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“Inciampare” nel passato per capire il presente

Sono sempre inorridito ogni volta che incido i nomi, lettera dopo lettera. Ma questo fa parte del progetto, perché così ricordo a me stesso che dietro quel nome c’è un singolo individuo. [...] L’installazione di ogni Stolperstein è un processo doloroso ma anche positivo perché rappresenta un ritorno a casa, almeno della memoria di qualcuno. (Gunter Demnig)

Che l’arte abbia impressa nelle sue mille anime la sua brava dose di memoria, più o meno esplicita, più o meno varia e consapevole, è cosa palese per chi l’ama e la studia, anche da lontano. I tempi, le temperie culturali, la voglia di appartenere, o di distinguersi, di lasciare segni volti al futuro, che richiamino vissuti, esperienze, afflati o sofferenze singole e corali hanno contrassegnato la comunicazione artistica di tutti i tempi, di tutte le arti. Più espliciti e non scevri di retorica sono talvolta i molti monumenti che nelle piazze ricordano i caduti delle guerre, carichi anche di un’altra memoria forse più inconscia, ma non meno significativa, quella lasciata dalla mano di un artista imbevuto della cultura del suo tempo.

L'artista Gunter Demnig (foto di Karin Richert, tratta da www.stolpersteine.eu)

L’artista Gunter Demnig (foto di Karin Richert, tratta da www.stolpersteine.eu)

La riflessione di Gunter Demnig sulla memoria è intuizione geniale e azione artistica al tempo stesso. Ha scelto di fare della sua vita un’opera di memoria: dare un nome e una presenza a chi vide la propria vita tragicamente spezzata dalla deportazione, la propria identità depredata e negata, sostituita con un numero di matricola. Nel breve spazio di un sampietrino riluce l’ottone con un nome e una biografia sintetica. Inciampa la vista e accende la memoria, ma senza retorica, senza ricorrere a nessun stratagemma volto a commuovere o a commentare. È chi guarda a trovare la memoria e la storia come sua conquista personale, cercare e capire il senso di un vissuto, che è parte di un vastissimo mosaico, ad oggi comprendente 60.000 pietre d’inciampo sparse in tutta Europa ed in continuo incremento. Un’opera maestosa, quella di Gunter Demnig, forse mai realizzabile fino in fondo, e per questo coraggiosissima. E che si avvale necessariamente della collaborazione di altre persone nei paesi di origine per la ricostruzione delle biografie dei deportati razziali, politici, militari; una sorta di ritorno di chi in realtà non tornò mai alla sua casa, o vi tornò con la vita ormai segnata. Un ritorno dimesso, dignitoso, ma immenso e radicato nei tessuti delle città, nel selciato su cui il presente cammina.

Anche Grosseto il 13 di gennaio avrà le sue prime pietre d’inciampo e farà parte di questa opera incredibile: tre piccole pietre verranno poste nel cuore del centro storico a ricordare Albo Bellucci, Italo Ragni, Giuseppe Scopetani, tre deportati politici grossetani.

Questo è il simbolico atto in cui culmina un lavoro di ricerca didattico e divulgativo intrapreso ormai tre anni fa: “Cantieri della memoria. Dalle pietre al digitale”, un progetto realizzato con il contributo del CESVOT, che ha coinvolto 8 associazioni e 5 enti locali della Maremma: Provincia e Comune di Grosseto, Comuni di Manciano Magliano in Toscana e Roccastrada. In ogni Comune sono stati individuati segni della memoria: monumenti, toponomastica, tracce lasciate nei luoghi da eventi, che hanno contribuito a costruire la realtà sociale presente. L’obiettivo era quello di far dialogare memoria e storia, di porre segni di memoria del passato, di sollecitare nelle nuove generazioni un’elaborazione del passato e una consapevolezza delle responsabilità di lutti e violenze che hanno attraversato il Novecento. È stato fondamentale il coinvolgimento degli studenti, che, guidati dai ricercatori dell’Isgrec, hanno intrapreso in ogni comune un lavoro didattico sui segni di memoria, cercandone il profondo significato storico nell’ottica di un recupero e di una valorizzazione.

Il bassorilievo di Tolomeo Faccendi, commissionato da Tullio Mazzoncini, donato al Comune nel 2008 e oggi esposto nell'atrio del Municipio

Il bassorilievo di Tolomeo Faccendi, commissionato da Tullio Mazzoncini, donato al Comune nel 2008 e oggi esposto nell’atrio del Municipio

Significativo al riguardo è stato il lavoro dei ragazzi della IV B a.s. 2014-2015 del Liceo Artistico di Grosseto, indirizzo Arti figurative, che ha ricostruito la complessa vicenda del rilievo in gesso di Tolomeo Faccendi e della sua copia in Bronzo a Campospillo, di proprietà della famiglia Mazzoncini e donato alla città nel 2008, attualmente esposto nell’atrio del Municipio di Grosseto. Partendo dalla costruzione di laboratori sulle fonti storiche, i ragazzi hanno potuto ricostruire la genesi del monumento e la storia della deportazione politica grossetana da esso ricordata, collocando l’opera d’arte nel contesto storico e artistico della Maremma del Secondo Dopoguerra. Alla fine del percorso storico e critico hanno stilato i testi esplicativi confluiti nel sito Cantieri della memoria e richiamabili dal QR code posto nella targa recentemente collocata accanto al monumento.

In questo modo un tassello importante del rapporto arte-memoria è stato ricostruito e ricollocato scientificamente per una corretta fruizione storica sotto gli occhi della cittadinanza.

Ne è emersa la vitalità artistica di Tolomeo Faccendi, importante scultore attivo fino agli anni Settanta del Novecento in città, le sue relazioni di amicizia e condivisione con Tullio Mazzoncini, protagonista insieme a Scopetani e Bellucci della tragica vicenda che ne determinò la deportazione a Gusen e Mauthausen. Attraverso il potere evocativo del linguaggio artistico, che richiama classiche suggestioni, ricorrendo per certi versi addirittura alla maniera michelangiolesca nella rappresentazione del dolore in un lager, l’artista riesce a indurci ad una riflessione, a soffermarci per osservare, per capire. L’opera diventa quindi strumento di conoscenza e testimonianza storica, ma anche momento di crescita etica individuale.

Altro segno artistico legato alla memoria della deportazione nel grossetano è il monumento ai Martiri dell’Antifascismo e della Resistenza, posto nello spicchio di verde all’incrocio di via Giuseppe Scopetani e via Albo Bellucci alla Cittadella dello Studente. Il monumento si presentava mutilo della targhetta esplicativa della data e dell’autore. Anche le guide della città più informate non ne attribuivano la paternità. Un’appassionata ricerca dell’Isgrec, che, ancora una volta e non a caso, ha coinvolto il mondo della scuola, ha dapprima individuato i protagonisti del progetto della costruzione della Cittadella dello Studente, concepita come piccolo campus, luogo di studio e di lavoro, che rende omaggio alla Resistenza e ricorda i martiri dell’antifascismo finanche nella toponomastica, diventando essa stessa luogo di memoria. Si è potuti quindi giungere alla rievocazione della genesi del monumento, simbolicamente affidato alle nuove generazioni.

Costruzione del monumento (Archivio privato Maria Paola Mugnaini)

Costruzione del monumento (Archivio privato Maria Paola Mugnaini)

Fu infatti l’allora studentessa del Liceo Artistico Maria Paola Mugnaini, vincitrice di un concorso tra i suoi coetanei indetto dall’Amministrazione Provinciale, a progettare la struttura con l’aiuto dei suoi insegnanti nel 1984. Il risultato è una struttura architettonica aperta a forma di piccolo tempietto moderno, struttura inclusiva che nell’alternanza di linee orizzontali e verticali spezzate utilizzate simbolicamente insieme alle linee curve, invita ad entrare sedersi e meditare in silenzio. L’uso dei materiali quali metallo e cemento nella libertà della composizione immersa nel verde ne sottolineano il ripudio della retorica a favore di una ricerca di un’intima e personale meditazione, ribadita dalla lettura del testo conservato su un’epigrafe all’interno del tempietto su cui si riporta una lettera di un condannato a morte della Resistenza.

Il confronto con i documenti fotografici dell’inaugurazione, la generosa testimonianza dell’autrice che abbiamo incontrato e intervistato, hanno contribuito ancora una volta alla comprensione di un pezzo di storia recente della città, nell’ottica delle diverse politiche della memoria, tutte oggetto imprescindibile di un doveroso studio critico.

