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Il “trenino dei marmi” versiliese: ascesa, gloria e caduta di un “servizio utile”

Lavorò per più di 35 anni e, oltreché una mirabile opera d’ingegneria, rappresentò per l’intera Versilia storica un formidabile strumento di sviluppo nei decenni chiave d’inizio Novecento che ne decisero la vocazione economica: fu la “Tranvia della Versilia”, ricordata ancora oggi dagli anziani della zona come “marmifera”, o semplicemente “trenino dei marmi”.
Le prime iniziative volte a promuovere la costruzione di moderne infrastrutture per mettere in collegamento le cave dell’entroterra con il litorale, naturale sbocco commerciale per il prezioso marmo bianco delle Apuane, risalgono in realtà alla seconda metà dell’Ottocento: del resto, all’epoca, non molto lontano, il bacino estrattivo di Carrara si era dotato di una rete ferroviaria propria già nel 1876, via via accresciuta e di notevole utilità per la movimentazione dei blocchi verso il porto di Marina di Carrara e la linea ferrata Genova-Pisa.
Fu soltanto nel 1903, che un comitato locale versiliese decise di dar vita ad una società di diritto britannico denominata “The Carrara Versilia Electric Railway and Power Limited”, che, presentato alla Provincia di Lucca il progetto per una ferrovia a scartamento ridotto che soddisfacesse le richieste logistiche dell’area, otto anni dopo ottenne l’autorizzazione alla posa in opera della rete, denominata “Tranvie Elettriche Versiliesi” (TEV). A causa del trasferimento delle competenze in merito dagli enti locali al governo centrale, però, i lavori di costruzione dovettero attendere ancora un poco, e presero il via soltanto nell’agosto 1913.

1919: il caratteristico scavalco di Querceta, che permetteva al “trenino dei marmi” di superare la via Aurelia e la linea ferroviaria Genova-Pisa appena più a monte. Sulla sinistra, è visibile la chiesa di Santa Maria Lauretana. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 203]

1919: il caratteristico scavalco di Querceta, che permetteva al “trenino dei marmi” di superare la via Aurelia e la linea ferroviaria Genova-Pisa, situata appena più a monte. Sulla sinistra, è visibile la chiesa di Santa Maria Lauretana. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 203]

Le prime sezioni ad essere inaugurate, il 15 gennaio 1916, nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale, furono quelle comprese fra Querceta, Seravezza e Pietrasanta, per una lunghezza complessiva di quasi 11 km: pensato eminentemente per il trasporto merci, il tracciato offrì fin da subito anche un apprezzato servizio passeggeri. Di particolare rilevanza, oltre al deposito-officina per il materiale rotabile edificato presso la frazione di Ripa di Seravezza appena a monte del ponte Foggi, su cui passava la diramazione che conduceva a Pietrasanta, era la grande opera di scavalco della ferrovia tirrenica eretta a Querceta: lunga quasi 180 metri, realizzata in metallo e cemento armato, costituiva di fatto una fermata sospesa in pieno stile americano, con tanto di scale da cui era possibile scendere al paese. Sempre a Querceta, la TEV disponeva poi di uno speciale binario di collegamento con il grande piazzale della società marmifera Henraux, sfruttato per il caricamento dei blocchi sui pianali della ferrovia Genova-Pisa.

Manovre di composizione di un convoglio presso il capolinea della marmifera di piazza Garibaldi, a Forte dei Marmi. Cartolina del 1932. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 124]

Manovre di composizione di un convoglio presso il capolinea della marmifera di piazza Garibaldi, a Forte dei Marmi. Rara cartolina del 1932. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 124]

Pochi anni dopo, la rete raggiunse Forte dei Marmi, e, solo per le merci, la località di Trambiserra, presso Malbacco di Seravezza, centro di raccolta dei marmi della valle del Serra e del monte Altissimo: con l’allungamento dei binari fino alla costa, si completò così il primo collegamento ferrato fra i bacini estrattivi dell’entroterra ed il punto d’imbarco del materiale, lo storico ponte caricatore del Forte, posto a breve distanza dal capolinea TEV di piazza Garibaldi, proprio affianco al Fortino.

Di fronte alle crescenti richieste del mercato, poi, l’infrastruttura si espanse verso il cuore delle Apuane, risalendo l’angusta valle del torrente Vezza: l‘inaugurazione della tratta Seravezza-Pontestazzemese si tenne il 31 maggio 1922, e, oltre ad un pregevole risultato ingegneristico, per la natura geografica delle aree attraversate, costituì pure un notevole passo avanti sulla via della modernizzazione dell’arcaica montagna versiliese.
Perché la nuova rete potesse davvero dirsi capillare, tuttavia, mancava ancora un tassello: un collegamento con le frazioni più remote della montagna stazzemese e con i ricchi bacini marmiferi dell’area di Arni. Un’opera complessa e assai dispendiosa, in termini di uomini, mezzi e risorse finanziarie necessarie, che, dopo l’apertura di una prima tratta fra le località di Iacco e Pollaccia nel 1923, vide finalmente la luce nel 1926, quando la strada ferrata, che in questa sezione di quasi 16 km aveva tutte le caratteristiche di una vera e propria linea di montagna, con tanto di rifornitori d’acqua e binari di salvamento per eventuali convogli fuori controllo in discesa, raggiunse Tre Fiumi, vasta spianata compresa fra le vette del Freddone, del Sumbra, del Sella e dell’Altissimo. Per superare il colle del Cipollaio, fra l’altro, che separava la conca di Arni dal resto della Versilia, si rese necessaria la realizzazione dell’opera d’arte più impegnativa dell’intera ferrovia dei marmi: l’escavazione di un lungo tunnel nel ventre della montagna, che, lungo 1.135 metri, mise in comunicazione due versanti fino a quel momento completamente isolati, e, sfruttata ancora oggi dalla Strada Provinciale 13, che ripercorre esattamente l’antico tracciato della marmifera, prese il appunto nome di galleria del Cipollaio. Nel 1927, anche quest’ultima sezione della linea venne aperta ai passeggeri, mentre fu definitivamente abbandonata l’intenzione iniziale di prolungare il tracciato fino a Castelnuovo di Garfagnana.

Veduta d’insieme della rete TEV negli anni della sua massima espansione: nel complesso, l’infrastruttura si estendeva per 37 km.

Veduta d’insieme della rete TEV negli anni della sua massima espansione: nel complesso, l’infrastruttura si estendeva per ben 37 km.

A quel punto, l’avveniristica infrastruttura della TEV, nata come una visione e completata in 14 anni di lavori, raggiunse il suo aspetto finale: una rete efficiente, che quotidianamente movimentava uomini e materiali attraverso le gole ed i pendii di un territorio aspro e meraviglioso, slanciandosi attraverso borghi, strade, torrenti, valli, strettoie e crepacci, coprendo, dal mare alla montagna, un impressionante dislivello di 850 metri di altitudine, con punte di pendenza del 60‰ nei pressi del valico del Cipollaio.
Assai gradito da imprese e residenti, nel giro di pochi anni il nuovo trenino cambiò per sempre il volto della Versilia storica, conferendole l’aspetto di un territorio moderno e al passo coi tempi, connesso alle principali arterie di comunicazione del Paese. A farsi carico del grosso volume di merci e passeggeri, oltre a diverse decine di vagoni, erano sei piccole locomotive a vapore, che ogni giorno sbuffavano vistosamente i propri fumi sferragliando fra gli olivi della piana o su per le rocce delle Apuane (l’idea originaria, ricordata anche nel nome della rete, di elettrificare l’intera struttura, era stata infatti accantonata nel 1921): tre a due assi, di fabbricazione britannica, chiamate Z1, Z2 e Z3, meno potenti e pertanto riservate alle tratte più dolci, e tre a tre assi, tedesche, più capaci e quindi destinate al servizio lungo l’impegnativa “linea di Arni”. Oltre ad una sigla, quest’ultime ricevettero pure un soprannome, che riprendeva la denominazione di alcuni toponimi della montagna versiliese: Z4 Arni, Z5 Sumbra e Z6 Corchia.

