ARNALDO DELLO SBARBA, ANATOMIA D’UNA CADUTA

Era stato protagonista della politica toscana da fine ‘800 in poi. Nel 1924 Mussolini lo voleva nel “Listone” fascista.
Ma contro l’ex ministro riformista insorse lo squadrismo pisano.

 Dalla rilettura di archivi pubblici e privati, in parte inediti, il ritratto di una classe dirigente che allevò il fascismo e ne fu divorata.

1911, Arnaldo a Roma, appena eletto deputato socialista
(Archivio privato famiglia Dello Sbarba)

Che nel giro di pochi giorni, o forse di poche ore, si sarebbe giocato tutta la sua vita politica, Arnaldo Dello Sbarba (1) lo sapeva da tempo. E a quella vigilia elettorale dell’anno 1924 (2) era arrivato come lui sapeva fare: ben preparato.
Aveva dalla sua Benito Mussolini, vecchia conoscenza d’epoca socialista e ora duce del fascismo vittorioso. Aveva conquistato Cesare Rossi (3), numero due del regime e potente capo dell’ufficio stampa del governo. Nella circoscrizione, nella quale Dello Sbarba aveva recitato da primattore per quattro legislature, puntavano su di lui le élite fiancheggiatrici che speravano così di moderare e controllare lo squadrismo (4).
Nella base fascista Arnaldo poteva contare sul Fascio di Pisa, guidato dal capitano Bruno Santini (5), che sul “caso Dello Sbarba” aveva ricevuto istruzioni “inequivocabili” dal duce. Santini capeggiava in quei giorni il movimento dei “dissidenti” contro il segretario federale Filippo Morghen (6), sostenuto invece dai “ras” provinciali (7). E da quando Morghen s’era avventurato a giurare: «Nel fascismo, o me o Dello Sbarba» (8), Santini s’era convinto che poteva usare Dello Sbarba per togliersi Morghen dai piedi.

Considerati dunque tutti i pro e i contro, Arnaldo riteneva di poter vincere la partita. Sarebbe stato ammesso nella “Lista Nazionale” di Mussolini, con la certezza di tornare in parlamento. Voti personali ne aveva in quantità, al resto ci avrebbe pensato il diluvio di seggi garantiti ai fascisti dalla legge Acerbo.
Eppure, compiuti cinquant’anni il 12 agosto 1923, Arnaldo Dello Sbarba si avvicinava all’anno nuovo in stato di grande agitazione. Alla vigilia di Natale, il suo fedele segretario Carlo Conti (9) aveva riferito al fratello Bruno Dello Sbarba di «gravi preoccupazioni politiche non ancora ultimate [anche se] ben incamminate (…) Ci vorranno ancora dei giorni nei quali Arnaldo, che non sta bene soprattutto di cuore, ha bisogno di calma più assoluta (…) . Scrivigli per tranquillizzarlo e incitarlo a vincere la più aspra battaglia» (10).
Finito in mezzo alle lotte intestine del fascismo pisano, nel novembre del 1923 Arnaldo era stato addirittura aggredito alla stazione di Pisa da una squadraccia comandata dal conte Giuseppe Della Gherardesca (11).
Di questo si era immediatamente lamentato con Cesare Rossi. L’aggressione, scrive Arnaldo a Rossi il 10 novembre 1923, non è stata affatto «frutto di uno stato di esaltazione personale» ma della volontà di «costringermi fuori dalla vita pubblica».
Arnaldo riferisce a Rossi che in una riunione della federazione fascista, successiva all’aggressione,

in cui il Gherardesca urgentemente chiamato partecipò, […] si proclamò che io ero un comunista, antitaliano e anti-patriota, e che coloro che mi avevano fatto affronto avevano compiuta opera italianissima, da deplorar semmai per essere stata solo nei limiti di minacce e di ingiurie (…). Fui interventista della primissima ora, partecipai alla manifestazione di Quarto (12) e scoppiata la guerra mi scrissi volontario. Non ho, in coscienza, nulla da rimproverarmi (…) alle accuse di chi, come il Gherardesca fu in quegli anni noto tedescofilo.

Lei mi è testimone – continua la lettera di Arnaldo a Rossi – con quale ardore nel 1921 io, nella circoscrizione di Pisa Lucca Livorno e Massa Carrara, difesi il blocco nazionale ed affermai le ragioni del fascismo, allo stesso modo che nelle sventurate elezioni del 1919, per riaffermare le ragioni della guerra e della patria, fui esposto a tutti gli oltraggi e a tutti gli attentati dei socialcomunisti. Venuto il governo fascista gli ho dato disinteressatamente ed incondizionatamente tutto il mio consenso, fino a partecipare alla commemorazione della marcia su Roma. Della mia devozione per il Presidente non ho bisogno spero neanche di intrattenermi (13).

Primo maggio 1900. Arnaldo saluta il nuovo secolo con la prima pagina de L’Avanti.
(Archivio privato famiglia Dello Sbarba)

Questo Arnaldo Dello Sbarba del 1923 non era evidentemente più quello «degli anni della sua splendida gioventù», raccontati da Arnaldo Fratini (14) nella sua storia del socialismo volterrano, «che germogliò per la cura, l’ardore e il coraggio con cui lui, insieme ad altri ottimi compagni, volle e seppe coltivarlo». Non era più il battagliero direttore de «Il Martello», uno dei primi giornali del socialismo toscano (15), né il giovane avvocato che nel 1898 aveva difeso, a fianco di Pietro Gori, i lavoratori in sciopero a Campiglia e nel 1900 aveva combattuto per la grazia all’anarchico Cesare Batacchi, rinchiuso nel mastio di Volterra per una bomba mai lanciata (16).
Aveva cambiato rotta: c’era stato l’appoggio alla campagna coloniale di Libia del 1911 (17), l’espulsione dal PSI nel 1912, l’interventismo, la guerra, il “Biennio Rosso” vissuto dalla parte opposta della barricata, all’ombra del liberalismo giolittiano.
Deputato ininterrottamente dal 1911, nei governi di Nitti e Giolitti, Arnaldo era stato sottosegretario alla Giustizia nei mesi insanguinati dall’insorgenza del fascismo. Nel debole governo Facta era stato infine ministro del lavoro, finché la marcia su Roma non aveva mandato tutti a casa. Dopo di che, da deputato, aveva votato per il primo governo Mussolini, usando poi la presenza in parlamento per intessere relazioni nei palazzi del nuovo potere.

Il suo riferimento più importante era diventato Cesare Rossi, che in quell’inizio del 1924 stava lavorando per allargare il consenso al fascismo e farne la spina dorsale di un nuovo stato. La candidatura di un Arnaldo Dello Sbarba, ex ministro dell’era giolittiana, era funzionale a questa strategia.
Così Cesare Rossi si era fatto il regista della candidatura Dello Sbarba nel listone fascista. All’inizio del 1924 aveva ordinato a Luigi Freddi, capo ufficio stampa del PNF, di impedire all’ala intransigente del fascismo pisano di usare il settimanale «L’Idea fascista» per «scocciar l’anima a Dello Sbarba (…) poiché costui (che fra parentesi è molto intelligente e abbastanza ben visto dal Presidente, il quale gli ha anche affidato l’incarico, insieme ad altri due o tre Deputati, di costituire un gruppo di sinistri fascistofili) finirà per essere compreso nel Listone. (…) Io mi riprometto di difenderlo al momento opportuno» (18).
Il tandem Rossi-Freddi aveva anche imbastito una massiccia campagna di stampa per Arnaldo, trainata da «Il Nuovo Giornale» di Athos Gastone Banti e dal «Corriere italiano» di Filippo Filippelli (19).
Per dividere il fronte degli intransigenti, Cesare Rossi aveva mobilitato con un telegramma il principe Piero Ginori Conti (20), proprietario della Boracifera di Larderello e ras dei ras provinciali:

Consiglio inviare senz’altro Presidente Mussolini telegramma in cui si prospettino opportunità positive soprattutto elettorali inclusione Dello Sbarba testimoniando, come per mio conto ho già fatto e farò ancora, il suo contributo [di] affiancatore [del] movimento fascista in varie sue fasi.

Intanto Arnaldo Dello Sbarba stava preparando un promemoria per illustrare i suoi meriti «di affiancatore del fascismo». Nel suo archivio se ne trovano diverse bozze. Un primo schema lo redige Carlo Conti e per Arnaldo rivendica la lotta contro il popolare segretario provinciale del PSI Carlo Cammeo e le manovre messe in atto per destituire, in combutta col prefetto filofascista Renato Malinverno, i “sindaci rossi” Giulio Guelfi di Cascina ed Ersilio Ambrogi di Cecina (21).
Un canovaccio è incaricato di stenderlo anche l’altro segretario, il cavalier Vittorio Fagioli di Marciana Marina, luogotenente di Arnaldo per la provincia di Livorno:

I socialisti ufficiali gli dichiararono guerra implacabile […]. Nelle elezioni del 1919 la campagna bolscevica fu esclusivamente contro l’on. Dello Sbarba, che fu coperto di contumelie come guerrafondaio, indicato all’ira delle folle e in un sobborgo di Pisa gli fu perfino tirato in faccia manciate di sterco e di mota gridando: Eccoti la Patria! (22).

1920, Arnaldo sottosegretario alla Giustizia nel V° governo Giolitti
(Archivio privato famiglia Dello Sbarba)

Il promemoria definitivo, in terza persona e da spedire a Roma, Arnaldo lo scrive di suo pugno. Nella prima parte ripercorre le prove del suo amor di Patria, già ricordate nella lettera a Cesare Rossi. Poi passa agli esempi concreti, che letti oggi fanno venire i brividi.

Sottosegretario alla giustizia con Giolitti – scrive di sé Arnaldo Dello Sbarba – si batté col noto maestro Cammeo in una elezione provinciale memorabile e difese i fascisti sempre. Avvenuta la uccisione Cammeo (Mussolini ebbe con lui in proposito una corrispondenza telegrafica) procurò la scarcerazione della Rosselli e degli altri accusati (23). Quando, dopo i fatti di Sarzana (24), fu arrestato Santini, andò a Massa per farlo scarcerare. Quando fu ucciso Menichetti (25) in una imboscata comunista a Ponte a Moriano, ne seguì a capo scoperto il feretro.
Ministro del lavoro, parlando in una solenne riunione a Larderello (il senatore Ginori Conti presente e testimone) fece pubblica esaltazione del fascismo. Idem per l’inaugurazione del monumento ai caduti a Bagni di San Giuliano [e] il 26 ottobre 1922 in un pubblico discorso a Casanova di Piemonte […].
Dopo l’avvento del governo fascista, […] si fece sollecito di infondere nelle masse operaie, su cui ha vivo ascendente, il senso di fiducia e disciplina al governo dell’on. Mussolini, che esaltò […] ai metallurgici di Viareggio, ai contadini di Rosignano, agli operai di Ponte a Moriano, ai cavatori di alabastro di Castellina, ai mezzadri di Collesalvetti. […]. Nell’anniversario della Marcia su Roma – a dimostrare che fascismo e nazione si identificano – partecipò ai pubblici cortei (26).
È perseguitato dai ras locali con la scusa che egli ha una mentalità socialista, quella che servì sempre senza infingimenti […] e che anche oggi, per la parte che tende all’elevazione morale e materiale delle classi lavoratrici, non avulse ma integrative dei supremi interessi della Patria, ha il suo più grande interprete in Mussolini e la pratica nei sindacati nazionali fascisti.

La candidatura Dello Sbarba viene discussa a Roma dalle massime cariche del fascismo dal 4 all’11 febbraio 1924. Ne abbiamo sul «Messaggero Toscano» il resoconto di Bruno Santini, presente come segretario del fascio di Pisa, che riferisce di aver dichiarato in diverse riunioni tra il 4 e il 9 febbraio, a Costanzo Ciano, presente Morghen, a Cesare Rossi, alla Pentarchia (la commissione elettorale a cinque) presieduta da Aldo Finzi

che l’on Dello Sbarba aveva forti correnti contrarie nel partito Fascista e una ragguardevole forza sua fuori dal partito, tra tutti coloro che per quindici anni erano stati da lui beneficiati, aiutati, sorretti. Se l’on. Dello Sbarba fosse entrato nella Lista Nazionale del Partito Fascista, questa avrebbe guadagnato voti di molti elementi non fascisti.

Alla seduta decisiva dell’11 febbraio 1924 partecipa Mussolini in persona, che ha l’ultima parola sulle candidature. «Davanti a S.E. Mussolini, presente S.E. De Bono – racconta Santini – ripetei le stesse dichiarazioni. Il Presidente mi lesse alcuni appunti riguardanti l’on. Dello Sbarba, che riflettevano la sua posizione rispetto al Fascismo», e qui Santini cita a memoria la scarcerazione degli assassini di Cammeo, quella dello stesso Santini a Massa e il discorso filo fascista a di San Giuliano Terme. «Altro lesse il Presidente che io non ricordo. Ricordo che le dichiarazioni del Presidente furono esplicite, nette, recise» (27).
Ai vertici fascisti Mussolini aveva letto dunque proprio il promemoria scritto da Arnaldo. E aveva deciso. L’annuncio arriva a Dello Sbarba con un biglietto proveniente dai corridoi della Pentarchia:

Caro Arnaldo, stamani la tua questione è stata decisa favorevolmente. Tu sei stato ammesso come era giusto e doveroso. [La firma è purtroppo indecifrabile].

«Comincia circolare voce tua inclusione, studio affollato, entusiasmo vivissimo» telegrafa Conti ad Arnaldo il 12 febbraio. Il mattino dopo il segretario viene convocato dal prefetto Renato Malinverno, preoccupato della piega presa dagli avvenimenti. Alle 16,30 Conti riferisce ad Arnaldo:

Alle 11:00 sono stato chiamato dal prefetto. Ha cominciato col prospettarmi il pericolo di dimissioni, di astensioni eccetera. L’ho fermato subito su questa strada dicendogli chiaro e tondo che avevo saputo da Dario Lischi (28), tornato stanotte da Roma, le parole chiare e inequivocabili dette dal Duce al Santini: “Dì ai Pisani che Dello Sbarba è nella lista per mio volere e nessuno ce lo toglie, che è anche l’ora di smetterla con i campanili – essendo la lista Nazionale – anche se i campanili sono storti e artistici come quelli di Pisa”.
Il prefetto evidentemente non conosceva questo episodio che gli ha fatto impressione. Allora ho cominciato a parlare descrivendogli la situazione vera, (i grandi consensi eccetera) che è in tuo favore. Quanto a dimissioni, astensioni ecc ., gli ho detto saranno in numero molto ridotto seppur vi saranno. Che in ogni modo si tratterà di qualche capo malinconico e scornato. (…) Che la verità vera è questa: Medoro (29) e gli altri della federazione avevano corso troppo nel farti la guerra e si trovavano perciò impegnati fino al collo (…) per giustificare dinanzi alla Pentarchia la loro imbecillità e creare fantasmi di agitazione.
Poi uscendo gli ho detto: Scusi lei sente di essere il prefetto? Lui mi ha risposto: Ah per questo Le assicuro che io eseguirò e farò rispettare gli ordini! Basta così! Ho la convinzione di averlo lasciato persuaso.

Il 14 febbraio anche la stampa dà la notizia dell’inclusione di Arnaldo nel listone fascista. Ma gli avversari non si sono dati per vinti.
Il 15 febbraio una lettera proveniente da Pisa avverte Dello Sbarba:

Carissimo onorevole, sono arrivati stamani da Roma gli energumeni Carosi, Biscioni, De Guidi, Parenti ed altri che lunedì notte, appena appresa la notizia della sua inclusione nel Listone, partirono per impressionare le direzione del partito. Minacciarono distacco dal Partito ufficiale, costituzione di fasci autonomi, rappresaglie ecc. e secondo quanto essi affermano sarebbero riusciti a persuadere il Direttorio e l’on. Giunta a far pressione presso il Duce per ottenere il loro intento (30).

Il 17 febbraio il segretario provinciale Filippo Morghen – che si era istallato in permanenza a Roma presso l’hotel Continental, a due passi dalla stazione – dirama a tutti i fasci l’ordine di inviare ai vertici nazionali telegrammi contro l’inclusione di Dello Sbarba nel listone.
Morghen ha dalla sua la deliberazione del 2 febbraio della federazione fascista pisana che si era pronunciata per l’esclusione di Dello Sbarba e un’ordine del giorno approvato dall’assemblea dei sindaci fascisti in cui essi «confermano di ritenere Dello Sbarba politicamente non degno di essere compreso nella Lista Nazionale». Se Mussolini lo avesse ciò nonostante inserito, i sindaci fascisti minacciano di dimettersi in massa. E se qualcuno se ne fosse dimenticato, il 18 febbraio ci pensa il sindaco di Collesalvetti Gino Lavelli de Capitani, proprietario di fabbriche nella piana pisana, a spedire a tutti i sindaci una copia della delibera approvata, invitandoli a passare ai fatti (31).

Il 19 febbraio Carlo Conti informa Arnaldo dei metodi adottati dagli intransigenti.

Alla famosa adunanza, molti sindaci non erano presenti e, tolti 3 o 4, gli altri dichiarano che fu loro imposto di votarti contro. A Volterra si vive nel terrore, girano col nerbo per impedire che ti si facciano telegrammi o si faccia il tuo nome. Sono 7 o 8, ma armati, e fanno paura alla gente. Soltanto perché il Quadri fece pubblica dichiarazione di soddisfazione per la tua inclusione, la farmacia ora è guardata dai carabinieri”.

Lo stesso Conti è stato minacciato con un biglietto anonimo: «Diciamo a lei diabolico segretario di smetterla perché prima del suo padrone sarà soppresso». Conti commenta: «Niente po’ po’ di meno! Povero, grande Mussolini, da qual gente è qui rappresentato!».

Il fatto è che il «povero grande Mussolini» ha già fatto marcia indietro, cedendo alle pressioni del fascismo intransigente. Accade così ora nel microcosmo pisano ciò che in grande si ripeterà nel gennaio del ’25, come reazione al delitto Matteotti. Messo di fronte all’alternativa drastica, e rimangiandosi le promesse di moderazione, il duce sceglierà sempre di appoggiarsi all’ala più violenta del fascismo.
Alla sera di quel tormentato 19 febbraio 1924, l’agenzia Stefani batte infine il dispaccio che riporta la versione definitiva della Lista Nazionale per la Toscana. Arnaldo Dello Sbarba non vi compare più.

È successo che per tagliare la testa alle lotte interne, Mussolini ha deciso per la Toscana una lista “fascistissima”, composta di sole camicie nere. Accanto ai 24 nomi scelti dal duce vengono indicate con puntigliosità le cariche fasciste e i meriti di guerra: combattente, decorato, grande invalido e così via. Per Pisa in lista compaiono Guido Buffarini Guidi (32), sindaco e presidente dei combattenti, e Lando Ferretti (33), «ferito in guerra e decorato», entrambi candidati proposti dalla federazione pisana. Non vi compare invece l’uomo che il direttorio aveva proposto come primo: Filippo Morghen. L’eliminazione di Dello Sbarba ha trascinato con sé anche il suo arcinemico – almeno in questo Bruno Santini aveva visto giusto.
Il quale Santini, qualche giorno appresso, si prende pure la soddisfazione di rivelare sulla stampa gli intrallazzi di Morghen, che, mentre scatenava le camicie nere contro Dello Sbarba, dietro le quinte tentava un accordo con il vituperato ex ministro. Santini racconta che, nelle concitate giornate in cui a Roma si discuteva della candidatura Dello Sbarba, Morghen lo aveva fatto contattare da tre suoi uomini della commissione elettorale pisana che gli avevano promesso di «cessare la campagna contro di Lei» in cambio dell’impegno dello stesso Dello Sbarba a sostenere l’ingresso nel Listone «di nomi nostri, designati dalla Federazione» – tra i quali compariva come primo proprio il Morghen (34). È probabile che questo doppio gioco abbia convinto il duce a escludere pure lui dalla lista.

«Che farà ora Dello Sbarba?» si chiede il Messaggero Toscano la mattina del 20 febbraio. Il giornale prospetta due strade: presentare una lista propria, o aderire alla lista “Democratici Sociali” creata da due sue vecchie conoscenze, Mario Supino, avvocato, esponente della “democrazia massonica” di Pisa, e Augusto Mancini (35), filologo e deputato radicale, che di questa «lista parallela» aveva già informato Arnaldo per lettera il 15 febbraio.
In realtà, Arnaldo avrebbe avuto anche una terza opzione: confluire nella “lista bis” in cui Mussolini aveva dirottato in Toscana i tre deputati liberali uscenti, restati anche loro fuori dalla lista “fascistissima”. E cioè il livornese Guido Donegani, presidente della Montecatini, il senese Gino Sarrocchi, liberale della destra salandrina contiguo al fascismo, e l’agrario grossetano Gino Aldi Mai (36). Questa “lista bis” avrebbe pescato nei seggi spettanti all’opposizione, ma era appoggiata dal governo e sarebbe poi confluita nella maggioranza. Teoricamente, l’opzione ideale per Dello Sbarba: garantita nel risultato, indipendente nella forma, fascista nella sostanza. Ma – informava il «Messaggero Toscano» – «i liberali non ne vorranno sapere di Dello Sbarba», ormai sgradito al fascismo locale e temibile concorrente nelle preferenze.