In questa prospettiva si giunge coerentemente all’oggi, alla sensibilità nuova ed europea che pervade l’opera di Demning, in coerenza con le nuove visuali dettate dalla sensibilità contemporanea, nel rispetto della tendenza a ricostruire e a annoverare una per una, tutte le esperienze individuali; in questo solco si colloca la recente storiografia della deportazione, cifra che contraddistingue tante delle più recenti esperienze di ricerca storica (si pensi agli ultimi libri dei deportati o all’Atlante delle stragi nazifasciste in Italia), nella consapevolezza che la storia è fatta di tante infinite piccole storie personali, nell’intento di non dimenticare e di non lasciare nell’ombra nessuna vita, nessuna voce.

Questo spirito è lo stesso che chiede di cercare ancora, di indagare tra le carte e nelle memorie dei testimoni, come si è fatto per i nostri tre deportati grossetani, e che ha condotto a nuove interviste, nuove interpretazioni, nuovi scenari, perché la storia non è cosa morta, scritta una volta per tutte e poi dimenticata, ma essa vive e continua a pulsare in coloro che ogni giorno le sanno rivolgere ancora nuove domande, alla luce del presente, grazie anche al bagliore breve di un piccolo sampietrino.




E scese l’inferno dal cielo

La più grande tragedia di Empoli”, come l’ha definita Libertario Guerrini nella sua storia de “Il movimento operaio nell’Empolese 1861-1946” avviene alle ore 13.00 del 26 dicembre del 1943 quando per la prima volta la città è colpita da un bombardamento aereo alleato che colpisce e devasta i quartieri adiacenti alla stazione ferroviaria ed in particolare il rione delle Cascine, determinando la morte di 120 persone e il ferimento di oltre 200, secondo le prime stime riportate dai vigili del fuoco prontamente accorsi. I danni sono evidenti ed ingenti: 50 abitazioni ed uno stabilimento completamente distrutti, oltre 90 case e 5 fabbriche sinistrate.
Una vera tragedia aggravata non solo dall’effetto sorpresa da parte di una comunità impegnata nel pranzo festivo, e “rassicurata” dal fatto che ben 57 allarmi aerei erano risuonati senza alcuna conseguenza fra il 30 agosto e il 13 novembre precedenti, e dallo “scivolamento” delle bombe dai binari della ferrovia, cui erano dirette, alle zone vicine, ma anche dal fallimento del sistema di difesa e protezione antiaerea. Non è un caso che il Commissario prefettizio che gestisce il Comune nella sua prima relazione al Capo della Provincia (carica che sotto la Repubblica sociale italiana riunifica quelle di Prefetto e di Presidente della Provincia) insista sui danni da attribuire alla ferocia “nemica” e sulla solidarietà immediata che muove gli empolesi e anche le popolazioni dei paesi vicini nel cercare di portare i primi soccorsi e affrontare le emergenze più impellenti (abbattere le parti pericolanti degli edifici, soccorrere i feriti, seppellire i morti per evitare il diffondersi di epidemie), ma non analizzi in alcun modo l’assenza di ogni difesa anti-aerea.
Viene improvvisamente meno l’illusione di essere un piccolo nucleo provinciale che non avrebbe potuto attirare l’attenzione dei potenti stormi angloamericani, rispetto alle grandi città industriali del nord, ma anche ai capoluoghi toscani, come Firenze e Pisa attaccati nei mesi precedenti. Del resto Empoli non era affatto periferica, in quanto importante centro manifatturiero e, soprattutto, fondamentale snodo del sistema ferroviario lungo le direttrici che da Firenze portavano – e portano ancora oggi – al mare e a Roma. E proprio i centri di produzione, le vie di comunicazione delle truppe e delle merci e le reti infrastrutturali erano gli obiettivi primari della guerra aerea.
Anche gli empolesi conoscono e si trovano al centro del conflitto mondiale iniziato dal nazismo nel settembre del ’39, di cui l’Italia fascista era stata attiva protagonista fino ad esserne travolta nell’estate del ’43 con l’invasione angloamericana della Sicilia, la deposizione di Mussolini, l’armistizio dell’8 settembre e l’occupazione nazista della penisola che aveva trasformato la penisola in un tremendo campo di battaglia. E proprio la guerra aerea ne segna ed esprime la dimensione di “guerra totale” capace di colpire ciascuno e tutti (senza distinzioni fra civili e militari, uomini e donne) in ogni momento della giornata, in ogni luogo, fin nelle proprie abitazioni. L’Italia ne era stata fatta oggetto dall’autunno del ’42 a partire dai porti del Mezzogiorno e dalle grandi città industriali del nord.
Ma partire dalla primavera-estate del ’43 la strategia bellica alleata aveva puntato proprio sugli attacchi aerei su tutta la penisola – a partire da Roma – per demolire il morale di una popolazione già fortemente provata che, con gli scioperi del marzo precedente, aveva mostrato il proprio crescente distacco dal regime, così da favorirne la caduta e quindi la resa del Paese. Del resto proprio la tenuta o meno del “fronte interno”, cioè la capacità di una popolazione di resistere alle prove del conflitto sostenendo lo sforzo bellico del proprio governo, è la cartina di tornasole per misurare le sorti delle parti belligeranti. Il venir meno delle promesse della propaganda sulla rapida e vittoriosa fine del conflitto e l’evidente fallimento delle strategie di difesa antiaerea intrecciate con i forti limiti nella protezione ed assistenza dei civili aprono un solco crescente fra gli italiani e il regime e fanno emergere come prioritaria e maggioritaria la volontà di uscire dal conflitto, come mostrano l’entusiasmo con cui sono accolte dalla maggioranza della popolazione sia la notizia della “caduta” di Mussolini che quella dell’armistizio.
A partire da quel 26 dicembre quindi, anche all’ombra della Collegiata e nei borghi delle valli fiorentine si diffonde il terrore della morte quotidiana che scende dal cielo, accentuando il terrore e il senso di precarietà di popolazioni già provate dal prolungarsi del conflitto e dai suoi effetti a partire dalla mancanza di adeguate risorse alimentari. E sarà l’inizio di una lunga via crusis, anche se la tragedia del primo bombardamento resta insuperata. Nei mesi successivi gli attacchi aerei si ripetono con crescente insistenza in relazione all’avvicinarsi del fronte nell’estate successiva. Empoli, ed i territori circostanti, sono infatti colpiti dal cielo fra gennaio e luglio del ’44 altre 36 volte, delle quali 13 nel solo mese di luglio.
Inoltre, a seguito del primo bombardamento e ai due successivi nel gennaio del ’44 la città viene evacuata e gran parte della popolazione conosce così l’inevitabile, ma dolorosa esperienza dello sfollamento nelle campagne vicine, da “profughi” nella propria terra. Nei mesi successivi la città torna ad animarsi al mattino e nel tardo pomeriggio per lo svolgimento delle attività e dei lavori quotidiani in un contesto segnato da un crescente discredito delle autorità fasciste della Repubblica sociale, dall’ostilità verso queste e le truppe naziste e dal sostegno alle forze della Resistenza e alle forme di opposizione al nazifascismo e alla guerra, e nella trepidante attesa della fine del conflitto.

Matteo Mazzoni, dottore di ricerca in Studi storici in età moderna e contemporanea, è attualmente Direttore dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana e coordinatore del Portale ToscanaNovecento.




“Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza”

In una notte di giugno del 1944, una squadra di giovani partigiani penetra nel buio di una galleria della linea ferroviaria Lucca-Piazza al Serchio, tra Ponte a Moriano e Borgo a Mozzano: l’obiettivo è il ponte che si trova proprio all’uscita del tunnel, e i guerriglieri, per ostacolare i movimenti delle truppe naziste lungo la valle, si accingono a farlo saltare con gli esplosivi. A guidare i ragazzi, tutti di origini sarde, è il ventottenne Pietro Pistis, nativo di Lanusei (Ogliastra): fino all’8 settembre 1943 sergente del genio guastatori del Regio Esercito, combatte adesso per la formazione “Baroni”, operativa in Lucchesia. Senza fare rumore, la formazione avanza nella galleria a gruppi di tre, in coda due muli e i conducenti per il trasporto degli ordigni. Il gruppo è già piuttosto avanti nel tunnel, quando Pistis fa cenno con le braccia ai compagni di fermarsi e guardare verso l’uscita: all’imbocco opposto della galleria, si riconoscono infatti le ombre di alcune sentinelle tedesche che si muovono da una parte all’altra della volta. Consapevoli del rischio, i partigiani decidono di proseguire comunque, strisciando ai lati dei binari nel massimo silenzio. D’un tratto, tuttavia, i tedeschi si accorgono di qualcosa ed aprono il fuoco: i giovani si mettono subito al riparo, e, non appena la sparatoria dà un attimo di tregua, avanzano verso il caposquadra per fargli intendere che la missione è fallita, che l’unica scelta, oramai, è la ritirata. Nel buio più totale, bersagliati dai proiettili nazisti, due ragazzi raggiungono il comandante, rimasto indietro: dal momento che non reagisce, decidono di toccarlo, per spingerlo a fuggire quanto prima. Ma Pistis non dà segni di vita: colpito al cuore, è morto senza fare rumore. Devastati dalla perdita dell’amico, i compagni arretrano e, coprendosi l’uno con l’altro, riescono tutti a mettersi in salvo fuori dalla galleria. Sul luogo del sacrificio di Pistis, proprio nelle vicinanze del tunnel che lo vide morire, in un vasto piazzale affianco alla via Ludovica appena prima di entrare nel paese di Borgo a Mozzano provenendo da Lucca, nell’ottobre 1992 il comune e le associazioni combattentistiche e patriottiche vollero erigere un piccolo monumento.

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La copertina della nuova guida “Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza”, scritta da Feliciano Bechelli per Pezzini Editore.

Il cippo in memoria di Pistis in località “Madonnina di Mao” è soltanto uno dei molti luoghi della memoria contenuti nella nuova guida “Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza” (Pezzini Editore), secondo tassello del grande progetto tripartito di valorizzazione del patrimonio storico provinciale del tempo di guerra portato avanti dall’Isrec Lucca nel corso degli ultimi due anni di lavori. Scritta dal lucchese Feliciano Bechelli, giornalista pubblicista e membro del Consiglio direttivo dell’Istituto stesso, direttore responsabile, fra l’altro, della rivista semestrale di approfondimento storico dell’Isrec “Documenti e studi”, la pubblicazione fa seguito al primo volume della serie, dedicato alla Versilia, uscito poche settimane fa, parimenti completato con la supervisione scientifica del prof. Gianluca Fulvetti dell’Università di Pisa e reso possibile dal sostegno economico della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca: adottando un efficace taglio divulgativo, adatto ad un pubblico variegato, il libro raccoglie e presenta un gran numero di siti, vicende e personaggi altamente significativi, capaci di restituire il racconto corale dell’esperienza comunitaria delle genti del Serchio nell’ultimo, terribile anno e mezzo di guerra.

Avvalendosi di mappe, documenti d’epoca ed immagini di oggi e di ieri, Bechelli guida il lettore alla scoperta (o alla ri-scoperta) degli avvenimenti che sconvolsero Mediavalle e Garfagnana fra il settembre 1943 e l’aprile 1945, un territorio caratterizzato dall’ingombrante presenza della Linea Gotica e da quasi quotidiani scontri fra formazioni partigiane e reparti nazifascisti.

La tetra struttura dell'ex-albergo "Le Terme" ai Bagni Caldi di bagni di Lucca, convertita nei mesi dell'occupazione a campo di controvento provinciale per ebrei.

L’ex-albergo “Le Terme” a Bagni di Lucca, convertito nei mesi dell’occupazione in campo di concentramento provinciale per ebrei.

Suddivisa in capitoli dedicati ai singoli paesi e ai rispettivi dintorni, di cui l’autore tratteggia anche la storia nelle epoche precedenti ed evidenzia con apposite schede attrazioni turistiche ed eventi “da visitare”, la narrazione affronta così tutti i principali aspetti del conflitto nel suo scorcio più cruento, di volta in volta condensati in “punti caldi” di grande rilevanza per la memoria locale: dal lavoro coatto per la costruzione della Gotica, esemplarmente rappresentato dal campo tedesco di Socciglia, presso Borgo a Mozzano, ai bombardamenti angloamericani, capillari in tutta la valle del Serchio, ma in particolar modo a Castelnuovo di Garfagnana, dalle stragi naziste, come nel caso delle uccisioni compiute dalla Wehrmacht a Montefegatesi e Ponte a Serraglio (presso Bagni di Lucca) fra il 14 ed il 18 luglio 1944, alle persecuzioni antiebraiche, tristemente identificabili nell’ex-albergo “Le Terme” a Bagni di Lucca, trasformato nei mesi dell’occupazione in campo di concentramento provinciale per ebrei, da cui il 30 gennaio 1944 partì un treno destinato ad Auschwitz con 97 persone, di cui soltanto cinque riuscirono a fare ritorno a guerra conclusa.

Non mancano poi dettagliate ricostruzioni delle principali operazioni di guerriglia delle squadre partigiane locali, come la sanguinosa battaglia del monte Rovaio, presso l’Alpe di Sant’Antonio, nel comune di Molazzana, che, il 29 agosto 1944, vide coinvolto il Gruppo Valanga del gallicanese Leandro Puccetti (1922-1944) contro truppe tedesche e reparti della GNR: anche in questo caso, il dato storico è accompagnato dalle immagini e dalle indicazioni pratiche per la visita ai luoghi e ai sentieri che fecero da sfondo ai combattimenti.

La vetta del monte Rovaio, presso Molazzana, teatro della sanguinosa battaglia fra i partigiani del Gruppo Valanga di Leandro Puccetti e nutriti reparti della Wehrmacht e della GNR, il 29 agosto 1944.

La vetta del monte Rovaio, presso Molazzana, teatro della sanguinosa battaglia del 29 agosto 1944 fra i partigiani del Gruppo Valanga di Leandro Puccetti e nutriti reparti della Wehrmacht e della GNR garfagnina.

Affianco alle iniziative di indomiti resistenti rimasti impressi nel racconto corale della guerra in Valdiserchio, come Giovanni Battista Bertagni, comandante del Battaglione “Casino” della Brigata Garfagnana della Divisione Garibaldi Lunense, e Manrico “Pippo” Ducceschi, a capo dell’XI Zona Patrioti, attiva fra la montagna pistoiese e la Mediavalle, rivivono quindi i giorni della “guerra guerreggiata” lungo la Linea Gotica fra le truppe nazifasciste e gli uomini della 92° Divisione “Buffalo” afroamericana, impegnati in un logorante scontro di posizione dall’autunno del 1944 alla primavera dell’anno successivo: a tal proposito, di grande interesse è il capitolo dedicato a Sommocolonia, borghetto d’altura vicino a Barga, che fu teatro della devastante battaglia di Natale del 25, 26 e 27 dicembre 1944 (nome in codice tedesco: “Wintergewitter Aktion”), ultimo, vano tentativo germanico di spezzare il fronte alleato in direzione sud, conclusosi con intensissimi bombardamenti e vaste distruzioni in tutta la valle.

Giovanni Battista Bertagni, già sottotenente di complemento degli alpini, nell'estate del 1944 fu al comando del Battaglione "Casino" della Brigata Garfagnana della Divisione Garibaldi Lunense.

Giovanni Battista Bertagni, già sottotenente di complemento degli alpini, nell’estate del 1944 fu al comando del Battaglione “Casino” della Brigata Garfagnana della Divisione Garibaldi Lunense.

Oltre a trattare gli eventi della “grande storia” sul territorio, la nuova pubblicazione dell’Isrec di Lucca parla anche di Resistenza civile, di solidarietà umana e cristiana, soffermandosi sulle scelte della gente comune e di non pochi sacerdoti, che, di fronte alla spietata caccia all’uomo scatenata dalle forze nazifasciste contro oppositori politici, ebrei e renitenti alla leva, seppero reagire con decisione, offrendo spontaneamente rifugio, cibo e protezione ad un gran numero di perseguitati: è il caso, ad esempio, di Giuseppe Lombardi e don Gino Bachini a Colognora di Pescaglia, che salvarono la famiglia dell’ebreo viareggino Renato Pieri, di don Giovan Maria Torre, che, oltre ad assistere molti ricercati, s’impegnò a trasferire le attrezzature dell’ospedale bombardato ed inagibile di Castelnuovo nella canonica della propria chiesa, ad Antisciana, per non parlare di don Guglielmo Sessi, parroco di Sillico (nel comune di Pieve Fosciana), che, più volte arrestato dai fascisti e quindi tornato in libertà, s’impegnò fino alla fine del conflitto nell’assistenza agli ebrei e ai prigionieri di guerra alleati in fuga verso le proprie linee.