Pietrasanta, 1924: coincidenza tra un convoglio a vapore della marmifera, riconoscibile sulla sinistra, ed una vettura elettrica del tram SELT per la marina, visibile sulla destra. Siamo in piazza Carducci, proprio di fronte a Porta a Pisa e alla Rocchetta Arrighina. [Enrico Botti, Saluti dalla Versilia, p. 48]

Nel corso degli anni Venti, la TEV visse il proprio momento di splendore: frequentata da un gran numero di turisti, che presso i capolinea di Forte dei Marmi e Pietrasanta potevano trovare anche le fermate del tram elettrico della SELT (Società Elettrica Litoranea Tramviaria) che portava lungo la costa fino a Viareggio, la nuova ferrovia entrò pian piano nell’immaginario collettivo ed iniziò a comparire su un gran numero di fotografie e cartoline (alcune delle quali sono visibili nel corpo del presente articolo, mentre altre sono consultabili in allegato fra i Documenti dalle fonti).

Ripa di Seravezza, anni ’10: veduta del ponte Foggi, sul quale passava la diramazione della ferrovia marmifera per Pietrasanta. Sullo sfondo, è visibile il grande deposito-officina della TEV, gravemente danneggiato dalla guerra nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 221]

Ripa di Seravezza, anni ’10: veduta del ponte Foggi, sul quale passava la diramazione della ferrovia marmifera per Pietrasanta. Sullo sfondo, è visibile il grande deposito-officina della TEV, gravemente danneggiato dalla guerra nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 221]

I contraccolpi della crisi del 1929, tuttavia, combinati alcuni anni dopo con gli effetti nefasti della politica estera aggressiva del fascismo sugli scambi commerciali internazionali, influirono negativamente sulle attività estrattive della Versilia, riducendo la domanda e generando un sensibile aumento della disoccupazione. Parallelamente, rimanendo elevati i costi di manutenzione, i margini di profitto della ferrovia iniziarono a diminuire.
Con gli anni Trenta, poi, il trenino dovette cominciare a fare i conti con una nuova, inattesa minaccia al proprio ruolo egemone nella movimentazione locale dei passeggeri: quella del trasporto su gomma, quella dei torpedoni della società Fratelli Lazzi, che, a fronte di un’elevata flessibilità di utilizzo e di costi d’esercizio davvero ridotti, offrivano spostamenti a prezzi concorrenziali, raggiungendo anche le più remote località della montagna apuana. Come risultato, il 20 gennaio 1936 il servizio viaggiatori della tranvia venne soppresso.
A sancire il definitivo tramonto della marmifera dal panorama versiliese, tuttavia, fu la Seconda Guerra Mondiale: le distruzioni operate dai nazisti in vista della ritirata sulla Linea Gotica, infatti, non risparmiarono neppure le strutture della TEV, infliggendo loro un colpo mortale. Nel 1944, assieme all’adiacente chiesa di Santa Maria Lauretana, il ponte di scavalco di Querceta fu minato e fatto saltare in aria, crollando sulla via Aurelia e sulla ferrovia tirrenica: contestualmente, per impedire un pratico passaggio agli Alleati, la linea d’Arni fu danneggiata in più punti e l’accesso lato mare della galleria del Cipollaio distrutto con l’esplosivo. Nel corso dei bombardamenti americani sulle posizioni tedesche, poi, andò quasi completamente in macerie anche il deposito-officina di Ripa.

Levigliani di Stazzema, 1930: una suggestiva visione del “trenino dei marmi” al lavoro sull’impervia “linea d’Arni”, completata nel 1926 ed aperta al traffico passeggeri l’anno successivo. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 249]

Levigliani di Stazzema, 1930: una suggestiva visione del “trenino dei marmi” al lavoro sull’impervia “linea d’Arni”, completata nel 1926 ed aperta al traffico passeggeri l’anno successivo. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 249]

Quando i fumi della guerra si diradarono, la Versilia giaceva in ginocchio, devastata da sette mesi di feroci battaglie combattute nel cuore delle sue contrade. Con grande sforzo, nonostante la povertà diffusa e la penuria di materiali, la ferrovia dei marmi poté essere riattivata il 2 luglio 1946, eccettuata la tratta Querceta-Forte dei Marmi, per l’impossibilità di ricostruire il costoso scavalco della Genova-Pisa. Del resto, in quel terribile 1944, era saltato in aria anche il ponte caricatore del Forte: l’epoca dei blocchi calati a valle dalle locomotive e caricati sui bastimenti dai buoi e dalla “Mancina” era ormai finita.

Querceta, 1929: il grande piazzale della società marmifera Henraux, con i colli di Strettoia ed il monte Folgorito sullo sfondo. In primo piano, il ponte di scavalco della ferrovia marmifera, che sarebbe stato fatto saltare in aria dai genieri nazisti nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 208]

Querceta, 1929: il grande piazzale della società marmifera Henraux, con i colli di Strettoia ed il monte Folgorito sullo sfondo. In primo piano, il ponte di scavalco della ferrovia marmifera, fatto poi saltare in aria dai genieri nazisti nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 208]

Di fronte a guadagni sempre più declinanti e ad una sempre più agguerrita concorrenza del trasporto su gomma, che permetteva di raggiungere direttamente i piazzali delle cave in quota, nella prima metà del 1950 il braccio Iacco-Pontestazzemese fu chiuso. Il 30 giugno dell’anno successivo, il trenino dei marmi fece il suo ultimo viaggio e l’intera rete della TEV chiuse i battenti: senza dare troppo nell’occhio, usciva così di scena un generoso protagonista della vita quotidiana versiliese del primo Novecento, che, oltre ad aver reso possibile il grande sviluppo economico del territorio, ne aveva contribuito a radicare il senso di appartenenza comunitaria, riducendo sensibilmente le distanze fra pianura e montagna.
Ancora oggi, la memoria degli anziani locali riserva un posto speciale al vecchio “trenino dei marmi”, uno spazio affettuoso, intriso di sincera nostalgia per un mondo ormai percepito come irrimediabilmente perduto. A tal proposito, in chiusura, valga su tutte la testimonianza di Concettina Bertonelli. Classe 1935, nativa di Arni, ricorda:

Me lo ricordo sempre il trenino, il trenino che dico io: era chiamato anche la tramvìa. Partiva dal Forte, da piazza Garibaldi, e pò andava sù sù sù, Seravezza… Portava i marmi, quelle robe lì, ma anche i passeggeri: era un servizio utile. A Querceta c’era un doppio ponte, perché c’era la ferrovia e poi questo trenino. Poi andava in su, sulla via d’Arni. Fino a Tre Fiumi, però, è! Da Tre Fiumi in poi, niente: a piédi! Sicché quel poco di roba che si portava su, c’era da caricassela sulle spalle e via. Dopo, allora, son venuti i pullman.




Hill 366: una storia da raccontare

Il 7 ottobre 2017, il Comune di Carrara e la Pro Loco di Fontia hanno promosso un’iniziativa per onorare la memoria di due uomini: Don Dario Fazzi e il Lieutenant-Colonel John James Phelan. L’evento, celebrato in occasione del 73° Anniversario dell’incendio di Fontia, rientra nel programma di iniziative inserite nel progetto “In cammino verso la Costituzione (1948-2018)” a cura del Gruppo di lavoro del Comune di Carrara per le celebrazioni e la promozione della memoria della Resistenza e dei principi della Costituzione.

La commemorazione a cui ha aderito Angel Matos, Direttore del Florence American Cemetery (American Battle Monuments Commission), ha visto la partecipazione del partigiano carrarese Giorgio Mori e ha avuto il riconoscimento del veterano di guerra britannico Harry Shindler (96 anni, militare sulla Linea Gotica), che ha scritto un discorso di cui è stata data lettura durante la manifestazione.

