravata dall’invadente presenza dell’«alleato-occupante» e dalla difficile situazione militare[7]; dall’altro, scontando la diffusa indifferenza, quando non l’aperta ostilità, di larga parte della società civile grossetana, stremata da oltre tre anni di conflitto.

Le adesioni al nostro governo repubblicano – sottolineava Ercolani in una relazione stilata nell’ottobre 1943 – pervengono lentamente [e] altrettanto dicasi per le iscrizioni al partito. […] La popolazione nel grossetano è ottima sotto ogni aspetto, ma è perplessa, indecisa politicamente […]. Inoltre l’opera intrapresa da noi viene quotidianamente smantellata dal contegno arrogante e prepotente dei camerati tede­schi. […] Il popolo tutto vede e commenta sfavorevolmente, spronato da coloro che attendono ancora gli inglesi[8].

Un’alterità immediatamente percepibile tanto dal modesto, seppur non trascurabile, numero di iscritti al partito fascista repubblicano – 3.168 aderenti nel marzo 1944, appena una frazione dell’elefantiaco apparato del PNF[9] – che dal disastroso esito delle operazioni di leva, disposte per il Grossetano a partire dalla seconda metà di dicembre 1943. Nonostante l’irrigidimento delle misure coercitive mes­se in campo dalle autorità fasciste, solo un esiguo numero di reclute avrebbe infatti risposto all’appello dell’esercito di Salò, certificando con il proprio dissenso un ormai generalizzato «rifiuto della guerra» impensabile sino ad alcuni mesi prima. Come notava il comando provinciale dell’esercito, a favorire questa vera e propria «renitenza di massa»[10] avrebbe contribuito anche la presenza di «numerose, forti, ben armate […] bande di ribelli», capaci di minacciare la già precaria credibilità e la tenuta stessa dell’ordinamento fascista repubblicano[11]. L’azione via via più aggressiva delle prime formazioni alla macchia – particolarmente intensa nel Massetano e lungo il lembo meridionale della provincia – avrebbe quindi spinto le autorità saloine a mettere in campo una sempre più incisiva reazione repressiva: stante il cauto atteggiamento inizialmente dimostrato dalle forze di occupazione tedesche, scarsamente inclini a intervenire direttamente nella lotta antipartigiana laddove non direttamente minacciati nei propri interessi[12], erano soprattutto i reparti militari e di polizia italiani a rendersi protagonisti, nei primi mesi del 1944, di una serie di operazioni di rastrellamento, sviluppatesi in più occasioni a cavallo delle confinanti province di Siena e Viterbo. Aspetti questi che oltre a rimarcare l’attivismo di Ercolani, già messosi in luce per lo zelo persecutorio dimostrato verso gli ebrei[13], confermano i margini di iniziativa e gli spazi di autonomia – tutt’altro che trascurabili – attribuiti a livello locale alle formazioni armate saloine[14]. Non a caso, è nelle settimane tra febbraio e marzo 1944 che il fascismo repubblicano toscano riusciva a imporsi quale soggetto attivo della violenza, dimostrando sul campo una fattiva e brutale capacità repressiva in larga parte slegata dall’ancora limitata azione antipartigiana condotta dell’alleato tedesco nella regione. Un’offensiva che, come nel caso grossetano, dove numerose erano le camicie nere reduci da una lunga esperienza nel teatro di occupazione balcanico, avrebbe attinto alle pratiche di controguerriglia sperimentate nel corso delle precedenti guerre del fascismo.

La violenta dialettica con le formazioni partigiane trovava in Maremma il massimo sfogo nei tragici episodi del Frassine – dove il 16 febbraio venivano fucilati cinque membri della banda Camicia Rossa – e nella strage perpetrata il 22 marzo successivo a Maiano Lavacchio: in questo caso, 11 tra renitenti e sbandati catturati sui bassi rilievi di Monte Bottigli erano passati per le armi dai militi della GNR dopo un simulacro di processo sommario, alla presenza di alcuni dei familiari delle vittime accorsi dalle vicine case coloniche nel tentativo di salvare i propri cari[15]. La ricercata ostentazione del successo, volta a riaffermare la fermezza e la radicalità d’intenti delle autorità della RSI, tradiva in realtà le malferme fondamenta del potere fascista. In tal senso, ha notato Toni Rovatti, «la debolezza sul piano della legittimità, che caratterizza costituzionalmente il nuovo Stato fascista», si dimostra «una chiave interpretativa essenziale» per comprenderne l’«evoluzione nelle scelte sull’uso politico della violenza» estrema[16]. Gli effimeri successi delle forze nazifasciste non avrebbero in ogni caso impedito il crescente sviluppo del movimento resistenziale, sempre più padrone dell’iniziativa e capace ormai di contendere il controllo di ampie porzioni del territorio maremmano. Con l’inoltrarsi della primavera e la ripresa dell’offensiva alleata sulla Linea Gustav, la situazione era destinata rapidamente a precipitare, mentre le ultime segnalazioni inviate dal capo della provincia denunciavano il senso di abbandono e l’angoscia serpeggiante tra le schiere fasciste, già falcidiate dalle numerose defezioni. «La si­tuazione qui è gravissima e peggiora di giorno in giorno» lamentava Ercolani sul finire di maggio. «Non ho le armi e i pochi ar­mati non sono assolutamente sufficienti a fronteggiare le bande. Da otto mesi chiedo invano […] armi e rinforzi. Finora ho potuto resistere […]; ma ora non più. Bisogna provvedere tempestivamente!»[17].

L’improvvido allontanamento del capo della provincia, assentatosi l’8 giugno per conferire con il ministro dell’Interno, segnava infine il disordinato tracollo delle residue strutture politico-militari ancora presenti nella provincia, che si accompagnava con le ultime violenza sfogate nell’imminenza della disfatta contro una popolazione punita per aver voltato le spalle al fascismo[18]. Difficile azzardare una stima su quanti – tra militari e civili, in diversi casi seguiti dalle proprie famiglie – avrebbero deciso di abbandonare la provincia e riparare oltre l’Appennino, per sfuggire alle incognite della Liberazione e continuare la guerra al fianco delle forze tedesche. Mentre la federazione fascista prendeva sede nel piccolo centro gardesano di Bardolino, i reparti superstiti della GNR convergevano in buona parte verso Vicenza, dimostrando nei mesi a seguire un rinnovato impegno nell’azione di controguerriglia. Interessante infine notare come l’ex-capo della provincia Ercolani, elogiato dal segretario del PFR Pavolini per il «comportamento» tenuto di fronte alla «spinta dei ribelli»[19], fosse dirottato alla guida dell’Ente nazionale per l’assistenza ai profughi e la tutela degli interessi delle province invase, che avrebbe assunto nel corso dell’estate 1944 compiti politicamente assai delicati per la tenuta del residuo consenso al fascismo repubblicano.

All’indomani della Liberazione, la richiesta di giustizia proveniente dalle comunità colpite dalla violenza saloina avrebbe dovuto attendere sino al 18 dicembre 1946, quanto al termine di una lunga e complessa istruttoria, la Sezione speciale della Corte d’Assise di Grosseto pronunciava condanne piuttosto pesanti nei confronti dei maggiori responsabili del fascismo repubblicano maremmano. I successivi esiti giudiziari della vicenda avrebbero però significativamente attenuato le pene spiccate dalle corte grossetana, palesando la difficile e contradditoria transizione dal fascismo alla democrazia[20].

 

**Note**

[1] Nicola Ciuffoletti, Le vie della discordia. Polemica per l’intitolazione ad Almirante e Berlinguer, «La Nazione» (ed. on line), 15 marzo 2023 (www.lanazione.it/grosseto/cronaca/le-vie-della-discordia-polemica-per-lintitolazione-ad-almirante-e-berlinguer-64674de5). La vicenda è stata oggetto, a più riprese, di attenzione anche dalla stampa nazionale, come ad esempio in Stefano Cappellini, Hanno tutti ragione. Berlinguer, Almirante e la farsa di Grosseto. Si scrive pacificazione, si legge parificazione, «La Repubblica» (ed. on line), 17 marzo 2023 (www.repubblica.it/politica/2023/03/17/news/berlinguer_almirante_grosseto_via_pacificazione_hanno_tutti_ragione-392537736/). Per un più ampio inquadramento si veda inoltre l’approfondimento Perché no a una via intitolata ad Almirante, curato dall’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea (www.facebook.com/isgrec.istitutostoricogr). Tutti gli URL sono stati verificati alla data del 25 maggio 2023.
[2] N. Capitini Maccabruni (a cura di), La Maremma contro il nazi-fascismo, La Commerciale [stampa], s.l. 1985 e M. Grilli (a cura di), Per noi il tempo s’è fermato all’alba. Storia dei martiri d’Istia, Effigi, Arcidosso (Gr) 2014. Per uno sguardo bibliografico d’insieme rimando a S. Campagna – A. Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenza in Maremma, Effigi, Arcidosso (Gr) 2021, pp. 379–382.
[3] V. Guidoni, Cronache grossetane: settembre 1943 – giugno 1944, Associazione Famiglie Caduti e Dispersi della RSI, Grosseto 1995.
[4] Il presente contributo condensa alcuni degli aspetti già messi in luce in L. Pera, Alla periferia della repubblica fascista: caratteri, identità, violenza del fascismo repubblicano grossetano (1943-1945), in S. Campagna – A. Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenza in Maremma, cit, pp. 131–172, cui mi permetto di rinviare per una più ampia e articolata trattazione. Le carte del procedimento della Corte d’Assise speciale di Grosseto, raccolte in quattro corpose buste, sono conservata in Archivio di Stato di Perugia, Corte d’Assise, Processi penali (ultimo versamento), bb. 79-79quater.
[5] Riprendo qui l’interpretazione offerta da D. Gagliani, Biografie di “repubblichini” e continuità e discontinuità culturali e politiche, in S. Bugiardini (a cura di), Violenza, tragedia e memoria della Repubblica sociale italiana, Carocci, Roma 2006, pp. 205–213. Per una concisa ma ricca sintesi dell’esperienza del fascismo repubblicano cfr. A. Osti Guerrazzi, Storia della Repubblica sociale italiana, Carocci, Roma 2012.
[6] Sui caratteri e i profili del fascismo maremmano vedi M. Grilli, Il governo della città e della provincia, in V. Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), Effigi, Arcidosso 2018, pp. 51–153.
[7] Sull’occupazione tedesca della penisola, rimane tutto essenziale il lavoro di L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
[8] ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, b. 1, f. 1/Ris, Grosseto – Situazione politico-economica della provincia, s.d. [ma presumibilmente metà ottobre 1943]. Più in generale cfr. S. Campagna, Civili in guerra e guerra ai civili. Per un profilo storico della provincia di Grosseto tra fascismo e secondo conflitto mondiale, in S. Campagna – A. Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenza in Maremma, cit., pp. 29–72.
[9] Traggo queste cifre da ACS, MI, Gabinetto, RSI, b. 6, f. 45, Prefettura di Grosseto, Situazione politico-economica della provincia – Mese marzo 1944, 1° aprile 1944.
[10] S. Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004, pp. 218–219. Sul caso grossetano cfr. M. Grilli (a cura di), Per noi il tempo s’è fermato all’alba, cit., pp. 40 segg..
[11] Archivio dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, I-1, b. 10, f. 130, 49° Comando Militare Provinciale, Situazione sulla chiamata alle armi dei militari delle classi 1923-1924-1925 per conto dell’Esercito, 18 febbraio 1944.
[12] C. Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-1945, Einaudi, Torino 2015, pp. 86–87.
[13] L. Rocchi, Ebrei nella Toscana meridionale: la persecuzione a Siena e Grosseto, in E. Collotti (a cura di), Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI. Persecuzione, depredazione, deportazione (1943-1945), Vol. I. Saggi, Carocci, Roma 2007, pp. 254 segg.; più in generale cfr. S. Levis Sullam, I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945, Feltrinelli, Milano 2015, che richiama a sua volta l’attenzione sul caso grossetano.
[14] Su questi aspetti, ben evidenziati dalla più recente storiografia, si veda in particolare T. Rovatti, Leoni vegetariani. La violenza fascista durante la RSI, CLUEB, Bologna 2011 e Id., La violenza dei fascisti repubblicani. Fra collaborazionismo e guerra civile, in G. Fulvetti – P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Il Mulino, Bologna 2016, pp. 145–168.
[15] L. Pera, Alla periferia della repubblica fascista, cit., pp. 158–165 e M. Grilli (a cura di), Per noi il tempo s’è fermato all’alba, cit.. Sull’episodio di Maiano Lavacchio si veda inoltre la mostra virtuale Per noi il tempo si è fermato all’alba.
Storia dei Martiri d’Istia
, raggiungibile all’indirizzo: https://martiridistia.weebly.com.
[16] T. Rovatti, Leoni vegetariani, cit., p. 117.
[17] ACS, MI, Gabinetto, RSI, b. 10, f. 13, Telegramma n. 2522, da capo Provincia Grosseto Ercolani a Ministero Interno Gabinetto, s.d. [ma precedente il 29 maggio 1944].
[18] Tra il 9 e il 10 giugno, nei pressi di Roccalbegna e di Scarlino, militi della GNR venivano uccidevano due civili, presumibilmente le ultime vittime fasciste della provincia.
[19] Lettera di Alessandro Pavolini a Benito Mussolini, 18 giugno 1944, pubblicata in N. Capitini Maccabruni, La situazione della Toscana nel giugno 1944 in alcune lettere di Pavolini al duce, «Ricerche storiche», VIII (1978), n. 2, pp. 538–540.
[20] Sulle vicende del “processone” vedi M. Grilli (a cura di), Per noi il tempo s’è fermato all’alba, cit., pp. 97 segg.. Sulle aspettative e le reazioni della società civile italiana di fronte alla stagione di giustizia di transizione imbastita nel dopoguerra si rimanda, A. Martini, Dopo Mussolini. I processi ai fascisti e ai collaborazionisti (1944-1953), Viella, Roma 2019.



Antifascismo, Antifascismi

Lo scorso marzo si è tenuto a Lucca il convegno nazionale “Antifascismi, antifasciste e antifascisti. Pratiche, ideologie e percorsi biografici”, organizzato dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea, e curato da Gianluca Fulvetti e Andrea Ventura. L’appuntamento si è svolto su due intense giornate di studio e si è inserito all’interno del filone di iniziative promosse dagli istituti storici della Resistenza toscani per l’anniversario della marcia su Roma. La particolarità di questo convegno è che ha rappresentato la tappa in cui per la prima volta al centro del dibattito storiografico collettivo è stato posto il fenomeno stesso dell’antifascismo. Infatti, se negli altri momenti di discussione si era comunque sempre tenuto in considerazione l’intreccio indissolubile al fine della comprensione storica tra fascismo e antifascismo, quest’ultimo ne era rimasto ugualmente in qualche modo schiacciato, visto che ci si era concentrati prettamente sul primo fascismo, sul suo avvento e sul consolidamento del potere durante il ventennio nei vari territori.

L’incontro nazionale ha avuto alcuni importanti meriti, tra cui innanzitutto la capacità di affrontare la riflessione sull’antifascismo in tutta la sua complessità e secondo diversi livelli di analisi: esplicito fin dal titolo, la discussione si è mossa a partire dalla pluralità delle forme del fenomeno, delle sue varie declinazioni, senza dare per scontato un’univoca pratica antifascista, e con la scoperta (o riscoperta) di alcuni percorsi individuali biografici che hanno permesso di dare dignità a singoli spaccati di vita e al tempo stesso di comprendere meglio le specificità dell’agire politico. Anche in questo caso le singolarità non sono state rappresentate come fine a se stesse, ma ricondotte all’interno di una cornice unitaria, seppur multiforme, con un’attenzione non scontata al transnazionalismo come elemento sostanziale alla comprensione dell’antifascismo e delle sue riflessioni teoriche che troveranno poi una concretizzazione nel dopoguerra democratico. Altra caratteristica che secondo chi scrive ha dato un valore aggiunto al convegno è stata la scelta da parte degli organizzatori di raccogliere i contributi grazie ad una call for paper di ampio respiro tematico: ciò non solo ha dato la possibilità a storiche e storici di varie zone d’Italia di avanzare le proprie proposte, indipendentemente dalla provenienza accademica, ottenendo di fatto un allargamento democratico dell’offerta, degli spunti di riflessione e degli ambiti di ricerca, ma ha anche consentito una composizione intergenerazionale fra coloro che hanno esposto la propria relazione, una compresenza fra giovani che per la prima volta si confrontavano con l’esperienza convegnistica, con studiose e studiosi navigati, in una contaminazione che è parsa vincente.

Le relazioni selezionate dal comitato scientifico si sono tenute su due giorni e sono state suddivise all’interno di quattro sessioni: antifascismi come ideologie politiche, biografie dentro la guerra civile europea e le resistenze, antifascismi come vissuto quotidiano, storia e memoria. Assente ufficialmente come blocco tematico, ma presente trasversalmente in molte delle relazioni è stato quello del metodo storico e dell’approccio all’uso delle fonti per la storiografia dell’antifascismo. Durante ogni fase della discussione l’antifascismo, o meglio gli antifascismi, sono stati inquadrati in elaborazioni storiche di lungo periodo, che non di rado guardavano direttamente, pur mantenendo chiare le dovute differenze, anche alla Resistenza (e alle resistenze), se non addirittura al dopoguerra e all’Italia contemporanea. In particolare, in questo senso è stata pensata l’ultima sessione del convegno, in cui i vari interventi hanno portato i risultati di alcune ricerche ancora in corso che dimostrano come la narrazione di determinati avvenimenti storici sia cambiata nel tempo e come questa esprima molto della memoria pubblica. La storiografia e la memoria dell’antifascismo, quindi, come lenti privilegiate per analizzare l’Italia repubblicana.

In generale sono emersi, tra le altre cose, il consolidamento di riflessioni e persino gli avanzamenti sull’uso di fonti considerate classiche per lo studio dell’antifascismo, come ad esempio il Casellario Politico Centrale: da una parte continua ad essere proficuamente utilizzato per riscoprire biografie e costruire dizionari biografici o altre raccolte, dall’altra si studia per valutazioni innovative che riguardano il dopoguerra, per avere un riflesso di come all’indomani del 1945 veniva gestito l’ordine pubblico, quindi sostanzialmente analizzare chi fossero i funzionari dediti a tale lavoro, quali i soggetti controllati dal nuovo Cpc, quali le categorie considerate come possibili sovvertitrici delle nuove istituzioni. Ci permette, cioè, di osservare le ombre dell’Italia del dopoguerra, i motivi dietro la scelta di recuperare uno strumento liberticida e di controllo sociale all’interno di una cornice democratica, che risente fin da subito dell’incombere della guerra fredda. Inoltre, una certa attenzione degna di nota è stata posta alle riflessioni sul metodo riguardo lo studio delle figure femminili dell’antifascismo e della Resistenza con la consapevolezza di dover volgere con maggiore cura uno sguardo alle carte secondo la loro parzialità e contemporaneamente la necessità di fare approfondimenti attraverso un affinamento e fonti non convenzionali e non istituzionali.

Il convegno è stato inaugurato dalla lectio del professor Renato Camurri dell’Università di Verona, che ha posto al centro della sua relazione il carattere transnazionale dell’antifascismo, la particolarità di come biografie, culture e rotte di migrazioni si intreccino e si influenzino nello sviluppo di un’analisi politica collettiva. L’antifascismo degli esuli europei è stato osservato come laboratorio politico e culturale, come una comunità in cui la circolazione dei saperi e la riflessione teorica danno avvio ad un pensiero anticonformista e antitotalitario. All’estero gli antifascisti e le antifasciste si riuniscono e provano a immaginarsi oltre la crisi totalitaria del nazionalsocialismo e del fascismo, si proiettano verso un futuro democratico e iniziano in un certo qual modo a porre quelle che saranno le sue basi nel dopoguerra.

Infine, si riprende la valutazione conclusiva di Ventura su momenti collettivi di studio e discussione come quello lucchese: oltre all’importanza per quanto riguarda il piano della comprensione storica e della ricerca, che si arricchisce dei vari contributi e ci consente evoluzioni nella conoscenza del passato, ritornare ed esplorare i vissuti di uomini e donne che con le loro azioni hanno fatto dell’antifascismo una fondamentale scelta vita, è per noi oggi, a livello puramente personale, un modo per affrontare con maggiore fiducia questo presente così buio.

Tutti gli interventi divisi per sessioni di discussione sono consultabili online nel canale YouTube dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in provincia di Lucca.




Nel Centenario della Marcia su Roma… aria di revoca… a Montecatini Val di Cecina

Venerdì 28 ottobre 2022 il Consiglio comunale di Montecatini Val di Cecina ha votato all’unanimità la revoca della “Cittadinanza onoraria” conferita a Benito Mussolini l’11 maggio 1924[1] e la rettifica delle denominazioni di “Piazza della Repubblica” e di “Via Ettore Muti”, as-segnate dal commissario prefettizio il 20 novembre 1943[2].
Deliberazioni poi mai revocate, di cui siamo venuti a conoscenza fortuitamente durante il riordi-no, tuttora in corso, delle carte dell’Archivio storico comunale, in precedenza pressoché inaccessibile alla consultazione e mancante di gran parte del materiale documentario risalente proprio al Ventennio.
Tant’è che, ad esempio, la documentazione relativa al conferimento della “Cittadinanza onoraria a Mussolini”, non essendo più disponibile il Registro delle Delibere di Consiglio dell’anno 1924, è stata rinvenuta per puro caso all’interno del faldone contenente il Carteggio del 1930.
Si tratta, appunto, della Deliberazione[3] che faceva seguito all’invito inoltrato ai Comuni, tramite i prefetti, dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo affinché le Amministrazioni riconoscessero il Capo del Governo “Cittadino onorario” entro il 24 maggio 1924, IX Anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia nonché giorno d’insediamento del nuovo Governo (due settimane dopo sarebbe stato assassinato Giacomo Matteotti).
Non sappiamo se unanime, ma grande fu sicuramente l’adesione da parte dei Comuni. Nel caso nostro, a differenza di altre Amministrazioni della Provincia di Pisa, nelle motivazioni del confe-rimento, oltre all’esaltazione della figura del Duce, è possibile riscontrare un evidente risentimen-to ed un senso di rivalsa sull’egemonia socialista iniziata nel lontano 1895. Ma questo è possibile semmai constatarlo consultando il testo della delibera e gli articoli pubblicati nell’occasione sia su “Il Corazziere”[4] sia su “l’Idea Fascista”[5].

A Montecatini le elezioni amministrative del 7 gennaio 1923 sancirono la vittoria della lista fasci-sta che «grazie all’instancabile operosità del Commissario Prefettizio sig. Giulio Malmusi del Fa-scio di Pisa […] ebbe unanime approvazione conquistando maggioranza e minoranza»[6].
La nuova Amministrazione, che faceva seguito a quella socialista eletta il 19 settembre 1920 e di-missionaria dai primi di novembre 1922, non aveva quindi opposizione ed era composta da fa-scisti della prima ora, da ex combattenti e da nazionalisti aderenti al fascismo immediatamente dopo il 28 ottobre, data fatidica che procurò un repentino “mutamento di idee” ed una massiccia iscrizione al Fascio.
Oltre ad una forte rappresentanza del cosiddetto notabilato paesano, per anni relegato ad un ruolo marginale nella politica locale, a far da gregariato nella composizione del Consiglio troviamo ex socialisti massimalisti ed esponenti del sindacalismo rivoluzionario, alcuni dei quali era-no stati protagonisti della Marcia su Roma mentre altri aderirono al PNF giusto in tempo per es-sere annoverati tra i fascisti antemarcia, tramite opportuno ravvedimento pubblico[7].
Nel fervore iniziale, la Giunta guidata da Anselmo Tonelli, non mise tempo in mezzo e nella seduta di insediamento deliberò l’adesione alla Federazione dei Comuni Fascisti[8]; mentre nella riunione del 23 aprile 1923[9], fu stipulato l’abbonamento a “l’Idea Fascista”, organo della Federa-zione Provinciale Pisana, su proposta del Sindaco che ne motivò l’utilità in quanto «in detto giornale si pubblicano i resoconti della Federazione dei Comuni Fascisti».
Fu quello un anno ricco di manifestazioni di gaudio e di esaltazione del regime che culminò con l’inaugurazione del Parco della Rimembranza del 4 novembre, preceduta di pochi giorni dalla Commemorazione della Marcia su Roma nel suo primo anniversario. Una grandiosa celebrazio-ne di cui “Il Corazziere” , oltre a farci partecipi dei discorsi del segretario politico della Sezione fascista, Francesco Mori, e del sindaco Anselmo Tonelli che parlò «in assenza dell’oratore ufficiale Prof. Fanciulli» (esponente di spicco dello squadrismo fiorentino, legato al Fascio X di Lar-derello organizzato da Piero Ginori-Conti, fu assai noto per le scorribande punitive anche in Val di Cecina) sull’opera svolta in un anno dal governo nazionale, ci offre uno spaccato del clima di allora, ben manifesto soprattutto nelle parole di don Cesari che, a quanto risulta, officiò più da “prete prefettizio” che da “pastore di anime”.

[…] Suggestiva la Messa al Campo, nuova per Montecatini, detta in Piazza Vittorio Emanuele, apposi-tamente addobbata, alla quale ha partecipato qualche migliaia di persone. Il paese era imbandierato e molte abitazioni elegantemente addobbate con drappi e arazzi.
[…Dalla Piazza del Municipio (Piazza Garibaldi); n.d.r.] il corteo per Via XX Settembre raggiunse Piazza Vittorio. Dopo l’attenti con la tromba l’arciprete inizia la Messa. Al Vangelo pronunciò un ispirato di-scorso di circostanza esaltante l’opera del Capo del Governo, il sublime sacrificio dei Caduti Fascisti, morti per un grande ideale, per una causa santa: la salvezza dell’Italia dal nemico interno che voleva ri-durre la Patria nostra come fu ridotta la Russia dal bolscevismo […].