Utile strumento per una vasta diffusione della conoscenza storica del territorio nel periodo 1943-1945, certamente di grande validità anche a scopi didattici, la guida “Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza” sarà a breve seguita dal terzo ed ultimo capitolo del grande progetto “Luoghi della memoria” dell’Isrec, dedicato al capoluogo provinciale ed alla Piana di Lucca.




Per la cultura e per il bene comune

Professore di lettere comandato dal 1933 presso la Soprintendenza alle Gallerie per le province di Firenze Arezzo e Pistoia, Cesare Fasola è ricordato soprattutto per l’attività svolta durante l’ultima fase della Seconda guerra mondiale a tutela delle opere d’arte che erano state messe in salvo in ville e castelli di varie località toscane. Come testimoniano le sue lettere-diario alla moglie Giusta, presenti nel fondo a lui intitolato conservato presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana, nel momento del passaggio del fronte egli si adopera per sorvegliare e presidiare i depositi di opere d’arte dei musei nella zona della Val di Pesa, a Montagnana, Montegufoni, Poppiano e Uliveto, prima sotto l’occupazione tedesca e poi, dal 27 luglio, sotto gli Alleati. Per questa attività Fasola riceverà nel 1947 la medaglia di bronzo al valore civile.
Da ricordare è anche il suo ruolo di funzionario delle Gallerie incaricato dal soprintendente Giovanni Poggi della tutela artistica dei beni ebraici. In occasione delle requisizioni antisemite Fasola si occupa di valutare se fra gli oggetti portati via si trovino delle opere d’arte da sottrarre ai sequestri, destinandole alla Galleria dell’Accademia secondo quanto disposto dall’Ufficio affari ebraici della Prefettura. Dopo aver cercato di salvare il più possibile dalle razzie nazifasciste, nel dopoguerra collabora attivamente per la ricognizione ed il recupero dei beni requisiti, lavorando anche in contatto con Rodolfo Siviero.