Durante la Seconda guerra mondiale, Fontia rappresentava un centro strategicamente importante per la Wehrmacht. Su ordine del Feldmaresciallo Albert Kesselring la zona rientrava nella Linea Gotica, il sistema difensivo realizzato dai tedeschi per fronteggiare l’avanzata degli Alleati. L’Organizzazione TODT costruì diverse postazioni tobruk, bunker e trincee, tuttora visibili.

03A Santa Lucia si trovava l’osservatorio tedesco da cui venivano diramati ordini per i cannoni a lunga gittata presenti sul promontorio di Punta Bianca. Proprio per questo Fontia e Santa Lucia furono teatro di aspre battaglie durante l’avanzata della Quinta Armata USA che battezzò quel luogo “Hill 366”. Tra i militari caduti per la liberazione dell’Italia nel territorio carrarese c’è stato il Lieutenant-Colonel John James Phelan, decorato della Silver Star, caduto nei combattimenti svoltisi per la conquista dell’osservatorio tedesco di Santa Lucia.

L’iniziativa ha avuto inizio con gli onori al cippo che ricorda l’incendio del paese e ha visto la partecipazione degli studenti delle scuole del territorio (Scuola Media “A. Dazzi” e ITC “D. Zaccagna”). La giornata del 7 ottobre è stata l’occasione per ricordare non solo l’incendio del borgo, ma per raccontare, attraverso una mostra, allestita nei locali della Pubblica Assistenza di Fontia, gli importanti avvenimenti e combattimenti svoltisi per la liberazione del paese durante la Seconda guerra mondiale.

E’ stata riaperta al pubblico la Cappella di Don Dario Fazzi, il coraggioso parroco di Fontia che difese la popolazione del paese durante i 20 terribili mesi dell’occupazione nazi-fascista, sulla cui lapide il Sindaco di Carrara Francesco De Pasquale ha deposto una corona.

Dopo la Messa in suffragio delle vittime della guerra, celebrata nel vicino Santuario di Santa Lucia, si sono svolti gli interventi delle autorità . Dopo il saluto del Sindaco, sono intervenuti: la senatrice Laura Bottici, il consigliere regionale Giacomo Bugliani e il segretario ANPI della sezione di Carrara Ferdinando Sanguinetti. Toccante la testimonianza della sig.ra Eda Corsini, che nel 1944 era una bambina, ha ricordato Don Dario Fazzi, che rischiò la vita pur di salvare i suoi paesani. Il Presidente della Pro Loco di Fontia Cristiano Corsini ha letto una lettera che Don Fazzi scrisse nel 1970 a Dusseldorf in occasione dell’incontro dei reduci della 148ª Divisione di fanteria tedesca. Don Fazzi dopo la guerra si impegnò² nella ricostruzione della Chiesa di Santa Lucia, distrutta dai bombardamenti, con il progetto di fare di quel colle dove si erano scontrati uomini di diverse nazionalità, un luogo dedicato alla pace. L’orazione ufficiale è stata affidata al Dott. Pierpaolo Ianni che ha ricordato l’importanza della Resistenza e ha tratteggiato il profilo di Don Fazzi e del Lieutenant-Colonel Phelan. Nel suo intervento ha inoltre descritto quanto emerge dal diario della 473rd United States Infantry, che costituisce una fonte essenziale per ricostruire quanto avvenne in quei drammatici giorni del 1945 tra Fontia e Santa Lucia. La giornata si è conclusa con il discorso di Angel Matos, Direttore del Florence American Cemetery, e lo scoprimento di una targa in marmo in memoria del Lieutenant-Colonel John James Phelan (1914-1945).




Il racconto di un doppio disinganno: l’ultima lezione di Giuliano Foggi

Di Giuliano Foggi (1922-2010), ormai grande vecchio già oltre gli ottant’anni, colpivano la perenne passione educativa e la lucidità intellettuale con cui continuava a dipanare il filo di una memoria lontana: gli anni della guerra, l’8 settembre, la fine del fascismo, la Liberazione, i difficili anni della ricostruzione… E, per la ricchezza dei riferimenti storici e letterari, le sue parole andavano ben oltre il racconto di una storia personale, per farsi vicenda più larga, utile e interessante a far comprendere, soprattutto a quei giovani a cui Giuliano tanto amava riferirsi, il tormentato cammino della conquista della libertà, delle regole condivise, dei diritti.

Un itinerario che Giuliano ha saputo percorrere da protagonista per oltre mezzo secolo, impegnato in innumerevoli battaglie, piccole e grandi, per la democrazia, per l’accesso di tutti all’istruzione, per la diffusione della cultura, per la difesa della bellezza in particolare della sua città, Lucca, dove era nato nel 1922 da una famiglia operaia. Laureatosi a Pisa con una tesi sugli storici della Repubblica lucchese, Foggi ha insegnato sino alla fine degli anni ottanta nelle scuole superiori di Lucca, Viareggio, Barga, Montecatini, Volterra, Pisa formando generazioni e generazioni di studenti che ne ricordano ancora oggi, a tanti anni di distanza, con commozione e gratitudine le straordinarie doti professionali ed umane. Socialista e poi dirigente del Psiup, tra i fondatori del Potere operaio pisano e poi del Centro Karl Marx, Giuliano ha accompagnato gli impegni educativi e politici con un’incessante attività sindacale nella Cgil-Scuola locale e nazionale: incarichi svolti sempre con intelligenza, dedizione, attenzione alle novità che emergevano nella scuola e nella società, e grande capacità di trovare in ogni lotta il punto di equilibrio più avanzato insieme praticabile.

Più appartati e coltivati con una discrezione quasi assoluta i suoi interessi letterari, storici e filosofici. Ne fa fede un diario in prosa e in versi che si estende per oltre un sessantennio, dal 1942 al 2004, dal titolo Fedeltà-Giorno dopo giorno, a cui attinge il suo I miei giorni 1942-1945, libro pubblicato nel 2005 dalla casa editrice lucchese Maria Pacini Fazzi e prefato dall’allora presidente dell’Amministrazione provinciale Andrea Tagliasacchi, che così ebbe a scrivere: “Giuliano Foggi fa parte di quella leva di intellettuali che, senza chiedere nulla in cambio, ha svolto un ruolo importante nella storia del nostro Paese, sempre presente, operosa e combattiva in processi importanti e talora decisivi della storia d’Italia: la ricostruzione negli anni duri del centrismo, i formidabili anni sessanta, quelli dell’’assalto al cielo’. Giuliano Foggi vi appartiene di diritto e non solo per motivi anagrafici: piuttosto, perché è stato costantemente tra i primi a cogliere i segni dei tempi nuovi e ad impegnarsi con lucidità per trasformarli in programmi e progetti politici e sindacali sempre all’insegna di una generosa radicalità, di un’aspirazione a cambiare dal profondo i metodi, i contenuti e le finalità della politica”.

5 settembre 1944, Porta San Pietro: una delle prime immagini della Liberazione alleata della città di Lucca.

5 settembre 1944, Porta San Pietro: una delle prime immagini della Liberazione alleata della città di Lucca, operata dai soldati afroamericani della 92ª Divisione “Buffalo”.

Testo per molti versi sorprendente, I miei giorni 1942-1945 (di cui il lettore può trovare alcuni passaggi fra i “Documenti dalle fonti”) è il ‘diario dell’anima’ di un giovane che aveva vent’anni nei momenti più bui della nostra storia nazionale a cui, però, il 25 luglio e l’8 settembre, la spaccatura dell’Italia e la lotta antifascista, i giorni tormentati dell’immediato dopoguerra non fanno dimenticare la propria problematica vicenda privata, i rapporti con i coetanei e la famiglia, il difficile equilibrio fra ragione e sentimento, una complessa e contraddittoria ricerca di senso.

Libro antieroico, I miei giorni, scandisce “la storia di un doppio disinganno: quello proprio di ogni generazione che sempre a proprie spese apprende il difficile mestiere di vivere; il disincanto, poi, di quella leva di giovani, che nati e vissuti all’interno del regime e dei suoi miti, si affacciava alla vita civile in tempi indelebilmente sfregiati dalla funerea isteria della dichiarazione di guerra dal balcone di palazzo Venezia. E i modi letterari scelti più di sessant’anni or sono dall’autore di queste pagine sono quelli propri della ‘meglio gioventù’ di allora, l’ermetismo e l’esistenzialismo: le due chiavi con cui quei giovani cercavano faticosamente di aprirsi all’esercizio della libertà, oscillando, come ha scritto qualcuno, tra ‘equivoco e fronda’, tra un’adesione, sia pure critica, al fascismo, e un sempre più sicuro, netto e ribadito rifiuto del regime e delle sue scelte” (dalla Prefazione).

Per conoscere più nel dettaglio l’esperienza di Giuliano Foggi durante la Seconda Guerra Mondiale, s’invita il lettore a consultare l’interessante articolo di Emmanuel Pesi “L’odore delle mele o il sogno della maturità. Giuliano Foggi tra fascismo, guerra e liberazione”, rintracciabile fra gli allegati della sezione “Materiali correlati”.




«Scrittura Resistente»

È cosa nota come nel senso comune la parola storia sia associata più all’attività del raccontare e dell’ascoltare vicende reali o fantastiche che non a quella dell’indagare e del ricostruire fatti del passato. Sulla questione ha scritto lo stesso Jacques Le Goff, facendo notare come il vocabolo si riferisca a ben tre concetti differenti: all’indagine sulle azioni degli uomini, all’oggetto stesso di quella ricerca e, infine, a un racconto che può essere vero o falso, ancorato a una base di realtà storica o puramente immaginario.

Pensare alla storia come arte o racconto è qualcosa che ci viene di fatto più spontaneo e immediato che riferirci a essa come a una scienza fondata sulla ricerca e ricostruzione analitica delle vicende del passato; proprio il ricorso a ciò che “viene naturale” può costituire uno strumento utile ed efficace per tentare di dare una risoluzione al problema del come tradurre in didattica la complessità della disciplina. In tal senso, la dimensione narrativa, nel suo duplice aspetto di scrittura e lettura, se collegata in modo corretto all’insegnamento del passato, può contribuire in modo efficace ad avvicinare gli studenti alla materia, dando loro la possibilità di accedere direttamente alle fonti. È proprio ciò che si è cercato di fare con «Scrittura Resistente».

L’idea del progetto, curato da Eugenia Corbino e Paolo Mencarelli e inserito ormai da qualche anno all’interno dell’offerta didattica dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze, è nata in seguito alla pubblicazione nel 2013 di un romanzo storico contemporaneo, «In territorio nemico». Il volume ripercorre, attraverso le storie di tre personaggi, momenti e luoghi della guerra di Liberazione in Italia. Accanto alla tematica resistenziale, narrata con lo sguardo dell’oggi, ciò che ha suscitato interesse è stato, in particolare, il metodo di scrittura con cui è stato costruito il testo. I coordinatori -Vanni Santoni e Gregorio Magini- l’hanno definito «Scrittura industriale collettiva» (Sic), dal momento che si tratta di un romanzo storico a 230 mani (115 autori tra scrittori ed esperti a vario titolo). Esso si fonda essenzialmente sulla creazione di un sistema di fonti (letterarie) che porta tutti gli scrittori a produrre schede relative ai personaggi, ai luoghi e alle scene di cui si compone il romanzo (o il racconto), tramite un continuo rimando a quelle definitive, assemblate e composte da chi coordina (il così detto “Direttore artistico”). È così che, lavorando insieme ai vari “pezzi” e condividendo le fonti, gli scrittori si allineano tra loro al fine di giungere a una necessaria visione condivisa.

La particolarità di questo approccio alla scrittura sta anche nella sua adattabilità ai più vari contesti, compreso un suo possibile uso didattico. Esso offre infatti la possibilità di interagire con un’intera classe o gruppi più piccoli di studenti chiamati a collaborare alla scrittura di testi narrativi basati su una solida documentazione archivistica e bibliografica, in cui “micro” e “macro” storia, vicende individuali e collettive possono intrecciarsi e dar luogo a un racconto in cui non manchino però interpretazione e creatività. Si tratta di uno schema a “maglie aperte”, un modello modificabile a seconda delle circostanze, che permette, anzi punta a favorire, la collaborazione tra docenti delle diverse discipline al fine di affiancare all’attività di scrittura anche altre forme di produzione: una rappresentazione teatrale, una mostra, la realizzazione di un prodotto multimediale o la preparazione di un reading da presentare al pubblico (genitori, professori, compagni).

Mentre i ragazzi affrontano attraverso il programma scolastico tradizionale gli eventi più generali della Seconda guerra mondiale, un progetto come «Scrittura Resistente» permette loro di confrontarsi in prima persona e in modo concreto con la storia della comunità di appartenenza, rispetto a cui sono chiamati a “fare esperienza”.

L’impressione è che ricostruire vicende che hanno per teatro strade, piazze, luoghi familiari permetta di suscitare nei più giovani un interesse e una partecipazione che avvenimenti geograficamente più lontani e “astratti” non sono in grado di originare. La tematica resistenziale, inoltre, con i suoi mille episodi “avventurosi” ben si presta a una attività di produzione letteraria: i ragazzi riscrivono con gli occhi della contemporaneità una storia distante dal loro vissuto quotidiano attraverso un approccio che dimostra di essere certamente più empatico rispetto alla classica lezione frontale e che li incoraggia a dare a quegli eventi colore, forma calore.

Il progetto prevede che il momento della scrittura sia sempre preceduto da una fase di studio e documentazione. Occorre infatti dare agli studenti una formazione di contesto che permetta loro di lavorare in modo corretto sui documenti -carte d’Archivio, fogli di giornale, materiali audiovisivi e fotografie dell’epoca- che, nella fase successiva, sono poi chiamati ad analizzare e utilizzare in modo critico.

«Scrittura Resistente» nasce, in fondo, con l’obiettivo di offrire ai ragazzi l’opportunità di “uscire” dalle classi e di andare oltre i manuali, dando loro gli strumenti per confrontarsi in prima persona e in modo diretto con le fonti storiche, di cui possono fare esperienza diretta. È questo lo spirito con cui sono nati i due racconti prodotti, realizzati applicando una versione semplificata del metodo di scrittura collettiva e con alla base le riflessioni fin qui esposte.

«Fuori tutte!» è stato scritto nel 2014 da alcuni studenti del Liceo Scientifico Rodolico di Firenze (con la collaborazione della Prof.ssa Antonella Sarti); il testo riscostruisce in modo romanzato la vicenda della liberazione di diciassette detenute politiche dal carcere femminile di Santa Verdiana, il 9 luglio 1944; un’azione ideata e portata avanti da un gruppo di gappisti travestiti da membri della GNR e da un tedesco disertore. Dietro ai nomi di fantasia dati ai personaggi reali, che nello scritto interagiscono con figure di fantasia, non è difficile individuare alcune delle personalità più note del partigianato fiorentino, due in particolare: Bruno Fanciullacci (Giulio) e Tosca Bucarelli (Chiara). Dal testo è stato tratto un reading presentato presso le Murate.