Il 1924 si aprì invece con un altro evento di grido: l’annessione di Fiume. Alla notizia della firma del Trattato Italo Jugoslavo del 27 gennaio, a quel che riporta il corrispondente de “l’Idea Fascista”[11], vi fu una vera e propria manifestazione di esultanza per l’avvenimento, con inneggiamenti di piazza a Gabriele D’Annunzio e a Benito Mussolini per aver restituito Fiume all’Italia. Nella Sala del Consiglio «i signori Mario Mori (Segretario politico della Sezione Arditi; n.d.r.), Cav. Anselmo Tonelli, Sindaco e Tertulliano Borri[12], Segretario Comunale […] esaltarono l’opera illumi-nata del Capo del Governo, i Legionari volontari la cui gloria soltanto ora è riconosciuta e valo-rizzata ed ebbero parole di fuoco verso i governanti del passato che col loro nefasto po-li[ti]cantismo tradirono la Città olocausta».
Una dialettica politica segnata dal delirio populista, cui da tempo anche noi abbiamo purtroppo dovuto abituarci.
La partecipazione e l’esultanza per l’avvenimento fu talmente grande che – prosegue il corrispondente Marino Bartolini – «per acclamazione fu approvato l’invio del seguente telegramma a S.E. Mussolini: Popolazione montecatinese dopo manifestazione tripudio per annessione di Fiume sente dovere inviare eccellenza vostra sensi devozione ammirazione sagace opera vostra di Governo. Sindaco Tonelli».
In un contesto simile è facile comprendere perché Montecatini, noto per le sue lontane tradizioni socialiste, risultò tra i Comuni più solerti della provincia di Pisa a conferire la cittadinanza onora-ria a Mussolini, precedendo in quella “rincorsa simbolica” la città di Pisa, seduta del 23 maggio[13]; Pontedera, 22 maggio[14]; e altre località come Volterra, 16 maggio 1924.
Vale la pena, credo, riportare parte della Deliberazione del Consiglio comunale dell’11 maggio 1924[15].

Adunanza del giorno 11 Maggio 1924 di 1a convocazione
Oggetto: Conferimento della cittadinanza onoraria a S.E. Benito Mussolini.
L’anno millenovecentoventiquattro e questo giorno undici del mese di Maggio, alle ore 10,30 in Monte-catini, nella sala delle adunanze […] si è riunito il consiglio Comunale […] Assiste il sottoscritto (Tertul-liano Borri) Segretario per le funzioni di legge […]

Su proposta del Sindaco Cav. Anselmo Tonelli
a sua Eccellenza l’On. Benito Mussolini, Capo del Governo Nazionale, Duce del Fascismo, artefice primo dei più grandi immancabili destini della Patria, valorizzatore della Vittoria, assertore della sacra civiltà latina, che prepara con mano sicu-ra, con cuore ardente, con volontà tenace, la nuova grandezza della Patria Italiana
IL CONSIGLIO COMUNALE,
nella prossima ricorrenza del 24 Maggio
memore, fedele, devoto
a piena entusiastica unanimità
CONFERISCE
la Cittadinanza Onoraria del Comune di Montecatini Val di Cecina, e dà mandato al Sindaco di effettuarne la partecipa-zione mediante un telegramma da esso proposto e così concepito:

«Eccellenza Mussolini,
Civico consesso Montecatini Val di Cecina, adunato Consiglio Comunale, constatato il lavacro elettorale alla fama trentennale sovversivismo questo Comune, riaffermando devozione Governo Nazionale, ammiratore vostre magnifiche doti di Duce e di Capo del Governo Nazionale, seguendo esempio capitale, decreta entusiasto conferimento vostra Eccellenza cittadinanza ono-raria. Sindaco Tonelli»

Tutto il Consiglio in piedi, applaude lungamente al Capo del Governo con entusiastica associazione del pubblico presente. Dal che si è redatto il processo verbale.
Il Presidente: Cav. Anselmo Tonelli – L’Anziano: Orzalesi Adon Noè – Il Segretario: Borri Tertulliano

Ettore Muti

Da notare che in calce all’estratto della Delibera, anch’esso convalidato dal sottoprefetto di Volterra, è riportata la seguente annotazione, alquanto bizzarra ma forse perfettamente in linea con i tempi: «Si dà atto che tutti gli altri Consiglieri assenti dalla adunanza hanno aderito alla presente deliberazione».
Ovviamente dopo la Liberazione erano ben altre le problematiche da risolvere, poi, come spesso accade, il trascorrere del tempo affievolì la memoria o più probabilmente indusse alla rimozione di certi episodi del passato che, a vario titolo, vedevano coinvolti non pochi concittadini che magari nel frattempo con una certa disinvoltura erano abilmente passati a galleggiare se non a sguazzare in acque diverse. Dalle carte in nostro possesso non risulta infatti che la Cittadinanza sia mai stata revocata.
Da qui – senza retropensiero alcuno ma certi delle garanzie offerte dal nostro sistema democrati-co e consapevoli di non trovarci attualmente nelle condizioni in cui versava l’Italia nel primo do-poguerra – la proposta che proprio nel giorno del Centenario della Marcia su Roma, data assai significativa della Storia d’Italia, il Consiglio fosse chiamato a valutare l’opportunità della revoca.
Sappiamo bene che non è possibile disconoscere o mutare la storia (certamente non potrà farlo un atto simbolico a distanza di un secolo).
Ma dovremmo anche sapere che indagare e prender coscienza del nostro passato può aiutare a comprendere e gestire meglio il presente e ad affrontare il futuro con maggior consapevolezza. Nell’esprimersi a favore dell’annullamento di quanto deliberato l’11 maggio 1924, il Consiglio ha colto anche l’opportunità di rafforzare quel comune sentimento di antifascismo che è il principio cardine della nostra Costituzione.
Analogamente, nella medesima riunione consiliare, è stata accolta anche la proposta di rettifica delle denominazioni di Piazza della Repubblica e di Via Ettore Muti (novembre 1943) che rap-presentarono, forse, l’ultimo atto di esaltazione fine a sé stesso di un regime agonizzante.
Una denominazione che tuttavia andò ad assumere (per i successivi 79 anni) un sapore beffardo per la comunità montecatinese, la cui piazza principale era ancora ufficialmente dedicata non alla nostra Repubblica Democratica che prese vita il 2 giugno 1946, ma a quella che fu la Repubblica Sociale Italiana o di Salò. Il disorientamento generale che fece seguito agli eventi del 25 luglio e poi dell’8 settembre 1943, non risparmiò neppure l’Istituzione prefettizia di Pisa[16] .
Dopo la caduta del fascismo e le conseguenti dimissioni del podestà Francesco Mori, il prefetto badogliano Ferdinando Flores, designò Lino Sinicco commissario prefettizio di Montecatini. A seguito poi degli eventi dell’8 settembre fu nominato prefetto di Pisa Francesco Adami, ex con-sole della Milizia nonché fondatore del Fascio repubblicano, che si rese protagonista di atti di violenza, intimidazioni e arresti indiscriminati, tanto da essere ben presto rimosso da tale carica dallo stesso suo patrocinatore, ossia il «Ci penso io» pisano allora ministro dell’Interno, Guido Buffarini Guidi[17].
Adami, nel breve tempo che rimase in carica, nominò commissario del Comune di Montecatini il ragionier Vincenzo Paglianti, fascista della prima ora di Orciatico/Lajatico, un duro e puro assurto ben presto ad incarichi di un certo prestigio, poi esponente non di secondo piano del Fa-scio Repubblicano di Volterra: personaggio, insomma, ad immagine e somiglianza dell’Adami stesso[18].
Questi, immediatamente prima di essere rimosso e sostituito da Oreste Giglioli, con Delibera del 20 novembre 1943[19], in omaggio al «Nuovo Stato Repubblicano» provvide a variare la denomi-nazione di Piazza Vittorio Emanuele in Piazza della Repubblica, che tale sarebbe rimasta, senza alcuna rettifica, anche dopo il 2 giugno 1946.
Non solo, intitolò anche un tratto di Via Roma[20] a Ettore Muti[21]. Fino dai primi di settembre la propaganda fascista presentò Muti come un martire, tanto che a Roma gli fu subito dedicata una piazza. Dedica che avvenne poi in molti Comuni, senza però entrare mai nell’uso comune (Montecatini fu liberato 7 mesi dopo), tanto che Via Roma, pur permanendo l’ufficialità della Delibera commissariale, in pratica non perse mai la denominazione originaria.

I nostri Consiglieri, con la rettifica delle suddette denominazioni – decisione democraticamente valutata e da tutti condivisa – hanno inteso prodigarsi in un segnale simbolico ma non demagogico che restituendo verità e dignità storica al nostro Comune, potesse contribuire a rafforzare l’identità locale, in ossequio ai valori espressi dalla Carta costituzionale dai quali non possiamo prescindere.
Come di consueto, nonostante la particolarità degli argomenti all’ordine del giorno, il Consiglio comunale riunito in sessione straordinaria si è tenuto in pressoché totale assenza di pubblico.
Probabilmente non lo ravvisiamo, ma la mancanza di partecipazione e di attenzione per ciò che esula dal privato, sicuramente ci rende meno liberi.

[…] Vorrei essere libero come un uomo

Come un uomo che ha bisogno
di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio
solamente nella sua democrazia

Che ha il diritto di votare
e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare
ha trovato la sua nuova libertà

La libertà
non è star sopra un albero
non è neanche avere un’opinione
la libertà non è uno spazio libero
libertà è partecipazione […].

Forse attratti da altro, rinunciamo spesso e con facilità a quella libertà cantata da Giorgio Gaber[22], i cui versi, che prendono ispirazione dalla riflessione filosofica di Rousseau, avevano un tempo suggestionato e teoricamente risvegliato le coscienze di molti. Ma partecipare, lo sappia-mo bene, è un esercizio che porta via testa, tempo e denaro, cosicché finiamo frequentemente per delegare altri a rappresentarci nelle nostre istanze e nei nostri pensieri, accontentandoci di un modo diverso di sentirsi liberi.
Consci di vivere da anni una fase storica socialmente buia, dobbiamo comunque sperare che, in mezzo a sì tanta disaffezione e disimpegno, quel segnale scaturito dal Consiglio comunale del 28 ottobre sia stato in qualche modo recepito con lo stesso spirito che ha caratterizzato la discussio-ne nella medesima seduta.
Per ricordare tale evento e dar maggior risalto a quanto deliberato all’unanimità nel Consiglio comunale del 28 ottobre scorso, giorno in cui altrove, con anacronistiche parate e senza remora alcuna, veniva celebrato il Centenario della Marcia su Roma, abbiamo pensato che presentare e distribuire un piccolo volume inerente all’argomento, fosse il modo migliore o più opportuno per onorare i valori ereditati dall’antifascismo nell’anno del 75° Anniversario dell’entrata in vi-gore della Costituzione (1° gennaio 1948). Una correlazione tra due date storiche – 28 ottobre (1922) e 25 aprile (1945) che determinarono l’inizio e la fine dell’era fascista con la Liberazione e, grazie anche all’indubbio contributo della Resistenza, l’avvio di un nuovo percorso democratico.

NOTE:

[1] Si veda il mio A proposito del concittadino Benito Mussolini, in “La Spalletta” del 4 giugno 2022.

[1] Si veda il mio «Una piazza, un nome, due significatiPiazza della Repubblica… Si, ma quale Repubblica?», in “La Spalletta” del 10 settembre 2022.

[1] Archivio Storico Comunale di Montecatini V.C. [ASCMVC], Delibera di Consiglio n. 138 dell’11 maggio 1924.

[1] “Il Corazziere”, a. XLIII, n. 22, 1° maggio 1924.

[1] “l’Idea Fascista”, a. IV, n. 20, 20 maggio 1924.

[1] “Il Corazziere”, a. XLII, n. 2, 14 gennaio 1923; su Malmusi, fascista pisano tra i più esagitati, rimando al mio articolo, L’avvio del Ventennio a Montecatini, in “La Spalletta”, 4 dicembre 2021.

[1] Si veda, ad esempio, “l’Idea Fascista”, a. I, n. 29, 8 ottobre 1922.

[1] ASCMVC, Deliberazioni di Giunta 1921-1926, Del. 18, 11 febbraio 1923.

[1] Ibid…, Del. n. 114.

[1] “Il Corazziere”, a. XLII, n. 44, 4 novembre 1923.

[1] “l’Idea Fascista”, a. IV, n. 5, 3 febbraio 1924.

[1] Tertulliano Borri, il cui incarico era stato ratificato nella seduta consiliare del 18 novembre 1923, ricopriva allora la carica di decurione della MVSN. Addivenuto nel 1926 alla funzione di Commissario di PS, per fatti risalenti al 1935, Borri (Montalcino, 1899 – Cagliari, 1952) nel 1941 fu condannato dal Tribunale Speciale per la Sicurezza dello Stato a 30 anni di reclusione per tradimento – «con la minorante del vizio parziale di mente»: venne evidenziata la «strana condotta tenuta dal Borri sin da ragazzo e nel corso del primo conflitto mondiale (fu decorato al V.M. e quindi congedato con il grado di capitano)» e lo si descrive con il dubbio che fosse stato un «ingenuo e nevrotico funzionario patriottico in cerca di gloria e di promozioni, o un nemico dello Stato» –, quindi, nel giugno 1944, venne scarcerato e deportato in Germania per poi essere rimpatriato nel dicembre 1945.

[1] “l’Idea Fascista” del 25 maggio 1924.

[1] “l’Idea Fascista” del 15 giugno 1924.

[1] ASCMVC, Deliberazioni del Consiglio comunale, Del. n. 138, 11 maggio 1924.

[1] In merito, si veda Alberto Cifelli, L’Istituto prefettizio dalla caduta del Fascismo all’Assemblea Costituente. I Prefetti della Liberazione, Roma, Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno, 2008, http://www.ssai.interno.it

[1] Il più estremista e filotedesco dei ministri della Repubblica Sociale Italiana – non estraneo neppure all’eccidio delle Fosse Ardeatine – inviso persino a Mussolini che a fine 1944 lo dimissionò. Con il 25 aprile, dopo aver tentato inutilmente di convincere Mussolini a seguirlo nella fuga in Svizzera, fu arrestato alla frontiera mentre cercava, appunto, di mettersi al sicuro in terra straniera. Condannato a morte da una Corte d’Assise straordinaria, dopo un tentativo fallito di suicidio venne poi giustiziato nel luglio 1945: fu questa l’unica esecuzione delle 35 condanne emesse dalla Corte.

[1] Una cospicua biografia di Paglianti è riportata da Alberto Simoncini nel volume Dal Rosso al Nero, Peccioli, Grafitalia, 2022.

[1] Delibere commissariali n. 1291 e n. 1292 del 20 novembre1943, da ASCMVC, “Libro Delibere Podestà e Giunta 1941-1951”.

[1] Da notare che la denominazione Via Roma era stata assegnata (a Via delle Miniere) nel 1931, per soddisfare la disposizione di Mussolini (1° agosto 1931/IX) di intitolare una via non secondaria dei capoluoghi alla Città Eterna (Culto di Roma: 21 aprile del 753 a.C. Natale di Roma = Festa del Lavoro, dal 1924 in luogo del Primo Maggio).

[1] A Ettore Muti fu intitolato il tratto di Via Roma che dall’incrocio con Via Sant’Antonio conduce fino al Ponte. Fascista della prima ora, eroico aviatore in tutte le guerre del Ventennio, politico, già segretario del PNF, Muti fu ucciso il 24 agosto a Fregene dai Carabinieri mentre cercava di sfuggire all’arresto che, a quanto sembra, si era reso necessario essendo stato segnalato come facente parte di un complotto di fascisti e tedeschi per un attacco su Roma da tenersi il 28 agosto.

[1] Giorgio Gaber, La Libertà, dall’album “Dialogo tra un impiegato e un non so”, Tracce, 1972-1973.

L’articolo è tratto dal volume curato da Rosticci, Un Consiglio comunale particolare, presentato e distribui-to in occasione della ricorrenza del 25 Aprile 2023.
Una manifestazione “un po’ fuori dall’ordinario”, senza la presenza esclusiva dell’oratore di tur-no ed il rituale delle ridondanti frasi di circostanza ma con il coinvolgimento diretto dei giovani, svoltasi nella Sala del Consiglio del Comune di Montecatini Val di Cecina (Pisa) al cospetto di un pubblico insolitamente numeroso.
Forse siamo riusciti a coinvolgere, ad appassionare la gente comune, a renderla, una volta tanto, “protagonista” di una cerimonia che, come di frequente accade, non risulta che fine a sé stessa. E sappiamo bene che le ricorrenze di facciata a lungo andare disamorano, rivelandosi spesso assai più utili al presenzialismo, alla visibilità del personaggio (di solito un politico) chiamato a far da primo attore, che non alle finalità istituzionali.




Il partigiano Beppe e la Resistenza nel Volterrano

La vicenda partigiana di Vinicio Modesti (Beppe) è una storia esemplare per comprendere la Resistenza nella provincia di Pisa. Sono qui presenti, infatti, molti degli elementi fondamentali per cogliere le specificità della lotta di liberazione nel Volterrano, l’area di maggiore attività partigiana a livello provinciale.

L’irrequietezza e l’insofferenza delle generazioni più giovani rappresentano il punto di partenza senza il quale non sarebbe neanche pensabile una partecipazione armata alle attività clandestine antifasciste e antitedesche. Vinicio era nato a Volterra nel 1924: dopo l’8 settembre, poco più che studente e appena approdato all’insegnamento tecnico, organizzò con un paio di amici un piccolo nucleo di cospiratori. Un membro del locale Cln li invitò però ad aspettare, per «non turbare la pace del paese». Intanto, a partire dal novembre 1943, la pace dei maschi nati tra il 1923 e il 1925 fu turbata dalla chiamata alle armi delle autorità militari della neocostituita Repubblica di Salò. Da qui la scelta di sparire e unirsi ai partigiani.

I tentativi di avere contatti con la rete antifascista si rivolsero inizialmente verso Firenze, poiché altrove in Toscana l’organizzazione clandestina era ancora debole e poco strutturata, ma senza esito. Alcuni gruppi di uomini alla macchia si erano formati più a sud, attorno a Massa Marittima, comandati da Velio Menchini ed Elvezio Cerboni; i primi di novembre l’incarico di organizzare una formazione partigiana venne affidato a Mario Chirici, comandante repubblicano antifascista molto noto nella zona e appena tornato dalla Jugoslavia. Erano molti i collegamenti con il Volterrano e la Val di Cecina, aree collinari e boscose unite da una fitta rete di strade comunali: nel giro di pochi giorni i ragazzi che insieme a Vinicio Modesti volevano unirsi ai partigiani trovarono i contatti giusti per raggiungere il campo base della banda di Chirici, all’Uccelliera, tra Monterotondo e Massa Marittima. Vinicio però arrivò in un momento particolarmente infelice: la formazione si era appena spostata per sfuggire a un rastrellamento e senza essere riuscito ad agganciare nessuno il giovane decise di rientrare a Volterra.

Non appena rientrato, i militi repubblichini, ben informati dei suoi movimenti, lo andarono a cercare a casa, in Piazza dei Priori; all’ultimo un vicino generoso lo nascose permettendogli di fuggire. Nascosto da coloni in mezzo al bosco, tratteneva rapporti epistolari con la famiglia, che nel frattempo subiva la persecuzione fascista: il negozio venne chiuso, i genitori e le sorelle furono costretti a lasciare Volterra. Nel mese di gennaio del 1944 Vinicio si spostò di nuovo verso sud, nel grossetano, dove riuscì finalmente a incontrare i partigiani di Mario Chirici. In pochi giorni venne nominato capo squadra e vide la graduale crescita degli effettivi armati dai 15 iniziali agli 80 circa.

A metà febbraio, tuttavia, la vita della formazione venne bruscamente interrotta dal rastrellamento del Frassine, il maggior trauma nell’esperienza resistenziale della zona, motivo di una profonda frattura che non si sarebbe mai più rimarginata. La sera del 15 febbraio, partirono da Follonica e da Massa Marittima dei camion carichi di militi fascisti locali, a cui si aggiunsero altri provenienti da Grosseto, in direzione dell’area dove avevano base i partigiani: prima dell’alba del 16 febbraio, tre colonne di repubblichini comandate dagli ufficiali Giovanni Nardulli di Massa Marittima, Monti di Grosseto e Pini di Castelpiano, conclusero l’operazione di rastrellamento della formazione, che venne presa totalmente alla sprovvista. La maggior parte degli uomini riuscì a scappare, un piccolo gruppo si asserragliò in una casa colonica, da dove ingaggiò una lunga sparatoria con gli assedianti. Dopo qualche ora i partigiani si arresero: cinque vennero trucidati, gli altri furono condotti in prigione.

Molti uomini che avevano gravitato intorno a Chirici decisero di allontanarsi e proseguire la loro attività più a nord-est, tra le province di Pisa e di Siena, in particolare nell’area tra il bosco delle Carline, Radicondoli e il bosco di Berignone, dove si era formata una squadra sotto il comando di Elvezio Cerboni. Qui con la guida di Guido Stoppa e di Alberto Bargagna l’organizzazione militare e i rapporti con il territorio si fecero più solidi e strutturati, le bande si svilupparono in maniera efficiente e dai primi di marzo riuscirono a darsi un livello operativo coordinato e coerente. Le azioni a Belforte e Montieri, nel marzo 1944 sancirono l’inizio di una nuova fase.

Il diario del partigiano Beppe, datato aprile 1944, è stato di recente ristampato insieme a un racconto successivo dello stesso Vinicio Modesti. L’attività da lui svolta dopo la guerra come scultore e insegnante hanno lasciato una memoria viva nel territorio; meno invece si sapeva della sua esperienza partigiana. Sia il diario che il racconto si chiudono però con la primavera del 1944, tranne un accenno alla vicenda della sorella Rossana che si prolunga fino a giugno. Le vicende partigiane vissute nel maggio e nel giugno non appaiono. Si tratta di una scelta singolare, che merita una riflessione. La maggior parte delle azioni partigiane di questa area avvennero proprio a partire dal maggio del 1944, quando con lo sfondamento della Linea Gustav e la ripresa dell’avanzata alleata sul territorio italiano, le speranze di una liberazione imminente spinsero a una crescita esponenziale della presenza e della forza resistenziale nella provincia di Pisa. Molti si unirono solo in questa ultima fase, tra la primavera e il passaggio del fronte.

Di questi mesi, che pure furono i più ricchi di colpi riusciti e di consenso da parte della popolazione, Vinicio Modesti tace. Forse perché altri potevano raccontare, mentre lui solo avrebbe potuto testimoniare ciò che accadde prima, i lunghi itinerari inconcludenti, le sconfitte, gli «odiosi attendismi». Forse perché considerava la parte precedente quella più autentica e sofferta dell’esperienza partigiana, più solitaria e imprevista, dura e dagli esiti imprevisti. Impossibile arrivare ora a una risposta certa; rimane il fascino irrisolto per una testimonianza ricca e vitale, irrequieta e intensa come lo sa essere solo lo spirito di un ragazzo che «era giovane ma [che] i suoi diciannove anni li aveva vissuti così intensamente che in certe cose pareva un saggio».




Antifascista per sé: Cristina Lenzini (1903-1944)

In seguito ad un accanito rastrellamento operato da ingenti forze tedesche contro la formazione, l’Ardemanni che proteggeva con la mitragliatrice il ripiegamento dei suoi compagni, veniva colpita gravemente da un colpo di mortaio nemico per cui decedeva all’istante.”[1] Con queste parole la Commissione regionale per il riconoscimento partigiano attribuisce a Cristina Lenzini in Ardimanni la qualifica di partigiana combattente caduta[2].

L’8 agosto 1944 sul monte Gabberi le compagnie III e IV della X bis brigata Garibaldi “Gino Lombardi”, guidate da Bandelloni, Palma e dal Porto, sono impegnate contro nazisti e fascisti per la seconda volta nel giro di pochi giorni dopo gli scontri sul monte Ornato, con pochi mezzi e isolate rispetto al resto della Brigata che ha deciso di ripiegare sul Lucese[3].
Lo scontro s’inserisce pienamente nel contesto dell’estate 1944 in cui alla guerra civile (patriottica e di classe) s’intreccia la cosiddetta “guerra ai civili”: la linea Gotica – che rappresenta uno spazio di demarcazione tra due eserciti regolari stranieri, due modelli di occupazione, e due schieramenti opposti di italiani, e un territorio che le comunità vedono mutare profondamento grazie alla guerra -, diventa per i nazisti uno spazio da “bonificare” integralmente, in cui è necessaria una “omogeneizzazione” per il dominio e lo sfruttamento, le cui retrovie devono essere epurate dal pericolo dei banditen, e in cui anche le popolazioni locali vengono ritenute responsabili, assimilate ai partigiani, e quindi soggette alla punizione .
Ma, tornando alla Lenzini, quello in cui perde la vita combattendo è soltanto uno dei tanti momenti in cui la donna lotta contro il fascismo. Purtroppo alla fase attuale della ricerca la sua biografia è ripercorribile a singhiozzi, il periodo antifascista precedente al 1944 è possibile intuirlo tra le pieghe delle fonti di polizia relative agli uomini a cui era legata. Infatti Cristina Lenzini in Ardimanni nata a Pisa nel 1903 da Angelo (Angiolo), bracciante, e Bartolai Rosa, casalinga, è sostanzialmente la moglie di Alfredo Ardimanni nel fascicolo del Casellario Politico Centrale, schedato come comunista (ma vicino anche agli ambienti anarchici); è con lui che condivide le idee antifasciste e con cui nel 1924, insieme al figlio Alberto, sceglie come molti la strada del fuoriuscitismo in Francia, dopo che sarebbero stati proprio due suoi fratelli squadristi a consigliarle, secondo quanto ricostruito dall’Anpi Versilia, di espatriare per evitare le persecuzioni fasciste.
A quanto si apprende dall’interrogatorio di Alfredo, arrestato a Ventimiglia nel 1943, sappiamo qualcosa sulla loro vita in Francia: dalla possibile attività di Alfredo come intercettatore di volontari per la guerra civile in Spagna (negata nelle dichiarazioni ufficiali), al suo internamento allo scoppio della guerra nel campo di S. Cyprien al confine tra Francia e Spagna, dall’andamento altalenante della loro relazione, cui l’Ardimanni attribuisce responsabilità alla condotta morale della moglie Cristina, alla sua messa a disposizione volontaria insieme al figlio per lavorare al servizio dei tedeschi e poi delle truppe di occupazione italiane a Tolone. Non abbiamo fonti a sufficienza che possano smentire o confermare ciò che Alfredo afferma durante l’interrogatorio, non possiamo garantire che sia frutto di una dissimulazione per un estremo tentativo di salvataggio o se si tratti di opportunismo politico.
Nel frattempo ritroviamo Cristina, che per i funzionari di pubblica sicurezza “[è] immune da pregiudizi penali e politici, risulta di buona condotta in genere”, nel 1932 fra la documentazione relativa a Bucchioni Azelio, schedato come pericoloso comunista nel Cpc[4]; originario di Pisa, dove “abitava in prossimità delle abitazioni di Di Paco Ferdinando detto Umberto, del quale ha assunto le generalità, e del comunista Ardimanni Alfredo di Abele col quale era in intimi rapporti di amicizia. Il Bucchioni conviverebbe presentemente con certa Lenzini Cristina, moglie del comunista Ardimanni Alfredo col quale egli avrebbe perciò troncato ogni rapporto di amicizia”.
È, quindi, una storia personale che possiamo percepire solo fra gli interstizi della documentazione, ma guardare in controluce ci permette di osservare possibili vuoti da colmare e di provare a formulare ipotesi di ricerca. Cristina Lenzini è pensata talmente all’ombra delle figure maschili che non ha un fascicolo di riferimento, sintomo che i funzionari di P.S. non pensavano potesse svolgere attività politica, o quantomeno non che potesse farlo in autonomia per propria identità e coscienza, a fianco, insieme e in condivisione delle idee con gli uomini sopra citati: è sorvegliata perché è la moglie di Ardimanni, la convivente o amante di Bucchioni. Esattamente come altre donne antifasciste la Lenzini viene osservata col filtro di uomini che di fatto non concepiscono che le donne possano uscire dalla sfera privata cui dovrebbero essere relegate per svolgere attività politica in autonomia[5]. Non abbiamo fonti al momento che possano colmare i buchi, non siamo a conoscenza, ad esempio, se la donna sia attiva durante la guerra civile in Spagna o quale sia il suo percorso dagli anni Trenta ai Quaranta, ma sappiamo che nel 1942 torna a sua volta in Italia e che entro il 1944 ha maturato con determinazione la scelta resistente.
L’attività partigiana è perciò soltanto l’ultimo atto di un’antifascista di lungo corso, in cui la scelta di resistere imbracciando le armi è probabilmente una decisione vissuta come una necessità di fronte alle violenze del nemico[6]. Una scelta presa per sé, in autonomia, con convinzione e doppiamente in libertà perché, come pure per tutte le donne protagoniste delle varie forme di resistenza, svincolata dagli obblighi imposti agli uomini dai bandi di arruolamento della Rsi: la guerra civile, seppur fase di crisi, permette che si aprano spazi pubblici, politici e militari, che le donne possono occupare, sconfinando dalla sfera privata e al di fuori dal tracciato tradizionale per assumersi la responsabilità delle proprie azioni e trovare una diversa collocazione sociale[7]. Cristina Lenzini, come altre nella sua condizione, decide di resistere rompendo l’ordine naturale delle cose per il quale tradizionalmente la militarizzazione femminile è vista come un fenomeno eccezionale e di disturbo, poiché infrange la statica divisione dei ruoli per cui le armi sono attributi prettamente maschili, mentre alle donne è demandato l’onere riproduttivo. Quest’ultime, concepite “per natura” come più pacifiche rispetto agli uomini, nel momento in cui imbracciano le armi vengono viste come anomalie, dal comportamento sessuale in qualche modo irregolare, “sessualmente libere e disponibili, oppure dalla sessualità «sospesa>» o proibita come le vedove o le vergini”[8]. Ed effettivamente dalle testimonianze raccolte dall’Anpi Versilia e dal linguaggio utilizzato nella documentazione partigiana emerge che la figura della Lenzini è vista o come una eroina spersonalizzata, una combattente pronta all’estremo sacrificio con la mitragliatrice in mano per permettere la ritirata dei compagni, o una donna sola, al pari di una vedova, ricordata dal partigiano Moreno Costa come “una donna decisa, pareva come una mamma con i suoi quarant’anni, a noi che eravamo quasi tutti molto giovani”. Eppure, nonostante questa correlazione con il tradizionale ruolo di madre, ciò non sovrasta o riduce il suo operato, e Cristina è riconosciuta sia formalmente sia informalmente come una combattente dal contributo fondamentale[9]. A lei, che per tutta la vita è stata osservata e giudicata dalla pubblica sicurezza fascista perché antifascisti erano gli uomini con cui aveva relazioni affettive, le viene finalmente riconosciuto, in una singolare forma di giustizia postuma, il merito della scelta e la determinazione nell’averla portata avanti.
Ricostruire biografie fuor di retorica, tentando comunque di restituire un percorso individuale di partecipazione attiva all’antifascismo e alla Resistenza, ci permette oggi di avviare ricerche e approfondimenti che possano riportare alla luce storie personali per provare sia a ridare dignità a chi come singolo ha lottato contro i fascismi, sia ad aggiungere un tassello nella complessiva storia dei fenomeni di antifascismo e Resistenza.

Note:

1. AISRECLU, Ricompart, b. 237, L. Bandelloni, fasc. Ardemanni Cristina.
2. F. Bergamini, G. Bimbi, «Per chi non crede». Antifascismo e Resistenza in Versilia, a cura dell’ANPI Versilia, 1983.
3. Sono i luoghi lungo il versante occidentale della linea Gotica in cui la ritirata aggressiva di nazisti e fascisti è caratterizzata dalle stragi e da episodi di violenza che risulterebbero essere 49 soltanto in Versilia e nelle aree collinari e montane, tra cui citiamo la strage di tipo eliminazionista di Sant’Anna di Stazzema. Cfr. G. Fulvetti, P. Pezzino (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), Bologna, Il Mulino, 2016; Cfr. M. Battini, P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997; Cfr. P. Pezzino, Sant’anna di Stazzema. Storia di una strage, Bologna, Il Mulino, 2013; Cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2006; Cfr. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943 – 1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.
4. ACS, Cpc, b. 877, fasc. Bucchioni Azelio; http://www.antifascistispagna.it/?page_id=758&ricerca=852 [ultima consultazione: 31/03/2023]. Bucchioni Azelio emigra in Francia, in Belgio e poi in Corsica, immerso in una discreta rete di antifascisti comunisti, fa attività di propaganda e nel 1936 durante la guerra civile in Spagna partecipa come combattente nella Sezione italiana. Nel 1941 è in Francia nuovamente dove pare svolgere “attività politica di orientamento anarchico” e poi arrestato in Belgio nel 1943, da cui viene deportato dalle autorità tedesche prima nel campo di concentramento di detenzione temporanea e di transito di Herzogenbusch in Olanda e successivamente a Neuengamme (Amburgo), dove muore il 18 febbraio 1945. Su Bucchioni Azelio si v. anche la voce nel Dizionario biografico degli anarchici italiani online: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/13256-bucchioni-azelio?i=0 [ultima consultazione: 31/03/2023]
5. M. Guerrini, Donne contro. Ribelli, sovversive, antifasciste nel Casellario Politico Centrale, Milano, Zero in condotta, 2013; G. De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.
6. Cfr. L. Martin, «Come ti ho fatto ti disfo». Intorno a donne e violenza agita nella Resistenza, «Zapruder», n. 32, 2013,
7. Cfr. D. Gagliani, E. Guerra, L. Mariani, F. Tarozzi (a cura di), Donne, guerra, politica. Esperienze e memorie della Resistenza, Clueb, Bologna 2000; R. Fossati, Donne guerra e Resistenza tra scelta politica e vita quotidiana, «Italia contemporanea», n. 199, 1995.
8. P. Di Cori, Partigiane, repubblichine, terroriste. Le donne armate come problema storiografico in (a cura di) G. Ranzato, Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; Ead., Donne armate e donne inermi. Questioni di identità sessuale e di rapporto tra le generazioni in Laura Derossi (a cura di), 1945. Il voto alle donne, Milano, F. Angeli, 1998.
9. A. Bravo, Resistenza armata, resistenza civile in ivi.




Alcune considerazioni sul 100° anniversario della marcia su Roma (1922-2022).

D. – Il centenario della marcia su Roma ha rappresentato un’opportunità per avviare una discussione collettiva a tutto tondo sull’avvento del fascismo e sul ventennio di dittatura, per approfondire questioni e scardinare luoghi comuni troppo a lungo dati per assodati. Tuttavia ci pare che il contesto politico odierno e la concomitanza con le elezioni politiche non abbia contribuito in senso positivo e abbia, per così dire, inquinato la discussione, appiattendo sostanzialmente il dibattito su un allarmistico ritorno del fascismo da un lato e una pervicace apologia dall’altro. Qual è la sua sensazione?

R. – Sono abbastanza d’accordo sulla lettura della discussione in atto sul centenario, su queste due tendenze parallele. Nella storia, come sappiamo, nessun fenomeno politico si ripropone alla perfezione: in questo caso infatti non c’è, a mio parere, nessuna ripetizione del fascismo, seppur sia presente un’apologia molto superficiale, che si affida a luoghi comuni viventi nell’immaginario collettivo.
La mia impressione è che la vera valutazione non può che essere prematura. Abbiamo assistito ad un anno di numerose iniziative e convegni, c’è stato un enorme sforzo collettivo di discussione ed elaborazione sul tema da parte non solo dell’ambiente accademico, ma anche di tutte quelle istituzioni fuori dal circuito universitario, come la rete nazionale dell’Istituto Parri, circoli e associazioni, che da decenni ormai operano con attività di ricerca e divulgazione. Infatti credo che, per quanto siano presenti dei limiti, non sia da sottovalutare questo impulso dato dall’anniversario, che ha portato – com’è naturale – ad allargare il focus dalla marcia su Roma a tutto il ventennio, come pure al periodo del primo dopoguerra, e che per osservare gli effetti sollecitati dai dibattiti si debba attendere qualche anno, o quantomeno aspettare la pubblicazione degli atti.
Oggigiorno abbiamo a disposizione innumerevoli strumenti e possibilità di accesso libero e diretto ad archivi, biblioteche, luoghi di cultura in cui poter confrontarsi con la storia e le sue fonti. È costante l’impegno per scuole, istituti, università libere e della terza età affinché avvenga un processo di professionalizzazione della storia e della sua complessità. Si tratta ovviamente di un continuo tentativo in atto in questo senso per comunicare la storia in modo friendly, per renderla alla portata di tutte e tutti. Quello che mi chiedo quindi, e purtroppo non ho una risposta, è come mai di fronte a questo contesto in cui tutto sommato abbiamo a disposizione materiale, strumenti e possibilità di approfondimento, continui questo fenomeno di edulcorazione di un passato che si preferisce o rimuovere o evocare con tono qualunquistico. E qui c’è un problema che riguarda la politica italiana: il decadimento della preparazione politica, della serietà dell’approccio della classe politica da almeno trent’anni è un processo evidente che, legittimato dai media, ha inciso negativamente nel contrastare quella che abbiamo chiamato la professionalizzazione della storia e della sua fruizione.

D. – Abbiamo attraversato un momento in cui un revival del tema del fascismo ha portato una discreta produzione, spesso accompagnata da una troppo comoda semplificazione degli avvenimenti, da una visione banalizzante – se non proprio edulcorata e mitizzante – e colma di ingombranti rimozioni. Forse attualmente manca una sorta di educazione alla complessità, non nel senso che tutto debba essere raccontato in modo complicato, tutt’altro: una delle missioni degli storici e delle storiche deve essere quella di rendere la disciplina fruibile ad un pubblico ampio, parlando della storia senza omettere le sue sfaccettature, promuovendo sì una semplificazione attraverso una selezione ragionata degli avvenimenti, pur senza creare un racconto rigido di causa – effetto o di date svuotate di significato. Che ne pensa, è possibile invertire questa tendenza ed educare in questo senso alla complessità della storia?

R. – Sarebbe sicuramente un grande obiettivo, di cui a mio avviso potrebbe essere un passaggio fondamentale quello di investire maggiormente sullo studio della storia del XX secolo. La priorità dovrebbe essere quella di promuovere, a partire dalle scuole di ogni ordine e grado, la conoscenza del Novecento, cui purtroppo ad oggi sono dedicate poche ore di didattica e spazio ridotto nei manuali, affinché si permetta a studentesse e studenti di comprendere come elementi del passato condizionino anche il nostro presente.
Credo però che un passo in avanti sia necessario: ci troviamo di fronte ad una situazione in cui la storia è poco conosciuta non solo fra i giovani, per cui forse si potrebbe pensare ad una sorta di educazione permanente alla complessità della disciplina e allo studio, che vada oltre il confine scolastico. Bisognerebbe infatti in qualche modo, educare a contestualizzare il quotidiano in relazione al passato, senza che della storia venga attuato un appiattimento, cui spesso assistiamo da decenni soprattutto attraverso alcune operazioni attuate dai mass media e da parte della politica. Secondo me la storia professionalizzata, e non come rigido accademismo, è da considerare un bene comune; sarebbe d’avanguardia l’insegnamento al valore dei beni comuni e culturali, di quella che possiamo definire come una cultura diffusa, che sappiamo essere oggetto di percorsi innovativi in alcuni istituti.
Dunque l’obiettivo di un progetto politico-culturale per un domani caratterizzato dalla centralità dell’educazione alla complessità, dovrebbe essere quello di superare questo appiattimento che allo stato attuale non può che produrre un senso di smarrimento nella cittadinanza tutta.

Marco Palla, Mussolini e il fascismo. L'avvento al potere, il regime, l'eredità politica, Giunti Editore, 2019D. – Abbiamo già citato i rischi dell’uso pubblico della storia da una parte, e dall’altra della necessità della costruzione di una memoria collettiva basata su ricerche scientifiche portate avanti da storiche e storici. Eppure ci pare che la ricerca storica sia sempre meno finanziata e che l’insegnamento della disciplina sia preso sempre meno in considerazione nel sistema scuola. Secondo lei qual è lo stato di salute della ricerca storica in Italia?
R. – È innegabile che negli anni c’è stata una diminuzione dei finanziamenti per scuola, università e ricerca che ha inevitabilmente portato ad un depotenziamento della conoscenza e della scuola. Purtroppo possiamo affermare che nei decenni passati i governi di orientamenti politici differenti hanno preferito la strada di una cosiddetta razionalizzazione, che si è concretizzata sostanzialmente in tagli, che hanno portato ad un progressivo peggioramento rispetto alla prassi esistente un tempo di una classe dirigente in generale quantomeno sensibile ad ammodernare e ad investire. Ciò ha prodotto, appunto, una decrescita di cui oggi sono facilmente visibili le conseguenze. Probabilmente, e anche questa è una scelta che al momento non mi pare sia presente nell’agenda politica, una soluzione ai definanziamenti potrebbe arrivare dal ridurre anziché aumentare le già ingenti spese militari. Gli archivi, le biblioteche, gli istituti, che promuovono e permettono di fatto la ricerca, hanno altresì bisogno di risorse, sono servizi che devono essere realmente liberi e accessibili e che in quanto tali lo Stato deve garantire alla comunità tutta. Inoltre, fatemi dire una cosa su cui già molti colleghi si sono espressi e su cui sono d’accordo: sono contrario all’istituzione dell’alternanza scuola-lavoro, per me la scuola deve rimanere un luogo di saperi liberi. Credo fortemente in una scuola gratuita, pubblica, laica, pluralistica e libera da un insegnamento etico ereditato dalla scuola gentiliana fascista.
Per quanto riguarda la realtà universitaria penso sia necessario un ampio cambiamento, ad esempio con una stabilizzazione dei finanziamenti soprattutto per i percorsi post-laurea, lasciando libero spazio a rigorose ricerche innovative nel campo della storia di genere o della storia culturale e provando a scardinare l’attuale concezione della ricerca storica, che sembra irrigidita verso narrazioni militari e di storia della politica. Per far sì che questo avvenga, e che ci sia una vera e propria valorizzazione della ricerca, sono necessarie, appunto, maggiori risorse, che permettano davvero un sostentamento decoroso per giovani ricercatori e ricercatrici. Pensiamo, giusto per fare un esempio, ai dottorati senza borsa che sono stati istituiti recentemente: rappresentano una farsa per cui poi rischia di risultare accettabile soltanto per chi è già in condizione di sostenersi (o essere sostenuto) economicamente.

D. – Ultimamente vari studi, come il volume curato da Ceci e Albanese I luoghi dell’Italia fascista, che fa da corredo al portale da poco consultabile online, hanno evidenziato come ancora oggi siano molteplici le tracce evidenti e concrete di un passato fascista. Non sempre oggetto di commemorazioni, vie, piazze, edifici e monumenti fanno comunque parte della vita quotidiana della cittadinanza e, senza che questa se ne accorga, possono diventare di fatto simboli dei nostri valori (o meglio, disvalori).

R. – Penso che sulla questione della toponomastica l’approccio debba essere complesso e differenziato senza che l’idea sia semplicemente quella di abbattere tutto: alcune cose si possono cambiare con un tratto di penna, altre abbisognano di didascalie o altri strumenti che documentino i segni del passato che la repubblica italiana riconosce; perché il fascismo fa parte della storia d’Italia e non può essere messo fra parentesi né tantomeno dimenticato, va studiato e contestualizzato. Poi questo è un discorso complesso perché oltre ad alcuni monumenti o vie che richiamano direttamente alla simbologia e al fascismo stesso, esistono anche una serie di opere che si rifanno più a movimenti artistici esistenti durante il fascismo che alla sua ideologia, si pensi al razionalismo architettonico. Alla fine credo che sia una riflessione di buon senso quella di Giorgio Candeloro: non tutto quello che è stato costruito, studiato, fatto durante il fascismo va attribuito al fascismo, e al tempo stesso neanche separato da quello che il fascismo è stato. Dall’altra parte ci sono le battaglie, veramente di retroguardia, che fanno le amministrazioni di destra a livello sia nazionale che locale, come quella per non cancellare la cittadinanza onoraria a Mussolini. Questo dovrebbe essere quasi un automatismo, una scelta immediata. Eppure quanti sono oggi i comuni che hanno cancellato questa onorificenza? C’è inoltre da parte di alcune amministrazioni locali addirittura la promozione di nuove celebrazioni con statue e intitolazioni a presunti patrioti italiani, che in realtà non sono altro che parte della classe dirigente fascista, si pensi ad esempio al busto di Graziani nella sua città natale.
Quindi direi che è importante contestualizzare, differenziare, per decidere quali dei lasciti del fascismo mantenere e quali no, coinvolgendo la cittadinanza e cercando di rendere visibile e comprensibile ciò che conserviamo, magari interpellando anche storici ed esperti. Azzardo in aggiunta un’ultima considerazione riguardo le leggi razziali: oggi nel 2023 non c’è stato alcun risarcimento reale per le comunità ebraiche, i cui membri furono espulsi dall’ambito civile. Questo sarebbe un atto di civiltà minimo.

Ghezzano (PI), 30 gennaio 2022

**Caterina Carpita dottoranda dell’Università degli studi di Napoli L’Orientale e Teresa Catinella dottoranda dell’Università di Pisa.