Tuttavia c’è un altro aspetto della sua vita che merita di essere raccontato, che va di pari passo con la sua attività culturale, nell’ambito di una concezione ampia di impegno civile e di servizio per il bene comune. Ci riferiamo ovviamente al suo impegno politico, che si realizza a partire dal 1942 con l’iscrizione al Partito d’azione (PdA), per poi proseguire come membro del Comitato di liberazione nazionale (CLN) di Fiesole prima e dopo la Liberazione, e come amministratore comunale dalla seconda metà degli anni ‘40 al 1960. Aspetto riguardo al quale non possiamo avvalerci di molte fonti; le carte del fondo Fasola e quelle del CLN di Fiesole, conservate presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana, integrano in misura piuttosto limitata i documenti della busta intitolata a Fasola e i resoconti delle sedute consiliari e della giunta conservati tra le carte dell’Archivio comunale postunitario di Fiesole.
Dal modulo di iscrizione alla Sezione fiorentina del Partito d’azione, datato 1° settembre 1944, risulta che Fasola – che ricordiamo essere stato sacerdote dalla giovane età fino ai primi anni ’30, sembra con scarsa convinzione – abbia “aderito” al Partito nazionale fascista dal 1927 al 1943, ma anche che sotto il fascismo sia stato “denunciato e sorvegliato”, senza subire provvedimenti di polizia.
Come abbiamo accennato, la sua attività politica vera e propria comincia nel 1942 con l’adesione, insieme alla moglie Giusta, al neonato Partito d’azione. Al suo interno Fasola fa parte del Comitato esecutivo della Sezione di Firenze. Inoltre durante la Resistenza rappresenta il PdA in seno al Comitato toscano di liberazione nazionale e milita nella Divisione Giustizia e libertà di Firenze, che riunisce le formazioni militari azioniste. Secondo un curriculum conservato nell’archivio del PdA fiorentino, presso l’ISRT, “durante il periodo clandestino nel suo recapito di città fece da centro di collegamento per gli emissari delle regioni dell’Italia liberata e occupata in rapporto con le attività antinazifasciste del Partito a Firenze… collaborò per la diffusione della stampa clandestina e alla raccolta di fondi”. Il suo ufficio presso le Gallerie di Firenze diventa un centro di ritrovo clandestino, con tutti i rischi che ne derivano: lo stesso curriculum riporta che Fasola viene denunciato alla famigerata banda Carità per mezzo di lettere anonime, fortunatamente intercettate.
Per l’attività svolta durante la Resistenza nella provincia di Firenze, nel 1950 la Commissione regionale toscana per il riconoscimento della qualifica di partigiano, istituita presso la Presidenza del consiglio dei ministri, dichiarerà Fasola “partigiano combattente” per il periodo che si estende dal 1° ottobre 1943 al 7 settembre 1944, ovvero da poco dopo l’inizio della Resistenza fino allo scioglimento delle formazioni partigiane ad opera degli Alleati. Inoltre sarà decorato della medaglia d’argento e riceverà la croce al merito di guerra.
Anche Giusta durante il periodo clandestino mette gravemente in pericolo la propria vita: nonostante sia stata segnalata e denunciata ai tedeschi, si occupa come il marito del collegamento di gruppi antifascisti, della trasmissione di informazioni e della distribuzione di stampa clandestina a Firenze e fuori città; inoltre è membro del Comitato consultivo del PdA di Firenze e del Comitato esecutivo di emergenza. Anche Giusta riceverà la qualifica di “partigiano combattente” e la croce al merito di guerra.
Venendo al contesto fiesolano, è proprio a casa dei coniugi Fasola che dal settembre 1943 si svolgono le prime riunioni del Comitato di liberazione locale, organismo pentapartitico nel quale i due intellettuali rappresentano il Partito d’azione. Il primo nucleo del CLN si riunisce infatti in via degli Angeli 4, in una casa della famiglia Micheli allora presa in affitto da Cesare e Giusta, dove ancor oggi possiamo vedere, scritte a matita su un lato del caminetto, le firme dei Fasola e di altri antifascisti: Giuseppe Roselli, Enrico Baroncini, Giovanni Ignesti, Aldo Gheri, Mino Labardi e Edoardo Salimbeni. Come gli analoghi CLN formatisi in Italia centro-settentrionale a partire dal settembre 1943, il Comitato fiesolano riveste un ruolo importante non solo nel periodo clandestino, durante il quale svolge principalmente propaganda antinazifascista e assiste le bande partigiane, ma anche dopo la liberazione di Fiesole, quando assume il governo del territorio e si adopera per la ripresa della vita politica, economica, associativa. Il Comitato si occupa del rifornimento di alloggi e di beni di prima necessità, coordina l’attività dei partiti, di cooperative di consumo, di associazioni, incoraggia iniziative di beneficenza e di assistenza, gestisce l’epurazione e tratta problemi inerenti la disoccupazione, il mercato nero, i trasporti.
I documenti dell’archivio del CLN fiesolano attestano l’attiva partecipazione di Fasola e di sua moglie, sempre presenti alle sedute del Comitato; Giusta fra l’altro ricopre la carica di segretaria, occupandosi della convocazione delle riunioni e della conservazione delle carte del CLN stesso. Come dimostrano i verbali delle sedute Cesare interviene su questioni diverse: la necessità dell’assistenza ai reduci di guerra, l’opportunità di schedare i fascisti che rientrano dal nord, la situazione dei CLN per i quali auspica un ruolo più incisivo nella vita politico-istituzionale del Paese.
É stato sottolineato come per molte persone l’attività all’interno dei Comitati di liberazione locali abbia costituito una sorta di palestra politica, la prima fase di un intenso impegno all’interno dei partiti e delle istituzioni comunali. A Fiesole il caso più evidente è quello del socialista Ignesti, presidente del CLN, che sarà sindaco tra il 1958 e il 1964, ma anche quello di Fasola è significativo, in quanto il suo ruolo di membro del Comitato sfocia senza soluzione di continuità in quello di assessore e di consigliere. Già dai primi di settembre 1944, del resto, la prima giunta post-Liberazione, insediata dal CLN e guidata dal socialista Casini, è composta per la maggior parte da membri del CLN stesso. Tra questi Cesare Fasola, nominato assessore in un primo momento con delega all’Assistenza sociale e l’igiene e poi con delega ai Lavori pubblici.
In una situazione drammaticamente caratterizzata dalla distruzione di alloggi, strade, ponti, acquedotti e impianti elettrici, dalla mancanza di mezzi di trasporto, dalla necessità di procedere ad un urgente intervento di sminamento, possiamo immaginare quanto impegnativo sia stato il suo incarico. In giunta Fasola riferisce e avanza proposte in merito alla condizione degli edifici scolastici che hanno subito danni di guerra, alla rimozione delle macerie che ingombrano le strade e a quella delle mine collocate dai tedeschi, alla riattivazione della corrente elettrica, ai danni alla produzione boschiva, e curiosamente alla necessità di provvedere alla fornitura di macchine da scrivere, dopo le razzie effettuate dai tedeschi. In quanto assessore interviene inoltre nella polemica tra il sindaco e monsignor Rodolfo Berti, proposto della Cattedrale, per la mancata partecipazione dell’amministrazione comunale alle cerimonie religiose in onore di S. Romolo, approvando la scelta di Lugi Casini di non aderire ad un’usanza “introdotta dai fascisti e di sapore medievale, come l’offerta del cero”, e biasimando l’affissione sulla porta della Cattedrale della lettera in cui il sindaco declinava l’invito a partecipare alle manifestazioni per la festa del patrono.
Alle elezioni amministrative del 24 marzo 1946 – le prime dopo la caduta del fascismo – Fasola è eletto consigliere comunale per il Blocco democratico della ricostruzione, formato da azionisti, socialisti e comunisti. Nel 1947, dopo la fine del Partito d’azione, come molti suoi ex-compagni aderisce al Partito socialista, e nelle file di questo partito sarà presente in tutte le successive amministrazioni, che lo vedranno di nuovo assessore, questa volta con delega all’istruzione e al turismo, in seguito alle elezioni del 1951, e consigliere in seguito alle elezioni del 1956 e a quelle del 1960.
Nel quindicennio circa che va dal 1946 al 1960, durante il quale prosegue l’opera di ricostruzione da parte delle giunte Casini e Ignesti, Fasola partecipa alla vita politica fiesolana muovendosi prevalentemente nell’ambito dell’istruzione, della cultura e del turismo. Già nel dicembre 1946 presenta un’interpellanza in Consiglio in merito alla riapertura al pubblico del Museo Bandini– “una istituzione che interessa il decoro della nostra Città e che rivolge l’invito al forestiero per essere visitata” – e alla antica Scuola di disegno – a proposito della quale chiede al sindaco “se non sia possibile riprendere una tradizione antica e utile alla cittadinanza”. Da assessore, lavora alla ricerca di contatti per lo svolgimento di spettacoli estivi al Teatro romano, riferisce in giunta in merito alla riattivazione degli scavi nella zona archeologica e ai rapporti con la Soprintendenza, su sollecitazione dell’Ente provinciale per il turismo fa parte di un comitato per la ricostituzione dell’Associazione turistica di Fiesole.
Una questione che lo interessa particolarmente, legata al turismo, è il decoro cittadino: ad esempio nel 1947 presenta un’interpellanza perché i muri fiesolani siano ripuliti da scritte e residui di manifesti, perché “E’ evidente l’interesse che abbiamo a che le nostre vie, che sono visitate da numerosi forestieri, presentino quel carattere di lindura e di proprietà, che mette in risalto la bellezza turistica, che è quasi sola ricchezza che noi possediamo”. In una lettera al sindaco datata 1948 chiede che la strada Vincigliata-Maiano, meta di gite domenicali, e l’area di San Francesco siano ripulite dalla spazzatura e dotate di apposti bidoni. In una lettera del 1954 avverte Luigi Casini del pericolo presentato da un muro in via degli Angeli ancora pericolante per le cannonate subite in guerra, con grave rischio per i passanti.
Un altro problema che sta a cuore a Fasola è il ripristino del servizio filoviario Firenze-Fiesole, la cui interruzione nell’immediato dopoguerra costringe gli operai a recarsi quotidianamente a piedi nel capoluogo, e ancora nel 1947, in mancanza di un collegamento diretto, ad effettuare lunghe soste tra i tratti in cui è suddiviso il percorso. Sempre in merito alla filovia presenta interpellanze in Consiglio e si pronuncia in difesa degli interessi dei lavoratori affinché i biglietti abbiano tariffe più eque.
I suoi interventi in Consiglio comunale tra il 1951 e il 1956 spaziano da questioni squisitamente locali ad altre di più ampio respiro. Si va dal cordoglio per la morte di due lavoratori in un incidente avvenuto a Villa Machiavelli, al problema della formazione dei turni scolastici alla scuola comunale, dovuto alle gravi carenze dell’edilizia scolastica, alla discussa scarcerazione di Francesco Moranino, partigiano medaglia d’oro arrestato per episodi avvenuti durante la guerra di liberazione, ai fatti del 1956 in Ungheria, in Egitto, nel Nord Africa e nel Medio Oriente, riguardo ai quali esprime la propria angoscia per “ciò che sarebbe potuto accadere, e che avrebbe ancora una volta interrotto la marcia del progresso e del proletariato”. Rispetto a questi eventi riesce a far convergere su un unico ordine del giorno i voti di democristiani e comunisti, notando come, nonostante esistano diversità di opinioni (anche tra comunisti e socialisti, come è noto), ci sia “un’unità di intenti, così come esisteva nel tempo della liberazione, quando tutto era chiaro, perché tutti si sapeva dove erano l’oppressione e la tirannia. Oggi è meno chiaro: c’è l’Ungheria, ma ci sono anche Suez, l’Algeria, il Kenia. Condanniamo allora, l’ingiustizia e la violenza, ovunque si trovino”. Nel maggio 1957, quando il Sindaco mette in approvazione un ordine del giorno in cui auspica che il nuovo governo insediato applichi la Costituzione e adotti una politica estera contro gli esperimenti atomici, Fasola interviene sollecitando un’ampia partecipazione su problemi di tale rilievo e di fronte ai quali non può esserci “alcuno spirito di rinunzia o sfiducia”.
Gli interventi di Fasola presentano più di una volta richiami ai valori della Resistenza e allo spirito ciellenistico. In una seduta del Consiglio comunale del dicembre 1957, relativamente ad un ordine del giorno comunista in difesa dei valori della Resistenza in occasione dell’omaggio reso dal Presidente della Repubblica federale tedesca Heuss ai martiri delle Fosse Ardeatine e in vista della traslazione a Firenze delle salme dei fucilati alle Cascine, Fasola ricorda che “è proprio in virtù della Resistenza e del sacrificio di chi vi partecipò” che “questo Consiglio comunale si riunisce, avendo la Resistenza segnato il ritorno alla libera manifestazione della volontà popolare e quello delle rappresentanze elettive del popolo”; anche questa volta, grazie alla sua mediazione, i voti dei democristiani e dei comunisti convergono su un unico ordine del giorno che viene votato all’unanimità. É importante per lui anche la conservazione della memoria resistenziale: iscritto all’ANPI, è tra i soci fondatori dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana, istituito nel 1953, presso il quale si conserva il piccolo fondo personale che è già stato menzionato, e dove nel 1964 – anno successivo alla sua scomparsa – sarà commemorato da Carlo Ludovico Ragghianti.
Vale la pena ricordare anche che nel 1952 Fasola è tra i fondatori dell’Alleanza per la ricreazione popolare, un movimento che riprende in parte le posizioni del vecchio comitato di difesa dell’ENAL (Ente nazionale assistenza lavoratori), e che agisce come organismo di collegamento tra vari circoli e case del popolo: insieme a personalità di varia provenienza culturale e politica – ma soprattutto di sinistra, come Gaetano Pieraccini, Orazio Barbieri e Mario Fabiani – è membro del Comitato direttivo.
Torinese trapiantato a Firenze e poi a Fiesole, Fasola risulta infine ben integrato nel contesto sociale e culturale cittadino. Ad esempio intrattiene rapporti con Charlotte Spinn, vedova di Heinrich Ludolf Verworner, uno dei tanti artisti che avevano scelto il “colle lunato” come luogo d’elezione. Nel 1953 pronuncia un discorso in occasione dello scoprimento della lapide in ricordo di Verworner a villa di Fontelucente; da una cartolina a Charlotte datata Natale 1955 (conservata nel fondo archivistico intitolato a suo marito presso l’Archivio comunale) si intuisce un legame basato non solo su comuni interessi artistici ma anche su stima e affetto.
Il suo ultimo incarico di consigliere comunale, assunto in seguito alle elezioni amministrative del 6 novembre 1960, ha durata brevissima: dopo due anni di malattia, l’8 novembre Giusta viene a mancare e Cesare decide di dimettersi. Il 3 dicembre successivo le sue dimissioni sono discusse e approvate dal Consiglio, che si rammarica per la perdita e lo ringrazia per l’impegno profuso sin dai tempi del CLN.
Dopo la scomparsa della moglie, con cui ha condiviso decenni di impegno politico e culturale – ricordiamo che Giusta era storica dell’arte ben conosciuta, studiosa del Medioevo e del Rinascimento, docente universitaria a Genova – Fasola si trasferisce a Bagno a Ripoli, dove morrà tre anni dopo; ma possiamo immaginare che un legame particolare abbia continuato a unirlo a Fiesole. Secondo il verbale della seduta di insediamento del nuovo Consiglio dopo le elezioni del 1951, Fasola stesso sottolinea che per quanto sia nato altrove, “a Fiesole è giunto nel momento più cruciale ed a Fiesole si sente legato dal più affettuoso attaccamento, poiché qui ha vissuto il periodo più bello della vita”.