«Il ritorno della Primavera» è, invece, il titolo dello scritto prodotto da alcuni alunni del Liceo Artistico Leon Battista Alberti nel 2016. I ragazzi, insieme alla Professoressa Alessandra Vettori e al Professor Luca Romano, hanno studiato la questione del salvataggio delle opere d’arte a Firenze durante la Seconda guerra mondiale. Partendo da uno dei saggi contenuti nel volume della storica dell’arte Alessia Cecconi, «Resistere per l’arte», il testo prodotto ha ricostruito e romanzato l’esperienza di Cesare Fasola, Direttore della Biblioteca degli Uffizi, che nel 1944, su incarico del Soprintendente Giovanni Poggi, si impegnò con grande passione nella salvaguardia di una parte del patrimonio artistico pubblico e privato della città, adoperandosi, in particolare, nel proteggere la famosa Primavera del Botticelli. Il testo, assieme a un video-documentario realizzato dagli stessi ragazzi utilizzando suggestive fotografie d’epoca e documenti d’archivio, è stato presentato al pubblico presso la Biblioteca degli Uffizi.

I due racconti sono il risultato di un lavoro di squadra intenso e costruttivo. Una bella opportunità di riflessione e confronto che forse -questo è l’auspicio- ha permesso agli alunni che vi hanno preso parte di cambiare idea sul valore e la funzione della storia: non una disciplina inutile, polverosa, per “topi di biblioteca o d’archivio” -inutile negare il fatto che la maggior parte la pensa così-, ma uno strumento per conoscere noi stessi come umani abituati a vivere in società, con alle spalle un passato da cui abbiamo ricevuto e continuiamo a ricevere condizionamenti e con innanzi un futuro aperto su più prospettive.




11 agosto 1944: insurrezione!

Nell’estate del 1943, lo sbarco degli anglo-americani e la caduta del fascismo fecero sperare nella imminente fine della guerra. La Toscana visse invece un anno di durissima occupazione nazifascista, colpita dai bombardamenti aerei degli Alleati, vessata da ruberie e deportazioni, martoriata da rappresaglie e stragi di civili.
Nell’estate seguente divenne teatro di aspri combattimenti tra l’esercito tedesco in ritirata verso le difese della linea Gotica, approntata sulla cresta appenninica, e gli Alleati che, conquistata Cassino a maggio erano giunti ai primi di luglio fino a Siena e alla Valdichiana. Da lì, fermati alle porte di Arezzo, mossero attraverso il Chianti direttamente verso Firenze.

Per otto mesi la città aveva assistito alla lotta impari quanto cruenta tra i gruppi armati della Resistenza e le forze, anzitutto la feroce banda guidata da Mario Carità, che davano la caccia ai cittadini ebrei, ai resistenti, ai renitenti, a quanti non sottostavano all’occupante tedesco e al governo fascista repubblicano. Anche nelle campagne, le formazioni partigiane si erano consolidate, passando all’offensiva.
In giugno, il Comitato toscano di liberazione nazionale, guida politica della Resistenza, chiamò per la prima volta in Italia all’insurrezione armata, che cacciasse i tedeschi dalla città già prima dell’arrivo degli Alleati, per affiancarne apertamente l’azione militare e così affermare la propria capacità di autogoverno. Un progetto tanto chiaro quanto difficile da realizzare.

I timori diffusi per i rischi notevoli, le preoccupazioni delle forze più moderate, le lusinghe di chi propugnava un ritiro concordato sotto le insegne della “città aperta”, guadagnarono campo con il forzato rallentare degli Alleati. Mentre i fascisti più compromessi abbandonavano la città, ma lasciandovi molte decine di “franchi tiratori” pronti a colpire nascostamente gli avversari e gli stessi civili, l’incertezza cresceva: i tedeschi si sarebbero ritirati o avrebbero atteso il nemico dentro la città d’arte? Gli Alleati avrebbero accettato lo scontro? E i partigiani, dotati di coraggio più che di uomini e armi, quale ruolo avrebbero potuto giocare?

Foto 1 fronteInterrogativi travolti infine dagli eventi. A fine luglio, sgomberate le rive dell’Arno, i tedeschi si attestarono su quella settentrionale e distrussero i ponti e una vasta area attorno al Ponte Vecchio, l’unico risparmiato, nella notte tra il 3 e il 4 agosto, giorno in cui gran parte delle forze partigiane e le prime pattuglie Alleate entrarono nei quartieri d’Oltrarno, subito aggredite dai “franchi tiratori”.

L’insurrezione fu proclamata soltanto l’11 agosto, quando i tedeschi lasciarono il centro cittadino e i partigiani poterono finalmente guadare il fiume. Dovettero subito impegnarsi in intensi combattimenti contro gli avversari, attestati da est a ovest lungo il passante ferroviario e il corso del Mugnone. Affiancati alcuni giorni dopo da pattuglie Alleate, ne contennero le controffensive e, attorno al 18 del mese, li respinsero sulle alture collinari. Ma solo alla fine di un lunghissimo agosto riuscirono a liberare i quartieri più settentrionali della città.
Foto 2 fronteOltre duecento morti e molte centinaia di feriti furono il prezzo pagato dagli uomini e dalle donne della Resistenza nella battaglia di Firenze. Un prezzo oltremodo elevato, giacché i partigiani giunti in città furono meno di millecinquecento e le squadre cittadine ne contavano pochi di più e nemmeno per metà armati. Ancor di più furono le vittime civili, notevolissimi i danni agli edifici e i disagi conseguenti per gli sfollati.

Eppure, l’insurrezione fu anche e soprattutto una festa, per la libertà riconquistata con le proprie forze e il proprio sacrificio e per la dimostrata capacità – legittimata anche dagli Alleati – di fondare sull’assunzione di responsabilità democraticamente condivise il diritto e il potere di governare la città e gli istituti della sua vita civile, economica e sociale.




19 luglio 1944: gli alleati liberano Livorno, “città fantasma”

«L’opposizione e la resistenza [sono] costrette dentro un fazzoletto di terra a ridosso di una città morta ed impraticabile»; questa frase, scritta da Cesare Ciano, rende meglio di tante descrizioni le terribili condizioni in cui si trovava Livorno nel 1944. Parole simili si ritrovano nella descrizione fornita da un soldato americano, al suo ingresso in città: «a ghost town, lying in ruins, pulverised by Allied bombing» («una città fantasma, che cade a pezzi, polverizzata dai bombardamenti alleati»). Non è un caso se quando Luigi Comencini diresse il film Tutti a casa, nel 1960, molte scene furono girate a Livorno, che ancora in pieno boom economico era lo scenario adatto per fingere di essere ancora in guerra.

Il 1943 era stato un anno particolarmente funesto per la città: luogo di imbarco per il materiale bellico che doveva servire all’esercito italiano e a quello tedesco per sostenere le battaglie contro gli Alleati nell’Africa settentrionale, oltre che principale centro logistico per gli spostamenti delle truppe da e per la Corsica e la Sardegna, il porto di Livorno fu sottoposto a una serie di bombardamenti devastanti per l’intera città, in particolare quello del 28 maggio. Le vicende successive non fecero che aggravare la situazione: i combattimenti successivi all’8 settembre con il tentativo di resistenza all’occupazione tedesca da parte delle truppe italiane (e l’uccisione tra gli altri del maggiore Gamerra a Stagno), così come l’istituzione da parte dei comandi nazisti della “Zona nera” il 12 novembre, che imponeva per decreto lo sgombero completo del porto e del centro urbano, contribuirono ad annichilire la vita nella città portuale. La strategia militare degli Alleati mirava a far mantenere sulla costa toscana un grande quantitativo di truppe tedesche, facendo credere all’imminenza di uno sbarco navale che avvenne invece ad Anzio, nel gennaio 1944. I bombardamenti continui nell’area labronica si devono spiegare anche con questa funzione di ‘diversivi’, per quanto la cosa possa suonare paradossale.