1916, Arnaldo sottotenente nei gruppi di artiglieria avanzata della Val Lagarina a Coni Zugna e Zugna Torta.
(Fondo A. Dello Sbarba Biblioteca Guarnacci di Volterra)

La mattina del 20 febbraio Arnaldo è ancora deciso a non mollare. Solo e arrabbiato nel suo ufficio di deputato a Roma, prende carta e penna e scrive a Mussolini per annunciargli che lui si candiderà comunque.

Caro Presidente, ieri discutendosi in Pentarchia la lista per la Toscana, il mio nome non fu incluso nella lista nazionale, non già perché mi si potesse rimproverare alcuna colpa verso la Patria o verso il Fascismo, ma solo perché tal Morghen, segretario provinciale di Pisa, per risentimenti personali spintisi fino ad una vera e propria caccia all’uomo, ha creato una situazione di grottesco imbottigliamento antisbarbiano che ieri (domandalo al comm. Cesare Rossi) egli non riuscì a giustificare […]. D’altronde io so di non avere demeritato né della Patria né del Fascismo, cui ho dato lealmente consigli e aiuti; so di avere numerosi amici in Toscana, i quali non possono e non vogliono tollerare questa forma di ostruzionismo politico, e quindi, non perché malato di parlamentarismo, ma perché […] devo difendere la mia dignità umana, io vado ad appellarmi al giudizio degli elettori, ai quali chiarirò che […] solo da loro, che mi diedero per 4 legislature il viatico, io posso accettare oggi il congedo dalla vita politica” (37).

Alla sera, però, Arnaldo ci ripensa. Per tutto il giorno ha ricevuto messaggi che lo spingono a più miti consigli. Il fedele e accorto Carlo Conti, già la sera del 19 febbraio, lo ammoniva: «I pochi amici coi quali ho parlato sono poco favorevoli a liste bis o parallele».
La mattina dopo anche Gino Sossi, avvocato, compagno in politica, socio negli affari e marito della sorella Adele, gli aveva scritto:

Non so se tu accetterai di fare parte di una lista parallela, ma il mio avviso è che tu debba accettare se sicuro della riuscita. Se dovessimo fare la lotta delle preferenze con Donegani, Sarrocchi ecc. credo che potremo essere battuti. Perciò sii vigile, l’unica cosa da evitare è di accingersi alla lotta e rimanere a terra.

Anche l’industriale farmaceutico pisano Alfredo Gentili, suo fedele sostenitore, lo metteva in guardia dal candidarsi «nella lista bis, che qui è chiamata la lista dei cani rognosi». Infine, da Pisa gli aveva telegrafato la moglie Maria Ziffo:

Amici interpellati ritengono conveniente tuo disinteressamento eventuale lista liberale perché lotta ridurrebbesi favorire influenti liberali privilegiati [da] centri elettorali industriali.

A sera, dunque, Arnaldo Dello Sbarba si era di nuovo seduto alla scrivania per scrivere una seconda lettera a Mussolini e poi fargliela recapitare subito a mano dal servizio parlamentare. Sono le ultime parole – almeno per ora! – di una lunga carriera politica:

Illustre Presidente – scrive Arnaldo – la situazione di ostilità e di dissenso che si è riacutizzata, in questi giorni, fra fascisti pisani per la cocciuta volontà di alcuni di essi, ingiustamente prevenuti contro di me ed immemori della mia opera sempre onesta e fermamente patriottica anche in ore oscure, che rivendico in pieno, mi decide a rinunciare alla formazione di una lista propria […]. Ma se rinuncio a rientrare in Parlamento, ove le mie forze elettorali mi avrebbero certamente riportato, non intendo disertare il campo della lotta imminente. Perciò, inviterò con pubblico manifesto i miei amici a votare compatti e fervorosi la Lista Nazionale, con l’augurio che gli infatuati miei oppositori non mi impediscano almeno di portare il mio personale disinteressato aiuto alla forte battaglia che tu combatti – con pugno sicuro – per la più grande vittoria dell’Italia.

In soli cinque giorni Arnaldo Dello Sbarba si era giocato la sua carriera politica, e aveva perso.

Qualche settimana dopo lo conforta sua madre da Volterra:

Arnaldino mio – scrive Isola Veroli – non posso descriverti la consolazione. Sapendo la guerra che ti facevano e conoscendo questa gente, avevo sempre paura che ti facessero del male. Anche Bruno mi scrive che è contentissimo della tua decisione, prega e spera che tu non cambi. Mi dici che presto verrai a Volterra. Io non ci credo finché non ti vedo e il desiderio è tanto grande” (38).

Il 4 aprile 1924, alla vigilia di elezioni che a Pisa si sarebbero svolte per la prima volta da vent’anni senza un Dello Sbarba in qualche lista, si fa vivo di nuovo l’amico industriale Alfredo Gentili:

Il governo dovrebbe esserle grato (esiste oggi la gratitudine a Roma?) per il suo atteggiamento. Avremo la possibilità non lontana di vedere un segno della gratitudine mussoliniana per lei?

Gentili allude a quella prossima “infornata di nuovi senatori” per nomina governativa di cui già parlano i giornali (39). Il Duce avrebbe ripescato anche Arnaldo? Amici, sostenitori, segretari, e prima di tutti lui stesso, ci contano.
Le “infornate” arriveranno una dopo l’altra, ma il turno di Arnaldo Dello Sbarba non arriverà più. Al contrario, il fascismo pisano vuole liberarsi definitivamente di lui.
Il 2 gennaio 1925, al culmine della crisi seguita al delitto Matteotti e alla vigilia del discorso con cui Mussolini assumerà in parlamento la responsabilità dell’assassinio (40), un corteo di fascisti furibondi attraversa Pisa come “una colonna di fuoco” (41). Oltre a distruggere il circolo repubblicano e il quotidiano cattolico «Il Messaggero toscano», al grido di “fuori i massoni dal fascismo” i fascisti devastano la loggia massonica, l’abitazione e lo studio del gran maestro Alfredo Pozzolini e l’abitazione e lo studio al Palazzo alla Giornata di Arnaldo Dello Sbarba.
Pochi mesi dopo, Arnaldo deciderà di abbandonare Pisa per Roma: «Ho dovuto constatare scrive al fratello Bruno (42) – che a Pisa non c’è aria per me, e non c’è lavoro».

NOTE:

(1) Arnaldo Dello Sbarba (1873-1958) è stato dalla fine dell‘800 alla prima metà del ‘900 un protagonista della politica in provincia di Pisa (compresa l’area da Rosignano all’Elba). Laureato in Giurisprudenza a Pisa, consigliere in comune a Volterra e poi in provincia, è parlamentare dal 1911 al 1924. Diviene sottosegretario nei governi Nitti e Giolitti (1920-1921) e ministro per il Lavoro nei governi Facta (1922). Naufragata la candidatura nel “Listone” fascista del 1924 e entrato nel mirino dei fascisti, abbandona Pisa per Roma. Fino al 1929 è sottoposto a vigilanza di polizia. Nel 1943 il prefetto della RSI emette contro di lui mandato di cattura. Dopo la Liberazione di Pisa, il 29 dicembre 1944 è ammesso nel CLN provinciale su nomina del neonato “Partito Democratico del Lavoro”, nonostante la decisa opposizione di partigiani e CLN di Volterra che lo accusano di complicità col fascismo. Nel dopoguerra ricopre numerose cariche, tra cui quella di Presidente della Cassa di Risparmio di Pisa e della Domus Galileiana. Cfr. A. Biscioni, Dello Sbarba Arnaldo, in Dizionario biografico degli italiani Treccani, 1990, https://www.treccani.it/enciclopedia/arnaldo-dello-sbarba_(Dizionario-Biografico).
Gran parte delle sue carte sono conservate nel Fondo A. Dello Sbarba nell’archivio della Biblioteca Guarnacci di Volterra (d’ora in poi BGVolterra/FAdS), Cfr. E. Dello Sbarba e S. Trovato, Inventario dell’archivio di Arnaldo Dello Sbarba, «Rassegna volterrana», a. 90, 2013. Per questo articolo sono stati esaminati inoltre archivi privati ancora inediti, custoditi dalla famiglia (d’ora in poi APAdS), l’Archivio di Stato di Pisa, la Biblioteca Capitolare dell’Arcidiocesi di Pisa, la SMSBiblio di Pisa, la Biblioteca delle Oblate e l’Archivio di Stato di Firenze. Un piccolo “fondo Dello Sbarba” è anche presso l’Archivio centrale dello Stato.
(2) Sulle elezioni del 6 aprile 1924 Cfr. R. De Felice, La legge elettorale maggioritaria e le elezioni politiche del 1924, in Mussolini il fascista, 1. La conquista del potere 1921-1925, Torino, Einaudi, 1966. Sulla situazione in Toscana in quel periodo si v. A. Giaconi, La fascistissima: il fascismo in Toscana dalla marcia alla “notte di San Bartolomeo”, Foligno, Il formichiere, 2019.
(3) Cesare Rossi (1887-1967), sindacalista rivoluzionario, interventista, giornalista con Mussolini al «Popolo d’Italia», co-fondatore dei Fasci nel marzo 1919. Mussolini lo incaricò di organizzare la “Ceka fascista” che rapì e uccise Matteotti. Accusato del delitto, in un memoriale indicò Mussolini come mandante. Fu prosciolto in istruttoria. Scappò in Francia, ma fu arrestato nel 1928 e condannato dal Tribunale speciale a diversi anni di carcere e confino. Nel 1947 al nuovo processo Matteotti – in cui chiamò a deporre in suo favore anche Arnaldo Dello Sbarba – venne assolto per insufficienza di prove. Cfr. M. Canali, Cesare Rossi da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Il Mulino, Bologna, 1991; M. Franzinelli, Matteotti e Mussolini, Milano, A. Mondadori, 2024.
(4) Cfr. P. Nello, Liberalismo, democrazia e fascismo. Il caso di Pisa, 1919-1925, Pisa, Giardini, 1995. La responsabilità delle vecchie élite dominanti nello sviluppo del fascismo (sottovalutazione o condivisione?) è un nodo storiografico fondamentale, oggi particolarmente attuale. Le élite politiche formatesi in epoca liberale stentarono a comprendere la natura del fascismo e che sarebbe diventato il loro “rottamatore”. Ma furono proprio le vecchie classi dirigenti a contribuire a creare, ciascuna corrente a modo suo, il clima favorevole al fascismo e a sostenerlo. Molti liberali lo tennero addirittura a battesimo. Giovani liberali furono tra i fondatori del fascio di Pisa e mantennero a lungo la doppia militanza. Furono originariamente liberali diversi fascisti di spicco qui citati, come Piero Ginori Conti, Costanzo Ciano, o lo stesso Filippo Morghen. C’era poi la composita galassia dei “democratici” (“democrazia massonica” inclusa) che si era candidata nel 1919 nell’”Unione democratica” e nel 1921 nel “Blocco Nazionale”, sempre con capolista Arnaldo Dello Sbarba. La loro convinta campagna interventista per la guerra come compimento del Risorgimento e rigeneratrice dei popoli incontrò il dannunzianesimo prima e il fascismo poi. A Pisa, dove l’interventismo attingeva al mito di Curtatone e Montanara, il fascismo partì da una generazione di studenti-combattenti motivati da una parte del vecchio corpo docente a combattere il “nemico interno” dei neutralisti, degli anti-nazionali, dei socialisti.
Tra gli interventisti democratici, inoltre, i social-riformisti finirono per sottomettere la lotta di classe agli “interessi della Nazione”, tanto più che nei mesi della neutralità italiana il Partito socialista riformista, cui apparteneva Arnaldo Dello Sbarba, puntellò al potere un liberale di destra come Salandra, già orientato all’intervento e sabotatore dei negoziati con l’Austria. Questo composito “radicalismo nazionale”, intriso di polemica antigiolittiana, antisistema e soprattutto antisocialista, pervase buona parte dell’intellighenzia italiana e nel dopoguerra accompagnò consapevolmente l’ascesa del fascismo, condividendone i valori e spesso anche le azioni.
(5) Bruno Santini, nato a Carrara nel 1895, studente di giurisprudenza a Pisa, capitano degli alpini, avvocato. Alla guida della componente ex combattentistica, animata da toni anti-borghesi, diventa segretario del Fascio di Pisa nel dicembre 1920 e guida gli assalti alla sinistra, ai sindacati, alle leghe rosse, ai sindaci socialisti. Entrerà in conflitto col segretario federale Filippo Morghen e dopo alterne vicende verrà espulso e costretto ad lasciare Pisa nel 1925. Cfr. M. Canali, Il dissidentismo fascista, Pisa e il caso Santini, 1923-1925, Roma, Bonacci, 1983.
(6) Filippo Morghen nasce a Castellina Marittima nel 1882 da una famiglia di incisori e acquafortisti (il nonno Raffaello era al servizio del granduca Ferdinando III). Laureato in giurisprudenza a Pisa, è combattente, avvocato e possidente. Da Filippo Morghen Arnaldo Dello Sbarba aveva acquistato in società col fratello Bruno la cava di alabastro del Marmolajo di Castellina Marittima, dove sindaco era proprio quel Carlo Conti che fu amico, segretario e consigliere di Arnaldo (vedi nota 6). In APAdS sono conservati gli atti di compra-vendita della cava e il relativo carteggio.
(7) Sul “dissidentismo” pisano e il conflitto Santini-Morghen è bene non fermarsi alla semplice dicotomia “normalizzatori contro intransigenti”. C’è infatti da chiedersi quanto di “ideale” ci fosse nei conflitti tra fascisti per i quali, dopo la marcia su Roma, si erano spalancate le porte del potere assoluto. Il controllo del partito consentiva loro di occupare importanti posizioni e ottenere consistenti arricchimenti personali. Più forte del confronto sulle idee, era dunque la lotta per accaparrarsi i rilevanti vantaggi derivanti da un movimento che stava trasformandosi in regime. Vedi i già citati lavori di P. Nello e M. Canali, oltre a M. Mazzoni, Livorno all’ombra del fascio, Firenze, L.S. Olschki, 2009.
(8) Sull’aut aut di Morghen Cfr. il «Messaggero Toscano», 29 febbraio 1924.
(9) Carlo Conti (1879-1943), più volte sindaco di Castellina Marittima ‒ suo feudo politico ‒, amico, segretario particolare e ascoltatissimo consigliere di Arnaldo Dello Sbarba, è stato poeta e giornalista per diverse testate, tra cui: «La nuova Italia», da lui fondato, «La Nazione», «Il Telegrafo», «Il Giornale d’Italia», «Il Ponte di Pisa», «Camicia nera», il giornale della corrente di Santini, di cui era amico. Collaboratore della casa editrice Nistri-Lischi, repubblicano filodemocratico e massone, tentò senza successo di riunificare in un’unica formazione le varie anime della “democrazia massonica” pisana. Nell’aprile 1923 inaugurò il suo terzo mandato da sindaco con un discorso di entusiastico sostegno al governo Mussolini. Cfr. In memoria di Carlo Conti, Lallo, a cura dei giornalisti pisani, Pisa, V. Lischi e figli, 1963, e Discorso di Carlo Conti pronunciato per l’insediamento dell’amministrazione comunale di Castellina Marittima il 20 aprile 1923, Pisa, Nistri-Lischi, 1923, ristampato da Tagete, Pontedera, 2005.
(10) Lettera di Carlo Conti a Bruno Dello Sbarba, fratello minore di Arnaldo, del 24 dicembre 1923 in APAdS.
(11) Giuseppe Della Gherardesca (1876-1968), Conte Palatino, Nobile dei Conti di Donoratico, Patrizio fiorentino, di Pisa e di Volterra, Nobile di Sardegna. Esponente di spicco dell’aristocrazia agraria e del fascismo toscano, dominatore della zona di Castagneto Carducci e Bolgheri. Podestà di Firenze dal 1928 al 1933, Senatore del Regno dal 1929 al 1943, carica da cui decadde nel 1945 in seguito all’epurazione antifascista.
(12) A Quarto il 5 maggio 1915, per il 55° anniversario della spedizione dei Mille, Gabriele D’Annunzio pronunciò, davanti a oltre ventimila persone, un’“orazione” per invocare l’intervento nella guerra contro l’Austria-Ungheria, che ebbe una forte eco e segnò la definitiva egemonia nazionalista sul movimento interventista, agli inizi spinto dall’“interventismo democratico” di personaggi come Leonida Bissolati, compagno di partito di Arnaldo Dello Sbarba.
(13) Lettera di Arnaldo Dello Sbarba a Cesare Rossi del 10 novembre 1923, in BGVolterra/FAdS, Carteggio, b. 4. I documenti citati di seguito, salvo diversa indicazione, si intendono provenienti da questo archivio, stessa posizione.
(14) Arnaldo Fratini (1895-1973) è stato la memoria storica del socialismo a Volterra. Alabastraio, entrato giovanissimo nel PSI, dal 1919 ne fu più volte segretario e consigliere comunale e fu perseguitato dal fascismo. Cfr. A. Fratini, Appunti per una storia del socialismo volterrano, «Volterra», dal n. 9 (set. 1969) al n. 11 (nov. 1970).
(15) «Il Martello» venne fondato il 6 ottobre 1894 dal ventunenne Arnaldo Dello Sbarba con Giulio Topi (nel 1920 primo sindaco socialista di Volterra) sull’onda delle lotte contro il governo Crispi. Il giornale dovette chiudere il 13 settembre 1895 avendo collezionato tre processi in 12 mesi.
(16) Cfr. D. Benvenuti, Le cravatte nere, storie degli anarchici a Volterra, Volterra, Distillerie, 2009.
(17) L’appoggio alla conquista della Libia comportò l’espulsione dal PSI (con una mozione promossa da Benito Mussolini) della corrente riformista di Bissolati e Bonomi di cui faceva parte anche Arnaldo Dello Sbarba. Cfr. M. Degl’Innocenti, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Roma, Editori riuniti, 1976, anche I. Bonomi, Dal socialismo al fascismo, Milano, Garzanti, 1946.
(18) Cfr. Canali, Il dissidentismo fascista…, cit., p. 55.
(19) Athos Gastone Banti (1881-1959), giornalista “spadaccino” (molte sue polemiche finivano in duello) fu amico e sostenitore di Arnaldo Dello Sbarba. Redattore capo del «Telegrafo», corrispondente di guerra per il «Giornale d’Italia», dal 1919 al «Nuovo Giornale» di Firenze, organo ufficioso degli ambienti massonici, la cui sede venne data alle fiamme nel 1924 dai fascisti. In seguito Banti torna al «Giornale d’Italia», ma finisce nei guai con Mussolini per un articolo sul caffè bevuto dal Duce in tempi d’autarchia. Nel dopoguerra fonda e dirige «Il Tirreno» di Livorno fino al 1957. Filippo Filippelli (1890-1961), fascista della prima ora, giornalista dal 1920 al «Popolo d’Italia», nel 1922 diventa segretario di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Nell’aprile 1923 è azionista, amministratore delegato e direttore del «Corriere Italiano», creato dai vertici fascisti con fondi messi a disposizione da gruppi industriali come Ansaldo, Eridania, Ilva, Fiat ecc. Il giornale funzionava anche come collettore di finanziamenti occulti gestiti da Arnaldo Mussolini per il fascismo e per la stessa famiglia Mussolini. Filippelli fornì a Amerigo Dumini (per il «Corriere italiano» ispettore delle vendite) la Lancia con cui Matteotti venne rapito ed ucciso. Ricercato, rivelò in un memoriale l’esistenza della “Ceka del Viminale”, comandata da Dumini. Venne arrestato il 17 giugno 1924 e due giorni dopo il giornale cessò le pubblicazioni. A proposito di fondi, nell’archivio Arnaldo Dello Sbarba (BGVolterra/FAdS, carteggio, b. 4) esistono le lettere indirizzate ad Arnaldo, firmate dal direttore dello stabilimento Solvay di Rosignano, che accompagnano quattro assegni di £ 5.000 ciascuno emessi dalla Solvay a favore dei due giornalisti: due intestati a Filippelli datati 22 febbraio e 27 marzo 1924, due intestati a Banti datati 14 aprile e 7 maggio 1924. Arnaldo fa da intermediario tra la Solvay e i beneficiari.
(20) Piero Ginori Conti (1865-1939), Principe di Trevignano, conte palatino, nobile romano, patrizio di Firenze e di Pisa e nobile di Livorno. Parlamentare dal 1900 al 1921. Sposa Adriana del Larderel e ne eredita le proprietà. Alla guida della Società Boracifera Larderello, inventa lo sfruttamento della geotermia per produrre elettricità. Crea il primo fascio fuori dalla città di Pisa e stronca così lo sciopero del 1920 alla Boracifera, imponendo l’eliminazione di molti diritti, licenziamenti di massa e successivamente l’obbligo di iscrizione al PNF per i dipendenti. Sostenitore di Mussolini, alla sua morte il fascismo lo celebra con funerali di Stato. Cfr. il volume apologetico di R. Martinelli, Il fascismo a Larderello, Firenze, Sansoni, 1934. Inoltre, M. Fontani e M. G. Costa, Come la chimica Toscana si prostrò di fronte al fascismo: il caso di Piero Ginori Conti, https://chimicanellascuola.it/index.php/cns/article/view/chimica-toscana-fascismo-il-caso-piero-ginori-conti/65
(21) Promemoria Carlo Conti, due pagine scritte a mano: “Chiedere chi, a proposito di sindaci rossi, aiutò il Comune di Cascina a liberarsi del famigerato sindaco Guelfi, insistendo presso l’autorità governativa e giudiziaria perché promuovessero un’inchiesta amministrativa contabile prima, la procedura penale poi? Il prefetto Malinverno dirà che tutta questa opera fu compiuta dall’onorevole Dello Sbarba (…)”. Su Giulio Guelfi (1888-1939) Cfr. Massimiliano Bacchiet, “Guelfi Giulio” in ToscanaNovecento: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16235-guelfi-giulio?i=12. Renato Malinverno fu prefetto filofascista di Pisa dal 1° settembre 1921 al 14 aprile 1924.
(22) Promemoria Fagioli: sette pagine scritte a mano intestate Camera dei Deputati. “Si venne alle elezioni del 1921 e Dello Sbarba fu accolto come capo del Blocco Nazionale (…). In quell’occasione corse tutta la circoscrizione, parlando patriotticamente ed esaltando le nuove correnti del fascismo (…). A Volterra, dove nel 1919 i bolscevichi avevano proibito a Dello Sbarba l’entrata, egli fu ricevuto trionfalmente da cortei capitanati dai fascisti Pedani, Maffei ecc. (…)”. Paolo Pedani era ispettore della zona di Volterra, Gherardo Maffei segretario del fascio di Volterra e commerciante di alabastro. Nel 1924 entrambi furono protagonisti della campagna contro la candidatura Dello Sbarba.
(23) Il commando fascista che uccise Carlo Cammeo era composto dallo studente Elio Meucci, da Mary Rosselli-Nissim, figlia di un patriota mazziniano e fanatica attivista interventista durante la Prima guerra mondiale, e da Giulia Lupetti, figlia del comandante del presidio militare di Pisa. Cfr. Massimiliano Bacchiet, Un’ora di dolore per il proletariato pisano, in ToscanaNovecento: https://www.toscananovecento.it/custom_type/unora-di-dolore-per-il-proletariato-pisano/
(24) Il 21 luglio 1921, Sarzana fu attaccata da una colonna di circa 500 squadristi comandati da Amerigo Dumini, ma stavolta furono affrontati da Carabinieri e Guardie regie, cui seguì la resistenza antifascista spontanea della popolazione e degli Arditi del Popolo. Fu uno dei pochi episodi di resistenza armata ai fascisti, che ebbero diversi morti e feriti e molti arrestati.
(25) Tito Menichetti, giovane fascista ex ufficiale, fu ucciso il 25 marzo 1921 durante una spedizione punitiva a Ponte a Moriano e celebrato come il “primo martire” del fascismo pisano. I Fasci organizzarono i suoi solenni funerali cui parteciparono tutte le istituzioni. L’Università accolse il feretro in Sapienza con la partecipazione del senato accademico oltre che del Rettore Ermanno Pinzani, che poi, sugli studenti universitari fascisti caduti nel 1921, così scrisse : Nell’anno scolastico testé decorso (…) quei martiri (…) hanno offerto la loro vita giovanile, preziosa e piena di entusiasmi in olocausto ai santi ideali di patria, giustizia e libertà”. Cfr. E. Pinzani, Inaugurazione degli studi. Relazione del Rettore, «Annuario della R. Università di Pisa per l’Anno Accademico 1921/1922», Pisa, Tip. Mariotti, 1922, p. 24.
(26) Nel corteo che attraversa “una città imbandierata”, Arnaldo Dello Sbarba è in prima fila insieme al sindaco Buffarini Guidi, al prefetto Malinverno, al senatore Supino e al deputato Ruschi. Cfr. «Messaggero toscano», 29 ottobre 1923.
(27) Cfr. «Messaggero Toscano», 21 febbraio 1924.
(28) Dario Lischi “Darioski” (1891-1938), giornalista, colonna dell’«Idea fascista», organo della federazione fascista pisana, del cui consiglio federale fu più volte membro, autore di numerosi libri, tra cui La marcia su Roma con la colonna Lamarmora (1923), Viaggio di un cronista fascista in Cirenaica (1934) e Tripolitania Felix (1937). Cfr. P. Nello, Liberalismo, democrazia e fascismo…, cit., p. 136.
(29) “Medoro” nomignolo dato dai pisani a Filippo Morghen a causa delle sue traversie coniugali. Ispirato alle vicende di Angelica nell’Orlando Furioso.
(30) Sandro Carosi (1899-1965), uomo di fiducia di Morghen, era farmacista e sindaco di Vecchiano, definito dal prefetto Malinverno «uno squilibrato per temperamento violento». Tra gli altri, uccide a freddo il tipografo Ugo Rindi l’8 aprile del 1924. Ebbe il compito di minacciare ripetutamente Arnaldo Dello Sbarba. Giuseppe Biscioni, “ras” di Calci, partecipò all’assassinio Rindi. Daniele De Guidi era il “ras” di Rosignano Marittimo. Lamberto Parenti era squadrista a Cascina e Navacchio. Francesco Giunta (1887-1971), segretario del PNF dal 1923 al 1924 e parlamentare dal 1921 al 1943, fu il persecutore della minoranza slovena di Trieste. Nel 1945 la Jugoslavia lo dichiarò criminale di guerra, ma l’Italia non concesse l’estradizione.
(31) L’ordine del giorno dei sindaci e la lettera del sindaco di Collesalvetti viene spedita da Carlo Conti ad Arnaldo il 19 febbraio 1924.
(32) Guido Buffarini Guidi (1895-1945), laureato in Giurisprudenza, volontario nella Prima guerra mondiale, massone nella loggia Darwin di Pisa. Avvocato e sindaco fascista di Pisa dove fu anche podestà e federale, membro del Gran consiglio del fascismo, sottosegretario agli interni (1933-1943), fu ministro dell’Interno nella Repubblica Sociale Italiana e corresponsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Venne fucilato dai partigiani il 10 luglio 1945.
(33) Lando Ferretti (1895-1977), combattente di due guerre, capo-corso alla scuola Normale di Pisa, deputato fascista dal 1924 al 1939. Dirigente sportivo, in era fascista fu presidente del CONI e commissario della Federazione italiana gioco calcio. Nel 1942 tenne una conferenza a Firenze nel 1942 indicando “il comune nemico nel trinomio giudaismo, plutocrazia, bolscevismo” e proponendo la ghettizzazione degli ebrei. Nel dopoguerra fu a lungo senatore del MSI (1953-1968) e membro del comitato organizzatore delle olimpiadi di Roma del 1960.
(34) Cfr «Il Messaggero Toscano» del 21 febbraio 1924.
(35) Mario Supino (1879-1938), avvocato, collega e amico di Arnaldo, già dirigente dell’Associazione nazionale combattenti di Pisa, per conto della massoneria si candidò alle elezioni politiche del 1924 nella lista democratico sociale, con scarso successo. Augusto Mancini (1875-1957) fu docente di filologia all’università di Pisa. Interventista, deputato repubblicano dal 1913 al 1924. Primo presidente del CLN di Lucca e primo rettore dell’università di Pisa liberamente eletto.
(36) Guido Donegani (1877-1947) fu presidente della società Montecatini, deputato del partito fascista dal 1921 al 1939, massone. Nel 1921 era stato eletto con Arnaldo Dello Sbarba nella lista dei “Blocchi Nazionali”. Gino Sarrocchi (1870-1950), deputato della destra liberale dal 1913 al 1929, ministro ai Lavori pubblici del primo governo Mussolini, si dimise dopo il delitto Matteotti. Nel 1929 fu nominato senatore. Dopo il 25 luglio 1943 si ritirò a vita privata. Gino Aldi Mai (1877-1940) eletto deputato a Siena in una lista agraria-liberale che poi confluisce nel PNF, rieletto dal 1924 al 1934, poi nominato senatore.
(37) APAdS, minuta a mano di 15 pagine in piccolo formato intestate “Camera dei Deputati”.
(38) In APAdS.
(39) Cfr. «La Nazione» del 17 giugno 1924, che cita indiscrezioni su possibili nomi.
(40) Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista, 1. La conquista del potere 1921-1925, cit., cap. 7: Dal delitto Matteotti al discorso del 3 gennaio.
(41) Cfr. M. Canali, Il dissidentismo fascista…, cit., pp. 80-83.
(42) Lettera del 26 agosto 1925, in APAdS.

Riccardo Dello Sbarba
Volterra, 1954. Laureato in filosofia a Pisa, docente di ruolo, giornalista professionista. Fin da giovanissimo partecipa ai movimenti degli studenti medi e universitari, milita nel gruppo del “Manifesto” di Pisa e scrive corrispondenze per il quotidiano. Dal 1986 al 1988 è nominato dalla Regione Toscana nel CdA del Parco di S. Rossore. Collabora con «Il Tirreno». Nel 1988 si trasferisce a Bolzano, dove lavora al quotidiano «Alto Adige» fino al 1992, al settimanale in lingua tedesca «ff» fino al 2001 e dirige il quotidiano «Il Mattino» fino al 2003. Cura il volume: Alexander Langer, Scritti sul Sudtirolo – Aufsätze zu Südtirol, Merano, A&B, 1996 ed è autore di: Südtirol-Italia: Il calicanto di Magnago e altre storie, Trento, Il Margine, 2003. Per quattro legislature, dal 2004 al 2023, è consigliere per i Verdi del Sudtirolo nel Consiglio provinciale di Bolzano, di cui è stato presidente dal 2006 al 2008. Collabora alla Biblioteca F. Serantini su temi inerenti la storia politica e sociale della provincia di Pisa.




LE CASE DEL POPOLO TOSCANE NELLA TORMENTA FASCISTA

Le fiamme che han distrutto le Case del popolo sono state l’inizio
d’un vasto incendio che minaccia di dar fuoco all’Europa.
(Angelo Tasca, 1938)

Non è certo un caso che, fra il 1920 e il 1923, anche in Toscana il primo obiettivo delle spedizioni fasciste, quasi sempre supportate dalle forze dell’ordine, furono le Case del popolo, costruite su iniziativa e con l’opera diretta dei lavoratori. Esse, infatti, dall’inizio del secolo rappresentavano, nelle città e forse ancor di più nelle campagne, un importante punto di riferimento per la socialità delle comunità locali e per le lotte della classe lavoratrice.
Le Case del popolo erano invise alla reazione filo-padronale in quanto offrivano occasioni di solidarietà e aggregazione sociale, alternative a quelle dell’osteria e della parrocchia. Al termine della giornata lavorativa e alla domenica, i lavoratori e le lavoratrici vi trovavano, oltre alla mescita, biblioteche popolari, spazi per pranzi sociali, feste, spettacoli, canto e ballo. Inoltre, vi si tenevano riunioni, inaugurazioni di bandiere dei sodalizi proletari e conferenze; talvolta erano anche sede delle Leghe operaie o bracciantili e, in qualche caso, della locale Camera del Lavoro.
Significativo il ritratto scritto dal repubblicano fiorentino Augusto Borchi nel 1921:

le case del popolo sono divenute oltre che i centri della mutualità soprattutto i centri della cultura e della educazione proletaria. Aggredirle costituisce dunque il peggiore dei delitti. Le case del popolo sono luoghi sacri e inviolabili poiché sono il simbolo di una fede che sopravanza le competizioni di potere. Davanti a esse si inchinino tutti gli uomini di onore e chi osa dichiararsi solidale con gli assassini di tali istituzioni sappia che egli non si qualifica soltanto un avversario del popolo ma anche e soprattutto un nemico della civiltà .

In tale ambiente, potevano quindi incontrarsi e confrontarsi lavoratori e lavoratrici di diverse categorie, così come aderenti alle rispettive tendenze politiche (sindacalisti, socialisti, anarchici, repubblicani, comunisti o senza partito), anche se talvolta la convivenza poteva essere problematica:

La scissione di Livorno, seguita in Empoli da gravi defezioni tra i socialisti, e perciò anche da una perdita di prestigio dei socialisti stessi nelle organizzazioni economiche, creò uno stato di tensione gravissima fra socialisti e comunisti. I socialisti empolesi, riunitisi dopo la scissione, decretarono immediatamente lo sfratto ai «secessionisti», sistematisi in due stanze della Casa del Popolo; per tutta risposta la «Guardia Rossa», passata armi, bagagli e bandiera ai comunisti, occupava la Casa del Popolo vietando il passo ai socialisti. Il dissidio in merito ai locali fu risolto con un accordo, che prevedeva l’uso del primo piano da parte dei socialisti e del secondo piano da parte dei comunisti .

Sin dal 1920 si registrarono le prime spedizioni fasciste contro le Case del popolo (talvolta denominate Case dei lavoratori, degli operai o del proletariato), ma fu soprattutto a partire dagli inizi del 1921 che furono sistematicamente assaltate e distrutte, così come le sedi di altri organismi associativi del movimento operaio e bracciantile quali Camere del lavoro, Società operaie di mutuo soccorso, Cooperative di consumo, Circoli libertari di studi sociali, Circoli socialisti di cultura, Circoli repubblicani e pure cattolici, Biblioteche e Teatri popolari: le distruzioni erano pressoché quotidiane ed estese ad ogni territorio, con centinaia di strutture rese inagibili, saccheggiate o date alle fiamme, con numerose vittime.
Solo nel primo semestre del 1921, secondo i dati forniti dallo storico fascista Chiurco, e ritenuti incompleti da Angelo Tasca, risultano distrutte dagli squadristi almeno 59 Case del popolo, così come 100 Circoli di cultura, 10 Biblioteche popolari e teatri, 53 Circoli operai e ricreativi.
Nelle stesse testimonianze degli squadristi vi si trova puntuale resoconto, come ad esempio nel diario dello studente Mario Piazzesi della Disperata di Firenze che vanta la “baldanza” nel devastare, senza difficoltà, molte Case del popolo durante le scorrerie per le campagne toscane e umbre.

CANNONATE CONTRO LE CASE DEL POPOLO

A copertura delle squadre “tricolorate” dei fascisti e dei nazionalisti vi era l’immancabile presenza di carabinieri, guardie regie e anche reparti del Regio esercito. Tale alleanza, in taluni casi, comportò persino l’impiego dell’artiglieria per espugnare alcune Case del popolo, come avvenuto a Siena il 4 marzo 1921 e a Casale Monferrato (AL) due giorni dopo. Analogamente, a Scandicci (FI) il 3 marzo era stata attaccata con mitragliatrici e un cannone da 75 mm. la sede della Società di Mutuo Soccorso costruita nel 1883 da operai, contadini, artigiani ed ex-garibaldini.
L’attacco del marzo 1921 alla Casa del popolo senese (che ospitava anche la Camera del Lavoro) fu sicuramente fra i più gravi. Per vincere la resistenza armata dei lavoratori che la difendevano, i fascisti ebbero bisogno dell’intervento dei carabinieri, affiancati da 200 soldati con due cannoni da 65 mm., mitragliatrici piazzate in piazza del Monte dei Paschi e due autoblindo. Contro la Casa del popolo furono lanciate bombe a mano, sparate alcune cannonate e almeno duemila colpi di fucile. Dopo la resa, i locali vennero incendiati con la benzina fornita dal Consorzio agrario; seguirono circa 80 arresti e violente rappresaglie. Questa la cronaca, pubblicata sull’«Avanti!» del 25 settembre 1921 (Dalla Toscana insanguinata):

Il segretario della Casa del Popolo [recte: Camera del Lavoro], Giulio Cavina, ora deputato [socialista], fu scovato nel suo ufficio a notte inoltrata e dopo che il cannone aveva operato una breccia nel muro dell’edificio operaio. Fu trascinato da basso, sotto i portici, percosso a sangue da tutti: i più feroci erano i carabinieri e gli ufficiali del Presidio. Quattro soldati, con baionetta inastata, furono messi alla sua guardia […] Intanto tutti gli ufficiali del Presidio, guidati dal capitano dei carabinieri Lucatelli, sfilarono davanti al Cavina strappandogli i peli della barba e schiaffeggiandolo. In breve […] fu tutto pesto e grondante di sangue e chiese un bicchiere d’acqua. Il capitano Lucatelli ed altri ufficiali dettero ordine che nessuno portasse l’acqua richiesta […] tutti i soldati e i carabinieri si dettero a bere il vino e i liquori presi nelle cantine della Casa del Popolo davanti al Cavina. Anche il capitano medico del Distretto, anziché curarlo […] si dette a dileggiarlo.

Il drammatico assedio sarebbe stato rievocato anche in versi dall’anarchica Virgilia D’Andrea nel 1922 :

Udite, udite, o miei compagni, a Siena
Città dolce e gentil romba il cannone.
Sessanta petti han fatto una catena
E d’ansia è la difesa e di passione.

Ma la bocca di fuoco arde sui volti
E s’apre un varco ne la Casa rossa:
Escono, i vinti, màdidi e sconvolti
E cadon, muti, su la terra smossa.

La difesa armata degli organismi e delle sedi del movimento d’emancipazione sociale rappresentò comunque un fatto abbastanza sporadico; si trattava infatti di una lotta impari non solo sul piano tattico, ma finanche su quello psicologico, come significativamente osservato da Angelo Tasca:

I lavoratori, al contrario, si agglomerano intorno alla loro Casa del popolo […] La Casa del popolo, la Camera del lavoro, sono il frutto dei sacrifici di due o tre generazioni, tutto il loro «capitale», la prova concreta del cammino compiuto dalla loro classe, e il simbolo ideale dell’avvenire sperato. I lavoratori vi sono affezionati, ed esitano, per istinto, a servirsene come se si trattasse di un semplice materiale di guerra.
Non si trasforma facilmente una casa in fortezza, se si tiene alla casa […] Per i fascisti la Casa del popolo non è che un bersaglio. Quando le fiamme si elevano da queste belle costruzioni, il cuore degli operai è straziato, invaso da una cupa disperazione, quasi paralizzato dall’orrore, mentre gli assalitori alzano grida selvagge di gioia. Di queste oasi di socialismo che coprono quasi tutta la pianura del Po, non resta più, alla fine della guerra civile, che un cupo deserto.

Pur essendo nate con spirito umanitario e di civile convivenza, le Case del popolo in numerose situazioni divennero comunque la sede ospitale e solidale per le prime organizzazioni unitarie dell’antifascismo militante, come avvenne ad Empoli dove, fin dal gennaio 1920, le ex-Guardie rosse costituirono, nella locale Casa del popolo, un corpo volontario armato per l’azione antifascista, mentre presso la Casa del popolo di Borgo Vittoria, a Torino, nel gennaio 1921, si riuniva la Federazione dei gruppi d’azione diretta rivoluzionaria, emanazione dell’USI (Unione sindacale italiana), con intenti sia difensivi che offensivi; altresì, sempre nel torinese, in alcune Case del popolo si organizzarono le squadre comuniste, come ad esempio, quella di Condove di Susa strettamente sorvegliata dalla polizia.
In seguito, dopo la loro comparsa a fine giugno 1921, gli Arditi del popolo difesero le Case del popolo e da queste furono accolti, così come ebbe a dichiarare Argo Secondari, loro fondatore:

fino a quando i fascisti continueranno a bruciare le case del popolo, case sacre ai lavoratori, fino a quando continueranno la guerra fratricida, gli Arditi d’Italia non potranno avere con loro nulla in comune. Un solco profondo di sangue e macerie fumanti divide fascisti ed Arditi.

Ad Ancona la sezione ardito-popolare si costituì presso la Casa del proletariato e a Roma la sede centrale degli Arditi del popolo fu la Casa del popolo in via Capo d’Africa; tanto che, in un’intervista a Secondari, pubblicata su «L’Ordine nuovo» del 12 luglio 1921, si poteva leggere il seguente commento:

Il tenente Secondari risponde alle mie domande con molta cordialità, ma anche con grande impazienza. Giungono ogni tanto dalla periferia dei giovani operai Arditi, che portano notizie, chiedono informazioni, ordini. Questa sera ha luogo una riunione di capi-centuria alla Casa del Popolo. È perfettamente naturale che gli «Arditi del popolo» si riuniscano alla Casa del Popolo.

Con l’avvento del regime fascista e in particolare nel 1923 – l’anno della grande repressione contro l’antifascismo – le poche Case del popolo superstiti furono chiuse d’autorità e requisite per essere destinate a Casa del Fascio o sedi rionali del Fascio, così come previsto dal Decreto Legge che nel 1924 impose lo scioglimento delle S.M.S. e delle associazioni similari. In questo modo, ad esempio, a le Case del popolo di Siena e Settignano (FI) divennero Case del Fascio, così come a Colle Val d’Elsa, dove la Casa del popolo e il modernissimo Teatro del popolo furono soppiantati rispettivamente dalla Casa del Fascio e dal Teatro del Littorio, mentre a Piombino la Casa del popolo diventò Casa d’Italia, nonché sede del Fascio (oggi Commissariato di Polizia).
In molte località della Toscana, per finanziare le Case del Fascio, i lavoratori, le operaie e i contadini furono inoltre costretti a versare contributi in denaro, acquistare azioni o prestare manodopera gratuita, onde evitare ritorsioni.
Parallelamente ai decreti prefettizi di scioglimento e alle chiusure violente di Case del popolo e S.M.S., i Fasci usavano convocare i consiglieri e i responsabili di queste esperienze di democrazia proletaria, così come di quelle indipendenti, per indurli, sotto minaccia, a rassegnare le dimissioni. L’associazionismo democratico fu quindi del tutto soppiantato dalle strutture dell’Opera Nazionale Dopolavoro, istituita con il Decreto legge n. 582 (significativamente datato 1° maggio 1925).
Il Dopolavoro operava, dichiaratamente, come organo di propaganda del regime, nel tentativo di affermare una propria politica sociale fra i lavoratori e i ceti popolari, attraverso paternalismo padronale e assistenzialismo demagogico, che ne confermava la subalternità. Nonostante una certa espansione, i Dopolavoro aziendali e Statali rimasero comunque – a differenza delle Case del popolo – istituzioni imposte e gestite dall’alto, in cui il «libero pensiero» era soppresso dal «clima spirituale della rivoluzione fascista».

IL PRIMO ASSALTO, LA PRIMA VITTIMA

Il primo assalto fascista ad una Casa del popolo in Toscana vide anche la morte di un suo difensore: il diciottenne Enrico Lachi (Monteriggioni 29 luglio 1902 – Siena 11 marzo 1920), figlio di Giulio e Giulia Pagni.
Nato in località Poggiolo (Fontesdevoli), la sua numerosa famiglia si era trasferita a Siena quando aveva quattro anni, in via Fiorentina 88. Giovanissimo, aveva iniziato a lavorare come operaio avventizio delle Ferrovie, subito attivo sul piano sindacale e politico, iscrivendosi al Fascio giovanile socialista “Andrea Costa” e partecipando allo sciopero ferroviario del gennaio 1920.
Quel 7 marzo 1920 si trovava in prima fila a difendere la sede della Casa del popolo di Siena, costruita e inaugurata nel 1905 con il determinante contributo della Banca Cooperativa Ferroviaria e su iniziativa di ferrovieri e tipografi. L’edificio, in via Pianigiani, ospitava anche la locale Camera del lavoro e comprendeva una Biblioteca popolare, un Teatro, un Caffè e altre attività commerciali.

Il 7 marzo 1920, approfittando di un corteo di protesta di ex-combattenti, i fascisti riuscirono a farlo parzialmente deviare verso la Casa del popolo, simbolicamente presidiata dai carabinieri. Infatti, i fascisti – armati – poterono vandalizzare i locali del Caffè, mentre i carabinieri bloccavano i pochi lavoratori schierati a difesa della Casa del popolo. In questa fase, in piazza della Posta, un appuntato dei carabinieri sparò con la rivoltella colpendo Enrico Lachi che stava affrontando un fascista. Soccorso all’interno del Caffè e subito trasportato all’Ospedale civico, Lachi sarebbe morto alle 0.45 dell’11 marzo, dopo giorni di sofferenze.

Contro le violenze dei fascisti e dei carabinieri, subito iniziò uno sciopero prima spontaneo e poi proclamato unitariamente dalla Camera del lavoro, dalla Sezione socialista, dal Circolo giovanile socialista, dal Circolo anarchico Germinal e dalla Federazione socialista. Lo sciopero risultò generalizzato e al comizio, tenutosi la sera dell’8 marzo, in piazza Umberto I (ora piazza Matteotti), intervennero gli onorevoli Grilli e Bisogni; il segretario della Camera del lavoro. Giulio Cavina; Meini per il Partito socialista e Guglielmo Boldrini per gli anarchici: comune fu l’accusa contro, oltre ai fascisti, tutte le autorità, di cui chieste le dimissioni. I funerali di Lacchi si svolsero sabato 13 marzo, con la partecipazione di quindicimila persone. Sin dalla sera precedente la sua salma era stata esposta presso il Circolo di Cultura della Casa del popolo. Tra le tante corone risaltava una con la dedica «Alla vittima del piombo regio. Le donne del popolo». Inoltre vi erano quelle del Personale di Macchina e Depositi Locomotive, del Personale Viaggiante, dei compagni di lavoro dell’Officina ferroviaria, dei Soci della Pubblica Assistenza. L’ultimo saluto fu affidato a Bisogni per i socialisti, a Boldrini per gli anarchici e a Carlucci per i giovani socialisti. Nei giorni seguenti gli Operai delle officine ferroviarie inviarono una lettera pubblica al dirigente reclamando spiegazioni sul licenziamento di Lachi l’indomani del suo mortale ferimento.
La sua tomba si trova ancora al cimitero del Laterino, appena dietro la cappella centrale.

La Casa del popolo di Siena avrebbe subito altri tre assalti: il 4 maggio 1920, il 4 marzo 1921 e il 23 maggio 1921; nel 1923, dopo l’avvento del fascismo, fu estorta e trasformata in Casa del Fascio. Dato che, dopo le devastazioni, l’edificio necessitava di lavori di ristrutturazione, la Casa del Fascio contrasse un mutuo con il Monte dei Paschi, ma il debito non sarebbe mai stato onorato. Per recuperare il danno, la Banca acquisì gli immobili gravati da ipoteca, e contemporaneamente acquistò Palazzo Ciacci, in via Malavolti, donandolo nel 1936 alla Federazione fascista. Quella che era stata la Casa del popolo venne quindi venduta al Consorzio Agrario a un prezzo irrisorio. Il Partito fascista mantenne la propria sede a Palazzo Ciacci sino alla fine; fu qui la famigerata Casermetta in cui, nel periodo della Repubblica Sociale, centinaia di oppositori al regime, ebrei e partigiani senesi furono imprigionati, interrogati e torturati.

Anche dopo la Liberazione, la Casa del popolo non venne mai restituita ai lavoratori senesi, e tutt’ora è sede del Consorzio Agrario; a Enrico Lachi, invece, è stata dedicata una piazza del quartiere senese di Petriccio.

 




UNA COSPIRAZIONE IN MARE APERTO.

Fra le diverse ricorrenze dell’Undici settembre (Strage nel carcere di Attica, 1971; Golpe in Cile, 1973; Attacco alle Twin Towers, 2001), ve ne è una che appartiene alla storia dell’antifascismo in Italia, ossia l’attentato politico compiuto da Gino Lucetti contro Benito Mussolini, appunto l’11 settembre 1926. «Della serie di attentati che punteggiarono la soppressione delle libertà italiane – come sottolineò lo storico “azionista” Aldo Garosci – esso fu quello in cui si espresse la più lucida e chiara volontà politica».

Il mancato tirannicida, una volta catturato, davanti agli inquirenti si era proclamato «anarchico individualista», onde evitare conseguenze per altri; ma, in contrasto con l’interpretazione in chiave solipsistica del suo gesto, risulta ormai appurata l’esistenza di una rete cospirativa con condivise finalità che vedeva il coinvolgimento, a diversi livelli, di anarchici di differente tendenza, ex-arditi del popolo e antifascisti “d’azione”. Meno conosciuta ed indagata rimane invece la decisiva riunione tenutasi segretamente un anno prima dell’attentato a Livorno dove, come le autorità non ignoravano, erano attivi imbarchi e collegamenti clandestini.

Infatti, secondo la testimonianza dell’anarchico carrarino – poi comandante partigiano – Ugo Mazzucchelli (1903-1997), avvalorata dallo storico Gino Cerrito, nell’estate del 1925 a Livorno vi era stata una riunione clandestina, a bordo di un barcone in mare aperto, a cui presero parte, oltre a Lucetti e a Mazzucchelli, gli anarchici livornesi Augusto Consani e Virgilio Recchi, già organizzatori del Battaglione degli Arditi del popolo, nonchè due minatori anarchici di San Giovanni Valdarno e qualche altro militante non identificato[1]. Lucetti era infatti rientrato clandestinamente da Marsiglia, dove era espatriato alla fine del 1922 intessendo rapporti con gli ambienti più risoluti del “fuoriuscitismo” antifascista. Da quanto si può dedurre e come confermato dal militante anarchico Piero Di Pietro, in questa riunione, preceduta da altri incontri nel carrarese, era stato deciso e delineato un piano operativo per l’eliminazione fisica di Mussolini, oltre a concertare conseguenti sollevazioni contro il regime. Infatti, dopo la mancata insurrezione a seguito del delitto Matteotti e il fallimento della politica aventiniana, «ogni transazione [era] divenuta impossibile».
Lucetti, anarchico d’azione, era eticamente determinato ad attentare alla vita del duce sin dal dicembre 1922, a seguito della strage operaia di Torino, e già nel gennaio-febbraio 1923 si era recato a Roma per verificarne l’attuazione- Il progetto dovette però essere rinviato in quanto Lucetti rimase coinvolto e ferito in una sparatoria con i fascisti ad Avenza, presso il caffè Napoleone in piazza Rivellino, avvenuta nella notte fra il 25 e il 26 settembre 1925. Ricercato dai fascisti e dalla polizia, dovette quindi nascondersi e l’11 ottobre imbarcarsi come “clandestino” su un naviglio per il trasporto di marmo diretto a Marsiglia[2].

L’ANARCHICO ARDITO

Gino Lucetti era nato ad Avenza, frazione del comune di Carrara (MS), il 31 agosto 1900, da Filippo e Adele Crudeli[3]. Dopo aver studiato sino alla VI classe elementare, aveva iniziato a lavorare in cava, divenendo un lizzatore, ossia addetto al faticoso e pericoloso spostamento dei blocchi di marmo. In gioventù era stato vicino agli ideali repubblicani, peraltro non in contraddizione con quelli libertari[4].
Secondo quanto si può dedurre dal confuso Foglio matricolare n. 17822, il 24 marzo 1918 era stato chiamato sotto le armi e, al 2 luglio seguente, risultava «giunto in territorio dichiarato in stato di guerra» ed assegnato come autiere al 2° Reparto d’Assalto di Marcia che, alla vigilia della battaglia finale di Vittorio Veneto, si trovava dislocato nel trevigiano, fra Pederobba e Palazzon. Probabilmente non aveva preso parte a combattimenti, ma dopo l’attentato a Mussolini, la circostanza d’aver comunque fatto parte degli Arditi venne omessa nelle cronache, eccetto che in un articolo sfuggito alla censura, pubblicato su «La Nazione» del 14 settembre 1926, mentre su altri giornali, come la «Gazzetta livornese» del 13 settembre, fu indicato quale ex artigliere[5].
Dopo essere stato posto in congedo provvisorio il 28 febbraio 1919, il 1° dicembre 1919 venne richiamato in servizio presso diversi reggimenti di fanteria (90°, 65°, 25°), venendo impiegato anche nella bonifica dei residuati bellici. Ancora in grigioverde, nel 1921 per un’assenza di quattro giorni fu denunciato per diserzione e per aver sottratto «oggetti d’armamento» (un fucile 91 con relativa baionetta), venendo però assolto, condonato e finalmente congedato nel novembre 1921.
Tornato ad Avenza, alla fine del 1922 decideva di lasciare illegalmente l’Italia a seguito di scontri avuti con fascisti nella zona di Carrara; aiutato dal fratello Andrea, s’imbarcava su un navicello carico di marmo, approdando a Nizza e poi a Marsiglia dove gli fu sempre possibile trovare lavoro come scalpellino presso laboratori del marmo gestiti da italiani di simpatie libertarie o antifasciste.
In Francia era entrato in relazione con esponenti di primo piano dell’anarchismo, dall’antiorganizzatore Paolo Schicchi al federalista Camillo Berneri, e nel 1924, aveva aderito alle Legioni garibaldine della Libertà che, velleitariamente, avrebbero dovuto penetrare in Italia e rovesciare con le armi il regime mussoliniano.
Nello stesso anno risultava essere abbonato alla rivista anarchica «Pensiero e volontà», di cui erano promotori Errico Malatesta e Luigi Fabbri, collaborando saltuariamente al settimanale «Fede!», diretto da Luigi Damiani; due testate non riconducibili all’anarchismo di tendenza individualista.
Dopo l’infausto epilogo garibaldino, apparve evidente che, contro il totalitarismo fascista, altre strade andavano percorse e, superando le diverse impostazioni teoriche, gli anarchici raggiunsero una sostanziale unità d’azione.
Lucetti, come si è visto, sarebbe rientrato in Italia nell’estate del 1925 per uccidere il duce, nella prospettiva d’innescare sommosse, scioperi e attentati; ma in ottobre dovette precipitosamente ripartire alla volta della Francia.
Ritornato furtivamente in Versilia alla fine del maggio 1926, su un barcone da Marsiglia al porto di Marina di Carrara (secondo diversa fonte, nascosto in un vagone merci al confine di Ventimiglia), s’entrò nella fase operativa del piano: in giugno, Lucetti soggiornò almeno una settimana a Roma, ospite di Caterina Diordi, cercandovi anche un lavoro come scalpellino, e forse ancora un giorno o due a metà luglio.
Fra una “trasferta” e l’altra, trovò ospitalità presso compagni compiacenti a Montignoso e soprattutto a Viareggio, con qualche fugace visita familiare ad Avenza.
Con ogni probabilità in questo periodo, furono reperite le armi, una pistola automatica Browning procuratagli dal repubblicano romano Vincenzo Baldazzi (1898-1982), detto “Cencio”, già dirigente nazionale degli Arditi del popolo, e due bombe a mano SIPE, a frammentazione, che l’anarchico avenzino Gino Bibbi (1899-1999), suo cugino, aveva recuperato a Trieste dall’anarchico Umberto Tommasini (1896-1980), così come confermato da entrambi. Dell’attentato in preparazione appare accertato che furono messi al corrente o vi ebbero una qualche parte gli anarchici Malatesta, peraltro in stretti rapporti sia politici che amicali col Baldazzi, Temistocle Monticelli e Luigi Damiani, esponenti di primo piano dell’Unione anarchica italiana già costretta all’attività clandestina[6].

L’ATTENTATO SENZA FORTUNA

Dopo l’attentato, sia sulla stampa che nell’inchiesta giudiziaria, venne dato molto risalto ai collegamenti dell’anarchico con «le centrali dell’antifascismo» in Francia e lo stesso Mussolini additò «certe tolleranze colpevoli e inaudite di oltre frontiera», ma in realtà Lucetti si era mosso in modo autonomo, facendo piuttosto affidamento sui compagni in Italia. Infatti, ai compagni di Marsiglia tenne nascosto l’imminente partenza per l’Italia e chiese i soldi necessari per il viaggio ad un’ignara compaesana. Considerato che il “fuoriuscitismo” era pesantemente infiltrato dalla polizia politica fascista, tale scelta gli permise di muoversi con relativa sicurezza, cogliendo di sorpresa l’apparato poliziesco, tanto che in conseguenza dell’attentato, Mussolini dimissionò il capo della polizia Crispo Moncada, sostituito dal “superpoliziotto” Arturo Bocchini.
Giunto a Roma, il 2 settembre 1926, Lucetti trovò alloggio, sotto falso nome, presso l’albergo “Trento e Trieste”, grazie all’amico e compagno Leandro Sorio che vi lavorava come cameriere, e la mattina dell’11 settembre 1926 entrò in azione nei pressi del piazzale di Porta Pia, eludendo la vigilanza di una cinquantina di agenti in divisa e in borghese dislocati lungo il percorso “presidenziale”.
Al passaggio dell’auto, una nera “limousine” Fiat 519, che conduceva Mussolini dalla sua residenza estiva di Villa Torlonia al Ministero degli Esteri a Palazzo Chigi[7], Lucetti lanciava, dopo averne accesa la miccia, una SIPE fidando che questa (pesante circa mezzo chilo) sfondasse il vetro dello sportello posteriore laterale destro ed esplodesse all’interno della vettura, dove era seduto il duce. Purtroppo, a causa del sobbalzo dell’auto per un avvallamento della strada, la granata colpì la cornice superiore della portiera, pochi centimetri sopra il vetro, rimbalzando e deflagrando sul selciato, col ferimento di otto passanti raggiunti da schegge[8].
Particolari poco conosciuti dell’azione armata sono stati rivelati da “Cencio” Baldazzi in un’intervista del 1976, che confermano il carattere tutt’altro che “individuale” dell’attentato: «c’entravo io, Malatesta, [Attilio] Paolinelli, c’entravamo tutti, tutto il cerchio nostro della resistenza romana. Noi avevamo preparato due attentati a Mussolini, uno al Tritone, ed uno a Porta Pia […] dopo aver organizzato una certa convergenza intorno Porta Pia»[9].
Lucetti, fu quasi subito catturato dal maresciallo capo Dottarelli e dal vice brigadiere Motta che, assieme all’ispettore di PS Bodini responsabile del servizio di scorta, si trovavano sull’Alfa Romeo che seguiva dappresso l’auto di Mussolini. Lucetti disponeva di un’altra SIPE e della pistola Browning, presumibilmente cal. 7,65, con proiettili artigianalmente modificati per renderli più efficaci, che non potè usare. Condotto in Questura in piazza del Collegio Romano (attualmente commissariato di PS Trevi-Campo Marzio), subì i primi interrogatori e pestaggi, mentre all’esterno fascisti facinorosi provocavano incidenti.
Già mezz’ora dopo l’attentato veniva arrestato Malatesta presso la propria abitazione e a distanza di poche ore la sua compagna, l’anarchica Elena Melli (1899-1946); a Roma, nella retata anti-anarchica finivano militanti noti quali i tre fratelli Turci, Aldo Eluisi, Francesco Porcelli, Carlo Monticelli, Eolo Varagnoli, Adelmo Preziosi ma anche semplici simpatizzanti oppure non anarchici, fra cui i comunisti Umberto Terracini e, a Milano, Ottorino Perrone. Non mancarono le spedizioni punitive, come quella contro l’onorevole socialista Attilio Susi a Santa Marinella.
A Livorno, col pretesto che fra i passanti feriti vi era il cappellaio Garibaldo Paoletti, originario di Livorno, i fascisti assaltarono il consolato francese. Sempre nella città labronica, innumerevoli furono i messaggi di felicitazione ed esecrazione, fra cui quello del Maestro Pietro Mascagni a cui Mussolini rispose personalmente. Nella chiesa di S, Giulia, invece, «venne cantato un solenne “Te Deum” di ringraziamento per lo scampato pericolo del Primo Ministro Benito Mussolini».
Nell’arco di pochi giorni furono effettuati almeno 500 arresti e 600 perquisizioni, soprattutto nella capitale ma anche altrove; ad esempio, tra minatori di S. Giovanni Valdarno. Tra i circa sessanta arrestati fra Carrara ed Avenza, vi erano gli amici, i familiari e i parenti di Lucetti ed anche la sua fidanzata, Nella Menconi (1899-1975). A Roma, furono subito tratti in arresto Baldazzi, Leandro Sorio (1899-1975) e Stefano Vatteroni (1897-1965). Quest’ultimi due vennero condannati dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, rispettivamente a 20 e 18 anni di carcere, «complicità non necessaria»[10]. Baldazzi, invece, ebbe una condanna a cinque anni di carcere per la complicità nell’attentato e ad altri cinque per aver poi fornito aiuto finanziario alla madre di Lucetti[11]. I familiari, fra cui il cugino Gino Bibbi e la madre, furono assolti «per il reato di concorso in mancato omicidio di S.E. il primo ministro» nel giugno del 1927. Nelle settimane seguenti, numerose furono pure le sentenze per «apologia di attentato» nei confronti di persone che avevano espresso, magari in un’osteria, il proprio rammarico per il tentativo non andato a buon fine. Accadde anche a Livorno, dove nei pressi di Piazza dei Mille tre «giovanotti» furono arrestati e denunciati per aver parlato «a voce alta dell’attentato contro la persona di S.E. Mussolini, esaltando l’attentatore, augurando un nuovo infame gesto contro il Duce»[12]. A Rio Marina, per lo stesso reato, il contadino anarchico Narciso Trenti fu condannato a 30 mesi di reclusione e 300 lire di ammenda[13].

CONDANNA E MEMORIA

Il processo, svoltosi dall’8 all’11 giugno 1927, apparve come una farsa, con l’avvocato d’ufficio Emilio Tommasi, che sembrava l’accusatore dell’imputato, mentre il P.M. Enea Noseda lo additava quale «parricida». A presiedere il Tribunale Speciale vi era il generale Carlo Sanna e della corte faceva parte il conte Antonio Tringali-Casanuova, futuro presidente del Tribunale speciale sino al 1943, nato a Cecina e fascista della prima ora. Lucetti venne condannato a 30 anni di reclusione; fra i delitti di cui fu ritenuto colpevole, quello di aver commesso il fatto «anche col fine d’incutere pubblico timore e di suscitare tumulto e pubblico disordine», con evidente allusione alle finalità di destabilizzazione del regime[14]. Da parte sua, durante l’udienza, Lucetti rifiutò decisamente l’accusa di essere un sicario eterodiretto, così come – sin dal primo interrogatorio – aveva tenuto a precisare che «il mio è stato un attentato da proletario».
Lo aspettavano 17 anni di carcere: dal Terzo Braccio di “Regina Coeli” nel luglio del 1927 fu condotto, via Livorno, nel penitenziario elbano di Portolongone (oggi Porto Azzurro) con i ferri ai polsi e «la lugubre casacca a righe», come riferito su «Il Telegrafo» dell’8 e 9 luglio.
Nel febbraio 1930 venne trasferito nel carcere di Fossombrone (PU), dove in occasione del Primo maggio 1932, assieme ad altri sei detenuti comunisti e anarchici – fra i quali il livornese Tito Raccolti e il veronese Giovanni Domaschi – realizzò artigianalmente e fece uscire dal carcere una quindicina di manifestini, oltre a cantare l’Internazionale e Bandiera rossa. A seguito di tale dimostrazione, il mese dopo fu deportato nell’isola-carcere di Santo Stefano (LT)[15]. Nel terribile penitenziario ex-borbonico, Lucetti rimase sino al settembre 1943, trattenuto dalle misure anti-anarchiche del governo Badoglio, anche dopo la “caduta” di Mussolini. Finalmente liberato da paracadutisti americani il 10 settembre, assieme ad una sessantina di “politici”, fu trasferito all’Isola d’Ischia dove, drammaticamente, il 17 dello stesso mese venne ucciso da un colpo d’artiglieria sparato dalle forze tedesche dalla costa napoletana, forse da Monte Procida o da Capo Miseno, con obiettivo le motosiluranti alleate presenti in porto.

Quando la tragica notizia raggiunse il carrarese dove era in corso la resistenza, la prima formazione partigiana di tendenza libertaria assunse il suo nome e così anche quella poi ricostituita come “Lucetti bis”. A liberazione avvenuta, il CLN di Carrara, accogliendo l’ampia sollecitazione popolare, decise di intitolare a Lucetti la centrale e storica piazza Alberica, ma nel 1963 la giunta comunale decise di intitolargli la piazza Rivellino ad Avenza, mentre quella di Carrara tornava all’antica denominazione.

La salma di Lucetti, da Ischia, avrebbe fatto ritorno ad Avenza il 27 aprile 1947, salutata da un’enorme manifestazione popolare nella piazza a lui dedicata, con comizio tenuto dall’anarchico Giuseppe Mariani (1898-1974), suo compagno di detenzione a S. Stefano, e poi accompagnata in corteo sino al cimitero di Turigliano, dove ancora si trova.
Imbarcata su una nave a Napoli era approdata nel porto di Livorno sabato 26 aprile, venendo accolta e salutata – dalle ore 12 alle ore 15 – presso la sede della Federazione anarchica livornese in via Ernesto Rossi 80[16]. Come riferisce «La voca apuana» del 3 maggio 1947, «la salma dell’eroe era posta nella sede degli anarchici coperta di bandiere e una numerosa schiera di persone attendevano l’ora della cerimonia. Erano presenti compagni di tutti i partiti e numerosi cittadini», quindi in corteo il feretro giunse in piazza San Marco e, dopo un breve discorso di commiato, fu caricato su un’autoambulanza per l’ultimo trasferimento.
Accompagnata da una delegazione di anarchici carrarini e livornesi, dopo brevi soste commemorative a Pisa, Massa ed Avenza, il trasporto giunse a Carrara attorno alle ore 20 e la bara venne esposta presso la sede della FAI, in piazza Lucetti, in attesa delle grandi manifestazioni dell’indomani.
Alcuni anni dopo, Alberto Tarchiani, uno dei fondatori del movimento antifascista “Giustizia e Libertà”, riferendosi agli attentati alla vita di Mussolini, avrebbe commentato: «chi condannerebbe oggi quei tentativi che non avevano bassi scopi di vendetta, ma convinti propositi di evitare sciagure infinitamente più vaste, eliminando un uomo che, vaneggiando di gloria conduceva l’Italia alla devastazione materiale e morale?».

NOTE

1. Augusto Consani (1883-1953), pastaio, militante di primo piano dell’Unione anarchica livornese, era stato segretario della Camera sindacale del Lavoro (USI) nonché tra gli organizzatori dell’arditismo antifascista. Condannato a cinque anni di confino quale «elemento pericoloso per l’ordine dello Stato», fu deportato a Lipari nel dicembre 1926, venendo rimesso in libertà nel marzo 1927, in via condizionale, poichè ammalato di tubercolosi; ciò nonostante avrebbe continuato l’attività clandestina. Paradossalmente, nel saggio di Nicola Badaloni e Franca Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1926 (Editori riuniti, 1977) viene ritenuto «uno dei principali sostenitori di una linea “attendista”». Virgilio Recchi (1900-1982), operaio elettricista, fra i fondatori degli Arditi del popolo, è schedato dal 1926 come anarchico. Nel 1945, è nel Comitato di liberazione aziendale del Cantiere navale OTO e fa parte del Gruppo sindacale libertario; partecipa al Congresso fondativo della FAI in rappresentanza del gruppo “Pietro Gori” e nel 1947 è nella Giunta esecutiva della Camera del lavoro, per la componente anarchica.
2. Secondo una ricostruzione pubblicata sulla «Gazzetta livornese» del 13 settembre 1926, «raggiunta la spiaggia il Lucetti sempre aiutato dal fratello suo Andrea, si imbarcava notte tempo sopra un piccolo gozzo, raggiungendo a forza di remi Lerici, ove all’alba del giorno dopo, un navicello carico di marmi, alzava l’ancora per la Francia».
3. Nei suoi saggi, lo storico Renzo De Felice l’ha ritenuto «nativo della Garfagnana», probabilmente perché, subito dopo l’arresto, Lucetti aveva declinato una falsa identità dichiarando d’essere nato a Castelnuovo Garfagnana (LU).
4. Nel Carrarese vi era una storica collateralità fra gli ambienti repubblicani e anarchici e, in particolare, proprio ad Avenza questa risultava evidente nella bandiera nera della locale sezione mazziniana.
5. Risaliva forse a tale esperienza negli Arditi il «tatuaggio sinistro» “W la morte” che Lucetti recava sull’avambraccio oppure, secondo la declinazione poetica di Virgilia D’Andrea, alludeva a «La morte che dona la vita / La morte che risveglia i popoli / Non quella che li distende inermi ed inetti dentro una tomba senza gloria / La morte che spezza il tiranno / Non quella che la tirannia riassoda ed eterna» (Gloria anarchica, 1933).
6. Il 17 gennaio 1926 si tenne segretamente un Convegno della UAI a Milano ed un altro in forma clandestina ai primi di agosto dello stesso anno. Esiste, tra l’altro, una lettera alquanto sibillina, scritta da Malatesta il 4 settembre 1926 all’anarchico Alfonso Coniglio, in cui comunicava che «Le seicento lire di cui mi parli furono ricevute al principio di quest’anno e furono adoperate non per Pensiero e Volontà[il giornale anarchico diretto da Malatesta] ma per un bisogno urgente del nostro movimento. Io ti scrissi e ti dissi vagamente che cosa avevamo fatto del denaro – senza però entrare in particolari, perché si trattava di cose che non conviene scrivere […] Siamo pieni di belle speranze, ma per ora sono… speranze. Noi però facciamo tutto quello che possiamo perché presto diventino realtà».
7. Nel 1922, Mussolini dopo aver trasferito il ministero delle Colonie nel Palazzo della Consulta, aveva destinato Palazzo Chigi a sede del Ministero degli Esteri e in virtù della sua doppia carica di Presidente del Consiglio e di ministro degli Esteri, ne aveva fatto la sua sede ministeriale.
8. Se invece che la SIPE, ad accensione manuale, fosse stata impiegata la variante a percussione (tipo “Gallina”), l’esito avrebbe avuto ben altra efficacia, scoppiando all’urto.
9. Il coinvolgimento di Baldazzi è stato confermato dalla moglie Elena Vitiello, intervistata da Alessandro Portelli: «lo avevano preparato insieme. La cosa che l’attentato non riuscì, con tutte le misure e tutti i calcoli che avevano fatto, non avevano tenuto conto che la strada era leggermente in discesa».
10. Le prove a loro carico erano labili, tanto che secondo Guido Leto, allora funzionario dell’Ufficio speciale movimento sovversivo ed in seguito a capo dell’OVRA, «l’inchiesta assodò che [Lucetti] non aveva complici», forse anche per giustificare il fallimento della sicurezza.
11. Nonostante la stretta sorveglianza, Baldazzi, riuscì ad incontrarsi con Malatesta (erano vicini di casa, in via Andrea Doria) e a prendere accordi con Attilio Paolinelli ed Aldo Eluisi – entrambi anarchici ed ex-arditi del popolo – nel tentativo «di organizzare la fuga» di Lucetti il giorno stesso del processo.
12. L’arresto di in terzetto per apologia di reato, «Gazzetta livornese», 15 settembre 1926. I tre erano l’operaio carpentiere Vittorio Pieracci, il facchino Licurgo Niccolai e il muratore Ilio Fiorini; i primi due schedati come comunisti, il terzo quale socialista.
13. Per offese al Primo Ministro, «Gazzetta livornese», 16 settembre 1926. Sullo stesso quotidiano si trova anche la notizia del rinvio a giudizio per il capitano marittimo Emilio Oliviero, «imputato di non aver esposta la bandiera in occasione dell’attentato al Duce».
14. Le pene accessorie, oltre a tre anni di vigilanza speciale, erano tragicomiche: 300 lire di ammenda, 600 lire per concessioni governative, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. In seguito, per effetto dei decreti governativi di amnistia e indulto del 1932, 1934 e 1937, la pena risultò ridotta a 17 anni, con scarcerazione prevista per il 10 settembre 1945.
15. Le inumane condizioni di prigionia sono descritte anche dal comunista livornese (seppure nato a Pisa) Athos Lisa in Memorie. Dall’ergastolo di Santo Stefano alla Casa penale di Turi di Bari, Milano, Feltrinelli, 1973.
16. Anche a Livorno, un gruppo anarchico – quello del quartiere S. Jacopo – assunse il suo nome.

 

Articolo pubblicato nel settembre del 2024.




LIVORNO – 11 AGOSTO 1921

Anni duri in cui non ancora decenne vidi ammazzare la gente per strada

(Giorgio Caproni, Son targato Livorno 1912, «Il Telegrafo», 16 maggio 1976)

 

Quanto avvenne l’11 agosto 1921 nel borgo livornese d’Ardenza è rimasto per lungo tempo un ricordo dagli incerti contorni, attraverso versioni e narrazioni contraddittorie. Degli stessi protagonisti era rimasta una vaga memoria, eppure quella data vide le prime due uccisioni per mano fascista a Livorno[1].

Le settimane precedenti avevano registrato anche nella provincia livornese l’inasprirsi dei conflitti – anche se di minore gravità rispetto al resto della Toscana – fra le squadre fasciste e gli abitanti dei quartieri popolari che, dall’inizio di luglio, potevano contare anche sulle squadre degli Arditi del popolo formatesi mettendo insieme ex-combattenti della Lega proletaria e lavoratori delle diverse tendenze “sovversive”: socialisti, anarchici, repubblicani, comunisti e sindacalisti.

Organizzati a livello territoriale, in ogni quartiere gli Arditi del popolo, più o meno strutturati ed armati, cercavano di assicurare la «difesa proletaria» e di rispondere alle spedizioni squadriste dei fascisti e dei nazionalisti che spadroneggiavano nel centro della città e tentavano sortite nei rioni proletari, potendo contare sulla protezione delle forze dell’ordine – militari compresi –  come era accaduto il 19 luglio in borgo Cappuccini quando dai camion avevano sparato raffiche di mitragliatrice contro le case del quartiere sovversivo.

Oltre a confermare questa reciproca collateralità, i “fatti d’Ardenza” dimostrarono come la contrapposizione, ancora prima che ideologica, fosse di classe: infatti, se da una parte, a restare sul selciato furono due lavoratori salariati, dall’altra a sparare impunemente c’era uno studente universitario, figlio dell’alta borghesia labronica. Inoltre, entrambi gli uccisi erano stati, loro malgrado, soldati durante la guerra mondiale “quindici-diciotto”, mentre il giovane omicida, animato da un malinteso patriottismo, ancora non aveva espletato il servizio militare.

LA CITTADELLA DELL’ANARCHIA

All’epoca l’Ardenza era un paese a sé stante, separato dalla città di Livorno, con un proprio Municipio, abitato da circa 4000 persone. In molti lavoravano la terra nelle estese coltivazioni agricole dell’entroterra, ma vi risiedevano anche numerosi operai. La forte attitudine “sovversiva” della comunità ardenzina aveva come principali punti di riferimento il Circolo di studi sociali situato in via del Littorale (ora via Uberto Mondolfi), fondato dall’anarchico Adolfo “Amedeo” Boschi, e il Circolo socialista. Tra gli anarchici prevaleva la tendenza “organizzatrice”, ma non mancavano gli “antiorganizzatori” facenti capo a «L’Avvenire anarchico» di Pisa. Nella sezione socialista era, invece, maggioritaria la componente massimalista ed era ospitata un’attiva sezione socialista femminile.

Inoltre, presso le due sedi, si trovavano le sezioni delle due Camere del Lavoro di Livorno – quella aderente all’USI e quella della CGdL. Invece, nel 1921, all’Ardenza non risultava presente alcuna struttura repubblicana o comunista.

Già tra il 1914 e il ’15 all’Ardenza vi era stata una forte opposizione anarco-socialista alla guerra e, in considerazione della sua peculiarità politica, vi erano una stazione dei Carabinieri, un commissariato di Polizia e una reparto di Guardie regie.

In questo contesto, quel tragico 11 agosto – mentre sull’assolato lungomare, frequentato dalla “Livorno bene” e dai villeggianti, regnava uno spensierato clima balneare – ad Ardenza Terra, attorno alle 18.30, arrivarono col tram il segretario politico del Fascio di combattimento, il ventiquattrenne Marcello Vaccari, scortato da quattro suoi camerati, con intenzioni certo non pacifiche, nonostante le diverse quanto improbabili ragioni poi addotte. Cercavano l’anarchico Luigi Filippi, ritenuto il comandante degli Arditi del popolo ardenzini e, quando furono affrontati da alcuni antifascisti che chiedevano ragione di tale provocatoria presenza, la situazione sarebbe subito degenerata in uno scambio di rivoltellate in cui Vaccari rimase lievemente ferito ad una gamba, mentre un proiettile vagante ferì ad un piede un ragazzo di 10-11 anni, Nilo Paolotti.

Considerata la notoria animosità di Marcello Vaccari, già volontario di guerra ed ex tenente dei Reparti d’assalto, è presumibile, nella più benevola delle ipotesi, che egli intendesse minacciare ritorsioni per un’annunciata iniziativa politica all’Ardenza con il “disonorevole”, Giuseppe Mingrino, deputato socialista e dirigente nazionale degli Arditi del popolo.

SANGUE SUL LUNGOMARE

A seguito di tale incidente e prevedendo una spedizione punitiva dei fascisti livornesi, i «sovversivi» ardenzini, al termine della giornata di lavoro, invece di rincasare si allertarono, predisponendo misure di vigilanza del territorio, non potendo contare sull’operato delle forze dell’ordine. In circa sessanta, fra arditi del popolo e altri antifascisti, suddivisi in gruppi, si posero a presidio delle diverse vie d’accesso alla frazione, lato terra e lato lungomare, mentre i collegamenti sarebbero stati assicurati con le biciclette.

Nel corso di tale attività preventiva, sul viale che porta ad Antignano, nei pressi dell’allora ponte Principe di Napoli (ora Tre Ponti), furono fermati e disarmati, senza ulteriori problemi, delle rispettive rivoltelle, gli avvocati Enrico Berti e Luigi Corcos. Il primo, segretario particolare di Costanzo Ciano, aveva preso parte alle azioni anti-sciopero nelle Poste nel gennaio del 1920 ed avrebbe fatto carriera sotto il fascismo, mentre il secondo, già tenente di complemento, risultava iscritto al Fascio di Livorno.

Quando però, pochi minuti dopo, venne fermato lo studente diciannovenne Tito Torelli, le cose precipitarono. Torelli infatti, riconosciuto come squadrista quale era (anch’egli in funzione anti-sciopero ed iscritto al Fascio dal 1° dicembre 1920), si rifiutò a sua volta di consegnare l’arma – una pistola sottratta al padre Giorgio, anch’esso fascista – che aveva con sé.

In uno spazio orario approssimato, fra le 22 e le 22,30, l’acceso diverbio sarebbe quindi culminato in una sparatoria conclusasi con un bilancio “asimmetrico” che vedeva il Torelli riportare appena delle escoriazioni e dall’altra parte due feriti mortalmente d’arma da fuoco, ossia Averardo Nardi e Amedeo Baldasseroni, entrambi arditi del popolo.

Averardo [all’anagrafe Avelardo] Nardi, nato il 14 ottobre 1892, secondo i giornali era un operaio (il registro ospedaliero lo segnalò invece come carrettiere), reduce della Grande guerra; abitava in via dell’Ulivo assieme al padre Augusto (dopo la perdita della madre Isolina Ristori) ed aveva un fratello, Nereo. Secondo il vice-prefetto era pregiudicato per un reato comune (di cui peraltro non si è trovata traccia) e addosso gli fu trovato un manifestino di propaganda «dell’associazione Arditi del popolo», ma nessuna arma.

Amedeo Baldasseroni, nato il 28 maggio 1886, era figlio di Pietro e Annunziata Orlandi. Capo squadra elettricista alla SELT (Società Elettrica Ligure Toscana), era coniugato con Nella Frugoli, poi deceduta nel 1935, e padre di Libera (13 anni), Libero (11 anni) e Leo (7 anni). Secondo quanto riportato nel certificato anagrafico di famiglia, aveva una sorella e tre fratelli: Ottorina, Ottorino, Nello e Anacleto. Abitava in via del Littorale (ora via U. Mondolfi) e in una foto di gruppo – scattata ad Ardenza nel 1913 – egli appare ritratto a fianco dell’anarchico Errico Malatesta e di altri compagni. Chiamato alle armi nel 1915, risultava segnalato tra i militari sovversivi. Sulla sua persona – come riportato nei verbali – furono rinvenute una copia di «Umanità Nova» e una de «L’Avvenire anarchico», ma niente armi.

I due ardenzini furono raccolti e trasportati dalla Pubblica Assistenza ai RR. Spedali Riuniti in via S. Giovanni a Livorno; nonostante le evidenze, «vennero dichiarati in arresto» e persino denunciati. Nardi sarebbe spirato l’indomani, per emorragia interna; colpito al torace «da un colpo tiratogli a brevissima distanza», con solo foro d’entrata, in corrispondenza del 7° spazio intercostale anteriore. Baldasseroni, dopo lunghe sofferenze, decedette il 3 settembre; raggiunto nella regione lombare, da un unico proiettile conficcatosi nella colonna vertebrale, con fatale lesione del midollo spinale che comunque l’avrebbe reso paralizzato, con una traiettoria inclinata obliquamente dall’alto verso il basso, tale da far presumere una colluttazione col Torelli che, secondo quanto sostenuto dagli antifascisti e dai parenti delle vittime, era forse armato con due pistole, di cui una nascosta.

I rispettivi funerali dei due ardenzini videro la partecipazione di migliaia di lavoratori in sciopero, con le bandiere rosse e nere delle diverse organizzazioni proletarie e della Società Volontaria di Soccorso, scortati dagli Arditi del popolo e vigilati da ingenti forze dell’ordine.

In base alle autopsie e alle perizie balistiche venne accertato che i due ardenzini erano stati entrambi colpiti da proiettili di piccolo calibro, compatibili col cal. 6.35 della pistola semi-automatica Browning 1906 “Baby”, sequestrata al Torelli, escludendo quindi le rivoltelle d’ordinanza e i moschetti mod. 91 in dotazione alla forza pubblica.

Nonostante ciò, grazie alla “protezione” familiare, per sei mesi il nome di Torelli – mentre rimaneva in libertà – non comparve mai sulla compiacente stampa cittadina, condizionata dal potente Costanzo Ciano, legato alla famiglia Torelli da amicizia, idee politiche e rapporti d’affari. Sul piano giudiziario, Tito Torelli sarebbe stato più volte prosciolto in istruttoria per il duplice omicidio: nel 1922 dai tribunali di Lucca e Livorno, così come nel 1945, dopo la Liberazione, da quelli di Firenze e Livorno.

Laureatosi in legge ed erede dell’attività imprenditoriale di famiglia, durante il Ventennio Torelli ottenne significative cariche di regime, a partire da quella di Vice Podestà di Livorno nell’ottobre 1933. Dopo aver preso parte alla guerra coloniale in Etiopia come capitano d’artiglieria nella Divisione Gavinana, entrò nel Direttorio dell’Associazione volontari di guerra e, a livello nazionale, fu designato componente della Federazione nazionale per il commercio d’Oltremare e consigliere nazionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni (Corporazione dei cereali), dal 1939 al ’43.

Come quella di altri noti fascisti, la sua impunità, confermata anche dopo la Liberazione – nel generale clima della cosiddetta Amnistia Togliatti – a Livorno suscitò le proteste del CLN e delle forze antifasciste, nonché un’inutile inchiesta ministeriale che pure accertò l’irregolarità del proscioglimento; ma, soprattutto, sollevò la rabbia del “primo” antifascismo popolare che non aveva dimenticato l’assassinio di Nardi e Baldasseroni.

Nell’agosto 1946, dopo aver scontato alcuni mesi di carcerazione e un anno di confino al Sud, Torelli tornò in libertà e poté riprendere la propria attività industriale e commerciale, ma dovette trasferirsi a Firenze dove sarebbe morto nel 1991, senza poter fare ritorno a Livorno dove aveva un conto in sospeso ed ancora c’era chi ricordava un canto nato in quell’estate del 1921.

Girate per le strade di Livorno
ma nei sobborghi non potrete entrare
ci son gli arditi che vi stan dintorno
e gli ardenzini vogliono vendicare
a tradimento
sapete ammazzare

 

[1] Tra il 1921 e il 1931, oltre a Nardi e Baldasseroni, altre 16 uccisioni politiche avrebbero segnato la normalizzazione fascista: Pietro e Pilade Gigli, Piero Gemignani, Gilberto Catarzi, Filippo Filippetti, Bruno Giacomini, Oreste Romanacci, Genoveffa Pierozzi (agosto 1922); Ottorino Benedetti (Cecina, gennaio 1923); Emo Mannucci (Colognole, marzo 1923); Fortunato Nannipieri (luglio 1923); Enrico Baroni (aprile 1924); Giuseppe Piccinetti (marzo 1925); Natale Betti (novembre 1926); Ferruccio Fornaciari (ottobre 1927); Ghino Chirici (febbraio 1931).




La Liberazione di Arezzo

“Era giunta l’ora di resistere,

Era giunta l’ora di essere uomini,

di morire da uomini,

per vivere da uomini”

(Piero Calamandrei)

 

La notte del 25 maggio 1944 le vallate che circondano Arezzo si illuminarono con una miriade di falò accesi dalle formazioni partigiane e dai contadini in risposta all’ultimatum definitivo, che scadeva alla mezzanotte dello stesso giorno, diramato dal Capo della Provincia Melchiori nei confronti dei militari sbandati, dei partigiani e dei renitenti di leva: «Tutti coloro che non si presenteranno saranno considerati fuorilegge e saranno passati per le armi mediante fucilazione alla schiena»[1].

La Notte dei Fuochi, il nome con cui questo atto è entrato nella storia – tuttora ogni anno ne viene celebrata la ricorrenza – conteneva in sé una sorta di sfida ai nazifascisti come un invito corale a loro rivolto: «Siamo qua… veniteci a prendere!»[2].

Arezzo aveva già manifestato la propria insofferenza ed avversione al fascismo quando gli iscritti al nuovo partito fascista repubblicano non arrivavano a 2500 a fronte di una popolazione provinciale di circa 300.000 abitanti. E come nel resto d’Italia anche la popolazione aretina aveva accolto la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943 e l’armistizio dell’8 settembre con euforia e sollievo. Ci si illuse che quegli eventi avessero messo il punto finale ad un dramma iniziato più di vent’anni prima e a quell’immane tragedia che era la guerra. Quel sospiro di sollievo rimase però strozzato in gola… I nazisti rivelarono il loro vero volto di padroni occupanti, i fascisti quello ancor più orribile di bestie feroci. Cominciava così una parentesi non meno sanguinosa e drammatica della precedente. Ma ormai più niente e nessuno avrebbe fatto tornare indietro chi aveva assaporato di nuovo o gustato per la prima volta l’esaltante sapore della libertà.

Nella città di Arezzo le esigue forze politiche locali nei 45 giorni del governo Badoglio fecero fronte comune, e riallacciando contatti sia a livello regionale che nazionale con gli attivisti antifascisti riuscirono a dar vita al Comitato Provinciale di Concentrazione Antifascista (CPCA). L’obiettivo principale del Comitato consisteva nell’organizzare la Resistenza in città e provincia, tentando di coordinare l’attività delle squadre dei partigiani che agivano nel proprio territorio[3]. Un contributo particolare fin dall’inizio fu dato dai contadini della vallata che, dopo l’8 settembre ’43, fornirono aiuto, assistenza ed ospitalità gettando le premesse dell’azione armata agli sbandati dell’esercito, agli ex prigionieri alleati, agli ebrei, ai politici ricercati dalla polizia, ai renitenti alla leva[4]. Tutti questi individui rifugiati fuori città costituirono quindi l’ossatura delle prime formazioni partigiane organizzate dal CPCA. Ma ancora l’antifascismo aretino non era pronto per una lotta così dura quale era la lotta clandestina, soprattutto all’inizio i suoi componenti non adottarono le necessarie cautele di riservatezza che la pericolosa attività intrapresa avrebbe invece consigliato. E così una delle prime formazioni partigiane costituitasi, “La Vallucciole”, forse la più importante per numero di uomini e per armamenti, nel corso di un rastrellamento dei nazifascisti, l’11 novembre del 1943, subì una gravissima battuta d’arresto: fu ucciso il giovane capitano Pio Borri e l’intera formazione fu dispersa.

L’improvvisazione militare, la scarsità degli armamenti rispetto al nemico, la mancanza di comandanti con esperienza tale da poter contrastare le truppe tedesche in quanto a programmazione e logistica, misero a dura prova i partigiani che seppur soccombendo continuavano la loro lotta per la libertà. Mettevano a rischio la loro vita, sottostavano alle torture con uno spirito di sacrificio che non era espressione di un’avventura militaresca e neanche il dissennato e cieco amore per il rischio, ma era la consapevolezza della necessità di un rinnovamento e ricostruzione di una società che in passato aveva reso possibile gli errori e gli orrori del fascismo.

Il CPCA non riuscì mai a controllare completamente l’attività militare resistenziale, nelle quattro vallate (Valdarno, Valdichiana, Valtiberina e Casentino), di tutte e cinque le formazioni partigiane più quelle che si erano formate spontaneamente. E dopo la disfatta della “Vallucciole” l’attività di guerriglia proseguì in tono minore ma senza mai rinunciare del tutto ad azioni militari e di intelligence così da tenere occupati i nazifascisti e per tentare di ingannarli sulla reale entità di forza della resistenza aretina. Anche il rallentamento dell’avanzata delle forze alleate contribuì al ridimensionamento della lotta partigiana che dovette attendere la fine dell’inverno del 1943-44 e la disfatta di Montecassino per riprendere appieno l’attività armata. Ma durante questo periodo di tenuta della Linea Gustav, così magistralmente architettata dal generale Kesserling, che si appoggiava ad una delle più forti barriere naturali dell’Italia meridionale, non riuscendo ad avanzare gli Alleati iniziarono a bombardare le retrovie tedesche per distruggere strade, ponti, ferrovie così da tentare l’isolamento delle truppe naziste. E così Arezzo, snodo importante delle vie di comunicazione, iniziò ad essere bersagliata dall’aviazione anglo-americana. Il primo bombardamento giunse inaspettato il 12 novembre 1943, cogliendo di sorpresa l’intera popolazione e le autorità fasciste che si erano insediate dopo la proclamazione della Repubblica di Salò[5]. Visto che era stato colpito anche il palazzo della Federazione fascista, il Comitato non si fece sfuggire questa occasione e fece subito affiggere dei manifesti dove si rivendicava che il bombardamento era stato una rappresaglia degli Alleati contro i fascisti per l’uccisione del partigiano Pio Borri avvenuta il giorno prima, al fine di dimostrare che le forze antifasciste erano in contatto continuo con gli anglo-americani in modo tale da intimorire i nemici e rassicurare le proprie milizie che non erano lasciate sole a condurre la battaglia[6].

Ma il terrore ad Arezzo arrivò con il bombardamento del 2 dicembre che provocò moltissime vittime e ingenti danni alle abitazioni e segnò l’inizio dello spopolamento della città. Si calcola che dopo sei mesi di bombardamenti (solo nel capoluogo aretino furono sganciate 1800 tonnellate di bombe) alla fine d’aprile del 1944 in città erano rimasti poco più di cento abitanti[7].

Col sopraggiungere della primavera, la caduta di Montecassino e l’entrata in Roma degli Alleati dettero un ulteriore spinta emotiva alle formazioni partigiane aretine che si riorganizzarono supportati dal Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), trasformandosi in Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale (CPLN) così da operare quel salto di qualità che gli avrebbe consentito di contrastare con più efficacia le milizie nazifasciste e preparare il terreno per la liberazione di Arezzo. Fu una trasformazione non solo formale ma anche nella sostanza; infatti, ci fu una riorganizzazione militare con la costituzione della XXIII Brigata garibaldina “Pio Borri”, composta da tre battaglioni, e la XXIV Brigata “Bande Esterne”, che insieme andarono a formare la Divisione partigiani “Arezzo”; inoltre si operò un cambiamento ai vertici del Comitato: destituiti, con la scusa che erano ricercati e ormai compromessi, Sante Tani e Achille Ravera, presero le redini di comando del neonato CPLN Siro Rossetti, Aldo Donnini e Raffaello Sacconi, in pratica il braccio armato del vecchio CPCA, insieme ad Antonio Curina (che diventerà il primo sindaco dopo la liberazione), Eugenio Calò ed Arnolfo Funari[8]. Questo cambiamento ebbe anche l’avvallo della Chiesa aretina che entrava direttamente nell’organizzazione con don Onorio Barbagli. Del resto, il vescovo di Arezzo Emanuele Mignone si schierò fin dall’inizio apertamente con la Resistenza prendendo le distanze dalla Chiesa toscana, il cui atteggiamento si orientava verso una neutralità con frange di simpatia nei confronti del fascismo repubblicano ignorando volutamente il CTLN e le formazioni partigiane verso cui l’alto clero nutriva fortissime preoccupazioni per l’adesione di molti combattenti all’ideologia comunista[9]. Non fu così per gli esponenti del clero aretino che non si fecero condizionare dalla paura delle idee marxiste e a partire dal vescovo fino all’ultimo prete della parrocchia più sperduta delle montagne casentinesi (a parte qualche eccezione), dettero il loro insostituibile contributo alla resistenza rimettendoci anche in alcuni casi la propria vita: in poco più di due mesi nella provincia di Arezzo vennero trucidati 15 sacerdoti e 2 seminaristi, di cui 10 appartenenti alla diocesi aretina, 5 a quella di Fiesole e 2 alla diocesi di San Sepolcro (circa il 30% del totale dell’intera Toscana)[10]. E non dobbiamo dimenticare il ruolo svolto dalla parrocchia di San Domenico dove padre Raimondo Caprara riuscì a far coraggio alla poca popolazione rimasta in città provvedendo a sfamare, curare e nascondere quei disperati che avevano trovato rifugio nella sua chiesa situata in città e quindi rischiando per il continuo contatto con nazisti e repubblichini che là stazionavano.

Con le truppe tedesche ormai esasperate per i lunghi anni di guerra, in ritirata verso il nord Italia, mentre sentivano il sopraggiungere degli eserciti alleati e continuamente soggette ad imboscate da parte delle formazioni partigiane ora più che mai agguerrite e con una consistenza numerica che aumentava di giorno in giorno (soprattutto favorita dai renitenti di leva delle classi ’23, ’24, ’25), iniziò per la provincia di Arezzo il periodo tragico delle carneficine: 14 stragi a giugno, 20 a luglio, 2 ad agosto, 1 a settembre, e considerando anche le 5 di aprile e i deportati di Poppi si giunge a circa 1476 vittime. Questi eccidi per lo più di civili inermi, a volte pianificati, rispondevano ai dettami del generale Kesserling che auspicava un contegno durissimo ed intransigente verso le popolazioni considerate fiancheggiatori di coloro che reputava soltanto banditi e non militari: non avevano neanche l’uniforme e quindi dietro ogni borghese si poteva nascondere un partigiano[11]. La lotta partigiana veniva vista come una degenerazione della guerra e non come una forma di guerra conosciuta da secoli, e con questa visione deformante si giustificava per le barbarie delle stragi che perpetrava sistematicamente contro le popolazioni inermi: «uccidete, e qualsiasi cosa accada vi difenderò, e se non vi scatenerete contro gli italiani vi punirò»[12]; questo era il contenuto del comando inviato alle truppe il 17 giugno ’44 firmato dallo stesso Kesserling.

Dopo lo sfondamento della Linea Gustav con la sanguinosa battaglia di Montecassino, le truppe alleate si fermarono sulle rive del lago Trasimeno, per poi il 26 giugno ’44 entrare a Chiusi. Da lì qualche giorno dopo presero Montepulciano e finalmente il 2 luglio conquistarono il primo comune aretino, Lucignano, per arrivare il giorno successivo a Cortona. Sulle montagne cortonesi erano state attive e quindi di grande aiuto agli anglo-americani molte squadre partigiane in attesa della loro avanzata che ritardava a causa delle distruzioni messe in atto dai genieri tedeschi e dalle mine che avevano dislocato un po’ dappertutto. Le strade, i ponti e le gallerie non esistevano più e i carri armati procedevano dove capitava, anche in mezzo ai campi di grano e tra le viti distruggendo buona parte dei raccolti. L’avanzata degli Alleati, di conseguenza, rallentò il suo slancio e sembrò quasi fermarsi proprio prima di arrivare ad Arezzo. Sapendo che le truppe di Kesserling difficilmente avrebbero ceduto il passo verso Firenze, visto che la Linea Gotica non era ancora pronta (i tedeschi vi si attestarono soltanto il 27 ottobre), gli Alleati organizzarono una riunione con i comandanti delle formazioni partigiane per conoscere la dislocazione dei reparti nemici e pianificare la battaglia per Arezzo. Durante il meeting fu approntata la strategia per entrare e liberare il capoluogo: una formazione partigiana fornita di armamenti pesanti ed esplosivi si sarebbe introdotta furtivamente in città ed avrebbe atteso l’avvicinarsi degli Alleati per dare il via all’insurrezione nel centro cittadino il successivo 14 luglio. In questo modo, anche se i maggiori pericoli li avrebbero corsi i partigiani, al loro ingresso in città, gli Alleati si sarebbero trovati il CPLN già insediato. Ma la difesa delle truppe e dell’artiglieria della Wehrmacht attestate sul monte Lignano tra Castiglion Fiorentino e Arezzo ritardò l’avanzata delle milizie Alleate e il 14 luglio, ancora lo sbarramento sul monte Lignano, da cui si sarebbe aperta la strada fino ad Arezzo, rimaneva presidiato dalle forze tedesche. Ma avevano le ore contate: l’inferno di fuoco che si era riversato nei giorni precedenti dai cannoni (800 colpi al minuto) e dai bombardamenti aerei degli Alleati, che già avevano destabilizzato le truppe naziste, si completò con la sanguinosa battaglia di Lignano che causò numerose vittime in entrambi gli schieramenti. Così dopo aver perso la posizione sul monte Lignano, alle prime ore del 16 luglio, le truppe tedesche si ritirarono senza operare un inutile e sanguinoso contrattacco per assestarsi sulla Linea Irmgard sul fiume Senio. Così all’alba del 16 luglio la discesa in città dei partigiani coincise con il ritiro delle truppe tedesche e ciò permise di liberare Arezzo senza spargimento di sangue.

16 luglio 1944 – scalinata del Duomo di Arezzo. Incontro fra partigiani e alleati nel giorno della Liberazione della città.

 

Alle ore 7.00 del 16 luglio 1944 la guerra per Arezzo era finalmente conclusa: sulla torre del comune venne issato il tricolore e le campane in città iniziarono a suonare a distesa seguite dalle campane della campagna circostante, dando il segnale agli Sherman, i carri armati alleati, che nella tarda mattinata entrarono nella città libera.

Ma se Arezzo fu liberata senza spargimento di sangue, il ritardo dell’offensiva alleata convenuta il 14 luglio, con i partigiani scesi dalle colline verso posizioni più avanzate per ricongiungersi con le truppe inglesi, generò sfortunatamente l’orribile strage di San Polo: un rastrellamento rapidamente pianificato portò all’arresto di partigiani e civili inermi che furono barbaramente trucidati. Questa azione era in sintonia con le idee e i dettami del feldmaresciallo Kesserling che riteneva di poter procedere con l’impiego sistematico di rappresaglie ed eccidi contro i civili nella guerra antipartigiana. E se la signora Laura Ewert, nipote del colonnello Wolf Ewert che comandò la strage di San Polo – di cui solo recentemente è venuta a conoscenza-, è stata presente quest’anno alla giornata di commemorazione della strage per mostrare la propria angoscia e mantenere vivo il ricordo della brutale azione messa in atto dal nonno, il generale Kesserling, arrestato alla fine della guerra, scampato alla pena di morte e successivamente anche all’ergastolo, libero dopo pochi anni per motivi di salute, una volta tornato in Germania ebbe l’impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva proprio nulla da rimproverarsi ma che, anzi, gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i diciotto mesi di occupazione tanto che avrebbero fatto bene ad erigergli un monumento:

Lo avrai

camerata Kesserling

il monumento che pretendi da noi italiani

ma con che pietra si costruirà

a deciderlo tocca a noi

 

Non coi sassi affumicati

dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio

non colla terra dei cimiteri

dove i nostri compagni giovinetti

riposano in serenità

non colla neve inviolata delle montagne

che per due inverni ti sfidarono

non colla primavera di queste valli che ti videro fuggire

 

Ma soltanto col silenzio dei torturati

Più duro d’ogni macigno

soltanto colla roccia di questo patto

giurato fra uomini liberi

che volontari si adunarono

per dignità e non per odio

decisi a riscattare

la vergogna e il terrore del mondo

 

Su queste strade se vorrai tornare

ai nostri posti ci troverai

morti e vivi collo stesso impegno

popolo serrato intorno al monumento

che si chiama

ora e sempre

RESISTENZA

 

Piero Calamandrei

 

NOTE

[1] Ivan Tognarini (a cura di), La guerra di liberazione in provincia di Arezzo. 1943-1944. Immagini e documenti, Amministrazione provinciale di Arezzo-Tipografia Badiali, Arezzo 1987, p. 50.

[2] Enzo Droandi, Arezzo distrutta 1943-44, Calosci Editore, Cortona 1995, p. 124.

[3] I. Tognarini (a cura di), Guerra di sterminio e resistenza. La provincia di Arezzo (1943-1944), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1990, p. 179.

[4] Il futuro CTLN, ancora “Fronte per la Liberazione Nazionale” di Firenze, nell’autunno del 1943 in un volantino ai “toscani”, elogiava i contadini per l’aiuto prestato agli sbandati dell’esercito e ai prigionieri alleati e li incitava a continuare nella lotta. Al momento del nuovo raccolto il CLN incitava i contadini ad evadere gli ammassi per sottrarre grano ai tedeschi e dare l’aiuto alle formazioni partigiane, Cfr. ISRT, Collezione manifestini CTLN, in Libertario Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino. Dalle origini del movimento alla Repubblica: 1900-1946, Contributo per il convegno “Mondo Contadino e Resistenza” Foiano della Chiesa, 15 marzo 1975, p. 84.

[5] E. Droandi, Arezzo distrutta 1943-44, cit., p. 25.

[6] Ivi p. 27.

[7] Agostino Coradeschi e Mario Parigi (a cura di), Arezzo dalla dichiarazione di guerra al referendum istituzionale 1940-1946, Corocci Editore, Roma 2008, p. 114.

[8] Ivi, p. 115.

[9] L. Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino, cit., p. 79.

[10] A. Coradeschi e M. Parigi (a cura di), Arezzo dalla dichiarazione di guerra al referendum istituzionale 1940-1946, cit., p. 122.

[11] E. Droandi, Arezzo distrutta 1943-44, cit., p. XVII.

[12] Ibidem.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.

 




Il contributo di tre donne livornesi alla causa dell’antifascismo

Introduzione.

L’enciclopedia Treccani definisce l’antifascismo come una «reazione, morale e politica, alla dottrina e alla prassi antidemocratica del fascismo al potere», sorto per mano di «alcune formazioni e partiti politici».[1] La sottosezione dell’Enciclopedia Treccani, intitolata “Dizionario di Storia”, risulta più aderente alla realtà dell’antifascismo, nella sua definizione di tale fenomeno come un «atteggiamento di opposizione al fascismo, che va dal semplice stato d’animo al movimento organizzato».[2]

A questo fenomeno di rilevanza nella storia nazionale prendono parte tre donne livornesi, rispettivamente: Erminia Cremoni (1905-1956), Osmana Benetti (1923-2016), Ubaldina Pannocchia (1923-2021). Per comprendere i loro contributi alla causa dell’antifascismo e della Resistenza all’occupazione nazifascista dell’Italia, occorre immergersi nel complesso quadro del percorso di emancipazione delle donne italiane tra anni Venti e Quaranta del Novecento. Un percorso che porta le «bravi madri e mogli» designate dal fascismo, a diventare donne «riottose e intemperanti», antifasciste, partigiane, staffette. Queste pagine buie, del fascismo prima e della guerra dopo, porteranno a una ridefinizione dei ruoli di genere in Italia.

Nello sviluppo dell’elaborato è stata adottata una prospettiva originale, che sapesse unire le biografie delle staffette livornesi alla storia della città labronica, dei suoi periodi più bui e della Resistenza all’occupazione nazifascista. L’analisi delle donne resta il “comune denominatore” nei capitoli dell’elaborato, così come la battaglia per l’affermazione della loro voce e delle loro azioni. Potrebbe esser necessario fare qualche accenno alle battaglie per l’uguaglianza di genere intraprese dalle donne dopo la Seconda guerra mondiale, ma l’elaborato limita la sua riflessione al giorno della Liberazione dell’Italia, avvenuta il 25 aprile 1945.

Questi volti femminili, che direttamente hanno vissuto gli orrori del fascismo e della guerra, sembrano appartenere a una “storia silente”. Infatti, ancora ad oggi prevale una cultura che sembra metter in secondo piano il contributo di queste donne. È molto importante il tipo di ricerca condotto nell’ elaborato perché conoscere la storia passata, l’evoluzione e l’involuzione di alcuni fenomeni, aiuta a orientarsi meglio negli impegni personali, politici, sociali e culturali di queste donne.

La storia del contributo femminile alla causa antifascista è stata riscoperta soltanto negli ultimi decenni dalla storiografia. Si tratta di una storia nuova e inerente ai rapporti di genere, una storia da ricostruire e da ricordare. Per realizzare questo elaborato è stato necessario consultare una grande mole di fonti secondarie, quali monografie e articoli di giornale. Con la morte recente di due antifasciste livornesi, Osmana nel 2016 e Ubaldina nel 2021, è stato impossibile analizzare delle fonti primarie.

L’elaborato mira quindi a dar voce a delle storie di donne comuni, che agiscono senza il sostegno di ideologie politiche in senso stretto, che «non hanno armi per difendersi, e se le avessero non saprebbero nemmeno usarle».[3] Donne comuni che operano nel contesto livornese e che hanno dovuto combattere per una “doppia liberazione”: dal fascismo e dall’oblio. In particolare, queste storie devono essere tutelate da una memoria che tende a esaltare l’eroismo e il cameratismo maschile, e dimentica il contributo femminile.

Storie di donne nell’antifascismo livornese.

Alle lotte compiute per la liberazione del Paese dal regime fascista e dall’occupazione tedesca hanno preso parte le donne livornesi. Queste donne coraggiose hanno dato sostegno alle azioni dei partigiani, soprattutto nel ruolo di staffette. Le staffette provvedevano alla diffusione di volantini, aiutavano i soldati e i partigiani fornendo viveri e medicine, non aderivano a formazioni combattenti scegliendo comunque di abbracciare gli ideali della Resistenza. La distribuzione della stampa clandestina e dei volantini antifascisti da attaccare nella notte richiedeva continui spostamenti.

Le donne erano in grado di superare più facilmente i controlli e riuscivano a smistare per il territorio volantini, armi e medicine: tutto ciò era possibile perché, in una società autoritaria e profondamente maschilista, venivano continuamente sottovalutate.[4] Loro stesse riuscirono a sfruttare la libertà di movimento di cui godevano, col fine di raggiungere gli obiettivi prefissati dalle organizzazioni antifasciste. Inoltre, con l’avvento della conflittualità locale, diventava sempre più pericoloso farsi trovare addosso dei documenti che dimostrassero una collaborazione antifascista. Si trattava di un rischio personale ben preciso, che metteva a repentaglio sia la vita della donna che l’attività dell’organizzazione.

Per le donne la Resistenza è stata una specie di viaggio verso la progressiva conquista dei diritti e delle libertà. Attraverso quest’esperienza si ritrovano a essere più consapevoli dei propri mezzi e dei propri diritti, molti ancora da conquistare. Molte donne livornesi, come Osmana e Ubaldina, nel secondo dopoguerra intraprendono un percorso di emancipazione, entrando in associazioni politiche e sociali, di cura dell’infanzia e dell’educazione. Questa parte analizza il contributo di tre donne livornesi alla causa dell’antifascismo: Erminia Cremoni, Osmana Benetti, Ubaldina Pannocchia.

1.      Erminia Cremoni (1905-1956).

Erminia nasce a Livorno in una famiglia modesta e fin da piccola viene iscritta all’Azione Cattolica, a cui partecipa con slancio e con entusiasmo. Erminia fu espressione del laicato cattolico, ovvero quel complesso di persone laiche che aderirono o vennero poste ai vertici di associazioni cattoliche ed ecclesiali, che si scontrò con il regime negli anni Trenta. Lo scontro tra associazioni cattoliche e regime riguardava principalmente l’educazione dei giovani, un campo che veniva rivendicato dalla Chiesa, ma che il fascismo non voleva contendere e che voleva porre sotto il suo esclusivo dominio. Gli anni Trenta sono anni difficili, che Erminia definisce come «vissuti con le rotine sotto i piedi» (come lei descrive tale periodo secondo il dialetto livornese).[5] Si sposta continuamente per portar aiuti pratici e conforto spirituale tra i bisognosi di ogni ceto: nelle carceri, nei quartieri poveri della città, nelle fabbriche, negli ospedali.

La politica ufficiale della chiesa livornese in quegli anni è improntata su una sorta di coesistenza pacifica col fascismo, ma al di là dell’ufficialità, i comportamenti erano sfumati. Una prova di quest’ultima affermazione è la tolleranza del vescovo Giovanni Piccioni – il quale ha esercitato il suo ministero episcopale dal 1921 al 1959 – verso la presenza di docenti antifascisti nelle scuole cattoliche, di ex esponenti del Partito Popolare Italiano non iscritti al Fascio a capo di organizzazioni diocesane e, l’esistenza di frange fasciste anticlericali nei circoli giovanili cattolici.[6] Il compromesso tra la curia livornese e il Partito Nazionale Fascista livornese si fonda su un patto tacito in base al quale, in materia di associazionismo femminile, si stabilisce ambiti di azione diversi, mentre in realtà ognuna delle istituzioni cerca di guadagnare ampi consensi.[7] Il vescovo mira a rafforzare l’aspetto religioso e di preghiera nelle proprie organizzazioni , consolidando le opere sociali legate agli ordini religiosi. Così le associazioni femminili cattoliche intensificano l’attività liturgica e di preghiera, ma allo stesso tempo incrementano quella verso le famiglie ed i bisognosi.

L’Unione Femminile Cattolica viene fondata dalla curia livornese nel 1932, così come altre associazioni, quali l’Unione Donne Cattoliche e Gioventù Femminile Cattolica. Di quest’ultima associazione Erminia viene nominata presidente nel 1943, a fianco del sacerdote Don Roberto Angeli. Don Angeli è stato un sacerdote antifascista militante e promotore di una Resistenza ideologica e culturale: sue sono le conferenze tenute nei primi anni Quaranta al Cenacolo di Santa Giulia, finalizzate a dimostrare che «Dio creò l’uomo, non l’uomo ariano».[8] Ha rappresentato i cristiano-sociali all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale toscano, impegnandosi soprattutto nell’attività di assistenza dei partigiani e trovando rifugi quando necessario. Nel secondo dopoguerra, alcuni esponenti cristiano-sociali toscani confluiranno in uno dei partiti simbolo della ricostruzione della vita democratica del Paese: la Democrazia Cristiana.

Dopo l’8 settembre, la Cremoni partecipa ad azioni di rifornimento e di assistenza a un gruppo di soldati italiani scampati alla cattura tedesca e rifugiati nei sotterranei dell’ospedale di Livorno fino al giugno del 1944. Aiuta anche un gruppo di novanta ebrei nascosti in una palazzina di via Micali, percorrendo una o due volte alla settimana circa venti chilometri a piedi da Montenero, anche sotto i bombardamenti. Unisce attività spirituali e trasporto di volantini, armi, medicinali e viveri, ai gruppi partigiani cristiani nella zona: nella sua grande borsa, sotto gli opuscoli dell’Azione Cattolica, porta nascoste veline e informazioni da consegnare, a volte rimanendo coinvolta nei conflitti a fuoco.

Dopo la guerra Erminia continua a dedicarsi alle opere di assistenza dei più deboli: fonda e presiede il Centro Italiano Femminile nel 1944. Due anni dopo viene eletta in un consiglio comunale nella lista della Democrazia Cristiana.

Muore nel 1956 ma il suo intervento giunge fino ai giorni nostri, il suo nome compare infatti nel database creato dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia e l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri.[9] Compare il suo ruolo di partigiana combattente durante la Seconda guerra mondiale, prestando servizio presso la I divisione di Giustizia e Libertà tra il 9 settembre 1943 e l’11 agosto 1944.

2.      Osmana Benetti (1923-2016).

Osmana Benetti nasce a Livorno nel 1923, è figlia di un operaio dei cantieri navali ed è la prima di cinque fratelli. Sua mamma lava i panni e fin da piccola vuole imparare a cucire ma, il futuro che la attende è molto diverso.[10] Cresce in una famiglia di ideali democratici e antifascisti, sebbene non in aperta opposizione al regime. Nonostante abbia frequentato la scuola solo fino alla quinta elementare, è una grande appassionata di libri, che la aiutano a riflettere sulla situazione politica in cui vive.[11] La giovane generazione, di cui Osmana fa parte, cresce in fretta con l’avvento della guerra. Fin da quando è giovane, si dichiara come pronta a sacrificare la sua vita in nome della libertà e della democrazia. Durante il suo sfollamento nel 1940 a Castellana Marittima conobbe alcuni giovani, anch’essi sfollati, i quali avevano mantenuto dei contatti col Partito Comunista a Livorno.

L’attività di staffetta comincia nel 1943: è incaricata di trasportare materiale a stampa, documenti e informazioni tra le varie cellule che operano nella zona di Livorno.[12] Il suo compito è creare una linea di collegamento tra la campagna e la città, ma grazie al suo fisico esile non viene mai perquisita ai posti di blocco.[13] Un altro compito è la distribuzione di volantini di propaganda antifascista, che Osmana lega con i fiocchi i colorati del suo corredo ai rami delle piante, lungo la strada per la miniera della Valle Benedetta, affinché gli operai li possano leggere.

La famiglia è all’insaputa di tutto, poiché credono che «le donne non si devono occupare di politica».[14] La madre non appena scopre che sua figlia è staffetta, tenta di chiuderla in casa perché «spariva fino a tardi» e «si incontrava con i compagni maschi, spesso più grandi di lei».[15] Grazie alla madre, sfugge all’arresto nel gennaio 1944, che porta all’arresto di ventotto partecipanti ad una riunione clandestina, a causa di una soffiata. Nei mesi successivi organizza assemblee per parlare ad alcune donne e per convincere le famiglie a non aderire alla Repubblica di Salò. Parla di prospettive, di futuro, di ricostruzione della città e del tessuto sociale.

È una delle fondatrici dei Gruppi di Difesa della Donna, organizzazione nata nel 1943 per iniziativa del Partito Comunista con l’intento di organizzare una rete di aiuti alle famiglie di carcerati, di internati e di partigiani. Anche se l’obiettivo primario è quello di promuovere la Resistenza femminile in ogni ambiente sociale, «non basta incitare gli uomini alla lotta» (come scrive Osmana in un volantino redatto per l’organizzazione).[16]

Nell’estate del 1944, frequentando la federazione del Partito, conosce Garibaldo Benifei: figura di spicco dell’antifascismo livornese, comunista, già condannato al carcere due volte per attività sovversiva. Nel dopoguerra i due di sposano e lei continua l’attività politica come responsabile del gruppo delle donne comuniste nel Partito Comunista Italiano. Con le donne dell’Unione Donne Italiane (UDI) contribuisce alla costruzione dei primi asili della città. Fino alla sua morte, ha continuato ad occuparsi dei diritti delle donne come membro dell’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (ANPPIA) ed ha svolto un’attività di testimonianza alle nuove generazioni, soprattutto nelle scuole. A differenza di Garibaldo, lei ha dovuto aspettare settant’anni per ottenere la Livornina ovvero l’onorificenza del comune, che ha ottenuto solo nel 2015.

Spesso le fonti rappresentano la lotta per la liberazione del Paese intrapresa da Osmana come “combattuta in funzione del marito”. Queste rappresentazioni sono assai riduttive e tradiscono alcuni messaggi tramandati da lei stessa, in cui affermava:

«[…] Onori e riconoscimenti ce li siamo conquistati sul campo perché abbiamo collaborato a rimettere in piedi le strutture democratiche in tutto il Paese, a costo di grandissimi sacrifici. […] Alle ragazze di oggi consiglio di trovare un lavoro che le renda indipendenti, perché senza indipendenza economica non esiste nessuna indipendenza […]». [17]

È necessario ricordarla come una partigiana che ha lottato contro il fascismo e che, fino agli ultimi giorni della sua vita, si è fatta promotrice dei diritti delle donne. Osmana è morta nel 2016 all’età di 93 anni ed ha lasciato una preziosa eredità che «spetta a noi tener viva».[18]

3.      Ubaldina Pannocchia (1923-2021).

Ubaldina è coetanea di Osmana, nasce a Livorno nel 1923. La sua infanzia scorre tranquilla ma, essendo l’unica femmina, frequenta la scuola fino alla quinta elementare perché la priorità è far studiare i suoi due fratelli maschi. Col tempo impara a ricamare e a suonare il pianoforte all’Istituto delle suore in via Galilei. Vive in un mondo fatto di musica e di spensieratezza, finché il padre rischia di perdere il posto di lavoro in macelleria perché non iscritto al Fascio. Inizia a odiare il regime attraverso i racconti sull’uccisione dei fratelli Gigli (1922), che vennero massacrati nella loro abitazione, nel palazzo di fronte a dove abita la zia di Ubaldina. Si interessa alla politica quando si innamora di Nedo Guerrucci, amico del fratello Roberto. Nedo le spiega la situazione italiana ed estera, le parla dell’opposizione al regime fascista e delle repubbliche sovietiche.[19]

A seguito dei bombardamenti, la famiglia di Ubaldina sfolla a Lorenzana nel 1943. Prima della sua partenza, aiuta Nedo a diffondere alcuni manifesti antifascisti per le strade di Livorno, Ubaldina ha paura e gli dice: «[…] Ma sei impazzito? Se ci scoprono o li trovano, ci arrestano […]».[20] Ma nonostante la paura, Ubaldina non crede al fascismo e nemmeno alla guerra lampo, vuole salvare i suoi giovani amici catturati ed imprigionati. Ricorda il suo sfollamento in un’intervista rilasciata al programma televisivo “Noi partigiani”, in cui vengono intervistati alcuni esponenti della Resistenza. Le autorità nazifasciste giungono a Lorenzana per arrestare il fratello Roberto e Ubaldina ricorda l’accaduto con sarcasmo livornese: «[…] i tedeschi… bimba mia, farciavano […]».[21] In casa è presente un pianoforte verticale che viene perquisito per cercare ulteriori prove di colpevolezza contro Roberto, ma non notano sul fondo la presenza dei manifesti contro la guerra e il fascismo. Questi manifesti erano stati realizzati da Concetto Marchesi, all’epoca rettore dell’università di Bologna e militante antifascista. Per Ubaldina «i tedeschi non si intendevano di musica» ed è stata forse quella la sua salvezza.[22]

Con l’armistizio dell’8 settembre, Nedo è chiamato a presentarsi al Comando militare di Ardenza, ma ha già preso la decisione di partecipare alla lotta come partigiano. In formazione è collocato a Castellaccio e, proprio per avere sue notizie, Ubaldina comincia a stringere in prima persona contatti con altri partigiani come Vasco Caprai e Giovanni Finocchietti. Collabora facendo la staffetta: procurando viveri, trasportando armi nella borsa della spesa, cercando e nascondendo medicinali e volantini, in sella alla sua bicicletta per le colline livornesi.

Ma Ubaldina dopo questa esperienza d’impegno civico non riesce a tornare a casa perché, come aveva capito già Giuseppe Fenoglio (scrittore e partigiano italiano), «chi è partigiano lo è per tutta la vita».[23] Finita la guerra, Ubaldina e Nedo si sposano nel 1946. Lui rimane in politica e riceve incarichi presso il Partito Comunista, mentre lei si avvicina al movimento femminile. Partecipa all’Unione Donne Italiane alla ricostruzione della città e delle scuole, alla creazione dei primi asili e all’allestimento della prima Festa dell’Unità al Parterre.[24] Ha preso coscienza di essere stata staffetta solo in maturità, leggendo il libro di Miriam Mafai intitolato “Pane nero: donne e vita quotidiana nella Seconda guerra mondiale” (1987).[25] Per il nipote Valerio ha messo nero su bianco il racconto delle sue memorie di partigiana, inizialmente condiviso di scuola in scuola e infine stampato dal comune nel 2016, intitolato: Nonna raccontami. Ricordi di Ubaldina Pannocchia, staffetta partigiana.

Ubaldina è morta nel 2021 all’età di 98 anni. Prima della sua morte ha preso parte al film “Indizi di felicità” realizzato dal Dirigente dell’ANPI Walter Veltroni, lui stesso la descrive come capace di «saper cogliere le tracce di felicità nei momenti più bui della sua vita privata e del suo impegno pubblico».[26] Così Ubaldina «per amore, per ideologia o per entrambi» ha deciso di prender parte alla Resistenza, un evento che ha cambiato la sua vita e la vita di tante altre.[27]

Conclusioni.

Spesso ci domandiamo perché sia importante tornare a ricordare o a raccontare. Una delle risposte possibili può essere “per non dimenticare” o per “dare una giustizia postuma”, salvando il ricordo di quello che è accaduto e non disperdendo le parole di chi c’era e ha visto. «Nulla se non le parole» ci rimangono per ricordare, come afferma Primo Levi.[28] L’avvento del fascismo, la Seconda guerra mondiale e la Resistenza, hanno occupato e occupano un ruolo centrale nella coscienza contemporanea, ecco perché il tema è così importante. In particolare, l’elaborato ha cercato di rispondere a una domanda: qual è stato il contributo di Erminia, Osmana e Ubaldina alla causa dell’antifascismo e della Resistenza?

I contributi delle donne alla causa dell’antifascismo variano da biografia a biografia, così come tra le tre antifasciste livornesi. Erminia si sposta continuamente per portare aiuti pratici e conforto spirituale ai bisognosi di ogni ceto: la battaglia contro il fascismo avviene attraverso la fede cristiano-cattolica. Osmana lotta contro le ingiustizie sociali e a sostegno dei lavoratori, promuovendo negli ambienti sociali una nuova Resistenza al femminile. Ubaldina è semplicemente una «ragazzina tra le altre» quando scoppia la guerra, ma sono chiari nella sua mente gli ideali di giustizia e di libertà, che la spingono a diventare staffetta in sella alla sua bicicletta per le colline livornesi.[29] Le storie esemplari di queste donne che hanno lottato per la libertà, necessitano di un’attenzione maggiore che ancora manca. Nella sintesi conclusiva, è possibile affermare che queste figure sono essenziali per la comprensione della storia di Livorno e della storia del contributo delle donne alla liberazione del Paese.

Nella realizzazione dell’elaborato sono emerse delle problematiche che riguardano il contesto storico-geografico prescelto: quello livornese. La produzione monografica sulla storia di Livorno risulta esigua, soprattutto se facciamo riferimento agli eventi della storia contemporanea. L’invito per il futuro è quello di porre maggior attenzione agli eventi che hanno scosso una città portuale, crocevia di popoli dalle culture e dalle storie diverse, quale è Livorno.

Insieme alle problematiche menzionate in precedenza, anche un’altra questione rimane aperta: quella della memoria. Col passare degli anni, i diretti protagonisti della Resistenza scompariranno e con essi anche delle fonti preziose. Per questo motivo, il dovere delle future generazioni è quello di mantenere vivo il ricordo e il contenuto di queste fonti.

 

NOTE

[1] Enciclopedia Treccani, Antifascismo, < https://www.treccani.it/enciclopedia/antifascismo >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[2]Dizionario di Storia, “Antifascismo”, in Enciclopedia Treccani, < https://www.treccani.it/enciclopedia/antifascismo_%28Dizionario-di-Storia%29/ , data di consultazione: 7 agosto 2022.

[3] A. Bravo; A. M. Bruzzone; In guerra senza armi. Storie di donne (1940-1945). Bari: Editori Laterza, 2000, p. 14.

[4] I. Carrone, Le donne della Resistenza. La trasmissione della memoria nel racconto dei figli e delle figlie delle Partigiane. Formigine (MO): Infinito edizioni, 2014, p. 40.

[5] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, «Comune di Livorno online», 12 febbraio 2016, < http://www.comune.livorno.it/_cn_online/indexff46.html?id=184&lang=it >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[6] T. Noce, Nella città degli uomini, Donne e pratica della politica a Livorno tra guerra e ricostruzione. Roma: Rubettino, 2004, p. 31.

[7] Ivi, p. 32.

[8] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[9] Istituto Centrale degli Archivi, Erminia Cremoni, «I partigiani d’Italia. Lo schedario delle commissioni per il riconoscimento degli uomini e delle donne della resistenza», < https://www.partigianiditalia.beniculturali.it/persona/?id=5bf7d1ce2b689817c8bac480 > , data di consultazione: 7 agosto 2022.

[10] S. Poli, Osmana Benetti: “Abbiamo lottato come gli uomini, poi siamo rimaste un passo indietro”, «la Repubblica», 24 aprile 2015, < https://firenze.repubblica.it/cronaca/2015/04/24/news/osmana_abbiamo_lottato_come_gli_uomini_poi_siamo_rimaste_un_passo_indietro_-112742382/ >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[11] In ricordo di Osmana Benetti in Benifei. La vita, la lotta, la cooperazione, «Fondazione Memorie Cooperative», 11 febbraio 2016, < http://www.memoriecooperative.it/i-soci-raccontano/in-ricordo-di-osmana-benetti-in-benifei-la-vita-la-lotta-la-cooperazione/ >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[12] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[13] S. Poli, Osmana Benetti: “Abbiamo lottato come uomini, poi siamo rimaste un passo indietro.”, cit.

[14] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] S. Poli, Osmana Benetti: “Abbiamo lottato come uomini, poi siamo rimaste un passo indietro.”, cit.

[18] Addio a Osmana, simbolo della Resistenza delle donne, «Il Tirreno», 11 febbraio 2016, < https://necrologie.iltirreno.gelocal.it/news/26220 >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[19] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[20] U. Pannocchia, Nonna… raccontami! Ricordi di Ubaldina Pannocchia staffetta partigiana. Roma: URP editoria, 2016, p. 7.

[21] Noi partigiani. Memoriale della Resistenza Italiana, Ubaldina Pannocchia, 2019 – 2020, < https://www.noipartigiani.it/ubaldina-pannocchia/ >, data di consultazione: 7 agosto 2022.

[22] Noi partigiani. Memoriale della Resistenza Italiana, Ubaldina Pannocchia, cit.

[23] U. Pannocchia, Nonna… raccontami! Ricordi di Ubaldina Pannocchia staffetta partigiana. Roma: URP editoria, 2016., p. 3.

[24] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[25] M. Zucchelli, Si è spenta Ubaldina Pannocchia: staffetta partigiana per amore. Le lotte nella Livorno da ricostruire«Il Tirreno», 30 luglio 2021, < https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2021/07/30/news/si-e-spenta-ubaldina-pannocchia-staffetta-partigiana-per-amore-le-lotte-nella-livorno-da-ricostruire-1.40553977 >, data di consultazione:  7 agosto 2022.

[26] Ibidem.

[27] M. Paoletti, Erminia, Osmana, Ubaldina: storie di donne nell’antifascismo livornese, cit.

[28] I. Carrone, Le donne della Resistenza, cit., p. 9.

[29] M. Zucchelli, Si è spenta Ubaldina Pannocchia: staffetta partigiana per amore, cit.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.




Le deportazioni dell’8 marzo 1944 nell’empolese

92 lavoratori in viaggio verso il campo di concentramento di Mauthausen. La loro unica colpa? Aver scioperato, aver cercato di rivendicare i propri diritti. Un atto ritenuto di un oltraggio tale, dall’autorità tedesca, che fu pagato con la vita.

Marzo 1944. Il fronte bellico interno presentava una situazione di assoluta impasse: era fallito il contrattacco tedesco di Anzio come l’avanzata alleata sul fronte del Cassino. Le notizie più entusiasmanti per la resistenza interna provenivano dal fronte orientale, con la liberazione dell’intera Ucraina da parte dell’Unione Sovietica e la loro repentina avanzata. Mentre i partigiani fantasticavano l’eventuale creazione di un secondo fronte di guerra alleato, paventato dagli entusiasmi di Radio Londra. È in questo contesto, di stallo italico ma di grande fervore internazionale che si inseriscono gli scioperi generali indetto dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) per la rivendicazione di un aumento delle razioni alimentari, dei salari e contro la deportazione degli italiani in Germania.

Non doveva essere una semplice rivendicazione. Nei mesi che la precedettero, crebbe continuamente la mobilitazione alla lotta clandestina nei territori dell’empolese. Lo sciopero sarebbe dovuto essere una dimostrazione di forza da parte del CNL nei confronti di fascisti e tedeschi. La dimostrazione di esser in grado di mobilitare la maggior parte della popolazione, di rendere pubblica l’insoddisfazione per l’autorità. E così fu.

Lo sciopero, inizialmente previsto per il 3 marzo, nella zona dell’empolese fu rinviato al giorno successivo. La notte tra il 3 e il 4 marzo varie riunioni tra le squadre di SAP e GAP portarono alla decisione di organizzare alcune postazioni con mitragliatrici e casse di bombe per proteggere il corteo, che furono posizionati già a partire dall’alba. Alle otto del mattino un corteo di donne partì da Avane dando inizio alla manifestazione. Passando dalle frazioni di Mangolo e Santa Maria si unirono altre centinaia di donne, formando un’onda rosa che andò presto ad unirsi agli operai delle fabbriche e ai contadini, oltre che ai piccoli commercianti una volta chiusi i loro negozi. Per le strade del centro cittadino, ormai invase dalla mobilitazione, era alta la voce della protesta collettiva, manifestata da vari cori, da «Pace e Pane» a «Fuori lo straniero». Una rabbia popolare che aveva una chiara connotazione anti-fascista ed anti-tedesca, le cui autorità non ebbero la forza di interrompere. Gli intenti del CLN si realizzarono completamente, con i fascisti che presero dolorosamente atto della situazione, ben consci che una risposta armata alla protesta avrebbe potuto portare – oltre che ad una possibile guerriglia con le forze partigiane – ad una successiva mobilitazione in cui fosse presente l’intera popolazione. La piena riuscita dello sciopero si verificò anche nelle altre località dell’empolese, solo a Limite e Capraia ci fu il tentativo da parte dei carabinieri e dei fascisti locali di sedare la protesta tramite lacrimogeni, senza però successo[1].

La situazione più interessante la troviamo ad Empoli. Dove la riuscita della mobilitazione derivò dall’unione delle rivendicazioni portate avanti dai contadini – forti proteste per la consegna di ulteriori 15 kg di grano all’ammasso e la richiesta del diritto di libera macinazione – e dagli operai, rappresentati soprattutto dai lavoratori della vetreria Taddei, il complesso industriale più grande dell’empolese. L’unione di questi due ceti, storicamente divisi, creò la forza necessaria per dimostrare alle autorità locali la presenza di un dissenso strutturato e ormai impavido di fronte alle minacce fasciste. Una delegazione di scioperanti fu anche ricevuta in Comune per ricevere tutte le rassicurazioni di rito. Le autorità fasciste si dimostrarono così inermi e succubi della situazione, facendo percepire il loro netto disagio nel constatare la presenza di un dissenso non controllabile[2].

Le conseguenze dello sciopero furono chiare. Una situazione di ordine pubblico non più sostenibile e a cui andava posto un rimedio. La rappresaglia non ebbe però luogo nella stessa giornata, per le ragioni già scritte, ma arrivò qualche giorno più tardi. Il clamore della mobilitazione, che ricordiamo, ebbe una grande impatto in tutte le parti d’Italia sotto il controllo tedesco, ebbe una risonanza tale che arrivò direttamente alla scrivania dello stesso Hitler. Il quale, una volta informato, diede disposizione a Himmler, il comandante delle SS, di deportare il 20% di coloro che avevano partecipato agli scioperi in Germania per “lavorare”. Fu così che tra il 4 e l’8 marzo del 1944 i dirigenti locali repubblichini stilarono varie liste di nomi che avrebbero deportato da lì a breve. Decisione, questa, accolta con grande gioia e soddisfazione dai comitati fascisti locali, desiderosi di poter stilare liste arbitrarie più rivolte a connotazioni politiche e personali che riguardanti i fatti del 4 marzo (basti pensare che molti fra gli uomini che verranno deportati non avevano partecipato allo sciopero generale). Sorgeva però un problema logistico e di ordine pubblico. Vista la grande solidarietà della popolazione allo sciopero di quattro giorni prima, sarebbe stato assai rischioso svolgere queste operazioni di giorno, con il rischio di una nuova mobilitazione. L’operazione fu allora svolta la notte tra il 7 e l’8 marzo, dove i repubblichini locali, coadiuvati dalla GNR, dai poliziotti e dai carabinieri, iniziarono un rastrellamento mirato sul territorio dell’empolese. Per evitare troppe problematiche fu utilizzato un modus operandi assai semplificato: gruppi di persone armate si presentavano a casa della persona da prelevare invitandola a seguirli nella caserma più vicina dove, dicevano gli squadristi, ci sarebbe stato un maresciallo o un suo vice che aveva delle domande da porgli. L’incursione in piena notte, il sonno, la paura e la mancata conoscenza del fatto che non si trattasse di un fatto isolato ma di una deportazione generale, portò tutti gli uomini a seguire i poliziotti o chi per loro senza scappare o reagire. Un’operazione che nella sua malvagità fu gestita con rara lungimiranza e dove fu curato ogni particolare. A Montelupo, ad esempio, i fascisti, consci che sarebbe stato impossibile con questo metodo prelevare chi era già scappato dal paese – la maggior parte si rifugiò nella zona di Botinaccio – organizzarono l’imboscata utilizzando un’ambulanza per evitare ogni tipo di sospetto. Un’altra tattica diversificata fu utilizzata per i lavoratori della vetreria Taddei di Empoli, i quali furono direttamente prelevati in azienda con una retata. Stessa sorte sarebbe dovuta toccare anche agli operai di un’altra vetreria empolese, la CESA. In questo caso però, intuendo la situazione che si stava creando, il capo fabbrica Betti Rinaldo ebbe la lungimiranza di azionare l’allarme che fece scappare tutti gli operai, i quali vennero a conoscenza soltanto il giorno seguente di esser sfuggiti non ad un guasto all’impianto ma ad una deportazione di massa[3].

Come dicevamo, esclusa la CESA, il rastrellamento riuscì perfettamente. Ad Empoli, oltre ai 26 operai della Taddei, furono arrestate altre 30 persone, a Montelupo gli arrestati sono 22, a Limite sull’Arno 11, a Vinci 7, a Fucecchio 9 e a Cerreto Guidi 7[4]. L’indomani, tra lo sgomento e l’incredulità della popolazione, ignara della sorte dei loro concittadini, gli arrestati furono trasferiti con dei pullman a Firenze, precisamente alla Scuole Leopoldine, in piazza Santa Maria Novella. Qui, dopo esser stati registrati, ed in alcuni casi interrogati, furono scortati dalle forze tedesche presso la Stazione Centrale. Lì si trovarono di fronte alcuni carri ferroviari, quelli usati per il trasporto del bestiame, dove furono costretti a salire. Dopo tre giorni interminabili di viaggio, ammassati, senza dormire né mangiare, l’arrivo ad una stazione ferroviaria austriaca. Stanchi, impauriti e sprovvisti di un abbigliamento adeguato alla neve pungente furono costretti ad intraprendere una marcia di sei chilometri fino ad una fortezza abnorme, con due torri unite da un muro in pietra al centro del quale si trovava una grande portale di legno. In pochi di loro riuscirono, in quelle condizioni, a scorgere una scritta che inaugura il campo: «Il lavoro rende liberi!». Erano arrivati a Mauthausen.

Dei 92 lavoratori ed antifascisti prelevati la notte tra il 7 e l’8 marzo e spediti al campo di concentramento, soltanto 5 o 6 avrebbero successivamente fatto ritorno alle loro famiglie, tutti gli altri non riuscirono a sopravvivere alle condizioni disumane dei campi.

 

 

Note:

 

[1] L. Guerrini, Il movimento operaio nell’empolese. 1861-1946, Editore Riuniti, Roma, 1970, pp. 469-470.

 

[2]  A. Dini, La notte dell’odio, Editore Nuova Fortezza, Livorno, 2000, p. 23.

 

[3]  Ivi, pp. 26-29.

 

[4]  L. Guerrini, Il movimento operaio nell’empolese. 1861-1946, p. 472.

 

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel luglio 2024.




La Liberazione di Siena

Fra la rocca di Radicofani, nel sud della provincia di Siena, e Radda in Chianti, a nord, la distanza è di un centinaio di chilometri. Le truppe alleate impiegarono un mese, dal 18 giugno al 18 luglio 1944, per percorreli. Velocità media: meno di 3 chilometri e mezzo al giorno. L’avanzata dei reparti inglesi a est del terrirorio provinciale, di quelli americani a ovest e del Corpo di spedizione francese al centro incontrò, infatti, un forte contrasto da parte dei tedeschi, i quali si ritiravano ordinatamente, combattendo attestati su una serie di linee difensive predisposte, volta per volta, laddove la conformazione del terreno rendeva più efficace il fuoco di sbarramento di mitragliatrici e cannoni.

Alcuni centri abitati (Radicofani, Chiusi, Poggibonsi) furono teatro di scontri duri e prolungati fra i soldati dei due eserciti contrapposti. Altri (Casole d’Elsa, S. Gimignano) subirono cannoneggiamenti da entrambi. Ad altri ancora vennero invece risparmiate vittime e distruzioni perché ubicati in luoghi di scarsa rilevanza tattica.

Le bande partigiane, che avevano fortemente destabilizzato l’apparato militare fascista della RSI fra i mesi di marzo e maggio, nel giugno-luglio moltiplicarono l’attività tesa a ostacolare gli spostamenti dei tedeschi e accrebbero così il loro contributo di sangue alla libertà, un contributo che superò i trecento caduti fra uccisi in combattimento e fucilati in rastrellamenti e rappresaglie.

È in questo contesto che, il 3 luglio, avvenne la Liberazione di Siena ad opera dei tirailleurs e dei fantassins del generale J.G. De  Monsabert, rimasto un benemerito nella storia cittadina per non aver dato l’ordine di aprire il fuoco dei suoi cannoni sia per non colpire i monumenti senesi che conosceva ed apprezzava, sia perché era stato informato che i tedeschi se ne stavano andando da un luogo che non era inserito lungo le loro linee difensive.

Si trattò di circostanze fortunate che limitarono i danneggiamenti. Andarono ad aggiungersi ad un’altra circostanza non meno fortunata, ovvero l’ubicazione della stazione ferroviaria, bersaglio principale dell’aviazione alleata, quasi in aperta campagna. Un fatto che, a sua volta, aveva contenuto gli effetti sul centro storico dei ripetuti bombardamenti aerei.

Nelle settimane precedenti l’arrivo del Corpo di spedizione francese le forze antifasciste e il CLN di Siena si erano arrovellati intorno ad un’alternativa drammatica: tentare un’insurrezione o cercare un compromesso e una convivenza con le autorità fasciste in attesa degli Alleati? La prima ipotesi, oltre che dal  timore dei combattimenti fra case, piazze, palazzi, chiese, era stata ostacolata dal fatto che le bande partigiane, abbastanza forti, come ricordato, nelle campagne, si trovavano lontane dalla città. La più vicina, il 2° Distaccamento della Brigata Garibaldi “S. Lavagnini”, era a una quindicina di chilometri, nella zona di Tegoia. Un rastrellamento tedesco, avvenuto il 24 giugno, ne aveva bloccato l’intento di attraversare le linee in direzione di Siena. L’altra ipotesi si era scontrata, invece, con la difficoltà morale, prima ancora che politica, di scendere a patti con nemici quali il prefetto fascista Giorgio Alberto Chiurco e con rastrellatori di partigiani come Alessandro Rinaldi.

Fra spinte contrapposte e comunicati contraddittori, alla fine era prevalsa la linea che, dall’esterno del Comitato, aveva tracciato l’autorevole esponente dell’antifascismo Mario Bracci. Consultatosi con una cerchia di amici, fra i quali Ranuccio Bianchi Bandinelli, il Bracci si era recato in prefettura nell’intento di convincere Chiurco a rimanere in città per mediare con i tedeschi, con i quali aveva un ottimo rapporto.

Annotò Bracci nel suo diario: «Colloquio quasi drammatico: deve restare al suo posto […]. E se il mio governo mi ordina di ritirarmi? Disobbedire […]. Io ero commosso, lui piangeva. Si è persuaso».

Conseguenza implicita dell’accordo era l’incolumità di Chiurco. Nessun GAP avrebbe dovuto sparargli. Bracci non faceva parte del CLN, agiva un po’ da battitore libero. E il CLN non se l’era sentita di sposare ufficialmente la sua iniziativa, suscitandone il sarcasmo: «Naturalmente l’ineffabile Comitato […] mi ha quasi sconfessato e non si è voluto impegnare[…]. Vorrebbero che [Chiurco] rimanesse, ma liberi loro di ammazzarlo in qualunque momento. Bei tipi».

D’altra parte, neppure Chiurco era stato del tutto ai patti. Asserragliato in prefettura, aveva lasciato Siena un giorno e mezzo o due prima dell’ingresso dei francesi, mentre le retroguardie germaniche abbattevano le mura cittadine a Porta S. Marco, facevano saltare in aria ponti e infrastrutture, saccheggiavano i negozi portando via le merci esposte sui banchi e quelle imboscate nei retrobottega. Che erano molte di più, come avrebbe annotato con una punta di perfidia l’arcivescovo Mario Toccabelli.

Sta di fatto che l’opzione insurrezionale era stata accantonata. Alla guida del Comune si trovava il notabile Luigi Socini Guelfi. In quanto podestà aveva accettato tutte le scelte del fascismo, comprese le leggi razziali, e non si era dissociato dal rastrellamento degli ebrei del novembre 1943 né dalla fucilazione di partigiani alla caserma Lamarmora avvenuta nel marzo dell’anno successivo. Non gli venivano però attribuite responsabilità dirette. Era stato dunque considerato un fascista con cui si poteva collaborare.

E così, per vari giorni, Socini Guelfi e e gli esponenti del CLN avevano convissuto nelle sale del Palazzo pubblico e insieme avevano formato una Guardia Civica, con compiti “esclusivamente difensivi” e di “ordine pubblico”.

Alcuni fascisti (fra di essi il federale Giovanni Brugi e il milite della X Mas Walter Cimino) erano stati uccisi, i prigionieri politici ancora detenuti nel carcere di S. Spirito, a disposizione dei tedeschi, erano stati liberati con un’irruzione dei GAP, ma il “patto” aveva retto. E gli Alleati alla fine erano arrivati.

Tuttavia, proprio in quel 3 luglio, mentre la popolazione festeggiava la libertà, il nemico era ancora a due passi, appena al di là delle rovine della stazione ferroviaria, sulla collina di Vicobello. Lì morirono tre giovani della Guardia Civica che, precedendo le pattuglie francesi, si scontrarono con una retroguardia tedesca. Furono i primi caduti della schiera di oltre ottocento partigiani della provincia di Siena i quali, dopo la liberazione del loro territorio, si sarebbero arruolati nel “Cremona”, il gruppo di combattimento italiano a fianco degli Alleati, e avrebbero partecipato nel nord Italia alla liberazione dell’intero Paese.

 

Articolo pubblicato il 1° luglio 2024.