Bisenzio

Fino a quando, a seguito della smobilitazione dei Lanifici negli anni Cinquanta, l’arrivo dei carbonizzi e delle tintorie non iniziò a inquinare le acque limpide del fiume, il Bisenzio non era solo un corso d’acqua sulle cui sponde erano nate le principali industrie del pratese.

Era il palcoscenico dei divertimenti estivi di tutti i ragazzi che trascorrevano ore nelle pozze d’acqua create dalle pescaie o nei canali delle gore; era una fonte di alimento e guadagno, attraverso la pesca e il duro lavoro dei renaioli; era il luogo dove le donne, chine sui sassi, lavavano panni e indumenti.

Proprio le testimonianze dei ragazzi d’allora, raccolte con cura dal Centro di Documentazione Storica della val di Bisenzio negli ultimi trent’anni, permettono di rievocare con vivacità i mille legami intessuti tra la gente del posto e un corso d’acqua: uno scambio continuo e infinito, dove ogni singola risorsa offerta dal fiume era sfruttata o piegata ai bisogni primari e secondari della comunità.

E sicuramente l’aspetto ludico era tra i bisogni secondari pienamente soddisfatti dal fiume: tutti i ragazzi, dal più piccolo al più grande, sapevano nuotare con sicurezza: prima nelle piccole pozze confortati dagli alti massi che fuoriuscivano dall’acqua, per poi affrontare le varie pescaie che accompagnavano il corso del Bisenzio, mentre nelle gore si facevano gare di nuoto per varie categorie d’età, a eliminazione, perché più che due per volta non si poteva gareggiare per lo stretto margine delle due sponde.

Nella vita sociale prima della Seconda guerra mondiale il Bisenzio era ancora l’ambiente deputato al benessere e alle attività fisiche dei bambini: in epoca fascista, infatti, le principali colonie elioterapiche erano dislocate lungo il fiume, e l’aria fresca del Bisenzio accompagnava i disciplinati bagni di sole e di fiume, i saggi ginnici e i giochi.

Tra fabbrica e fabbrica, tra pescaia e pescaia, il fiume era pulito, trasparente. La buona qualità delle acque permetteva anche la presenza di pesci delle più varie specie -broccioli, lasche, codinelle, barbi, boghe, anguille- da catturare con peculiari specializzazioni: con le mani e le forchette; in apnea frugando tra gli scogli; con l’amo e il tramaglio (una rete alta e lunga); “a rintrono”, facendo uscire storditi i pesci da un anfratto dove era stato scagliato un sasso sopra l’altro; a “frugnolo”, dove, nelle ore notturne, a lume di carburo con un retino piccolo si illuminavano i pesci che rimanevano fermi, o ancora “a corda”, con cordicelle che facevano girare i fusi delle filande presi in filatura. Molti di questi sistemi erano proibiti dalla legge e non passava settimana, nel periodo dalla fine di marzo a ottobre, che non ci fosse qualche inseguimento da parte della Guardia Forestale e dei Carabinieri. Pochissimi avevano la licenza di pesca e quasi tutti rischiavano: alcuni lo vendevano, arrotondando la paga della fabbrica, ma per la maggior parte dei pescatori di frodo il pesce era una delle basi dell’alimentazione. Il ristorante “Il Bongino” presso La Tignamica (Vaiano) si era specializzato nella frittura di pesciolini di Bisenzio e il lunedì -quando a Prato chiudevano i negozi e le attività- molti cittadini si riversavano sulle sponde del fiume a pescare per poi pranzare alla celebre locanda.

4-giovani-donne-a-lavare-panni-e-indumenti-nel-bisenzioAltra fonte di guadagno era costituita dalla rena, creatasi dall’arrotatura della pietra arenaria prodottasi nel fiume durante le piene, scavata e raccolta con fatica dai renaioli nei vari posti di prelievo autorizzati. Nella maggior parte dei casi i renaioli erano anziani che conoscevano bene il fiume e sapevano dove scavare il greto; per arnesi avevano un picco, un badile e una rete metallica inchiodata ad un telaio in legno rettangolare” strumentale alla divisione tra ghiaia e rena, venduta poi ai muratori come collante per la calce e il cemento.

Le rischiose inondazioni del Bisenzio, che più di una volta avevano travolto uomini e animali (come il direttore dello stabilimento Sbraci Godi Noris nel 1932) ed erano state indagate dai più illustri fisici e ingegneri (come Galileo Galilei nel 1631) erano ancora una volta sfruttate a fini economici: oltre alla rena, la piena era attesa per i pezzi di indumenti (rivenduti agli stracciaioli) e le tavole di legno (utilizzate per scaldarsi) che la furia delle acque portava a valle, ripescate con rudimentali ganci attaccati ad aste lunghe anche dieci metri.

Ad utilizzare il fiume principalmente per lavare erano ovviamente le donne, e per alcune “fare la lavandaia in Bisenzio” era un’occupazione professionale. Il lavoro era particolarmente duro: nella Val di Bisenzio quasi tutte le donne erano operaie nelle numerose fabbriche e, uscite dal turno, ad ogni stagione si dirigevano con i panni sporchi sugli argini del fiume, in ginocchio sui sassi. Ambiti ma rari erano i pozzi o le gore che talvolta si trovano lungo i fossi dei vari paesi.

Come un piccolo mare, il Bisenzio tra le due guerre era l’elemento principe nella vita delle varie comunità dislocate lungo il fiume: un ecosistema di relazioni e affetti, di svaghi e preoccupazioni, di lavoro e sostentamento.




“La Versilia tra antifascismo, guerra e Resistenza”

Percorrendo l’antica “via di Marina” (oggi Strada Provinciale 9) che dal Pontile di Forte dei Marmi conduce ai bacini marmiferi di Arni di Stazzema, all’ingresso del paese di Seravezza, in corrispondenza del bivio che porta alla piccola frazione di Riomagno sul torrente Serra, incontriamo il ponte del Pratale: proprio in questo luogo, il 29 luglio 1944, militari tedeschi delle SS, datisi alla rappresaglia dopo l’esplosione di un colpo d’arma da fuoco contro il comando nazista di villa Pilli/Henraux – appena superato il ponte sulla sinistra -, impiccarono con il filo spinato Uria Viti (44 anni) e Virgilio Furi (53 anni), sommariamente catturati sul fianco della montagna antistante la residenza e quindi torturati. Gli altri due uomini arrestati nel corso del rastrellamento, Demetrio Bardini (42 anni) e Filiberto Tardelli (38 anni), anch’essi estranei ai fatti, seviziati per ore allo scopo di ottenere informazioni sui partigiani presenti in zona, furono parimenti condotti al ponte del Pratale e costretti a scavarsi la fossa con le proprie mani ai piedi dei loro compagni: fucilati, vennero sepolti sotto uno strato di scaglie di marmo.