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Piazza Grande, un cumulo di macerie (Raccolta Giancarlo Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

Quando poi si realizzò l’avanzata di terra, tra il giugno e il luglio 1944, i combattimenti furono durissimi. Mentre procedeva l’avanzata alleata, l’importanza della Resistenza divenne sempre più evidente: i partigiani furono decisivi nelle azioni di contrasto ai tedeschi e nel mostrare il territorio alle truppe alleate per accelerare il processo di liberazione. Dopo la battaglia di Rosignano del 12 luglio, l’obiettivo per gli angloamericani divenne Livorno, la cui liberazione fu preceduta da un accerchiamento della corona di paesi che vanno dal Castellaccio a Collesalvetti. Il contributo alla liberazione di Livorno venne proprio dai partigiani del 10º Distaccamento: dopo aver fatto alcuni sopralluoghi nei giorni precedenti, il 19 luglio 1944 entrarono a Livorno insieme alle truppe americane.

La storia della liberazione di Livorno non può prescindere da questi elementi, dalla vicenda di un tessuto urbano devastato dalle bombe e dalle truppe tedesche. Il valore della Resistenza sta anche in questo, nella capacità di rinascere dalle rovine provocate dal fascismo e dalla tragedia bellica, creando un nuovo tessuto connettivo a partire dai germi diffusi dell’antifascismo. Quest’aspetto si coglie molto bene in un brano scritto da Mario Lenzi, uno dei primi a entrare nella Livorno liberata: «Dall’alto delle Rocce Rosse, sul Castellaccio, mi fermai a guardare Livorno, distrutta dalle bombe americane e dalle mine tedesche, con il cannocchiale che gli americani mi avevano assegnato. Si vedevano distintamente le rovine del porto, decine di navi affondate che emergevano dall’acqua bassa, le macerie della piazza Grande, il Duomo sventrato. Percorsi lentamente tutto il panorama della città morta: via Ricasoli, via Roma, Piazza Magenta. Puntai il cannocchiale dove era Villa Medina, ma la mia scuola non c’era più. […] Forse quel mondo non era mai esistito. E se era esistito, poi era scomparso. Un baratro si era aperto, ingoiando per sempre la scuola, le strade, i miei compagni. Erano andati via tutti e con loro se n’era andato anche il ragazzo che io ero stato. Dalla città che c’era una volta, ora si alzavano pigramente nell’aria colonne di fumo».

*Stefano Gallo è assegnista di ricerca presso l’ISSM-CNR di Napoli. Il suo principale campo di ricerca è la storia delle migrazioni e del lavoro, ma si dedica anche alle vicende della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. Collabora con l’Istoreco di Livorno, per il quale sta conducendo una ricerca sulla storia della Resistenza, ed è socio fondatore della SISLav (Società Italiana di Storia del Lavoro), di cui copre attualmente il ruolo di segretario coordinatore.




La liberazione di Siena

Il mattino del 3 luglio 1944 i soldati del corpo di spedizione francese entrarono a Siena da Porta S. Marco, mentre gli ultimi reparti tedeschi uscivano, in direzione opposta, da porta Camollia. Paolo Cesarini, giornalista e letterato, se ne accorse affacciandosi alla finestra della sua abitazione su Piazza del Campo. Da lì, in un silenzio quasi irreale, vide una camionetta tedesca allontanarsi e, poco dopo, una jeep alleata arrivare. Paolo Goretti , un ragazzo che abitava a pochi passi da Piazza Salimbeni, percepì che qualcosa era cambiato sentendo passare per strada una fila di soldati le cui calzature non faceva quasi rumore, a differenza degli scarponi chiodati della Wehrmacht.

Quella di Siena fu dunque una liberazione dolce, senza scoppio di cannonate, crepitio di mitragliatrici, fucilate di cecchini. Ciò dipese da almeno tre fattori. I tedeschi decisero di non difendere la città, perché inadatta a costituire il perno di una delle linee di contrasto che predisposero laddove la topografia le consigliava, dall’Amiata al torrente Farma, dal fiume Merse ai Monti del Chianti. Il CLN, nel quale prevalse la componente favorevole ad un compromesso con le autorità fasciste – il podestà Luigi Socini Guelfi promosse, con il CLN, la costituzione di una guardia civica – contrastò l’ipotesi di un’insurrezione, peraltro inficiata da un forte rastrellamento germanico nella zona di Tegoia ai danni di un distaccamento della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini che aveva ricevuto l’ordine di avvicinarsi al capoluogo. Infine, la ventura volle che il comandante delle truppe francesi che si apprestavano all’assalto fosse un estimatore del gotico senese e desse ai suoi subalterni l’ordine impossibile di tirare cannonate soltanto al di là del XVIII secolo, confortato, in questa sua decisione, da un ufficiale del Raggruppamento patrioti Monte Amiata, il quale, attraversate le linee, lo informò che i tedeschi se ne stavano andando.

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Il 3 luglio 1944 a Siena (Archivio ISRSEC)

Ma questo epilogo della guerra a Siena – peraltro in linea con una lotta antifascista sfociata in azioni armate molto tardi, nella seconda metà di giugno, con la liberazione dei prigionieri politici del carcere di S. Spirito, l’uccisione di alcuni fascisti e uno sfortunato attacco alle retroguardie tedesche proprio nella giornata del 3 luglio – non deve trarre in inganno. Anche Siena aveva infatti conosciuto la sua parte di violenze: la deportazione di cittadini ebrei catturati dai fascisti locali, il processo e la fucilazioni di alcuni partigiani, la distruzione di infrastrutture civili e il saccheggio di negozi per mano dei soldati germanici. Neppure i bombardamenti aerei le erano stati risparmiati – il tentativo del capo della provincia Giorgio Alberto Chiurco e dell’arcivescovo Mario Toccabelli di farla dichiarare città aperta, in virtù dei suoi numerosi ospedali, non aveva avuto esito presso gli alleati perché tedeschi e fascisti non avevano proceduto alla sua completa smilitarizzazione – e soltanto l’ubicazione periferica della stazione ferroviaria, obiettivo principale delle incursioni aeree, bastevolmente distante dagli insediamenti più densamente abitati, aveva fatto sì che il numero di vittime civili fosse stato inferiore rispetto ad altre città toscane.

Se nel capoluogo l’attività partigiana combattente fu esile, robusta e intensa si manifestò invece nel territorio provinciale, evidenziando un marcato dualismo città-campagna su cui la storiografia ha riflettuto a lungo. Nel corso di nove mesi di lotta, a partire dall’8 settembre del 1943, i partigiani combattenti nel senese arrivarono ad oltre millecinquecento e ad oltre mille i patrioti della rete informativa e logistica. Di essi, più di trecento rimasero uccisi in centinaia di azioni, fra sabotaggi, agguati, occupazioni temporanee di centri abitati, combattimenti e rastrellamenti. Sul fronte opposto, i morti fra i fascisti superarono i duecento e anche le perdite tedesche furono consistenti.

Protagoniste di una guerriglia così diffusa furono numerose bande che, superando spontaneità e isolamento, vennero man mano inquadrate nella Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini, nella Brigata Garibaldi Guido Boscaglia, nel Raggruppamento patrioti Monte Amiata e nella SiMar, quattro grosse formazioni di differente orientamento politico – comuniste le prime due, monarchiche le altre due – che operarono a cavallo con le province di Grosseto, Pisa, Arezzo, Perugia.

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Soldati alleati sotto il monumento della Lupa a Siena (Archivio ISRSEC)

L’apporto militare della Resistenza senese, tutt’altro che trascurabile, accelerò il collasso dell’apparato militare e politico fascista – già nel mese di aprile il questore annotava che la GNR non aveva più il controllo di molte zone -, impegnò forze fasciste e tedesche che avrebbero potuto confluire al fronte, favorì in vario modo un’avanzata degli alleati per nulla agevole.

Truppe sudafricane dell’esercito inglese, truppe algerine e marocchine del corpo di spedizione francese e truppe americane si affacciarono ai confini meridionali della provincia di Siena alla metà di giugno. Schierate rispettivamente ad est, al centro e ad ovest, si mossero verso i centri abitati della Val di Chiana con direzione Chianti, verso quelli dell’Amiata, Val d’Orcia, Val d’Arbia con direzione Siena e verso quelli delle Colline Metallifere con direzione alta Val d’Elsa. Il contrasto tedesco, spesso così forte da originare sanguinosi combattimenti di più giorni – Radicofani, Chiusi, Brolio, per limitarsi a tre soli esempi -, fu causa di una nutrita serie di cannoneggiamenti in cui rimase pesantemente coinvolta la popolazione civile. I primi comuni liberati furono Piancastagnaio e Abbadia S. Salvatore, il 18 giugno, l’ultimo Radda in Chianti, il 20 luglio. Più di un mese fu dunque necessario agli alleati per coprire una distanza di poco superiore ai cento chilometri, a ulteriore dimostrazione dell’asprezza dei combattimenti.

La fine dei quali non segnò tuttavia il termine della lotta per oltre ottocento partigiani, i quali si arruolarono nei gruppi di combattimento del rinato esercito italiano – in maggioranza nel Cremona – per continuare la guerra al di là della linea Gotica.

 




Giornali di classe. Cronaca di una guerra dai banchi di scuola

I documenti custoditi negli archivi delle scuole sono una fonte per la ricerca storica e la ricostruzione di vicende collettive esposte da un osservatorio particolare. In particolare i Giornali di Classe delle scuole elementari riportano sia notizie quotidiane della vita della scuola e della classe che informazioni su avvenimenti importanti culturali e politici, descritti e commentati dagli insegnanti. La sezione cronaca e osservazioni dell’insegnante sulla vita della scuola è redatta dai singoli docenti spesso con cadenza settimanale, alle volte anche giornaliera. L’insegnante generalmente registra i fatti più importanti, l’adunanza e l’inaugurazione dell’anno scolastico, le disposizioni del dirigente scolastico che a sua volta ricalca le circolari del provveditore agli studi, le visite delle autorità scolastiche, le ricorrenze civili e religiose, le feste scolastiche, gli scrutini e la chiusura dell’anno scolastico. Nella relazione finale dell’insegnante si trovano osservazioni sulla scuola, sull’edificio scolastico e l’aula, l’arredamento e i sussidi didattici, sulla biblioteca di classe e la mutualità scolastica, sulla frequenza degli alunni nei vari mesi scolastici e lo stato dei tesseramenti alle Organizzazioni Giovanili.

La presente ricerca ha preso in esame i Giornali di Classe delle scuole elementari del Comune di San Casciano in Val di Pesa dall’anno scolastico 1929/1930 fino all’anno scolastico 1944/1945. L’analisi fornisce sia alcuni elementi di quotidianità scolastica degli anni della dittatura fascista, utili a comprendere il grado e la modalità di fascistizzazione delle istituzioni scolastiche che a ricostruire il periodo della guerra e i tragici eventi conseguenti al passaggio del fronte tra la Val di Pesa e la Val d’Elsa . Le cronache degli insegnanti a partire dal 1940 diventano difatti una cronaca delle vicende della guerra.

Nelle cronache sono riportate un numero impressionante di giornate commemorative dedicate al regime che si svolgevano nell’orario scolastico a discapito dell’attività didattica. Gran parte delle lezioni poi erano dedicate all’indottrinamento e all’istruzione fascista. Come annota una maestra di Cerbaia, in occasione dell’inaugurazione dell’anno scolastico 1928/29, gli insegnanti avevano la nobilissima missione di modellare l’animo del popolo italiano secondo lo stile, il costume, la dottrina e la religione fascista. [Giornale della Classe, III e IV, La Romola, Anno scolastico 1928/29]. La maestra aggiunge che la formazione dei piccoli Balilla, ordinata dal signor Podestà, mi ha tenuta onoratissima per l’opera di propaganda verso le famiglie dei miei alunni, le ore di lezione di oggi sono occupate nel preparare e completare la divisa che sarà indossata stasera dai nostri Balilla, invitati ad una riunione nel capoluogo. [Giornale della Classe, II e IV, Cerbaia, Anno scolastico 1928/29]. Nel novembre del 1927 anche le Piccole Italiane e Giovani Italiane passarono sotto l’Opera Nazionale Balilla, cosi la maestra di Cerbaia: mi sono recata a San Casciano dalla signora segretaria politica del Fascio femminile per intenderci circa la formazione delle Piccole e Giovani Italiane: per le quali alacremente lavoro data l’importanza patriottica di questa nobile istituzione. [Giornale della Classe, II e IV, Cerbaia, Anno scolastico 1928/29]. Le feste e le celebrazioni del Pane e del Fiore e simili, erano tutte occasione di raccolta di fondi e molte furono legate alla particolarità del momento bellico:

…Fino da ieri ho cominciato la vendita dei panini, Pro Oriente, oggi 2° Celebrazione del Pane, dopo aver spiegato agli alunni l’alto significato di questa nobile Festa[…]stamani insieme alla mia Collega ho proseguito la vendita dei panini e abbiamo incassato, in breve tempo la somma di 100 lire…. [Giornale della Classe, II e IV, Cerbaia, Anno scolastico 1928/29]

Il processo di indottrinamento e disciplinamento paramilitare nelle scuole, inteso a formare i futuri soldati, subì un’intensificazione con l’invasione dell’Etiopia nell’ottobre 1935. Le “inique sanzioni” che furono applicate all’Italia conseguentemente all’invasione divennero argomento di lezione anche nelle scuole elementari. La data del 18 novembre venne da allora annotata sulla cronaca come Anniversario delle Sanzioni. L’altra iniziativa di cui si fece carico la scuola fu la raccolta di metalli, carta e stoffe e il dono della fede nuziale (Oro alla Patria) quale contributo degli italiani alla guerra in Africa. Anche la scuola doveva applicare un sistema di rigida economia. Le circolari bandivano l’uso della doppia copia dei documenti e ordinavano la riduzione del consumo di energia elettrica. Il paese si preparava alla guerra anche attraverso la scuola con la consapevolezza che i piccoli italiani forti e coraggiosi, sono i valorosi soldati di domani. [Giornale della Classe, III e IV, La Romola, Anno scolastico 1935/36]. Una circolare del 30 maggio 1935 esortava l’acquisto della radio per le classi delle scuole del Comune. L’8 marzo del 1938 un comunicato del Provveditorato agli Studi di Firenze esprime, a nome del Ministero dell’Educazione Nazionale, «il compiacimento per il continuo incremento della radifonia scolastica» [Cir. 2238, 8 marzo 1938]. Così tra il 1938 e il 1939 anche nelle scuole del Comune di San Casciano si ebbe l’apparecchio radio per «educare fin dalla più tenera infanzia secondo i dettami della dottrina fascista, completare e illustrare le lezioni impartite dagli insegnanti…».

Dall’anno scolastico 1940-41 gli insegnanti avevano il compito di leggere quotidianamente i bollettini di guerra agli alunni ed esaltarne gli eventi favorevoli al Regime. Il maestro della Romola scrive che i suoi alunni non si stancherebbero mai, in particolare i ragazzi di quinta di sentire parlare della guerra. Dopo la lettura del bollettino quante domande!…noi la chiamiamo la “storia viva”, il parlare dei nostri soldati e della guerra. [Giornale della Classe, III e IV, La Romola, Anno scolastico 1940/41]. Il regime attraverso la scuola cercava di mantenere il consenso che stava progressivamente venendo meno con il procedere del conflitto. Gli stessi alunni, nell’inverno del 40-41, sono mobilitati per la guerra:

E’ un momento in cui si lavora intensamente. Anche materialmente si lavora, specialmente le femmine a confezionare maglieria per i soldati. Abbiamo raccolto 70 lire. Dividiamo gli indumenti i due pacchi e li spediamo a due soldati del popolo della Romola che si trovano attualmente in Albania. [Giornale della Classe, III e IV, La Romola, Anno scolastico 1940/41]

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Notizie statistiche della scuola elementare mista di Romola (S. Cascano V.P) – Anno scolastico 1938-39

L’anno scolastico 1940-41 termina in anticipo, il 24 maggio. All’inizio del 1942 la situazione in Italia era catastrofica. Iniziarono la penuria di risorse e le requisizioni da parte del regime. Nell’autunno 1942 tra i militari sancascianesi si contavano 70 prigionieri di guerra, 20 feriti, 7 dispersi, 31 morti. Nel biennio scolastico 1942-1943/ 43-44 nelle cronache degli insegnanti, la propaganda di guerra, i riti e le celebrazioni del regime lasciano spazio progressivamente alle preoccupazioni, ai timori suscitati dalla guerra, e al racconto tragico dei bombardamenti. L’orario di lezione venne ridotto, le chiusure delle scuole anticipate e l’ inizio posticipato. L’attività didattica diventava quasi impossibile, numerose sono le annotazioni degli insegnanti sui programmi non conclusi. Nelle classi si aggiungono i bambini sfollati dalle città bombardate:

Questa mattina, accompagnata dalla mamma, si presenta una bimba da Grosseto. E’ sinistrata nel bombardamento dell’aprile scorso: il padre e lo zio periti nel bombardamento, la casa crollata e, tutto, disperso. Ascolto, con emozione, il lugubre racconto di questa terribile tragedia e mi associo al dolore di queste creature… [Giornale della Classe, V, San Casciano; Anno scolastico 1943/44].

Le incursioni aeree impressionano e sconvolgono la quotidianità della val di Pesa già dalla fine del 1942. Con l’anno scolastico 1943-44 la guerra arriva tra i banchi della scuola, tra gennaio e giugno 1944 vi sono 6 incursioni aeree da parte di bombardieri medi e pesanti:

I continui allarmi disturbano l’andamento delle lezioni. Quando gli alunni odono la sirena diventano irrequieti, vogliono le mamme, ed i più piccini tremano e si mettono a piangere. Proprio oggi, un bombardamento molto vicino ha fatto tintinnare paurosamente tutti i vetri. Subito le mamme son corse a prendere i loro piccini. Tutti i giorni è cosi! [Giornale della Classe, II e IV, La Romola, Anno scolastico 1943/44]

Gli effetti dei bombardamenti sul territorio regionale si hanno anche nel Comune di San Casciano:

Oggi poi è stata una giornata nera. Gli apparecchi hanno cominciato a passare alle 10.30 e quando ho visto che si dirigevano verso Firenze ho sentito il cuore farsi piccino per il pensiero di tutti ma soprattutto dei miei. Il bombardamento è stato visibile perché contemporaneamente a quello su Firenze c’è stato quello su Poggibonsi e la terra tremava talmente forte che sembrava dovesse aprissi da un momento all’altro. [Giornale della Classe, I, II e III, Bargino, Anno scolastico 1943/44].

Annota anche la maestra di Mercatale:

I vetri e il pavimento della classe tremavano al boato delle bombe, nella piazza era un gridio, un fuggi fuggi. Tutti correvano senza sapere dove rifugiarsi…[Giornale della Classe III e IV, Mercatale, Anno scolastico 1943/44].

L’episodio del duello aereo nel gennaio 1944 e l’abbattimento di un aereo inglese presso San Pancrazio viene descritto nelle cronache degli insegnanti come il primo episodio di guerra osservato dalla popolazione di questa contrada:

Nelle prime ore di pomeriggio di ieri avvenne un duello aereo nei nostri cieli. Ebbero la peggio alcuni apparecchi tedeschi che precipitarono poco lontano da noi. Uno di esse colpito da una raffica di mitragliatrice lasciò cadere, giù nei nostri campi, il serbatoio della benzina e altri oggetti pesanti, che li per li, nel primo momento, parevano proprio delle bombe.[Giornale della Classe I e II, Mercatale, Anno scolastico 1943/44].

Per misure precauzionali da gennaio l’orario delle lezioni venne ridotto dalle 8,30 alle 11. La situazione è sempre più allarmante. Il 29 aprile fu l’ultimo giorno di lezione. Il 27 luglio gli alleati liberarono San Casciano e l’11 agosto il Cln toscano dette l’ordine di insurrezione generale e assunse il governo del capoluogo fiorentino. Fu l’inizio di una lunga battaglia che ebbe termine il 1 settembre con la liberazione di Firenze. Il 2 agosto venne nominata la Giunta provvisoria a San Casciano. Secondo un indagine del novembre 1944, nel Comune chiantigiano erano 202 le famiglie che avevano la casa distrutta, per un totale di 684 persone. Gli sfollati provenienti dagli altri comuni erano 279 famiglie, per un totale di 1412 persone.

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Le rovine di San Casciano dopo il passaggio del fronte (Archivio Associazione “La Porticciola”)

Le scuole, a causa delle distruzioni provocate dal passaggio del Fronte, riapriranno solo tra dicembre e febbraio:

Le scuole al Capoluogo si sono riaperte. Non più gli ampi locali dai grandi finestroni, ma le aule strette e anguste che erano prima quelle addette al giardino di infanzia. Purtroppo il piccolo mondo adolescente viene accolto in queste aule con poca luce meno aria. Ma siamo in tempo di guerra e dobbiamo adattarci. I bambini sono felici di aver ripreso le loro lezioni, le insegnanti pure. Io mi trovo assai bene con una classe seconda che mi è stata affidata dal Signor Direttore. È una classe seconda, composta dagli alunni delle due prime, sono in tutto 33 alunni. Li guardo e purtroppo hanno ancora negli occhi il terrore della guerra che passando dal paese e dalle ridenti campagne ha distrutto le loro case, sentono ancora il rombo del cannone e lo scoppio della mina e mi guardano come istupiditi. No, cari piccoli passeremo insieme, quest’anno e nel lavoro e nell’amore reciproco dimenticheremo gli spaventi passati. [Giornale della Classe I e II, Bargino, Anno scolastico 1944/45].

Nella relazione finale di una maestra della scuola di San Casciano si raccontano le conseguenze del bombardamento del 26 luglio e l’anno difficile appena trascorso:

Causa il tremendo bombardamento avvenuto su questo povero Capoluogo, le scuole ebbero un sinistro tremendo. Scoperchiate, diroccate, non erano più in grado di contenere un alunno. Furono accomodati alla meglio i locali che servivano per i bambini del Giardino infantile ed in esse, alternativamente, gli insegnanti hanno svolto la loro attività. Benché i locali fossero ristretti, bui e privi di luce (mancavano i vetri e furono sostituiti con carta cerata) pure gli alunni hanno frequentato regolarmente la scuola.[Giornale della Classe II, San Casciano, Anno scolastico 1944/45].

Euforia all’indomani della resa della Germania viene espressa dagli insegnati insieme alla consapevolezza degli anni ancora difficili che il paese si troverà ad affrontare :

Grazie, grazie, grazie! Grande entusiasmo, il conflitto mondiale che da quasi sei anni imprigiona i popoli dell’Europa ha avuto termine. La Germania vinta ha deposto le armi e chiede l’armistizio incondizionato agli Alleati e alla Russia. Finisce un momento storico! Ne incomincia un altro. Finita la distruzione, incomincia un periodo di ricostruzione… [Giornale della Classe I e II, San Casciano, Anno scolastico 1944/45].

* Sara Gremoli è laureata in Storia contemporanea presso l’università di Firenze e presidente dell’associazione culturale Sgabuzzini Storici, con sede a San Casciano in val di Pesa. L’associazione si occupa di promozione culturale e organizzazione di eventi. In particolare promuove la valorizzazione del patrimonio documentale e la diffusione della memoria storico-culturale del Chianti attraverso l’organizzazione di conferenze, mostre, letture e spettacoli teatrali in collaborazione con le associazioni del territorio.