Il ponte del Pratale è soltanto uno dei molti siti storici inclusi nella nuova guida “La Versilia tra antifascismo, guerra e Resistenza”, primo volume di un progetto tripartito dell’Isrec di Lucca teso a valorizzare i luoghi della memoria presenti sul territorio provinciale. Testo originale, bilanciato fra approfondimento scientifico e fruibilità turistica, il libro, edito per i tipi di Pezzini Editore di Viareggio (Lu), raccoglie i contributi di Federico Bertozzi, Jonathan Pieri ed Andrea Ventura, giovani storici versiliesi coordinati dal prof. Gianluca Fulvetti dell’Università di Pisa.

La copertina della nuova guida storico-turistica "La Versilia tra antifascismo, guerra e Resistenza", pubblicata da Pezzini Editore di Viareggio (Lu).

La copertina della nuova guida “La Versilia tra antifascismo, guerra e Resistenza”, scritta da Federico Bertozzi, Jonathan Pieri ed Andrea Ventura e pubblicata da Pezzini Editore.

I tre autori, dopo essersi suddivisa la ricca bibliografia di riferimento presente sul tema, hanno effettuato una difficile opera di cernita fra i molti siti esistenti, inserendoli quindi, affianco ad un percorso introduttivo “speciale” dedicato al Parco della Pace di Sant’Anna di Stazzema, in quattro “Percorsi della memoria” principali: percorribili anche in auto, questi tracciati, senza pretese di completezza, hanno tuttavia lo scopo di ricostruire dei contesti spazio-temporali, conducendo il visitatore interessato alla scoperta di fatti puntuali, dinamiche e volti della guerra in Versilia. Aiutato da numerose immagini di oggi e di ieri, assistito da indispensabili mappe per localizzare i vari luoghi e seguire le indicazioni per le mete successive, il lettore interessato, residente o turista che sia, potrà così scegliere fra il Percorso 1 (Forte dei Marmi – Sant’Anna di Stazzema), il Percorso 2 (Strettoia di Pietrasanta – Arni di Stazzema), il Percorso 3 (Massaciuccoli – Valpromaro) ed il Percorso 4 (Città di Viareggio), toccando con mano le case, i ponti, le strade, le storie ed i boschi che composero l’esperienza collettiva della Seconda Guerra Mondiale in Versilia, attraverso le tragedie dell’occupazione nazista, le speranze della Resistenza armata, i drammi dello sfollamento, le angosce dei bombardamenti e dei combattimenti sulla Linea Gotica, le distruzioni del territorio, la gioia della Liberazione angloamericana e lo sforzo corale della ricostruzione postbellica.

Il monumento dei "Pioppetti", posto all'ingresso della Valfreddana nel comune di Camaiore (Lu), incluso nel Percorso Massaciuccoli-Valpromaro, ricorda le decine di vittime civili della strage nazista del 4 settembre 1944.

Il monumento dei “Pioppetti”, posto all’ingresso della Valfreddana nel comune di Camaiore (Lu), incluso nel Percorso Massaciuccoli-Valpromaro, ricorda le decine di vittime civili della strage nazista del 4 settembre 1944.

Realizzata grazie al fondamentale contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, la guida, frutto di un anno e mezzo di lavori, comprende poi, per ogni percorso principale, una serie di “Altri luoghi”, ovvero siti non inclusi nei tracciati primari ma da essi facilmente raggiungibili: pensati per il visitatore più attento, essi vanno a completare le ricostruzioni storiche delle varie micro-aree componenti il territorio versiliese. L’ultima parte dell’opera comprende infine tre “Sentieri della memoria”, semplici tracciati di montagna, studiati con l’assistenza dell’esperto Filippo Fambrini di Valdicastello di Pietrasanta (Lu), per conoscere avvenimenti e protagonisti della Resistenza e della repressione antipartigiana sulle Alpi Apuane. A chiudere la pubblicazione, che sarà seguita a breve dagli altri due “tasselli” del progetto editoriale, ovvero le guide sulla Mediavalle/Garfagnana e sulla Lucchesia, una sintetica bibliografia/sitografia utile al lettore per eventuali approfondimenti. Dopo la prima presentazione tenutasi presso il C.R.O. Darsene di Viareggio lo scorso 30 settembre, la guida versiliese (prezzo di copertina: 10 Euro) tornerà alla ribalta il prossimo venerdì 14 ottobre 2016, quando, alle ore 17:30, verrà nuovamente presentata nella prestigiosa sede di Sala Cosimo I del Palazzo Mediceo di Seravezza (Lu): dopo i saluti del Sindaco di Seravezza Riccardo Tarabella e del Presidente del Consiglio comunale Riccardo Biagi, interverranno il curatore Gianluca Fulvetti e due degli autori, Federico Bertozzi ed Andrea Ventura.




La seconda guerra mondiale a Lamporecchio

Nessun paese toscano rimase intatto dall’orda nazifascista scatenata in Italia dopo la pubblicazione dell’Armistizio, l’8 settembre 1943. L’esercito tedesco occupò gran parte della penisola e vi stabilì le basi per imporre la propria volontà; la piana pistoiese fu coinvolta nel conflitto per circa un anno, fino ai primi giorni del settembre 1944, quando i partigiani occuparono i paesi abbandonati dai tedeschi prima dell’arrivo delle forze angloamericane.
In quei giorni, nel caos generale, furono molti i soldati alleati che scapparono e trovarono rifugio presso famiglie italiane, aiutati dai cosiddetti “helpers” che dettero loro protezione assicurando vitto e vestiti, alloggio in casa o nei fienili. Nel pistoiese le zone interessate da questi eventi furono principalmente quelle pedemontane; tuttavia a Porciano quattro ex-prigionieri inglesi furono catturati il 22 ottobre 1944, dopo che avevano ricevuto aiuto a Cantagrillo.
Il ruolo di commissario prefettizio, responsabile della gestione dell’intero comune, fu ricoperto da Afrisio Vannacci fino al 2 novembre 1943, quando venne sostituito dal geometra Bindo Martelli, coadiuvato dal sub-commissario Cesare Benelli.
Uno dei fatti più gravi verificatosi nella cittadina fu l’arresto di quattro uomini di origine ebraica portato a termine da fascisti italiani: Enrico Menasci, Ildebrando Trevi, Aldo Moscati, Giorgio Moscati. I primi due vennero detenuti a Firenze, internati nel campo di Fossoli in Emilia Romagna e deportati nel campo di sterminio di Auschwitz dove morirono il giorno dell’arrivo, il 26 febbraio 1944.
I fratelli Aldo e Giorgio Moscati, sfollati in paese con la famiglia, furono condotti nel carcere di Pistoia. In seguito vennero trasferiti alle “Murate” di Firenze e internati a Fossoli. Il 22 febbraio 1944 furono deportati ad Auschwitz. Arrivati in Polonia, i due furono separati con la forza al momento delle selezioni: fu quella l’ultima volta che si videro. Giorgio perse la vita appena arrivato, probabilmente nelle camere a gas appena arrivato. Aldo invece lavorò per circa un anno nel comando trasporti e cavi, poi fu assunto come aiuto-infermiere nell’ospedale. Durante gli incontri serali, a lavoro finito, Fu là che nacque l’amicizia, mantenuta anche nel dopoguerra, con alcuni italiani deportati e con Primo Levi, durante gli incontri serali a lavoro finito. Aldo Moscati negli anni ’70 raccontò:

Un rancore contro chi a suo tempo mi aveva denunciato, non ce l’ho. All’inizio ho avuto anch’io sentimenti di vendetta, ma li ho subito respinti: la vendetta non ha senso. D’altronde con chi avrei potuto prendermela, col marescialletto che mi ha arrestato?

Con l’arrivo dell’estate 1944 la situazione si fece sempre più difficile a causa dell’avanzata alleata e della ritirata tedesca verso la linea gotica. In molti comuni della zona, intorno ai primi di luglio, le autorità e i dipendenti comunali fascisti lasciarono il posto di lavoro, cercando un luogo sicuro o scappando a nord insieme ai tedeschi per paura di ritorsioni in prospettiva della liberazione.
Un’esperienza unica avvenne a Lamporecchio dopo la partenza del commissario prefettizio repubblichino. Il 2 luglio 1944, in piena occupazione nazista, 42 persone in rappresentanza di tutte le categorie sociali si radunarono nella sede comunale con lo scopo “di dare al comune un’amministrazione che provveda alla continuità dei servizi”. Ogni categoria elesse i propri rappresentanti e il comune fu così gestito per due mesi, fino alla liberazione, da un Comitato di Assistenza Pubblica (foto 1) che non aveva funzioni politiche, ma operava per il reperimento dei generi alimentari e sanitari. Gli eletti furono: Corrado Ancillotti, Sergio Tarabusi e Giovanni Meozzi per gli esercenti industriali; Giulio Minghetti, Pierantonio Cosci e Guido Catolfi per i proprietari terrieri; Mario Pancani, Giuseppe Fanti e Guido Ferradini per i conduttori diretti; Eugenio Ciattini, Primo Trinci, Giulio Bettarini e Pietro Morosi per gli operai artigiani; Giuseppe Desideri, Guido Fagni e Quintilio Postorri per i coloni mezzadri.
I rappresentanti deliberarono l’elezione come presidente di Luigi Giampalma, una scelta lungimirante poiché si trattava di un uomo non compromesso col regime fascista. Nato a Campli (vicino TeramoTE), lavorava come impiegato e sottufficiale della pubblica sicurezza. Nel post-liberazione fu un esponente di rilievo della Democrazia Cristiana e rilasciò questa breve dichiarazione scritta:

Sono sempre stato antifascista e per tale ragione non ebbi fortuna nella carriera. Dovetti aderire nell’agosto 1932 ed iscrivermi nel Partito fascista per non essere mandato via dall’Amministrazione. Dopo il 15 giugno 1944, avvenuta la fuga dei dirigenti fascisti del Comune di Lamporecchio, presi la direzione della cosa pubblica del Comune, come capo del Comitato della salute pubblica e come Commissario prefettizio.

Durante la stagione estiva diversi lamporecchiani persero la vita a causa delle violenze tedesche, dello scoppio di mine, delle cannonate e delle bombe alleate. Ricordiamo il caso di Maria Assunta Pierattoni, assassinata dopo numerose peripezie nel novembre 1944 ad Arni (Stazzema) e del ventenne Foscarino Spinelli impiccato a Montecatini insieme a Bruno Baronti con l’accusa di essere partigiano.

riconoscimento-qualifica-partigiano-fredianiNell’ambito della lotta partigiana, la formazione di Lamporecchio fu la comunista “Squadra di Azione Patriottica” (S.A.P.), guidata da Giovanni Calugi. Aveva sede presso la Cisterna di Montefiori e, oltre agli scontri a fuoco, si occupò di raccolta armi, di servizio informazioni, di sabotaggi, di aiuto nei confronti di fuggiaschi e della popolazione.

Il paese fu liberato il 2 settembre 1944. Il giorno dopo, sciolto il precedente Comitato di Assistenza Pubblica, il CLN locale si riunì nell’ufficio comunale del paese e i componenti progettarono un piano di attività basato sulla collaborazione di tutti e destinato esclusivamente al bene della collettività; vennero anche salutate le truppe di liberazione dell’esercito alleato che, per mezzo di cinque rappresentanti, assistettero all’assemblea.

Il 6 settembre 1944 fu eletto sindaco Foscolo Maccioni e fu nominata la giunta comunale: Luigi Morelli, Reuccio Torrigiani, Paolo Ancillotti, Vannozzo Biondi, Raffaello Morelli e Francesco Fanti.

I problemi principali dopo la liberazione riguardavano l’approvvigionamento e l’alimentazione: furono effettuati accordi con i maggiori produttori agricoli e con gli altri comuni della zona. Furono utilizzati anche gli strumenti abbandonati dai tedeschi, come, ad esempio, due baracche in legno recuperate a Spicchio.
La giunta comunale dispose la revisione della toponomastica cittadina al fine di cancellare ogni riferimento al passato regime e con l’intenzione di ricordare le vittime della violenza nazifascista: viale Balbo divenne viale Antonio Gramsci, via Roma divenne via Giacomo Matteotti e via Rospigliosi divenne via Martiri del Padule. Nel dicembre 1944 furono fondate le Case del Popolo di Lamporecchio, Porciano-Fornello, San Baronto, Papone, Cerbaia.

Dopo anni di dittatura, finalmente gli italiani poterono esprimere la propria opinione attraverso libere elezioni.
Il 2 giugno 1946, per la votazione sull’assemblea costituente, con una partecipazione del 95,54%, il PCI ottenne la maggioranza assoluta e il comune fu inserito tra i più comunisti d’Italia, andamento confermato anche nei decenni successivi. Nel referendum vinse nettamente il fronte repubblicano con l’82,3%, la percentuale più alta di tutta la provincia.
In seguito, il 6 ottobre 1946, alle elezioni amministrative s’imposero i Socialcomunisti e il ventinovenne Gettulio Cenci, proprietario di una ferramenta, fu eletto sindaco, carica ricoperta per tre legislature.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti della storia contemporanea. Collabora sia con l’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPt), di cui è il Direttore dal giugno del 2016, sia con l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. Ha pubblicato alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt.




Casa Giubileo sul Montemaggio

Sulla traversa Monteriggioni-Casole d’Elsa, in direzione di quest’ultima, all’altezza di Abbadia Isola, si apre una strada bianca che si inerpica tra le pendici boscose del Montemaggio lambendo di quando in quando dei casolari. Soltanto di recente è stata apposta una segnaletica a ricodare che quel tracciato conduce ad uno dei luoghi simbolo della Seconda Guerra Mondiale sul territorio senese, ossia Casa Giubileo.

Presso questo casolare, il 28 marzo 1944, un contingente di oltre trecento militari fascisti repubblicani ingaggiò battaglia contro un gruppo di combattenti per la libertà, che avevano con loro dei prigionieri, un capitano della forestale e un tenente tedesco. Alcuni partigiani riuscirono a darsi alla fuga durante le concitate fasi dello scontro a fuoco, uno rimase ucciso quasi subito, un altro rimasto a terra, dopo che gli assediati si furono arresi, venne trascinato dietro un muretto e finito a colpi di pistola.

Rimasero nelle mani dei fascisti diciotto ragazzi, tutti di età intorno ai vent’anni, e qui avvenne l’eccidio più famigerato che i militi della Guardia Repubblicana di Mussolini abbiano perpetrato sul territorio senese. In un primo momento i superstiti vennero portati presso un altro podere, Campo ai Meli, distante circa un chilometro dal luogo dello scontro. Le intenzioni dei fascisti furono immediatamente chiare ad una vecchia contadina del posto, Maria Barbato, che con il proprio energico e coraggioso intervento (Son mamma anch’io! Andate a farli da un’altra parte queste lavori! Le parole pronunciate dalla donna) convinse i militi a ripartire per un’altra destinazione.

img_1260aIl luogo prescelto, questa volta, fu la Porcareccia, uno spiazzo posto esattamente a metà tra Abbadia Isola e Casa Giubileo. Qui i partigiani vennero fatti schierare contro un muretto ed iniziò il triste rituale dei preparativi per l’esecuzione. Uno dei prigionieri, Vittorio Meoni (oggi Presidente dell’Istituto Storico della resistenza Senese e dell’età Contemporanea) con la forza della disperazione, riuscì a slanciarsi in un sentiero nella boscaglia, venne gravemente ferito ma riuscì a trascinarsi per un chilometro fino ad una casa di contadini che gli salvarono la vita. Per i suoi diciassette compagni non ci fu scampo. Vennero massacrati e abbandonati sul posto dell’esecuzione. Soltanto molte ore più tardi i corpi vennero raccolti, riconosciuti dai familiari e inumati provvisoriamente nel piccolo camposanto di Abbadia Isola.

Nel dopoguerra i comuni di provenienza dei caduti traslarono le salme nei loro cimiteri, tuttavia la Porcareccia, dov’era avvenuto l’eccidio, divenne un luogo di ricordo e commemorazione, dove venne apposta un’epigrafe con i nomi dei caduti ed un monumento realizzato dallo scultore Nelson Salvestrini.

A tutt’oggi, Il 28 marzo, anniversario dell’eccidio, i rappresentanti delle Amministrazioni Comunali della Valdelsa e non solo, insieme a centinaia di semplici cittadini, salgono a piedi alla Porcareccia ed a Casa Giubileo per ricordare chi morì combattendo per la Libertà e la Democrazia. Da alcuni anni la stessa Casa Giubileo è stata trasformata in centro didattico e documentaristico gestito dall’A.N.P.I. Valdelsa, dall’U.I.S.P. E dall’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea.