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Livorno 1920: maggio di sangue

I primi giorni del maggio 1920, cento anni fa, Livorno fu teatro di un episodio a carattere insurrezionale che, seppur di breve durata e di relativa intensità, fu comunque sintomatico di una situazione di elevata tensione politica e sociale, tanto che, come annotò il console inglese, “la città era stata per due giorni quasi completamente in mano ai rivoltosi”. La prima, circostanziata e puntuale, ricostruzione di quei fatti la dobbiamo, ancora una volta, al fondamentale saggio di Tobias Abse.

    A differenza di Torino, Pola e Vicenza dove le forze dell’ordine avevano ucciso sette lavoratori, la giornata del Primo Maggio in città era appena trascorsa senza incidenti, tanto che «Il Telegrafo» aveva parlato di “Esempio luminoso di calma e moderazione”, esaltando “l’istintivo buon senso” e “l’innata avversione per tutto ciò che è ingiustificato disordine e inutile violenza” degli operai livornesi.

   Partito da Piazza Vittorio Emanuele  – l’attuale Piazza Grande – il corteo sindacale di 1.500 persone (secondo la stima non benevola de «Il Telegrafo»), con una quindicina di vessilli, aveva percorso le vie del centro e si era concluso con un comizio al teatro Politeama, “con grande sfoggio di bandiere rosse e nere e di garofani fiammanti”. Oltre ai rappresentanti delle diverse categorie, erano quindi intervenuti il socialista mas­simalista Nicola Bombacci, appena “reduce dalla Russia”, e il segretario della Camera del Lavoro, Zave­rio Dalberto.

   All’Ardenza invece era stato tenuto il comizio indetto dagli anarchici con la partecipazione del sindacalista valdarnese Attilio Sassi dell’Unione Sindacale Italiana. Inoltre, nel pomeriggio, un’altra adunata sindacale, con i mede­simi oratori della mattinata, si era pacificamente svolta a Colline.

   Dietro a tale apparente calma però, la tensione sociale in quel perio­do era già molto alta in città a seguito delle agitazioni dei disoccupati e degli scioperi dei lavoratori portuali contro il potere padronale e la poli­tica governativa; bastò infatti la notizia degli imprevisti fatti di Viareggio a far sfociare tale tensione in aperta rivolta.

   A Viareggio una banale rissa sportiva, seguita alla partita di calcio tra la Lucchese e la squadra di casa, era degenerata in gravi disordini e quindi aveva assun­to i caratteri di uno sciopero generale e di una sollevazione popolare che è possibile ricostruire attraverso le cronache pubblicate sui quotidiani: «Il Telegrafo» del 4 maggio; «La Gazzetta Livornese» del 7-8 maggio; «Umanità Nova» del 6, 7, 8 maggio 1920.

  Tutto era iniziato il 2 maggio quando, durante una zuffa scoppiata dopo il derby calcistico, i carabinieri avevano sparato e ucciso Augusto Morganti, un guardalinee con un passato di ex-tenente degli arditi di guerra che si era messo a capo della tifoseria viareggina.

    Di fronte a tale uccisione, la rabbia dei proletari viareggini tra i quali era forte la presenza anarchica dette vita ad un vero e proprio moto insurrezionale, tale da costringere i riottosi riformisti della Camera del lavoro e del Parti­to socialista a dichiarare lo sciopero generale cittadino, mentre venivano disarmati i carabinieri ed assaltate le caserme dell’Arma. In particolare, secondo quanto riferito dal corrispondente de «Il Telegrafo»: “Le donne, non tutte, si capisce, sono le più agitate, le più infuriate. Ne vedo a frotte, scarmigliate e discinte presso la Camera del lavoro, ove sono esposti due vessilli, uno nero e l’altro rosso”.

   Una volta che l’eco dei moti viareggini giunse a Livorno, immedia­tamente accese e fece dilagare il risentimento popolare, tanto da indurre la Camera del lavoro a indire uno sciopero di protesta per il 4 maggio, aderendo all’invito del Sindacato ferrovieri e vedendo la convergenza del segretario, massimalista, Dalberto, con le consistenti componenti anar­chica e repubblicana della Camera del lavoro.

    La città, intanto, era già attraversata da pattuglie armate delle forze dell’ordine, dopo che la Questura aveva ordinato il divieto di circolazione per ogni mezzo – biciclette comprese – nonché la vendita della benzina.

    Lo sciopero risultò esteso e compatto e, nel pomeriggio, una folla di lavoratori e sovversivi si radunò sotto la Camera del lavoro in via Vitto­rio Emanuele (oggi via Grande), nei pressi di piazza Colonnella, in attesa di notizie dalla Versilia e delle conseguenti decisioni del Consiglio delle Leghe ivi riunito. Nonostante la comunicazione che a Viareggio era stata decisa la cessazione del movimento, peraltro rimasto circoscritto, i di­mostranti continuarono a rimanere in strada, mentre dalle finestre della Camera confederale, gli esponenti socialisti invitavano a tornare a casa, contraddetti dagli anarchici – presenti in circa trecento – che sollecitavano i presenti a non fidarsi del governo e a continuare l’agitazione contro le continue violenze poliziesche.

La situazione era ancora relativamente calma, con capannelli di gente impegnata a discutere sul da farsi; fin quando carabinieri e militari pre­senti in forze circondarono la zona effettuando diversi fermi e bloccando le vie adiacenti, anche se la motivazione poi addotta dalla Questura, e riportata su «Il Telegrafo», fu che venne deciso di inviare un plotone di soldati (presumibilmente bersaglieri), al comando del commissario Ruggiero, per difendere la Camera del lavoro “dai facinorosi” e “dalla teppa”.

A quel punto i presenti reagirono inveendo contro la presenza della “sbirraglia”, mentre sconosciuti assaltavano l’antistante armeria Soldaini e l’armeria Bertelli in via della Tazza (l’odierna via Piave), pur facendo uno scarso bottino consistente in rivoltelle per lo più inservibili, qualche fucile da caccia e alcuni coltelli.

Recatisi nella vicina Regia Questura in piazza Vittorio Emanuele, i sindaca­listi socialisti Dalberto e Capocchi riuscirono, faticosamente, a ottenere il rilascio degli arrestati, ma la tensione rimase alta, alimentata dall’atteggiamento aggressivo della forza pubblica.

Un drappello di carabinieri – una cinquantina – continuarono nella provoca­zione e in via Vittorio Emanuele alle sassate dei manifestanti risposero sparando – ginocchio a terra – coi moschetti e le rivoltelle sui manifestanti. Presi tra due fuochi, le vittime furono numerose: il socialista Flaminio Mazzantini, operaio ebanista di 48 anni e padre di otto figli, fu mortal­mente colpito da due proiettili e Vittorio Volpini venne ferito in modo grave tanto da rimanere a lungo in pericolo di vita, ma si contarono al­meno altri 14 lavoratori feriti dal piombo regio.

Telegrafo7maggio20Seguì una prima, immediata, reazione che vide alcuni dimostranti sparare alcune rivoltellate e lanciare un piccolo ordigno verso la Questura dove, dietro ai cancelli, “si trovavano reparti in pieno assetto di guerra”, ferendo alcuni carabinieri. Quasi con­temporaneamente al porto, nei pressi del “Ponte dei sospiri” sbarrato con cavalli di frisia e reticolati, venne tirata una bomba a ma­no “Sipe” all’indirizzo del presidio composto da carabinieri e soldati che difendevano la caserma “Malenchini” e quella della Guardia di Finanza, ferendo un carabiniere.

Ancora, attorno le ore 21, nonostante la pioggia, un folto gruppo di sovver­sivi provenienti da via dei Cavalieri (probabilmente attraverso via del Traforo) lanciò altri tre ordigni esplosivi contro la Questura.

A seguito dell’eccidio (così sarà definito anche su «Il Telegrafo»), la giunta esecutiva della Camera del lavoro decideva, a tarda notte, la ripresa dello sciopero per l’indomani, mentre le forze di polizia eseguivano molti arresti, soprattutto tra gli anarchici ritenuti, senza alcuna prova, responsabili dell’assalto alla Questura. Così come a Viareggio, nel porto mediceo entrava un cacciatorpediniere della marina militare, mentre venivano fatti affluire, via mare, circa un migliaio di carabinieri e guardie regie.

I funerali di Mazzantini si trasformarono in un’enorme manifesta­zione proletaria di almeno diecimila persone, con la partecipazione di tutte le organizzazioni di classe, oltre a socialisti, repubblicani e anarchi­ci. Molti negozi avevano esposto la scritta “Chiuso per lutto proletario”. Il feretro era fiancheggiato da aderenti alla Lega proletaria dei reduci di guerra, con fascia rossa al braccio, e seguito anche dai “Ciclisti rossi” di cui Mazzantini era caposquadra.

Nel nutrito spezzone libertario, «La Gazzetta Livornese» riferì della presenza del gruppo di Ardenza, della se­zione femminile anarchica, del Fascio operaio di via dei Cavalieri e dell’asso­ciazione anticlericale “I nemici di Dio”. Alcuni incidenti si registrarono durante il corteo, soprattutto al passaggio davanti alla Questura, tanto che al termine della giornata si contò un’altra quindicina di feriti, tra i quali otto donne.

Alla luce degli eventi e dei diffusi sentimenti di riscossa, sul piano politico e sindacale, l’esito della sollevazione, come sottolineato dallo storico Luigi Tomassini, determinò “una grave frat­tura fra movimento anarchico e Partito socialista […] dato lo stretto coinvolgimento degli organismi camerali nello svolgimento degli avve­nimenti”, tanto che nei mesi seguenti si andò rafforzando il progetto di dare vita a una Camera del lavoro d’impronta sindacalista rivoluzionaria. Questa infatti sarebbe nata nell’autunno seguente, dopo l’Occupazione delle fabbriche, con sede in viale Caprera, coinvolgendo oltre al “vecchio” Fascio operaio la cui fondazione risaliva alla prima Internazionale e i lavoratori già aderenti all’Unione Sindacale Italiana, anche settori intransigenti repubblicani e socialisti, più inclini all’azione diretta che alla mediazione.

Post scriptum
Un aspetto significativo di quelle settimane è il coinvolgimento diretto dei ferrovieri organizzati nel SFI nell’opposizione concreta alla repressione statale. Il 17 aprile 1920, i ferrovieri a Livorno si erano rifiutati di far partire un treno carico di Guardie Regie che dovevano raggiungere Torino per contrastare lo sciopero generale. Nei giorni della rivolta a Livorno, furono invece i ferrovieri di Genova a bloccare un treno di Guardie Regie dirette a Livorno, tanto che si rese necessario far affluire via mare le forze dell’ordine (circa un migliaio tra Guardie Regie e Carabinieri) nel porto labronico, e un altro contingente di circa cinquanta Guardie Regie giunse in città ai primi di giugno su camion militari da Firenze, onde evitare ulteriori problemi ferroviari.




“Pillole di Resistenza”. Un progetto video di divulgazione storica per il 75° anniversario della Liberazione

Fare «storia», tra conoscenza e cittadinanza.

Anni fa, lo storico ed ex partigiano Claudio Pavone, invitato a parlare di Resistenza in un noto liceo milanese, raccolse tra le altre la sollecitazione di un ragazzo che così si espresse: «Lei ha perfettamente ragione, sono pienamente convinto che la Resistenza sia stata una cosa grande, nobile; però lei ci ha messo un’emozione che io non capisco. Per noi è come parlare delle cinque giornate di Milano: possiamo ben essere convinti che è una gloria dei nostri avi aver cacciato il maresciallo Radetsky, però lo leggiamo nei libri di storia e basta». Riferendo tempo dopo quell’episodio in sede di convegno, Pavone avrebbe commentato: «Rispondere soltanto “tu hai il dovere di emozionarti come me” non avrebbe avuto senso. Bisognava sforzarsi di impostare un discorso che, partendo dai problemi dei giovani di oggi, arrivasse poi a trovare un vero terreno di incontro e di colloquio»[1].

Che la Resistenza possa apparire per gli italiani, e per le giovani generazioni in particolare, un riferimento identitario sempre più sfocato e lontano è questione che oramai da tempo è sotto lo sguardo di tutti. Le cause di questo stato di cose sono molte e varie, e non è certo questo il luogo per ripercorrerle e discuterne. Sicuramente, in anni recenti vi hanno contribuito svariati fattori che chiamano in causa – tra altri – il mutamento degli attori e dei tradizionali riferimenti politici ed ideologici, il ruolo della scuola, della ricerca e degli operatori culturali, il peso dei media e dei nuovi mezzi informatici di comunicazione nell’orientare l’opinione pubblica sul tema, e così’ via. D’altro canto – come anche l’aneddoto che abbiamo riportato mette in luce – una certa quota di responsabilità la si può rintracciare anche nel ruolo e nelle interazioni, molto spesso problematiche, che «storia» e «memoria» esercitano o hanno fin qui esercitato l’un l’altra rispetto al problema della conoscenza del passato, della Seconda guerra mondiale e della Resistenza in particolare. Il tema è di quelli capitali e sarebbero molti – troppi – gli spunti di analisi.

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Partigiani fiorentini in piazza Beccaria (ISRT)

Vale la pena ricordare tuttavia che, anziché nel senso indicato dal giovane interlocutore di Pavone – il quale a un presunto eccesso di «memoria» contrapponeva la richiesta di una pratica e di una conoscenza storica impersonale e asettica – nella realtà dei fatti l’interesse per il passato e quindi la domanda di conoscenza della storia della Seconda guerra mondiale e del Novecento in generale si sono rivolti più spesso alla «memoria» – intesa come testimonianza – che alla «storia» – intesa come disciplina “scientifica” – e questo secondo una tendenza che a partire dal dopoguerra ha registrato un’accelerazione sensibile soprattutto negli ultimi decenni. La crescita – e quasi l’eccesso – di memoria e di «memorie» – quelle delle vittime della guerra soprattutto – cui si è assistito a partire dagli anni Novanta come conseguenza dell’entrata in crisi del «paradigma antifascista» sul quale si era costruita – talvolta con intenti olografici e non senza reticenze – la memoria pubblica della Resistenza e della Seconda guerra mondiale, ha portato infatti al centro della scena il ruolo del «testimone», consentendo che, soprattutto per le nuove generazioni, la conoscenza della storia passasse anzitutto attraverso la scoperta introspettiva e la condivisione dei vissuti e delle sofferenze individuali delle vittime e quindi fosse affidata anche a pratiche emozionali. Si è trattato e si tratta di esperienze sicuramente preziose sebbene, come è stato più volte sottolineato, si corra il rischio che alla sollecitazione emozionale, soprattutto se mediaticamente sovraesposta, non corrisponda un’adeguata trasmissione di contenuti storici. La «vittimizzazione della memoria» in particolare ha recato e reca conseguenze negative rispetto alla conoscenza storica, soprattutto quando un certo abuso di memorie rischia di produrre l’appiattimento di esperienze individuali e collettive storicamente tra loro assai diverse entro la stessa categoria vittimaria. La storiografia ha da tempo messo in guardia su simili rischi; tuttavia, nonostante essa avesse contribuito all’ampliamento dello sguardo pubblico sulla pluralità delle memorie della Seconda guerra mondiale spingendo oltre la tradizionale dimensione politico-militare della Resistenza, per una serie di motivi si è rivelata sempre più in crisi nel fornire all’opinione pubblica gli strumenti necessari per una corretta conoscenza critica di quei fenomeni. La «storia» – secondo alcuni osservatori – ha appunto perso centralità nell’orientare il dibattito pubblico sulla Resistenza e la Seconda guerra mondiale (e più in generale sul Novecento), sopravanzata da attori sprovvisti di solide strumentazioni analitiche e spesso mossi da intenti più o meno velati di polemica politica o comunque interessati esclusivamente a rovesciare presunte vulgate di una Resistenza ancora egemonizzata e “taciuta”, attori che il sistema dei media e il mercato editoriale hanno spesso premiato con maggiore visibilità.

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Truppe alleate fanno il loro ingresso a Massa Marittima (ISGREC)

La sfida cui oggi la «storia» – intesa come disciplina e conoscenza critica e scientifica dei fatti storici – è chiamata risulta probabilmente tra le più difficili ma proprio per questo essa non può sottrarvisi, tanto più che l’«era del testimone», almeno per quanto riguarda la storia della Seconda guerra mondiale e della Resistenza, pare avviata oramai a chiudersi. Le risposte a questa sfida possono essere di vario tipo e su più livelli. A nostro parere non si tratta tanto del grado di separazione che essa debba mantenere con la «memoria» (lo stesso Pavone avrebbe potuto replicare al giovane milanese che lo aveva sollecitato che in fondo, come avrebbe scritto più tardi, anche «la storia più asettica, nella sua volontà di essere scientifica, può talvolta stimolare la memoria, favorendo il riemergere di ricordi accantonati»[2]), ma anzi del ruolo che la «storia» possa e debba avere rispetto ai processi di costruzione della memoria pubblica in atto in un paese. Più che sul terreno ambiguo e scivoloso dell’«uso pubblico» della storia, la questione va inquadrata entro il problema annoso dell’«utilità» che la storia debba avere, non tanto e non solo nel campo dei saperi, ma in quello della vita civile e sociale: se, cioè, il sapere storico costruito su base critica debba assolvere o meno anche a un ruolo pedagogico, ricercando, come è stato proposto, «un pur difficile equilibrio tra correttezza scientifica e costruzione di un ethos per il paese»[3].

Per gli storici e per chi lavora da anni nel campo della ricerca e della divulgazione storica si tratta di un nervo sensibile. Gli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea della Rete Parri sono sicuramente tra i soggetti che per primi si sono impegnati da anni su questo fronte, promuovendo progetti di ricerca, didattica e divulgazione storica condotti con rigore scientifico e consapevolezza critica senza però perdere di vista al contempo la finalità di fornire strumenti utili non solo a una conoscenza storica rigorosa ma a una cittadinanza attiva e consapevole. Nel far ciò essi si confrontano da tempo anche con le nuove pratiche e i nuovi mezzi di comunicazione storica che provengono dall’applicazione dei più recenti strumenti digitali e informatici e che già hanno portato la disciplina storica nel mondo della public history e della digital history.

Le “Pillole di Resistenza”.

La Rete toscana degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea negli ultimi anni ha promosso in tal senso nuovi progetti di divulgazione e informazione storica, inaugurati nel 2018 con la pubblicazione di una web serie in occasione del 70° Anniversario della Costituzione della Repubblica Italiana (“La Costituzione è giovane!”, link a you tube: https://www.youtube.com/watch?v=q6ieiYSJ2uI). Quest’anno, ricorrendo il 75° Anniversario della Liberazione, la rete toscana ha promosso con il contributo della Regione Toscana e il coordinamento dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’età contemporanea di Firenze la realizzazione di un video progetto di divulgazione storica sul tema della Resistenza in Toscana dal titolo Pillole di Resistenza (link al trailer del progetto “Pillole di Resistenza”: https://www.youtube.com/watch?v=meuu1rwqVhg). Il progetto, affidato alla regia di Nicola Melloni (Rumi Produzioni), si compone di dieci episodi, ciascuno dedicato a un tema in particolare della storia della Resistenza e della Seconda guerra mondiale in Toscana e affidato al racconto esperto di uno storico, individuato tenendo conto sia della sua competenza sul tema che della sua esperienza nel campo della ricerca, della divulgazione e della didattica storica. Non solo storici di professione e dell’accademia, dunque, ma anche figure che oltre a una solida formazione scientifica vantano consolidate esperienze all’interno degli Istituti storici della Resistenza. Uno degli scopi del progetto, infatti, era quello di coniugare il rigore del sapere storico proprio della disciplina con le sensibilità richieste da una divulgazione storica seria ma capace di parlare al grande pubblico, e alle generazioni più giovani in primo luogo, con linguaggi chiari ma diretti, fornendo appunto delle “pillole” della durata di circa 15 minuti utili a formare non solo una maggiore conoscenza del nostro recente passato ma anche una cittadinanza più consapevole delle radici storiche del nostro presente. Da qui anche la decisione di rendere le “Pillole” liberamente accessibili a tutti sul web, pubblicandole sul canale you tube dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’età contemporanea di Firenze con cadenza settimanale ogni martedì a partire dal 31 marzo e sino al 2 giugno prossimo, festa della Repubblica.

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Partigiani del Raggruppamento Patrioti Apuani (ISRA Pontremoli)

Poiché il progetto nasce e si muove a partire dalla conoscenza aggiornata che la ricerca scientifica e la storiografia hanno prodotto negli anni sulla storia della Resistenza e della Seconda guerra mondiale, i dieci temi delle “Pillole” sono stati coerentemente individuati sulla base di tali acquisizioni. Con le parole e nello spirito dell’insegnamento di Pavone, possiamo dire che la scelta dei temi e dei soggetti trattati ha tenuto conto dell’ampliamento dell’«arco dell’esperienza resistenziale»[4] e del conseguente riposizionamento della storiografia dall’originaria attenzione prestata in via esclusiva alla dimensione politica e militare della Resistenza a forme di opposizione non armate, variamente definite «civili» e «non violente», atteggiamenti di rifiuto della guerra fascista, di disobbedienza non passiva che segnarono una reale «ripresa della parola dal basso» dopo decenni di oppressione. Da qui l’interesse a portare entro il perimetro resistenziale fenomeni quali quello della renitenza alla leva militare, del dissenso pagato a caro prezzo dai militari italiani internati dopo l’8 settembre nei campi di prigionia tedeschi, della difesa degli impianti industriali dalle razzie tedesche e degli scioperi nelle fabbriche, della riscoperta e della salvaguardia del valore assoluto della vita umana dimostrato da donne e uomini nel dare assistenza ai perseguitati politici e della razza, agli sbandati e agli sfollati e a chi era stato vittima di violenze ideologiche e di guerra, e molto altro ancora. Una varietà complessa di esperienze diverse accomunate però dal desiderio di resistere «alla guerra» (alla guerra fascista, all’occupazione nazifascista e alle sue biopolitiche genocidarie anzitutto) al quale poi si salda come ulteriore stadio la volontà non più e non solo di resistere «alla guerra» fascista ma di optare per «una guerra di riscatto» dal nazifascismo, scegliendo la via armata. Entrambi sono aspetti indissolubili dell’esperienza resistenziale e come tali stanno assieme anche entro il racconto che della Resistenza ci offrono le “Pillole”.

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Civili sfollati, Livorno viale Caprera (ISREC Livorno)

La varietà di queste esperienze resistenziali, d’altro canto, richiama il vissuto specifico e irripetibile di chi le sperimentò, ragione per la quale anche nelle “Pillole” si è scelto di raccontare la Resistenza nei suoi aspetti costitutivi attingendo ampiamente alle storie di vita, semplici ma esemplari, di donne e uomini toscani che tra il 1943 e il 1945 scelsero con coraggio e conseguenze spesso esiziali la via della disobbedienza e della resistenza. Un vissuto che, affidato alla voce dello storico, è ricostruito in ciascuno degli episodi con una selezione di immagini, documenti e testimonianze provenienti in larga parte dallo stesso patrimonio archivistico e documentale che la Rete degli Istituti toscani conserva e da anni mette a disposizione di storici e ricercatori. Materiale, questo, sapientemente montato nel racconto filmico delle “Pillole” e in grado di restituire il senso e lo spessore di queste voci e di queste vite, nonché di luoghi e vicende simbolo, i quali si fanno non solo «documento storico» ma «testimonianza» vera e propria.

Il primo episodio, 8 settembre 1943: L’ora delle scelte curato da Nicola Barbato, ricercatore dell’ISREC di Lucca, affronta il tema della “scelta” resistenziale all’indomani dell’armistizio e del difficile quadro che si apre con esso. L’effimera illusione di un’uscita indolore dalla guerra che l’8 settembre aveva creato è spazzata via definitivamente dallo sbando dell’esercito e dall’occupazione tedesca della penisola. Ma pur di fronte al tracollo generale, allo sfaldarsi dei tradizionali vincoli di appartenenza e persino del comune senso di identità nazionale, che per taluni segna persino la “morte della patria”, non decadono invece i presupposti di un riscatto collettivo degli italiani. Posti di fronte a una scelta di campo difficile quanto indifferibile, molti di loro danno prova di una tenace e coraggiosa volontà di rivalsa sul fascismo che, ancor prima di assumere il carattere di lotta armata, ha il volto della solidarietà spontanea prestata ai soldati sbandati, agli ex prigionieri alleati evasi dai campi fascisti, ai renitenti alla leva e ai perseguitati politici e della razza. Una solidarietà affrontata con coraggio e pagata, spesso, a caro prezzo che costituisce in verità “l’alba di una nuova patria” e che Nicola Barbato ripercorre delineando, tra le altre, le vicende cariche di significato dell’anziano colonnello Cione, di Vera Vassalle, degli IMI lucchesi Dante Uniti e Davide Massei.

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La partigiana viareggina Vera Vassalle (ISREC Lucca)

Il secondo episodio, RSI. La Repubblica Sociale in Toscana, curato da Francesca Cavarocchi ricercatrice dell’Università di Firenze e dell’ISRT di Firenze, ricostruisce la fisionomia e le politiche di controllo che interessarono in Toscana l’apparato della Repubblica Sociale Italiana. Ricostituitosi nel settembre del 1943 come governo collaborazionista e fiancheggiatore dell’occupante tedesco, il fascismo repubblicano vide assurgere a ruoli apicali numerosi toscani, spesso vecchi fascisti o squadristi della prima ora – tra i quali il fiorentino Alessandro Pavolini o Guido Buffarini Guidi – secondo una continuità ideale con il ruolo che la regione aveva svolto in passato come una delle “culle” del fascismo delle origini. E di quel fascismo originario – squadrista, violento e predatorio – la RSI raccolse l’eredità nei mesi di guerra. Allora, piuttosto che mitigare i pesanti effetti del sistema di occupazione tedesco sulla popolazione civile, i fascisti repubblicani si resero protagonisti di un inasprimento delle politiche di controllo sulle risorse e la forza lavoro locali oltre che degli strumenti di repressione del dissenso politico. Sebbene contrassegnate da una maggior brevità e instabilità rispetto alle regioni del Nord Italia, le strutture della RSI in Toscana svolsero un ruolo diretto nella persecuzione e deportazione degli ebrei e nella repressione antipartigiana, con gravi responsabilità.

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Francesca Cavarocchi durante le riprese del secondo episodio “RSI. La Repubblica Sociale in Toscana”

Il terzo episodio, Vivere la guerra totale, curato da Matteo Grasso giovane storico e direttore dell’ISRPT di Pistoia, pone al centro del racconto le difficili e drammatiche condizioni di vita patite dalla popolazione civile toscana nel contesto della “guerra totale”. Partendo anzitutto dal simbolo più caratteristico della guerra totale, l’esperienza dei bombardamenti alleati sulle citta e sulla popolazione civile, e con un focus particolare su Pistoia, Grasso tocca tutti i principali aspetti, materiali e psicologici, di una vita scandita continuamente dalla minaccia della guerra aerea e sconvolta dalle gravi conseguenze che essa ebbe in termini di distruzioni, morti e patimenti. Lo sgombero e lo sfollamento forzato dei centri abitati disposti nel tentativo di porre al sicuro i civili ma anche di sottrarre il prezioso patrimonio artistico culturale di molte città toscane ai rischi connessi ai bombardamenti e all’avanzare del fronte, il drastico peggioramento della situazione alimentare e sanitaria a seguito dell’entrata in crisi del sistema di razionamento e approvvigionamento e l’incapacità delle autorità di far fronte all’emergenza, sono aspetti generalizzati della crisi che la popolazione toscana vive negli anni di guerra e poi, con nuova intensità, nei mesi dell’occupazione tedesca, quando le razzie e le sistematiche requisizioni nazifasciste conducono ancor più allo stremo la regione.

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Manifesto della RSI contro la renitenza alla leva di Salò (ISRA Pontremoli)

Il quarto episodio, curato da Catia Sonetti storica e direttrice dell’ISTORECO di Livorno, tratta il tema de La persecuzione degli ebrei. Partendo dalla vicenda dell’arresto nel dicembre 1943 al Gabbro, piccola frazione di Rosignano Marittimo, delle famiglie ebraiche dei Bayona, dei Baruch e dei Modiano e della loro successiva deportazione ad Auschwitz, Sonetti fa luce, risalendo a ritroso, sugli antefatti e sulle premesse storiche della persecuzione antisemita. Delineando nei suoi tratti costitutivi il profilo sociale, culturale ed economico delle tre principali comunità israelitiche toscane e delle altre presenze ebraiche disseminate nella regione, si ripercorrono i processi di emancipazione e il grado di integrazione di tali comunità e di tali presenze entro il tessuto civile toscano, tra Unità, Grande Guerra e Fascismo per poi meglio cogliere su di esse gli effetti generati dall’introduzione della legislazione razziale fascista. Le conseguenze delle politiche discriminatorie del Fascismo con la progressiva messa al margine e poi con l’espulsione dalla vita pubblica dei cittadini ebrei sono indagate tramite le dolorose vicende di vita di coloro che cercarono di porsi in salvo, tentando l’espatrio, come nel caso della famiglia del medico fiorentino Giulio Levi, o di chi, invece, subì la radiazione dal pubblico impiego come accadde a Enrica Calabresi, professoressa universitaria, più tardi suicida di fronte a sicura deportazione. Nel ricostruire il passaggio dalla “persecuzione dei diritti” alla “persecuzione delle vite” sono poste al centro le responsabilità degli italiani e delle autorità fasciste repubblicane e le figure di coloro che, come nel caso di Giovanni Martelloni e Mario Carità, risultarono tra i maggiori responsabili dell’arresto e della deportazione di centinaia di ebrei fiorentini e toscani; ma è altresì ricordato anche il ruolo di protezione che svolsero allora esponenti e organizzazioni della Chiesa toscana o semplici cittadini. A chi tra i perseguitati cercò di opporsi alla deportazione, anche scegliendo la via della resistenza armata come nel caso della famiglia degli Orefice, si contrappongono le vicende tremende di chi invece non fece ritorno e le poche ma preziose voci dei salvati che al rientro dai campi ebbero il coraggio di testimoniare.

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La vecchia Sinagoga di Livorno parzialmente distrutta dai bombardamenti (ISTORECO Livorno)

Al tema degli Scioperi e delle deportazioni politiche è invece dedicato il quinto episodio, curato da Camilla Brunelli, direttrice del Museo e Centro di Documentazione della Deportazione e Resistenza (Figline di Prato). Una delle pagine al contempo più gloriose e terribili della Resistenza civile, lo sciopero generale indetto ai primi di marzo del 1944 dal Comitato di Liberazione dell’Alta Italia in Toscana interessò principalmente le aree più industrializzate tra Firenze, Prato ed Empoli, ma si diffuse comunque anche in altre zone manifatturiere della regione. Oltre che a Prato, nella sua diffusa industria tessile, a Firenze si mobilitarono, tra gli altri, gli operai e le operaie delle Officine Galileo, della Pignone, della Cipriani e Baccani, della Richard-Ginori, della Manetti & Roberts, oltre alle sigaraie della Manifattura Tabacchi. Nell’empolese entrarono in sciopero gli operai delle vetrerie; ad Abbadia San Salvatore, sul Monte Amiata, i minatori; ma si scioperò anche a Cavriglia, nel Pistoiese, nel Pisano, a Livorno e Piombino, a Santa Croce sull’Arno e nel Mugello. Si trattò di proteste che generavano per lo più da un radicato e diffuso sentimento di rifiuto e di resistenza civile alla guerra, motivato dall’insofferenza per le privazioni causate dal conflitto e dal malcontento per la continua e sistematica azione di depredazione delle risorse produttive e umane condotta dall’occupante nazifascista. Di fatto si trattò della prima opposizione esplicita di massa al fascismo, ragion per cui la reazione delle autorità fasciste e naziste fu repentina e muscolare, traducendosi in una dura repressione che portò a rastrellamenti generalizzati e indiscriminati della forza lavoro, per la verità non solo di quella scioperante. Arrestati e poi concentrati in luoghi di smistamento quali la Fortezza di Prato o le ex scuole delle Leopoldine in Piazza S. Maria Novella, centinaia di scioperanti furono da lì deportati verso il lager di Mauthausen e quindi trasferiti in vari sottocampi: Gusen, Melk e soprattutto Ebensee. La gran parte di loro, come l’antifascista pratese Diego Biagini, non fece mai ritorno.

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Matteo Grasso durante le riprese del terzo episodio “Vivere la guerra totale”

Resistere con o senza armi, è il tema del sesto episodio delle Pillole, curato da Pietro Clemente, già docente di antropologia culturale e Presidente dell’ISRSEC di Siena. Resistenza in armi e resistenza civile si incontrano idealmente nel racconto di Clemente e trovano quasi una sintesi nel piccolo borgo contadino di Monticchiello, nel comune di Pienza, luogo di ambientazione nell’aprile 1944 di una fiera e vittoriosa battaglia partigiana; un episodio, se si vuole minore, della resistenza armata in Toscana ma cionondimeno significativo in quanto non solo rilancia e infonde nuovo spirito al movimento di liberazione senese dopo l’eccidio di Montemaggio ma segnala il raggiungimento di una certa maturità militare del movimento di liberazione tutto, una crescita organizzativa complessa che denota anche il contributo determinante dei civili: dietro e attorno alle mura medioevali del piccolo paese dove i partigiani della formazione Mencatelli si trincerano e respingono l’assalto delle truppe fasciste ci sono infatti e prestano aiuto molti giovanissimi (studenti, operai ma soprattutto contadini) e diverse donne (che collaborano dall’esterno); c’è in definitiva la solidarietà e l’aiuto della popolazione civile tutta a dimostrazione che senza di questa la lotta armata difficilmente avrebbe potuto sopravvivere e prosperare. Ma oltre ai civili e ai contadini, e ai mezzadri toscani soprattutto senza i quali le bande partigiane non avrebbero potuto sopravvivere alla macchia, vi sono anche i sacerdoti, schierati apertamente come don Paoli a Lucca e don Angeli a Livorno contro la guerra e dalla parte di chi la soffre e decisi a immolare se stessi nel salvataggio di ebrei e perseguitati e nella protezione delle popolazioni civili dalle violenze degli occupanti.

Rocchi

Luciana Rocchi durante le riprese del settimo episodio “Donne, tra guerra e Resistenza”

Donne, fra guerra e Resistenza è l’altro grande tema al centro del settimo episodio curato da Luciana Rocchi, storica dell’ISGREC di Grosseto del quale è stata fondatrice e per molti anni direttrice.  Attraverso le biografie e il vissuto tormentato di una selezione significativa di donne toscane passate attraverso la guerra ci si pone la domanda di quanto delle condizioni di partenza, culturali, morali, sociali rimanga e di quanto invece muti drasticamente nella Toscana del dopoguerra. La risposta non è univoca e deve confrontarsi con le molte e spesso contrastanti esperienze vissute dalle donne negli anni del conflitto. Certo, le difficoltà e le privazioni del tempo di guerra, comuni a tutte, le gettano in uno stato di emergenza costante e di estrema durezza di vita, spesso sradicandole dai propri luoghi vitali di riferimento (le case, le famiglie), mentre lo stereotipo dell’etica del sacrificio per la patria che aveva caratterizzato il linguaggio delle autorità fasciste verso le donne perde ormai ogni aderenza con il loro vissuto. Da qui, un nuovo protagonismo, conquistato duramente e a prezzi altissimi. Al di là del tradizionale ruolo di maternage e di cura per chi ha bisogno – siano i propri figli minacciati dai bandi di chiamata alle armi di Salò contro cui si rivoltano le madri di Massa Marittima, oppure gli ebrei, gli sfollati e i partigiani che Iris Origo accoglie nella sua villa in Val d’Orcia – vi sono donne che si mettono in gioco direttamente entro il movimento di Resistenza per le quali il rifiuto della guerra non è in conflitto con l’accettare la necessità della violenza. Non solo staffette, dunque, ma anche donne in armi, che trovano in ogni caso le ragioni della propria scelta o nel desiderio di rivalsa dalla cultura dell’obbedienza in cui erano cresciute o perché spinte dagli affetti e dagli amori a seguire i propri cari e i propri amati in clandestinità. Il prezzo da loro pagato è altissimo, come emblematicamente racconta la vicenda della medaglia d’oro Norma Parenti, trucidata a un passo dalla Liberazione del proprio paese. Il dopoguerra che si apre tra tristezza e orrori vede ancora profonde ferite da sanare, mentre per alcune lascia un senso amaro di disillusione. Ma l’eredità delle donne in armi e senz’armi che hanno vissuto la Resistenza, benché assuma l’andamento di un cammino carsico, riaffiora e la si ritrova nell’etica di responsabilità di molte donne che saranno attive in politica e nelle rivendicazioni sociali del dopoguerra.

GR_Norma Pratelli Parenti di Massa Marittima, Medaglia d'Oro (in memoria)_ASMassaMarittima

Norma Parenti, medaglia d’oro al valor militare (ISGREC Grosseto)

L’ottavo episodio della serie, curato da Gianluca Fulvetti, docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa e membro del CdA dell’Istituto nazionale Ferruccio  Parri e del direttivo dell’ISREC di Lucca, è dedicato al tema delle Stragi in Toscana. La «guerra ai civili», come da tempo messo in luce da un filone storiografico attento a cogliere le implicazioni e gli effetti delle politiche di occupazione nazifasciste sulle popolazioni locali, raggiunge in Toscana uno dei massimi gradi di intensità e di efferatezza registrando tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945 più di 4.400 vittime in oltre 800 episodi, tra stragi, eccidi e uccisioni singole. È soprattutto l’estate di sangue del 1944 a segnare il picco quantitativo e qualitativo della guerra ai civili in Toscana. Allora, alle necessità della guerra antipartigiana e del controllo del territorio che già nei mesi precedenti avevano animato l’impiego spesso indiscriminato della violenza sulle popolazioni locali si somma l’urgenza militare di rallentare a tutti i costi l’avanzata alleata; urgenza che porta i reparti della Wermacht e delle Waffen SS, non senza l’appoggio di fascisti e collaborazionisti, a scatenare a ridosso della linea del fronte grandi operazioni di bonifica del territorio, rastrellamenti e massacri di civili, ma anche uno stillicidio sparso di uccisioni che la ritirata tedesca si lascia dietro. Non solo le grandi stragi, come S. Anna di Stazzema e Civitella Val di Chiana, popolano la mesta cartina dell’estate di sangue toscana, ma altre meno note, ma non meno atroci, come nel caso della strage della Certosa di Farneta che Fulvetti tratteggia. È un salto di qualità quello che si compie nell’estate del 1944 che d’altro canto era già stato preannunciato con i grandi cicli antipartigiani che nella primavera del 1944 avevano colpito molte comunità toscane dell’Appennino e che avevano registrato la volontà delle autorità tedesche di gestire il dissenso non più con soluzioni politiche, ma con il ricorso alla violenza militare. L’eredità, materiale e morale, dei lutti che dilaniano la Toscana del 1944 lascia aperta e a lungo insoluta nel dopoguerra la domanda di giustizia dei familiari e delle comunità colpite, il cui dolore cade in un oblio di cui si rendono colpevoli le autorità politiche e giudiziarie italiane e alleate mentre il tentativo di dare un senso o un volto ai “presunti” colpevoli finisce per sedimentare memorie “divise” e conflittuali destinate a mantenersi tali ancora a lungo.

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Gianluca Fulvetti durante le riprese dell’ottavo episodio “Le stragi in Toscana”

Il nono episodio è dedicato invece a Liberazioni e insurrezione ed è curato da Matteo Mazzoni, storico e direttore dell’ISRT di Firenze. Al centro del racconto è l’andamento del quadro militare della guerra di Liberazione e il ruolo che, a partire dal giugno 1944 in avanti, svolgono in Toscana gli eserciti alleati, da un lato, e dall’altro il movimento partigiano, il quale, dopo aver animato la lotta a tedeschi e fascisti nei mesi precedenti, punta adesso a precedere gli Alleati nella liberazione delle città. Se l’imparità con il nemico ostacola la volontà delle formazioni partigiane di svolgere entro la lotta di Liberazione un ruolo veramente autonomo dall’apporto delle forze alleate, la posta in gioco rimane comunque alta e il tentativo di evidenziare il proprio contributo, oltreché sul piano militare, assume un significato politico di enorme rilevanza per le forze dell’antifascismo toscano.  Pur nella dialettica delle posizioni e delle prospettive, l’obiettivo comune della sconfitta dei nazifascisti consente  forme di collaborazione tra Alleati e partigiani e persino il reciproco riconoscimento dei ruoli. Tra gli altri casi richiamati, la battaglia di Firenze e l’insurrezione dell’11 agosto ne sono il principale esempio, con gli Alleati che, giunti alle propaggini meridionali della città, riconoscono sia le nomine del governo della città espresse dal CTLN quale organo rappresentante delle forze resistenziali che il ruolo svolto dalle Brigate partigiane calate sulla città dai colli circostanti nei duri combattimenti che si protraggono fino alla fine del mese lungo la linea del Mugnone. È, come noto, quello fiorentino uno snodo centrale nella storia della Resistenza italiana che lascia un’eredità politica e un esempio prezioso per le successive insurrezioni delle città del Nord Italia.

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Sepolture di vittime di stragi nazifasciste (ISRA Pontremoli)

L’ultimo episodio, curato da Andrea Ventura, giovane storico dell’ateneo pisano e direttore dell’ISREC di Lucca (a cui in particolare è affidato il racconto storico), assieme a Luca Baldissarra, docente di Storia presso l’Università di Pisa, ha come tema La Linea Gotica in Toscana. Con attenzione particolare al settore apuano – oggetto di un tardivo sfondamento alleato e quindi di un’occupazione tedesca che nei territori di Massa, Carrara e Pontremoli si prolunga sino all’aprile inoltrato del 1945 – Ventura ripercorre i presupposti strategici e militari che con l’avvio della campagna alleata in Italia avevano spinto le autorità tedesche a realizzare una grande linea di fortificazioni tra Massa (sul Tireno) e Pesaro (sull’Adriatico) che si inerpicava per centinaia di chilometri tra le Alpi Apuane e l’Appennino. La Gotica – spiega Ventura –  è nello stesso tempo una linea del fronte e di confine che separa due eserciti (Alleati e nazifascisti), due governi (la RSI e il Regno del Sud), due sistemi di occupazione (tedesco e alleato), due opposte esperienze politiche e di guerra. Ma al contempo la Gotica rappresenta anche uno spazio in sé, dove migliaia di lavoratori faticano nella costruzione delle difese, dove decine di migliaia di soldati provenienti da cinque continenti diversi si insediano e si preparano al combattimento, dove i fascisti collaborano con i tedeschi e compiono anche autonomamente stragi e rastrellamenti, dove i partigiani operano intensamente, dove le popolazioni vivono una quotidianità totalmente stravolta dalla guerra. La Gotica, in sintesi, è uno spazio che racchiude in sé la storia della Seconda guerra mondiale: non solo linea militare, ma anche demarcazione politica, ideologica e mentale, aspetti questi che Ventura ricostruisce puntualmente anche con l’ausilio della preziosa documentazione fotografica e documentale messa a disposizione, tra altri, dall’ISRA di Pontremoli.

Brunelli

Camilla Brunelli durante le riprese del quinto episodio “Scioperi e deportazioni politiche”.

In sintesi un progetto video, complesso e articolato, nato dalla solerte e sentita collaborazione tra tutti gli Istituti della Resistenza della Rete toscana, sotto il coordinamento del dott. Matteo Mazzoni, la segreteria scientifica e la ricerca d’archivio di Giada Kogovsek e Francesco Fusi, che si spera possa dare un piccolo ma significativo contributo affinché la «storia», oltre a formare conoscenza critica e rigorosa dei fatti, possa ancora esprimere la propria utilità nella società di oggi, magari fornendo «quel terreno di incontro e di colloquio» necessario alla costruzione di un ethos per il paese di cui parlava anche Pavone.

 

[1] Intervento di Pavone in Passato e presente della Resistenza. 50° Anniversario della Resistenza e della Guerra di Liberazione, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma, 1995, p. 113.

[2] Claudio Pavone, Prima lezione di storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 67-68.

[3] Mirco Carrattieri, La Resistenza tra memoria e storiografia, «Italia contemporanea», XXXIII (2015), n. 95, p. 18.

[4] Claudio Pavone, Un Guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 31.




La persecuzione degli ebrei senesi (1938-1944).

Mario Misan, insieme alla sorella gemella Lia, nacque a Siena nel 1933. Il padre Giuseppe, di religione ebraica, era originario di Livorno[2] e, insieme al fratello Roberto, gestiva un negozio di tessuti in via di Città. La madre Silvia Tognazzi, non era ebrea, bensì figlia di un mezzadro della Val d’Orcia; la donna si era trasferita a Siena all’età di vent’anni per andare a lavorare, come infermiera, presso l’ospedale psichiatrico, e proprio in città, dopo essersi convertita all’ebraismo, era convolata a nozze presso la sinagoga locale.
Il giovane Mario conobbe prestissimo l’umiliazione delle leggi razziali in quanto a sei anni (nel 1939) presentandosi a scuola insieme alla sorella, fu costretto a iscriversi alla pluriclasse riservata ai bambini ebrei. La scuola si trovava in località “La Lizza” e il locale riservato agli israeliti (circa 15 studenti, per i quali l’insegnante era la maestra Giustina Del Monte, originaria di Firenze, anch’ella di religione ebraica) era fatto in modo che non ci fossero contatti con i bambini “ariani” e persino i bagni erano separati.
Racconta Mario Misan che il membro della famiglia che soffrì di più per le discriminazioni scolastiche fu suo cugino Giulio[3], figlio di Roberto; il giovane amava gli studi ed era particolarmente portato ma quando si trovò a passare dal ginnasio al liceo, ciò gli venne impedito a causa delle leggi razziali. I problemi più gravi per la famiglia Misan arrivarono tuttavia dopo l’8 settembre 1943. Con l’occupazione tedesca, prudentemente, la madre di Mario, portò lui, la sorella Lia e il fratello Aldo presso il podere “La Macina”, a mezza strada tra Montalcino e Buonconvento presso gli zii materni Nello e Quirino Tognazzi che diedero loro ospitalità nonostante i gravissimi rischi che questo comportava. La situazione era particolarmente dura, ricorda Misan, la madre andava «a Montalcino e si arrangiava a vendere pannina[4] casa per casa, trascinandosi dietro una grossa valigia. I proventi erano magri ma tutto serviva. Questa donna era incinta al quinto mese di gravidanza, Laura [l’ultima sorella di Mario n.d.r.] nascerà infatti nel gennaio del 1944, periodo tristissimo, pieno di angosce e paure».
Giuseppe Misan, con il figlio maggiore, Manrico, per tutelare in qualche modo quello che rimaneva delle magre risorse della famiglia, nonostante le esortazioni dei familiari a lasciare la città (la notizia del rastrellamento degli ebrei romani, avvenuto il 16 d’ottobre del 1943, era trapelata e aveva scatenato forti apprensioni), avevano preso la pericolosissima decisione di rimanere a Siena, nel proprio appartamento di via Girolamo Gigli e rischiarono di pagare a caro prezzo questa scelta. La notte del 5 novembre dello stesso anno, una pattuglia di fascisti repubblicani, insieme a un militare tedesco[5] si presentarono a casa Misan e arrestarono Giuseppe e Manrico; contemporaneamente, due zie di Mario, Adriana e Isolina, con le loro famiglie, venivano prelevate dalla loro casa nella zona di Belvedere.
Tutti gli ebrei catturati vennero portati alla caserma “Lamarmora” e il padre di Mario raccontò al figlio di aver visto «i Valech, quasi tutta la famiglia, i Nissim, i Belgrado, i Sadun e altri»[6].
Il viaggio degli sventurati proseguì in camion alla volta di Firenze, da dove, dopo una sosta di un giorno, vennero spediti per mezzo di un carro bestiame a Bologna e portati presso un comando delle SS tedesche. Fortunatamente l’intera famiglia Misan, comprese Adriana e Isolina, venne considerata di “matrimonio misto” e quindi rilasciata[7] tuttavia, da quel momento in poi, considerato il rischio corso e i continui giri di vite alle normative razziali «i fascisti e le SS tedesche prendevano tutti i sospetti per ½ per ¼ di sangue ed altri» anche coloro che erano rimasti a Siena decisero di riparare presso il podere “La macina”.
Nonostante il numero dei rifugiati presso la famiglia Tognazzi fosse particolarmente elevato («eravamo un branco di persone nascosti fino alla liberazione» scrive Mario Misan) e pertanto facilmente individuabile (era anche noto il fatto per cui si nascondevano), nessuno dei vicini rivelò alle autorità la presenza di ebrei in quella casa. Lo stessa solidarietà venne trovava dai Misan al ritorno a Siena, alcune famiglie che avevano prestato loro aiuto in città durante le tristi vicissitudini della dittatura e della guerra, i Monciatti, i Tortorelli e i Vannini, non fecero mancare il loro appoggio e pian piano la vita tornò alla normalità.

[1]La testimonianza è stata incisa e scritta dallo stesso Mario Misan il 5 ottobre 2018 e successivamente consegnata all’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea “Vittorio Meoni”.
[2]Riferiva il cugino di Mario, Giulio, che la famiglia Misan si trasferì a Siena da Livorno per sfuggire all’epidemia di colera che colpì quella città nel 1911, cfr. Giulio Misan – Intervista a Giulio Misan [consultato il 17 marzo 2020].
[3]Anche Giulio riuscì a scampare all’Olocausto. Tra l’8 settembre 1943 e il giugno 1944, fu ospite di famiglie contadine nella zona tra Montalcino, Buonconvento e Torrenieri, mentre la famiglia del fratello venne nascosta nella zona di Dievole nel Chianti dal parroco di Vignano, don Luigi Rosadini. Al termine della guerra, dopo essere stato per qualche tempo venditore ambulante, Giulio Misan riuscì, nel 1946, a riaprire, insieme alle sorelle, un negozio di stoffe che gestì fino al 1970.
[4]Nel dialetto senese dell’epoca, per ‘pannine’ si intendeva la biancheria e altri prodotti tessili di modesto valore.
[5]Alba Valech, nella sua testimonianza, riferì che i fascisti erano accompagnati da un militare italiano delle SS, cfr. La tragica storia di 15 ebrei senesi raccontata nel documentario di Juri Guerranti, Novembre 1943: accadde anche a Siena [consultato il 17 marzo 2020].
Cfr. Alba Valech Capozzi, A 24029, Siena, Soc. An. Poligrafica, 1946.
[6]Gli ebrei rastrellati a Siena quella notte furono una ventina, di costoro alcuni, come i Misan, vennero rilasciati, Alba Valech, arrestata successivamente, si salverà dall’inferno di Auschwitz, ma Adele Ajò (di anni 64), Gino Sadun (di anni 71) Ubaldo Belgrado (di anni 52), Ernesta Brandes (di anni 85), Giacomo Augusto Hasdà (rabbino, di anni 74), Ermelinda Segre (di anni 68), Achille Millul (di anni 40), Gina Sadun (di anni 47), Marcella Nissim (di anni 20), Graziella Nissim (di anni 14), Livia Forti (di anni 55), Davide Valech (di anni 64), Michele Valech (di anni 68), Morosina Valech (di anni 21) e Ferruccio Valech (di anni 13) non tornarono più alle loro case, cfr. La tragica storia di 15 ebrei senesi raccontata nel documentario di Juri Guerranti, cit.
[7]Cfr. Archivio di Stato di Siena, Pref. Uff. Gab. 1935-1957, b. 4, f. 3, elenco degli ebrei nati da famiglia mista residenti a Siena.




Da rastrellato a partigiano

Se un trekker allenato in stile Carnovalini decidesse oggi di raggiungere a piedi Ravenna partendo da Lucca, in poco più di dieci giorni di cammino potrebbe godere dei panorami della Valle del Serchio, la wilderness dei passi appenninici, i profondi silenzi della Valle del Reno, fino alla magica lucentezza della Pialassa Baiona. Mio padre e mio zio, costretti ai ritmi delle marce forzate imposti dai loro carcerieri, passano trentasei giorni arrampicandosi sui monti con sulle spalle due rotoli di filo spinato e due spranghe di ferro, tirando il freno delle carrette trainate dai cavalli, con la febbre addosso sotto la pioggia battente, con i morsi della fame e le bastonate dei loro aguzzini, con la strada battuta dalle artiglierie alleate, dormendo su un letto di foglie di castagno ammucchiate sotto gli alberi.

Nozzano in quei giorni dell’agosto 1944 non è più un tranquillo borgo di campagna, dove contadini e muratori si adoperano per vivere e far vivere dignitosamente le proprie famiglie. Molti uomini hanno abbandonato il paese per rifugiarsi a Chiatri e sulle colline vicine. I campi sono abbandonati e non li lavora più nessuno. Con gli ultimi giorni di luglio si è insediata a Nozzano una delle più spietate divisioni dell’esercito tedesco: la XVI Panzergrenadier division “Reichführer – SS” agli ordini del generale Max Simon. Colonne di soldati, di camion, auto e blindati della Wehrmacht e delle SS alzano continui nugoli di polvere percorrendo minacciosi le strade sterrate del paese. La scuola elementare che sorge proprio nel centro della piazza viene requisita. La maestra che abita il piano superiore viene cacciata. Quell’edificio da luogo di crescita e formazione, è trasformato in luogo di distruzione, segregazione e morte. Alle voci e ai canti cinguettanti dei bambini si sono sostituite le urla strazianti dei torturati. La gestione del carcere è affidata alla Feldgendarmerie del tenente Gehrard Walter che sguinzaglia i suoi uomini alla cattura di cittadini inermi su cui scaricare la propria ferocia e rabbia per una guerra di occupazione ormai prossima alla disfatta.

Le direttive del comandante supremo dell’esercito tedesco in Italia, feldmaresciallo Kesselring, dettano la linea a cui si deve conformare l’azione degli ufficiali operanti sul campo: “Contro le bande si agirà con azioni pianificate. Durante la marcia, nelle zone in cui vi sia pericolo di partigiani, tutte le armi dovranno essere costantemente tenute pronte a sparare. In caso di attacco aprire immediatamente il fuoco, senza curarsi di eventuali passanti. […] Il primo comandamento è l’azione vigorosa, decisa e rapida. I comandanti deboli e indecisi verranno da me convocati per renderne conto perché mettono in pericolo la sicurezza delle truppe loro affidate e il prestigio della Wehrmacht tedesca. Data la situazione attuale, un intervento troppo deciso non sarà mai causa di punizione”.

Chi non si attiene a queste direttive viene severamente punito, fino alla condanna a morte, come accade allo sventurato soldato tedesco fucilato dai propri commilitoni nel piazzale della chiesa. Così scrive il parroco Don Giovanni Galli. “… La medesima squadra demolitrice si trasforma in vero assetto di guerra: depone il piccone e si pone in testa l’elmetto, si cinge i fianchi di bombe a mano e imbraccia il moschetto. Di lì a poco salgono velocemente il Castello alcune macchine tedesche. Le osservo, non visto, dalle persiane; conducono anche degli ufficiali. Nei dintorni della torre sta curiosando qualche bambino e qualche vecchio. Viene allontanato con la scusa che si faranno brillare delle mine ed infatti si ode una fortissima detonazione. Un sergente maggiore tedesco era stato fucilato. Pozze di sangue miste a materia cerebrale sono rimaste per vari giorni a testimoniare il fatto”.  Il militare è quel Fritz, “tedesco dei Sudeti”, di cui parlano nell’immediato dopoguerra i cittadini di Filettole? Fucilato perché tenta di opporsi alle stragi di civili e perché, prima ancora, avverte la popolazione dell’arrivo delle SS? Fucilato e poi scaraventato nella fossa comune al Ponte di Ripafratta? Il dato certo è che la tomba con i resti del “buon soldato Fritz” è sicuramente esistita ed è rimasta nel cimitero di Filettole fino al 1996. Una tomba su cui i parenti delle vittime della ferocia nazista spesso depongono un fiore, soprattutto per persuadere e persuadersi che quella malvagità, per quanto grande, non è riuscita a soffocare del tutto i sentimenti dell’umana pietà.

Nozzano porta già nel nome la sua vocazione ed il suo destino (Noxa, cioè Pena). Così un paesano, Giuseppe Vecci, testimone diretto, affida la memoria di quei giorni a monsignor Francesco Baroni: “Il periodo che intercorse fra l’arrivo degli Alleati all’Arno (30 luglio 1944) e l’8 settembre, giorno della liberazione di Nozzano, è quello in cui maggiormente i tedeschi infierirono sulla popolazione inerme, e benché questa rimanesse calma e serena in attesa degli eventi, l’attività tedesca di brigantaggio non ebbe più limiti. Il sistema di rappresaglie e di terrore ebbe inizio col bruciamento di 12 capanne, ove era ricoverato grano ecc., sul mattino del 29 luglio 1944…Veniva razziato tutto il bestiame ed a ciò era incaricato un soldato tedesco delle S.S. rimasto celebre in tutta la zona. Lo chiamavano Leo ed era un vero delinquente, specializzato per tale bisogna. Interi campi di patate, fagioli erano depredati sotto gli occhi di coloro che avevano lavorato e sudato. Gli uomini e perfino i ragazzi erano rastrellati e portati a lavorare”.

Tra quei ragazzi ci sono anche mio padre Franco, diciotto anni, e mio zio Nello, di sei anni più grande. Per prudenza e per timore di essere catturati, da alcune notti non dormono nella casa paterna che si affaccia proprio sulla piazza.

Nello, in particolare, dopo l’8 settembre ha lasciato la Caserma di Genova dove prestava servizio militare e può incappare nelle disposizioni del “Bando Graziani”, decreto del 18 febbraio 1944 che prevede che “gli iscritti di leva arruolati e i militari in congedo che durante lo stato di guerra senza giustificato motivo non si presenteranno alle armi nei tre giorni successivi a quello prefisso, saranno considerati disertori di fronte al nemico e puniti con la pena di morte mediante fucilazione nel petto”.

Gli spioni fascisti però conoscono le mosse e gli spostamenti di tutti e non è difficile per i soldati della wehrmacht individuare il luogo dove si nascondono. Così, all’alba del 20 agosto 1944, un soldato tedesco in divisa sahariana ed il cappello alla norvegese entra nella loro camera: “Aufstehen!”. Sotto la minaccia del fucile puntato alla schiena, li conduce in piazza. Vengono fatti salire su un camion per essere scaricati “come sacchi” alla Pia Casa di Lucca, centro di reclutamento della forza lavoro. Su quel camion, tra i rastrellati, c’è anche un fascista di Nozzano. Urla e sbraita perché non vuole essere confuso con quella marmaglia di italiani traditori. Lui è sempre stato fedele al regime e anche ora vuole stare dalla “parte giusta”. Per questo chiede al militare tedesco di fermare il camion e di farlo scendere. Le sue proteste non producono alcun risultato. Inflessibile il guardiano lo respinge e lo rimanda a sedere sul pianale del camion. Franco, che lo conosce bene, gli si avvicina e lo invita alla calma. Non lo vedi? Per loro noi siamo tutti uguali. Siamo tutti Scheiße. In tutta risposta il paesano gli rifila un cazzotto in bocca che lo fa barcollare. A guerra finita Franco andrà volutamente a cercare il paesano e lo troverà ad occupare in Comune un ruolo di direzione nei progetti di ricostruzione post-bellica. Uno dei tanti beneficiati della mancata epurazione e della inefficacia della Legge Bonomi sulle Sanzioni contro il Fascismo, prima ancora dell’entrata in vigore del Decreto “tombale” del 22 giugno 1946 proposto dal Guardasigilli Togliatti.

Inefficacia che suscita sgomento e sfiducia tra la popolazione e le nuove istituzioni democratiche a tal punto da far approvare al Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale di Lucca nella seduta del 13 marzo 1945 il seguente ordine del giorno: “Il CpLN di Lucca, constatata l’inefficacia della vigente legge per l’epurazione, che si presta a troppo facili evasioni, constata l’ingiustificata libertà che esponenti e gregari del fascismo repubblichino ancora godono, costituendo una perenne minaccia alla rinascita democratica del paese, chiede: 1) una sostanziale modifica della legge, tendente ad ottenere una definitiva purificazione della vita politica, economica e sociale del paese; 2) al Governo e alle Autorità competenti l’invio nei campi di concentramento di tutti indistintamente coloro che hanno aderito o prestato attività collaborazionistica col fascismo repubblichino; 3) l’invio nei campi di concentramento di tutti coloro che per il loro passato politico e per avere approfittato di situazioni politiche o per aver avallato con il loro sostegno o con la loro opera la politica di oppressione del passato regime  costituiscono un motivo di perturbazione o un ostacolo alla vita normale del paese; 4) l’immediato allontanamento dagli impieghi statali e parastatali e di quelli rivestenti carattere di utilità pubblica di coloro che rientrano nelle due categorie sopra segnate; 5) che la legge di epurazione sia estesa in modo da colpire anche gli appartenenti al Commercio, all’Industria, all’Agricoltura”.

Una epurazione che paradossalmente colpirà gli antifascisti ed in particolare i comunisti al punto che Franco sarà costretto a trasferirsi a Pisa per poter ottenere un impiego come manovale delle Ferrovie dello Stato. (Colonna sonora: Sergio Endrigo “La ballata dell’ex”).

 Il 20 agosto, insieme ai miei familiari, a Nozzano viene arrestato anche Dante Braconi, già inviato al confino su segnalazione del paesano della Brigata Nera “Mussolini”, Vittorio Marlia. A guerra finita, il Braconi rilascerà ai Carabinieri di Nozzano la seguente dichiarazione: “Aggiungo di aver veduto Marlia Vittorio in compagnia di Giuseppe Cortopassi, Paolino Bertolozzi e molti altri, presentarsi ad un tribunale di guerra dell’esercito tedesco che si trovava nei mesi di luglio e agosto nei pressi di casa mia vestiti da brigatisti neri, vestirsi da tedeschi, poi partire con gli automezzi e ritornare al mattino con giovani e uomini anche anziani, caricati su camion e consegnati ai tedeschi, riuscendo poi dal locale (della scuola) vestiti da brigatisti neri”. (Processo Brigata Nera di Lucca “Atti generici” 16/01/1946 in Archivio di Stato Lucca). Parole di un perseguitato politico antifascista, al quale nessuno ha poi pensato di riconoscere un risarcimento, seppure morale.

Sarebbero comunque bastati pochi giorni, una settimana appena dopo il loro rastrellamento e la storia dei miei familiari avrebbe potuto prendere un altro verso. Il 28 agosto infatti le truppe alleate varcano l’Arno per dirigersi verso la lucchesia. Il giorno dopo le SS, dopo aver fatto saltare in aria la scuola di Nozzano, lasciano il paese per trasferirsi a Nocchi di Camaiore. In un mese esatto di permanenza a Nozzano le truppe del generale Simon, del tenente Walter e del sergente Florin, con la attiva partecipazione dei fascisti di Nozzano e dell’Oltreserchio, si macchiano di orrendi ed efferati delitti: dalla strage della Romagna a quella di Bardine S. Terenzo, dalle fucilazioni di Laiano di Filettole alle esecuzioni sommarie di S. Maria a Colle, fino all’irruzione e alle fucilazioni di monaci e civili nella Certosa di Farneta e alla partecipazione alla strage di Sant’Anna di Stazzema.

I lavori di ricerca storica per l’elaborazione di un Atlante delle stragi dicono che nella primavera-estate del 1944 nella sola Toscana si registrano oltre 200 episodi per un numero complessivo di 3.650 civili uccisi.

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Fascisti della Brigata Nera di Nozzano.Il quarto da sinistra è Vittorio Marlia (Foto archivio Orsi)

Nella sventura però c’è anche una dose di fortuna: la giovane età di Nello e Franco fa si che i tedeschi decidano di inserirli nel gruppo di “abili al lavoro”, lavoratori utili al Reich nazista. Se avessero deciso di “marcare visita” o dichiararsi “non abili al lavoro” sarebbero sicuramente stati fucilati, come è successo ad altri sventurati catturati con loro. Dalla Pia Casa quindi inizia la loro marcia forzata verso il nord. Sono impiegati come lavoratori coatti per costruire reticolati e trincee della Linea Gotica sotto il controllo della Organizzazione Todt, allo scopo di rallentare l’avanzata incalzante delle truppe alleate. Una “ritirata combattiva” quella decisa dal Feldmaresciallo Kesselring che si trasforma durante il suo cammino in una vera e propria guerra ai civili. Le truppe tedesche si muovono sui territori che attraversano come belve braccate, con la consapevolezza che la fine è ormai prossima. Ad incitarli e guidarli negli ultimi colpi di coda in lucchesia sono ancora i fascisti della XXXVI Brigata Nera capitanati dal paesano di Corte Frasconi, Vittorio Marlia, sotto la direzione di Idreno Utimpergher, originario di Empoli, guida provinciale del fascismo lucchese in quei mesi tragici.

Sempre Dante Braconi testimonierà, nel corso del processo alla Brigata Nera di Lucca “Dai primi di luglio mi trovavo nascosto in una capanna in prossimità della via che conduce a Nozzano Castello e più volte intorno alla metà di agosto 1944 ho veduto arrivare con un automezzo l’allora capitano della brigata nera di Lucca Marlia Vittorio con i militari della stessa brigata per requisire damigiane di vino, prodotti agricoli, viveri ed altro, nonché bestiame, e spesse volte ho notato il Marlia e Cortopassi Giuseppe passare nella strada in compagnia degli ufficiali delle SS tedesche gendarmeria di Nozzano”. (Processo Brigata Nera di Lucca “Atti generici” 20/11/1946 in Archivio di Stato Lucca)

La fatica, le sofferenze, la paura, le umiliazioni provate durante la marcia forzata affiorano in ogni riga del Diario. Nonostante questa condizione i fratelli Orsi e i loro compagni, il pisano di nome Angiolo e il livornese Mario, non perdono mai la speranza di poter organizzare la fuga per riconquistare la libertà. Almeno due tentativi vanno a vuoto finché con l’arrivo a Madonna del Bosco e la conoscenza di Maria, staffetta partigiana, la speranza diventa realtà. Dopo vari incontri, la notte del 29 ottobre la giovane donna li attende fuori dal campo di prigionia per condurli all’appuntamento con un barcaiolo, là dove “il fiume Senio si unisce al Reno”.

Maria fa parte di una brigata partigiana che da alcuni mesi sta organizzando la resistenza nel ravennate, ma Nello, Franco, Angiolo e Mario non vengono subito inseriti in una Compagnia. Prudenza vuole che prima di essere sicuri che non sono spie infiltrate dai fascisti vengano sottoposti ad interrogatorio e osservati e controllati nei loro comportamenti e azioni quotidiane. A vigilare su di loro è il comandante Canzio di cui Nello in particolare è attratto dal carisma e dal fascino delle narrazioni.

Canzio è un antifascista ferrarese, perseguitato politico, sfuggito nella notte del 14 settembre 1944 ad una caccia all’uomo organizzata dai fascisti di Lagosanto per catturarlo. Entrato in clandestinità, forma il Gruppo di Azione Partigiani “Tre Motte Lagosanto”: è Canzio Guietti che a guerra finita sarà il primo presidente del C.L.N. di Lagosanto.

Con Canzio si passano giorni da poter definire addirittura sereni, con tanto di festa di accoglienza con canti e balli. Sono i giorni della calma che precede la tempesta. Momenti di vero riposo. Si prende la barca e si va a colpi di paradel fra canali e canaletti alla pesca delle anguille. L’aria è fresca ma il sole è ancora caldo e in barca di giorno si può anche fare un pisolino. Non fosse per il pensiero che va alla madre, al padre, alla famiglia rimasta a Nozzano della quale da tre mesi non si hanno più notizie. La guerra è passata di là sicuramente. Gli alleati che avevano passato l’Arno hanno bombardato il paese. Si sono sentite le cannonate quando la colonna dei coatti marciava da Bagni di Lucca. In famiglia sono tutti salvi oppure qualcuno è rimasto ferito o magari ucciso sotto le bombe? Pensieri angoscianti che non trovano risposte ma non possono però bloccare l’azione.

Così, terminato il periodo di “purgatorio” e ottenuta la piena fiducia dei propri compagni, il 10 novembre i quattro fuggiaschi vengono condotti sull’Isola degli Spinaroni, al centro della Pialassa della Baiona. Qui sono rifugiati i partigiani del Distaccamento “Terzo Lori” della 28ma Brigata Garibaldi “Mario Gordini”, guidata da Arrigo Boldrini, nome di battaglia Bulow. Dopo pochi giorni dal loro arrivo formano insieme a volontari provenienti da varie zone la Quinta Compagnia “Mario Montanari”. Le compagnie sono composte da 30-35 uomini e alcune donne, la cui azione risulterà determinante per la vittoria finale. La caratteristica del “Terzo Lori” è quella di essere un “reparto di stanza” nella cui sede ogni componente può vivere in permanenza. Un distaccamento che Sergio Zavoli addirittura definirà alla fine degli anni ’60 “l’armata più singolare che guerra abbia mai conosciuto”.

Contravvenendo a quelle che sono state sinora le tattiche della guerriglia partigiana che privilegia le zone di montagna per organizzare piccoli gruppi d’assalto, colpire i tedeschi e poi ritirarsi, con la costituzione del “Terzo Lori” Bulow punta alla “pianurizzazione” della Resistenza. In concomitanza con l’avanzata degli alleati da sud si costruisce un accerchiamento delle truppe tedesche schierando le squadre partigiane nelle valli palustri a nord della città. E’ l’Operazione Teodora, obiettivo: liberare Ravenna. I compagni, già presenti sull’isola dal 29 settembre, raccontano di brevi e fulminei scontri con le truppe tedesche. Addirittura una notte con un’azione a sorpresa riescono a portar via un cannone anticarro calibro 47/32. Il campo è organizzato come un vero e proprio accampamento militare, con camminamenti e trincee, alloggi e cucina da campo e una infermeria bene dotata, con i rifornimenti che arrivano da Cervia, da poco liberata, oppure con aviolanci da parte degli alleati.

La vita nel campo ha i suoi ritmi da rispettare:

Ore 8 – Sveglia

Dalle 8 alle 9:30 – Pulizia personale, alle tende e all’accampamento

Dalle 9:30 alle ore 11:00 – Istruzione e pulizia armi

Alle ore 11:30 – Primo rancio

Dalle ore 11:30 – Consumazione primo rancio e riposo fino alle 14:30

Dalle ore 14:30 alle 15:00 – Pulizia personale

Dalle ore 15:00 alle ore 16:30 – Collettivo

Ore 17:00 – Secondo rancio

Primo turno di guardia

Franco imbraccia il fucile per la prima volta. Gli istruttori lo addestrano ogni giorno all’uso delle armi e alla loro manutenzione, mentre il commissario politico della Compagnia tiene discorsi sulle ragioni ideali e gli obiettivi della guerra di liberazione contro il nazifascismo. E’ in questi momenti che Franco matura la sua idea e la sua passione per una società comunista che non abbandonerà mai più fino al suo ultimo giorno di vita.

All’alba del 23 novembre Bulow accompagna al campo degli Spinaroni un capitano dell’VIII armata canadese: l’ufficiale Dennis Healy. Una sera il capitano riunisce tutti e parla chiaro. E’ giunta l’ora di agire, basta con i colpi di mano, sabotaggi o imboscate. E’ arrivato il momento di uscire a combattere in campo aperto, faccia a faccia con il nemico.

Così la sera del 3 dicembre inizia quella che passerà alla storia come la Battaglia delle Valli. Per sette giorni e sette notti sono scontri a fuoco con il nemico. Avanzate e ritirate. Soldati tedeschi uccisi e fatti prigionieri. Ma anche compagni feriti e caduti. Nello, che ha ripreso il suo ruolo di infermiere, interviene in più occasioni per soccorrere i compagni colpiti.

All’alba del 5 dicembre una staffetta avverte la V compagnia che le truppe tedesche della Wehrmacht, in ritirata da Porto Corsini, stanno marciando verso Sant’Alberto. Portano con loro un gruppo di uomini rastrellati tra Casal Borsetti e Mandriole. Per impedire il loro passaggio due squadre della Compagnia, circa quaranta uomini, si piazzano in prossimità di Ponte Zanzi. Una squadra si ferma in Casa dei fratelli Biancoli, l’altra in casa Zanzi. Dopo una lunga attesa compare la prima pattuglia di soldati tedeschi. Pensando di poter proseguire nella loro azione di rastrellamento, uno di loro si avvicina alla Casa Zanzi bussando con forza alla porta. Per tutta risposta gli arriva una bomba a mano che lo fa fuggire ferito e barcollante. I suoi commilitoni scatenano per oltre un’ora un inferno di fuoco contro la casa, con scariche di mitra e bombe a mano.

I fratelli Orsi, con il loro gruppo, sono asserragliati in casa Biancoli, anche loro sotto attacco della seconda pattuglia tedesca. Il mitragliere, Sesto Senni di Mandriole, tiene impegnati i soldati della Wehrmacht, ma una scarica colpisce in piena fronte, uccidendolo, proprio il padrone di casa, il partigiano Vincenzo Biancoli. Dopo poco anche il fratello Alceo, uscito di casa nel tentativo di porre in salvo la famiglia, viene ucciso dai tedeschi.

Lo scontro prosegue cruento ancora per un’ora, poi i tedeschi decidono di ritirarsi e passano su Sant’Alberto. I due gruppi di partigiani escono dalle case e si riuniscono. Nello, infermiere della Compagnia, soccorre l’unico compagno ferito, con la mandibola spezzata ed un occhio colpito: gli presta le prime cure sul campo, prima di farlo trasportare in barella all’accampamento centrale.

“Un altro episodio degno di menzione, scriverà Guido Nozzoli in “Quelli di Bulow”, è quello dei mitraglieri della 5a Compagnia SAP rimasti poco fuori di Mandriole per proteggere col fuoco delle loro armi il ripiegamento. Questi pochi uomini riuscirono a fermare i tedeschi per alcune ore. Quanto bastò per risparmiare ai patrioti altre dure perdite e per predisporre al Fossatone l’ultima linea difensiva dalla quale non avrebbero più indietreggiato a qualunque costo perché dal Fossatone si dischiudeva ai tedeschi la via del ritorno a Ravenna con le conseguenze che ben s’immaginano. Nella notte anche i mitraglieri poterono rientrare alla linea dove il grosso era attestato. A Ponte Zanzi si era stabilita la sede del comando e quella notte venne strenuamente difeso da una quarantina di volontari comandati da Franco”.

C’è un racconto di mio padre che ricorreva nelle sere d’estate quando ai Mortellini ci riunivamo con i vicini sotto la lampada d’angolo della casa cantoniera sull’Aurelia. Non amava molto raccontare la sua esperienza di partigiano, salvo prendere in giro Nello perché, non sapendo nuotare – diceva lui – aveva rischiato di annegare nella pialassa della Baiona. Quando lo faceva però ricordava sempre un suo compagno, uscito in perlustrazione con una squadra. Intercettato un gruppo di soldati tedeschi li disarmano e li prendono prigionieri. Mentre li conducono al campo il compagno tiene il mitra troppo vicino alla schiena di un tedesco che, voltatosi di scatto lo disarma, gli scarica addosso una raffica, lo uccide e fugge insieme agli altri. Una disattenzione costata la vita, frutto della inesperienza e del carattere mite del partigiano, sottolineava mio padre con gli occhi lucidi.

Quanti ragazzi si sono dovuti improvvisare soldati per una guerra che ha stravolto la loro vita, li ha strappati ai loro affetti, li ha costretti a patire il freddo, la fame e la paura, tanta paura di morire giovane, ancora con tutta la vita davanti. Sofferenze, paure, la morte che arriva e ghermisce chi ti sta a fianco: un cammino lungo e tormentato quello dei fratelli Orsi che porta però, finalmente, ad un risultato glorioso quanto inaspettato: il 10 dicembre la loro Compagnia riesce ad entrare in Ravenna, liberata da pochi giorni e può ricongiungersi con la propria Brigata. C’è gioia e orgoglio nello sfilare tra ali di cittadini festanti, anche se il bilancio di quella battaglia è di 22 caduti tra i propri compagni.

La sera e la notte passano veloci: finalmente si può consumare un pasto, sia pure frugale, attorno ad un tavolo e dormire in un vero letto. Ma il pensiero ora più che mai rimane alla famiglia rimasta a Nozzano. Non si può indugiare sereni in quel clima di festa senza sapere cosa è successo a casa.

 Così, dopo aver parlato con i propri superiori, i quattro toscani riescono ad ottenere il permesso di poter rientrare dalle proprie famiglie. Un viaggio di ritorno carico di ansia tanto è che, alle prime case di Nozzano, Nello ha un mancamento: la paura di non trovare vivo qualcuno dei suoi cari lo attanaglia, ma la conferma che “sono tutti vivi!” gli ridà la forza di entrare in casa e buttarsi nelle braccia di mamma Veriade.

Dopo una lunga notte passata a raccontare, a fare domande, a dare risposte, un buon pasto caldo e un lungo sonno che riesce a scaricare solo in parte la mole di adrenalina accumulata, si torna a girare per le strade di Nozzano, ormai liberata dai nazisti (ma non ancora dai fascisti che nel frattempo sono rientrati dal nord) per riabbracciare gli amici rimasti o ritornati, per far vedere che si è ancora vivi, per bere un bicchiere “da Brunino” e passare una serata di musica e ballo al Ragno d’Oro.

Il tragico scenario che presenta il paese va però aldilà di ogni immaginazione: la scuola elementare al centro della piazza è ridotta ad un cumulo di macerie, sventrata dalle mine tedesche. Le truppe della Wehrmacht hanno depredato stalle e campi, incendiato capanne e fatto saltare in aria anche le case attorno alla rocca. La torre campanaria del castello è crollata, colpita dai ripetuti cannoneggiamenti delle truppe alleate. Anche la chiesa è stata danneggiata.

Poi i racconti sui rastrellamenti in paese, le grida che uscivano dalle finestre della scuola per le sevizie e le torture. Le complicità dei fascisti: si racconta del povero Braconi, mandato al confino per volontà del Marlia, che ha pure fatto arrestare e uccidere dai tedeschi il direttore del manicomio. I morti impiccati con il filo spinato, fucilati, uccisi con un colpo di pistola alla nuca, nei boschi di Castiglioncello, Balbano, Casanova, Le Villine, a Filettole. Tra i morti c’è anche una bambina di nove anni, Stella, sfollata con la famiglia da Livorno, colpita a morte nelle vicinanze della stazione ferroviaria dalle schegge di una cannonata delle truppe alleate sparata di là d’Arno.

La vita piano piano riprende. Al nord la guerra di liberazione è ancora attiva. Ravenna è liberata, ma le truppe tedesche ancora non lasciano il fronte del Reno. Alfonsine è sotto attacco. Dal gennaio all’aprile del ‘45 si conteranno solo in quella zona più di trecento morti, con oltre tre quarti della cittadina ridotti a cumuli di macerie. Ma qua in paese si può tornare a pensare al futuro. Il forno di Beppe di Ballona ha ripreso a fare il pane e una ragazzina ogni mattina scende dalla Ruga per prendere un filoncino che dovrà bastare per sé, la madre, le due sorelle e i tre fratelli.

Il padre Ferruccio, muratore, è morto di broncopolmonite tre anni prima, lasciando mia nonna Pia a crescere da sola sei figli. Pochi soldi in famiglia e una lunga lista di conti da pagare sul libretto della bottega di Gioele. La ragazzina sgambetta veloce e chiede a Veriade, che abita proprio di fronte al forno, se le consente di dare una mano in casa per poter guadagnare qualcosa. Veriade la fa entrare e le raccomanda: fai la brava, se lavori bene ti faccio sposare il mì Franco. Quella ragazzina è mia madre Franca, oggi novantenne.

Il matrimonio poi ci sarà davvero quattro anni più tardi, ma Veriade non c’era. E’ il pomeriggio del 28 febbraio del ’45. Sono passati solo due mesi dal ritorno al paese dei fratelli Orsi: una colonna di carri alleati transita per Nozzano. Veriade, 61 anni e 5 figli, esce di casa con in braccio un nipotino. Vuole salutare i soldati amici che hanno portato libertà e pace anche tra le sue genti, quando le vibrazioni di un carrarmato fanno tremare e poi cadere una colonna della recinzione attorno casa. Il pesante cancello in ferro ondeggia e crolla di schianto. Veriade viene colpita a morte mentre il suo corpo protegge il bambino che uscirà incolume. A niente valgono i soccorsi.

La famiglia Orsi si trova così ad affrontare la sua ricostruzione, tra nuovi lutti e sventure, accomunata nella sorte a quelle famiglie, tutte uguali perché tutte hanno vissuto e vivono del proprio lavoro, che dopo il ventennio fascista, i drammi e le sofferenze del passaggio del fronte di guerra, hanno sperato in una società più giusta e più libera. Una società in cui le vittime dei crimini fascisti avrebbero trovato finalmente giustizia e i loro aguzzini realmente epurati dai posti di comando e di direzione, a partire dalle pubbliche amministrazioni.

Così non è stato. L’opportunismo di molti, la malafede di pochi ma potenti, hanno invece riproposto nel corso del tempo una restaurazione dei classici sistemi di comando e controllo, compatibili con una democrazia moderna, ma escludenti la grande maggioranza dei cittadini dai processi di formazione delle decisioni nonché dalla partecipazione al governo della res publica. Non appaia strano quindi che, a settanta anni dalla nascita di una comunità libera e rinnovata, si stia ancora discutendo sulle regole della rappresentatività e della rappresentanza democratica.

Per questo, ancora oggi, per mantenere viva la memoria di chi si è battuto per la nostra liberazione, pretendere la completa attuazione e la non modifica della Costituzione e continuare a sperare in una società migliore, non ci resta che unirci al grido di quel bravo magistrato: Resistere, Resistere, Resistere!

Bibliografia essenziale:

Mons. Francesco Baroni, Memorie di guerra in lucchesia (1940-1945). Note e ricordi, Tip. Artigianelli

Gianluca Fulvetti, Una comunità in guerra, L’Ancora del mediterraneo

Carla Forti, Dopoguerra in Provincia, Microstorie pisane e lucchesi 1944-1948, Franco Angeli Storia

ANPI Le stragi nazifasciste del 1943-1945, Memoria, responsabilità e riparazione, Carocci editore

ANPI Provinciale di Ravenna, Isola degli Spinaroni una base partigiana tra natura e storia, Danilo Montanari Editore

Arrigo Boldrini, Diario di Bulow, Vangelista

Guido Nozzoli, Quelli di Bulow. Cronache della 28ma Brigata Garibaldi, Editori Riuniti

AA.VV. La guerriglia in pianura: dalle prime squadre operaie alla “Colonna Wladimiro” in Alfonsine 11-12 aprile 1974, Convegno di studi sulla Resistenza.

Giulia Belletti, L’armata della pianura: la 28ma Brigata Gap “Mario Gordini”. Tesi di Laurea

Antonio Pagani, E’ café d’Cai. Le avventure di un giovane alfonsinese durante il fascismo.

Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Settembre 1943 – Maggio 1945, Feltrinelli

AA.VV. Storie della Resistenza, Sellerio Editore, a cura di Domenico Gallo e Italo Poma




Mohicani all’ombra delle mura: la Democrazia proletaria lucchese dal “Manifesto” all’89

A partire dalla fine degli anni ’60, a sinistra del Pci – anche sull’onda delle esperienze movimentiste del ’68 – nascono numerose formazioni politiche di ispirazione marxista, da Lotta continua a Potere operaio passando per il Manifesto (nato proprio da una corrente interna del Partito comunista), il PdUP e Avanguardia operaia: decine di sigle e un tratto in comune ben preciso, la critica al Partito comunista – colpevole agli occhi di alcuni militanti e simpatizzanti più giovani, molti dei quali provenienti da ambienti universitari, di aver abbandonato qualsiasi strategia rivoluzionaria1 – e di conseguenza all’Unione sovietica e ai regimi del blocco socialista in Europa orientale, accusati di essere paesi capitalisti mascherati da “falso socialismo”2 e scalzati nell’immaginario collettivo dai miti di Che Guevara e della Cina maoista.

Fra tante formazioni, una in particolare spicca per l’originalità dei contenuti e della proposta politica (che nel corso degli anni si configurerà sempre più come una sintesi di pacifismo, ambientalismo, marxismo libertario e cattolicesimo progressista), un partito – o meglio un cartello elettorale, almeno nei suoi primissimi anni di attività a partire dalla fondazione nel 1975 – che riunisce vari soggetti dell’area della sinistra rivoluzionaria (PdUP, AO, Movimento lavoratori per il socialismo e altri gruppi minori): è Democrazia proletaria, “uno strano gruppo di protocristiani” (così l’avrebbe definita nel 1987 l’attore Paolo Villaggio, allora candidato nelle liste di Dp3) che nel corso dei suoi circa sedici anni di vita fino alla confluenza in Rifondazione comunista avrebbe costituito la principale forza politica a sinistra del Pci.

Anche a Lucca – “città bianca” per eccellenza nella rossa Toscana – la tribù dei “mohicani”4 demoproletari riesce a piantare le proprie tende: una “piccola comunità” – così la descrive Eugenio Baronti – “di militanti superattivi, preparati, colti; alti livelli di scolarizzazione, elevata qualità del dibattito e del confronto politico”, quasi il partito di una élite intellettuale – nonostante l’obiettivo prefissato della costruzione di un partito di massa5. Fra loro c’è Gian Paolo Marcucci, allora giovane studente e militante della sinistra marxista, già vicino al locale circolo del Manifesto, assieme al quale abbiamo ripercorso alcune delle tappe più significative della storia di Dp a Lucca.

Quando ti sei avvicinato a Democrazia proletaria? Avevi già militato in precedenza in altri partiti o movimenti?

Sì, a 17 anni , nel 1971, proprio in concomitanza con l’uscita dell’omonimo quotidiano, mi avvicinai al circolo locale de Il Manifesto. Iniziai praticamente con la diffusione del giornale davanti alla scuola – Istituto magistrale – che frequentavo a Lucca. In seguito, dopo il mancato successo elettorale del 1972 iniziò il progetto di unificazione con i compagni dello Psiup che avevano deciso di non confluire nel Pci o nel Psi e che insieme ai compagni del Movimento politico dei lavoratori (cattolici di sinistra) avevano dato vita al PdUP. Se nel gruppo lucchese del Manifesto vi erano prevalentemente studenti e insegnanti, nel Pdup vi era una discreta presenza operaia di quadri di fabbrica.

Nel 1975, si arrivò all’unificazione e nacque il Partito di unità proletaria per il comunismo, fra i cui esponenti maggiori erano Lucio Magri, Vittorio Foa e Rossana Rossanda. Nel frattempo si era aperto un dialogo con altre formazioni della sinistra extraparlamentare, come Avanguardia operaia e il Movimento studentesco di Mario Capanna, che ebbero come primo risultato la presentazione alle elezioni amministrative del 1975 di liste denominate “Democrazia proletaria” in alcune regioni. In Lombardia , dove il successo fu più marcato fu eletto consigliere Capanna. In Toscana fu presentata la lista Pdup per il comunismo ma intanto, a livello locale, iniziarono gli incontri con AO e con la Lega dei comunisti, altra organizzazione con un certo radicamento in regione.

Nel 1976, in occasione delle elezioni politiche anticipate, dopo travagliati tira e molla si arrivò ad un cartello elettorale (da non confondere con il futuro partito) ribattezzato “Democrazia proletaria”, che raggruppava le tre forze più consistenti alla sinistra del Pci: Pdup, AO e Lotta continua. C’era l’auspicio da un lato del sorpasso della Dc da parte del Pci e di una tenuta del Partito socialista, dall’altro di un buon successo delle forze della nuova sinistra, riuscendo a superare il 50% del consenso elettorale in modo da rendere possibile la formazione di un governo di sinistra, nonostante la politica indirizzata al compromesso storico dei comunisti.

Perché proprio Dp e non il Pci, allora la principale forza politica a sinistra? Cosa differenziava Democrazia proletaria dal Partito comunista “ufficiale”?

C’era la convinzione della “rivoluzione dietro l’angolo”, considerati gli eventi che in parte si intrecciavano sul piano nazionale e internazionale: la resistenza del popolo vietnamita, Cuba e i fermenti in America latina, le lotte di liberazione anticoloniali in Africa, le ribellioni studentesche e le lotte operaie in tutta Europa – sia a est che ad ovest – e per ultimo la caduta del fascismo in Portogallo ad opera dei militari democratici; parafrasando Dylan, i tempi stavano cambiando. E così avveniva anche in Italia dove il Partito comunista sicuramente dava un fondamentale contributo dall’opposizione con la sua forza istituzionale, supportando di fatto anche i socialisti nel contraltare governativo rispetto alla Dc, all’attuarsi delle riforme in questo periodo. Non convinceva però, soprattutto alla luce della strategia della tensione – portata avanti da gangli importanti della Dc unitamente a servizi segreti ed estrema destra per bloccare le conquiste del movimento operaio e studentesco – la proposta del compromesso storico. Fra l’altro in quegli anni era emersa una piccola ma significativa area militante di cattolici di sinistra che respingeva il collateralismo con la Dc come partito dei cattolici.

Per questi motivi, nonostante i risultati elettorali del 1976 fossero stati al di sotto della aspettative per le sinistre, l’ipotesi su cui intendeva muoversi il Partito comunista non mi convinceva, tanto più quanto all’allontanamento da Mosca non corrispondeva una posizione di autonomia e non allineamento, bensì si accettava la protezione dell”ombrello della Nato”. Quando poi nel corso dell’estate del ’76 fu varato il governo monocolore democristiano di Andreotti con l’astensione del Pci, fu chiara la direzione che stava prendendo quest’ultimo e che avrebbe poi indebolito le lotte sindacali e ridato ossigeno alla Dc in difficoltà. Fu per questo che, pur nel subbuglio creato dalla delusione elettorale che portò a scissioni e abbandoni della politica, e nonostante a livello nazionale come a Lucca la componente Manifesto conservasse il marchio Pdup per il comunismo, personalmente aderii al processo di formazione di Democrazia proletaria che tenne il suo primo congresso due anni dopo, nel 1978, in un clima fortemente deteriorato a causa del terrorismo brigatista e delle politiche securitarie appoggiate anche dal Pci. Democrazia Proletaria chiaramente non riteneva più la rivoluzione dietro l’angolo, però non si rassegnava né alle scorciatoie della lotta armata né al blocco delle rivendicazioni operaie.

Chi sono i principali esponenti di Democrazia proletaria a Lucca? Quali sono le loro storie politiche?

Prima di rispondere a questa domanda vorrei fare una distinzione fra le tre fasi della vita di Dp a Lucca e nel paese. La prima è quella che va dalla sua costituzione fino alla debacle elettorale con il cartello Nuova sinistra unita (1975/1979) ; la seconda fase, dalla ricostruzione dalle macerie fino al rientro in Parlamento (1980/1983); la terza, che passando per la scissione dei Verdi arcobaleno arriva fino allo scioglimento di Dp (1983/1991). Del primo periodo ricordo soprattutto Gildo Tognetti, già dirigente di rilievo nello Psiup a livello nazionale, che poi si allontanerà nell’80. Altri compagni furono Claudio Orsi, già dirigente sindacale lucchese, proveniente da AO che resterà attivo fino alle elezioni dell’83; poi Eugenio Baronti e Danilo Ascareggi (ex Lega dei comunisti), Marcello Nelli (ex Pdup e Acli) e, dalla valle del Serchio, Leonardo Mazzei e Mario Regoli (ex Stella rossa se non sbaglio); tutti resteranno più o meno in Dp fino alla fine, confluendo in Rifondazione.

La terza fase fu quella di maggiore espansione in termini di iscritti e militanti: soprattutto dopo le amministrative del 1985, in cui ottenemmo un buon risultato – considerando le nostre forze – livello locale (un consigliere provinciale e un consigliere nella circoscrizione Lucca-Centro) entrarono compagni storici del movimento lucchese del ’68, come Francesco Giuntoli, Daniele Squaglia, Virginio Monti, Tommaso Panigada e Luca Franceschi, oltre ad altri compagni e compagne (seppur poche purtroppo) più giovani.

Dp è sempre stata molto critica verso l’Urss e i paesi del “socialismo reale”. In cosa consisteva questa critica?

Personalmente a 14 anni, pur orientato vagamente a sinistra ho dovuto fare i conti – oltre che con la guerra del Vietnam e la sfortunata impresa del Che in Bolivia – con la Primavera di Praga e la sua repressione ad opera del Patto di Varsavia. Quindi fra il difendere a spada tratta la “Patria del Comunismo” anche quando andava contro altre esperienze che pure non rinnegavano il socialismo, e sposare tesi che bollavano come totalitario a prescindere il pensiero comunista, ho dovuto cercare progressivamente di approfondire le ragioni di questa deriva autoritaria dei sistemi socialisti e delle possibili alternative senza rassegnarsi al “migliore dei mondi possibili” rappresentato dal capitalismo. Anche per questo avevo aderito al Manifesto e mi trovai a mio agio in Dp. Fra le critiche maggiori al socialismo reale, pur riconoscendone la capacità di assicurare – a differenza dell’Occidente e dei paesi in via di sviluppo sotto il suo tallone – la soddisfazione generalizzata dei bisogni primari (sanità, occupazione, istruzione), era l’identificazione fra Partito e Stato, la burocratizzazione dei rapporti sociali, la mortificazione delle spinte dal basso, la bollatura di ogni dissenso come complotto e infine un’organizzazione del lavoro che non si discostava nei meccanismi fondamentali da quella alienante capitalistica. Per non parlare delle purghe staliniane e del sistema dei gulag, sebbene l’Occidente stesso – che favoriva i golpe in Grecia e America Latina, sosteneva il Franchismo spagnolo e la strategia della tensione in Italia – non fosse da meno.

Nel 1989 cade il muro di Berlino, e da lì a pochi anni scompare la stessa Unione sovietica. Quali furono le reazioni dentro la Democrazia proletaria lucchese?

Riprendendo quanto detto sopra, c’era stata una certa attenzione da parte di Dp verso l’area del dissenso all’Est (ricordo un numero di “Unità Proletaria” dei primi anni ’80 dedicato a Solidarnosc e, se ben rammento, la candidatura del dissidente polacco Wlodek Goldkorn alle elezioni europee dell’89), ed anche sulla repressione di piazza Tienanmen ci fu sconcerto. In merito al crollo del muro di Berlino non ricordo le posizioni del partito (ma sicuramente ve ne furono, in questo caso fallano le mie memorie); personalmente vidi con favore ciò che avveniva, sperai che l’esito fosse una liberazione del socialismo dalla cappa burocratica in cui era stato ingabbiato, senza – come è successo – cadere dalla padella nella brace di una riunificazione delle due Germanie all’insegna di una sorta di colonizzazione neoliberista. Ciò purtroppo è avvenuto in varie forme in tutti i paesi dell’Est, dove spesso una parte della vecchia classe dirigente “comunista” si è riciclata per governare la nuova situazione.

Il 1989 è anche l’anno della “svolta della Bolognina” e dell’avvio di quel processo che porterà alla trasformazione del Pci in Partito democratico della sinistra (Pds). Questa scelta suscita stupore all’interno di Dp?

Diciamo parzialmente stupiti (perlomeno nel mio caso) non tanto perché non vedessimo una certa mutazione genetica avvenuta nel tempo (da anni parlavamo di “socialdemocratizzazione”) soprattutto in parte del gruppo dirigente del Pci, quanto per la decisione di scioglierlo cambiando il nome. Se dopo a fuoriuscirne oltre agli ingraiani furono i cossuttiani, pareva che i più dipendenti dal filosovietismo non fossero questi ultimi ma proprio chi voleva rimuovere la parola “comunista” dal nome. Come a dire: la fine dell’esperienza sovietica equivale alla fine del comunismo stesso, dunque si cambia nome. Chiaramente iniziò ad esserci attenzione nei confronti di chi dissentiva da quella scelta; fra l’altro Dp aveva già subito l’uscita di Capanna (che aderisce ai Verdi), Ronchi Tamino, Franco Russo (metà del gruppo parlamentare) e Molinari con loro vari consiglieri amministrativi, per cui l’eventualità di nuove aggregazioni poteva essere benvenuta.

A distanza di pochi anni dalla fine del Pci, anche la storia di Democrazia proletaria giunge al termine: nel 1991 infatti il partito confluisce nella neonata Rifondazione comunista. Quale strada scegliesti allora, e perché? Quale fu il dibattito sul territorio circa l’adesione al Prc?

Praticamente, se nel 1989 eravamo riusciti alle Europee a confermare un deputato – Eugenio Melandri – la scissione dell’area interna verde, che aderì alla lista Verdi Arcobaleno, indebolì l’immagine del partito sebbene, esclusi i non pochi rappresentanti nelle istituzioni, la maggior parte del corpo militante fosse rimasto in Dp. Anche a Lucca fu così: a livello provinciale uscirono  soprattutto i viareggini. Comunque il dato nuovo della formazione, sul finire del 1990 del Movimento per la Rifondazione comunista riaccese -pur fra i dubbi- le speranze per una nuova aggregazione . Ricordo una manifestazione a Camp Derby nel febbraio-marzo 1991, contro la Prima guerra del Golfo ancora in corso, cui parteciparono anche loro. Io, come la grande maggioranza degli iscritti lucchesi, decisi di aderire al Movimento (non ancora partito). Mi ricordo che la prima sede era una stanzetta, a Lucca, in Via Santa Chiara e la prima riunione cui partecipai mi sembra fu nell’autunno del ’91: le perplessità riguardavano soprattutto il rapporto con l’area cossuttiana (considerando le posizioni critiche sul socialismo reale) ma trovammo comunque abbastanza disponibilità, ho un buon ricordo dei primi anni. Per circa tre anni continuammo però a tenere la sede che avevamo in Via Fillungo, trasformandola in una piccola casa della sinistra, il “Circolo Utopia”.

1Critiche nei confronti della progressiva “istituzionalizzazione” del Pci erano già emerse in seno al partito stesso nel corso degli anni ’50, ad esempio con Pietro Secchia (vedi anche Vittoria, A., Storia del Pci, 1921-1991, Carocci, Roma 2007); l’episodio più emblematico resta però quello che vide protagonisti Adriano Sofri e Gian Mario Cazzaniga nel marzo 1964 alla Scuola Normale di Pisa, che contestarono a Palmiro Togliatti la mancata presa del potere rivoluzionaria in Italia nell’immediato dopoguerra, nonché il voto favorevole del Pci all’articolo 7 della Costituzione, che recepiva i Patti Lateranensi del ’29 (vedi anche Meucci, G., “Dalle aule alle piazze”, in Meucci G., Renzoni S., Il Sessantotto. Immagini di una stagione pisana, Pacini, Pisa 2017, pp. 39)

2Così un verso de “L’ora del fucile” (1971), del Canzoniere pisano: “In Spagna e in Polonia gli operai | dimostran che la lotta non si è fermata mai | contro i padroni uniti, contro il capitalismo | anche se mascherato da un falso socialismo. | Gli operai polacchi che hanno scioperato | gridavano in corteo: Polizia Gestapo! | Gridavano: Gomulka, per te finisce male! | Marciavano cantando l’Internazionale!” (vedi anche https://www.ildeposito.org/canti/lora-del-fucile)

4Il riferimento è al titolo del libro di Pucciarelli, M., Gli ultimi mohicani. Una storia di Democrazia proletaria, edito da Alegre nel 2011.

5Baronti, E., Con il piombo sulle ali, EDL, Lucca 2011, pp. 46-47; Eugenio Baronti (1954) ha ricoperto il ruolo di segretario provinciale di Dp dal 1980, dopo esserne stato uno dei fondatori; nel 1991 aderisce al Prc, prima di uscire dal partito nel 2010; è stato anche consigliere comunale e assessore all’ambiente nel comune di Capannori.




Una commedia di Giocondo Papi

Giocondo Papi – sindaco socialista di Prato dal 1920 al 1922, quando l’amministrazione liberamente eletta venne defenestrata dai fascisti – si dilettava a scrivere poesie. Nel 1930, per i tipi delle Arti grafiche Nutini, diede alle stampe una commedia in tre atti intitolata Mia moglie…non è mia moglie?

La commedia, imperniata sulla straordinaria somiglianza fra le due protagoniste, narra una storia di infedeltà coniugale e, tenuto conto dell’epoca in cui è stata scritta, non è priva di una certa audacia. È stato osservato che la trama presenta evidenti punti di contatto con Come tu mi vuoi di Luigi Pirandello, rappresentata per la prima volta a Milano proprio nel 1930. L’ambientazione ed alcune situazioni da vaudeville rendono il tono del lavoro di Papi leggero e frivolo: la sua atmosfera è dunque ben diversa da quella della commedia pirandelliana, anche se l’opera è attraversata da una vaga inquietudine, causata dalla consapevolezza dell’impossibilità di conoscere realmente perfino i propri familiari.

La commedia non ha particolari pregi artistici, ma merita di essere ricordata come una testimonianza degli interessi che Papi coltivava, da autodidatta, in campo letterario: la famiglia degli scrittori pratesi si allarga così per far posto ad un nuovo, inaspettato, componente.

Ecco un breve riassunto dell’opera.

Tina, moglie di Mario Bruni, attende con ansia l’amante Giulio Biondi. Costui entra in scena cantando una canzone, musicata dal maestro Giovanni Castagnoli, che è stata definita dal maestro Roberto Becheri, docente di composizione al Conservatorio di Ferrara, “una serenata che scorre leggera su una fresca melodia da café-chantant”. La moglie di Giulio, Nella, è fuggita tempo addietro, colta da improvvisa pazzia, senza più dare notizie di sé.  Mentre i due amanti stanno parlando rientra in casa il marito di Tina, e Giulio è costretto a nascondersi in cucina, naturalmente dentro un armadio. Sorpresa ed irritata a causa dell’improvviso arrivo del marito, Tina si difende attaccando e sostiene che Mario la tradisce. Al culmine della finta scenata di gelosia è però colta da malore. Mario chiede allora aiuto ai vicini. Un’ inquilina gli suggerisce di andare in cucina a prendere un po’ di aceto per spruzzarlo sul viso di Tina e, nonostante la moglie cerchi di trattenerlo, Mario va in cucina, causando la fuga di Giulio che riesce ad infilare la porta di uscita. Compresa facilmente la situazione, Mario accusa Tina di avere un amante. La moglie reagisce scappando ed i vicini la prendono per pazza. Dopo aver trascorso un anno di degenza in una clinica per malattie mentali, Tina viene ricondotta a casa per un confronto col marito. Giulio, però, giocando sulla straordinaria somiglianza fra le due donne, sostiene che Tina è sua moglie Nella. Tina arriva, accompagnata da due medici, e finge di non riconoscere né la casa né lo sposo. In esecuzione di un  piano preordinato, si presenta anche Giulio, che Tina si precipita ad abbracciare come se fosse suo marito. I medici decidono allora che, per giudicare con coscienza, sono necessarie delle prove inconfutabili, e chiedono a Mario di indicare qualche segno particolare visto nell’intimità sul corpo della moglie. Mario non riesce però a ricordare nulla, mentre Giulio indica ben tre nei: uno sotto la nuca, uno sotto l’ombelico ed un altro più sotto ancora: Tina si spoglia, mostra i nei ai medici e se ne va con Giulio che sembra così aver avuto partita vinta. Subito dopo, però, entrano due vicine con un giornale contenente la notizia che una ricca signora ha lasciato il suo patrimonio ad una bella smemorata sconosciuta, ricoverata in una casa di salute a Bologna. La donna della foto che accompagna l’articolo somiglia in modo impressionante alla moglie di Mario che, insieme con i medici e con le due vicine, si reca dunque a Bologna per un nuovo confronto. La donna che Mario vede a Bologna è in realtà la moglie di Giulio, Nella, ma egli crede sinceramente di riconoscere in lei Tina e la porta a casa con sé. Si presenta però Giulio che rivela la verità a Mario, facendolo esclamare: “Perdio!…Come?…Mia moglie non è mia moglie?” Giulio insiste. Il campanello suona ed entra anche Tina che implora Mario di perdonarla. Mario però, a questo punto, non vuol saperne più nulla di lei, la respinge e va a vivere felice con Nella.

La parte di Tina e quella di Nella dovevano essere sostenute dalla stessa attrice. Una curiosità: in calce al testo della commedia figura un’errata corrige, dove fra l’altro si specifica che alla quarta riga di pagina 36, dove si dice, “sua moglie”, si deve leggere invece “vostra moglie”. L’errata corrige è del 1930. Otto anni dopo, con un foglio di disposizioni del segretario del PNF Achille Starace  il regime avrebbe imposto la sostituzione del “lei” con il “voi”. Preveggenza?




Mazzino Chiesa, un uomo in mare

«Il bacino occidentale del Mediterraneo può venire considerato nel suo complesso come un unico mercato del lavoro per l’emigrazione italiana, nonostante le diverse condizioni, sia giuridiche, sia economiche dei paesi che ne fanno parte»: così scriveva il Commissariato generale dell’emigrazione nel 1926, riportando la stretta connessione e circolarità esistente tra le diverse sponde del Mediterraneo, in cui si venivano a intrecciare antichi insediamenti italofoni legati al commercio e alle professioni liberali, con nuovi flussi dell’emigrazione da lavoro attratti dagli interventi infrastrutturali, dalle attività portuali o minerarie, oltre che dai più tradizionali mestieri agricoli o servizi urbani. Alla metà degli anni ’20 si può stimare un totale di 550.000 persone di nazionalità italiana che vivevano stabilmente nei territori bagnati dal mar Mediterraneo e che intrattenevano con il paese di origine rapporti più o meno fitti e continui. Si trattava con ogni probabilità della più numerosa nazionalità in emigrazione nell’intero arco mediterraneo, considerando le minori dimensioni demografiche di Grecia e Malta, altri paesi con un’importante diaspora marittima.

Così come era successo con l’emigrazione politica degli esuli risorgimentali, lo spazio mediterraneo tornò a essere durante il periodo fascista un luogo di rifugio per gli emigrati politici avversati dal potere in Italia: gli antifascisti trovarono nei porti del “mare di mezzo” una risorsa molto importante per sfuggire alle maglie della repressione fascista e allo stesso tempo poter continuare a tenere rapporti con la società italiana.

L’intricato campo di relazioni dei sovversivi antifascisti che univa le coste del Mediterraneo si basava sulla presenza stabile delle comunità italiane all’estero, ma aveva poi bisogno di vettori e persone mobili che facessero da tramite. È il caso di Mazzino Chiesa, nato nel 1908 in un quartiere popolare di Livorno. La sua storia è strettamente legata al mare e al partito comunista: di madre valdese e di indole anarchica, fu attivo politicamente sin da giovane in un comitato sindacale comunista. Possiamo ricostruire la sua vicenda a partire dal fascicolo personale conservato nei faldoni della Polizia politica presso l’Archivio Centrale dello Stato e dall’intervista che gli fece Iolanda Catanorchi nel 1974, disponibile online.

chiesa_2A 17 anni si imbarcò per un trasporto oltreoceano, senza avere però l’accortezza di passare ai compagni le consegne delle sue attività politiche. Commise così una grave imprudenza: «avevo del materiale del soccorso rosso e dei soldi in casa e sono partito […] imbarcai a bordo di questo vapore […] partimmo e io nel partire siccome avevo lasciato tutto il materiale a casa e non avevo avuto il tempo di fare… […] scrissi una lettera a mia madre, scrissi: “cara mamma dietro al quadro trovi il materiale, dallo a Gino”». La lettera fu intercettata dalla polizia, che a distanza seguì gli spostamenti del vapore fino al suo rientro. «Ritornando da Montereale [Montreal, n.d.a.], dal Canada, avevamo caricato del grano, quando arrivammo nel porto di Napoli, fuora, nel golfo di Napoli, vedemmo dei motoscafi della milizia che circondavano il vapore, difatti diedero ordine al comandante di dar fondo fuora. Quando fummo fermi ci invitarono tutti al centro…». Non ancora maggiorenne Chiesa venne arrestato per la prima volta e portato al carcere minorile di Napoli, quindi a Regina Coeli e poi a Livorno.

Da allora fu costantemente sorvegliato dalle forze dell’ordine. Nel 1931 Chiesa venne a sapere che era stato spiccato un mandato di cattura e decise di partire per la Corsica insieme ad altri quattro ricercati, con una barca comprata per l’occasione. «Quasi tutta a remi ce la siamo fatta, 42 ore ci abbiamo messo, siamo stati più bischeri noi, perché non c’era vento, non abbiamo trovato…». Stabilitosi a Bastia con altri fuoriusciti comunisti, si fece notare per la vivace propaganda antifascista. Nel novembre 1931 venne arrestato per aver picchiato a sangue Vasco Patania, un altro livornese venuto a Bastia insieme a un commerciante di stoffe, ritenuto un agente dell’Ovra. Nonostante la gravità delle percosse (in seguito alle quali Patania morì in un sanatorio a Livorno) il processo si concluse con una lieve condanna, un mese di prigione che Chiesa aveva già scontato, come riferiva alla polizia italiana un’informativa anonima:

Il Chiesa è così uscito glorioso e trionfante, accolto dai compagnoni suoi, fra gli applausi generali. […] l’avv. Moretti di cui già altra volta abbiamo parlato per il suo antifascismo […] fra gli unanimi applausi sostenne invece che il Chiesa è un perseguitato politico dovuto fuggire dalla sua patria perché odiato dal Fascismo […]. Il processo è emerso [sic] una requisitoria antifascista che ha fatto andare in sollucchero i fuoriusciti che in gran numero si erano dati convegno nell’aula e nelle adiacenze del Tribunale. Il Chiesa Mazzino non appena uscito è tornato alla carica ed alla sera stessa ha tenuto una concione antifascista sulla banchina del Porto (malgrado il freddo) e dinanzi agli operai della “Impresa Vestrini” ha parlato ancora delle necessità di naturalizzarsi francesi per evitare di tornare in Italia a morir di fame sotto la sferza del fascismo. I soliti canti antifascisti hanno posto termine alla gazzarra senza che la polizia intervenisse.

 Partì quindi verso Marsiglia e si recò a Parigi. Qui prese contatto con i vertici del Partito comunista d’Italia (Pcd’I) in esilio: lavorò dapprima per il Soccorso rosso, poi insieme a Giuseppe Di Vittorio iniziò a occuparsi dell’organizzazione della propaganda presso i lavoratori dei porti. Dopo aver partecipato con lo stesso Di Vittorio a un congresso internazionale dei portuali ad Altona, vicino ad Amburgo, entrò ufficialmente nell’organizzazione sindacale per conto del partito.

Alla fine del 1932 i servizi informativi fascisti lo individuavano come «un rappresentante della federazione italiana dei lavoratori del mare» (Film), inviato dal comitato centrale del Pcd’i a Marsiglia «allo scopo di tentare di organizzare in detta associazione i marittimi delle navi mercantili italiane che toccano quel porto»: «costui frequenta spesso il Club dei marittimi di Marsiglia, cercando di avvicinare connazionali ai quali distribuisce stampa del partito e tessere». Prese contatto tra gli altri con gli ambienti dei portuali di Genova, Livorno, Savona, Napoli: «andavo nei porti, creavo i comitati di diffusione e stampa, e poi attraverso questi prendevamo contatti con i marinari e dovevamo andare molte volte negli ambienti equivoci, molte volte passavamo per magnacci, altre volte passavamo per contrabbandieri, altre volte… perché i marinari si trovano lì, non si trovano…».

Come ha ricostruito Paolo Spriano, nella storia ufficiale del Partito comunista, «in questo periodo [tra 1933 e 1934] una buona parte della propaganda clandestina comunista che riesce a penetrare nel Regno ha come veicolo i marittimi, e la polizia aumenta la sua sorveglianza sugli equipaggi». Per poter svolgere questa attività e sfuggire al controllo poliziesco, Chiesa assunse differenti identità, in un gioco di dissimulazione che gli apparati di sicurezza italiani stentavano a seguire: Mario Landrelli, Mario Sandrelli, Assante Puntoni, Luigi Lenzi, Mario Luschi, Mario Lucchi, André Bernard, Masianello, Silverio, Masini, Alfredo o Alfredone, Ernest Morioli, Ernst Boschi, Roque Celeste Amado sono alcuni dei nomi utilizzati, il più delle volte con la copertura di un documento falsificato. Nel marzo 1933 da Parigi un informatore della polizia politica riferiva gli estremi della carta d’identità francese di un certo Alfredo Ferrari, nella convinzione che si trattasse in realtà della copertura fittizia per un’altra persona, Luigi Lenzi. Non sospettava che la vera identità dell’uomo che stava seguendo era ancora un’altra, quella di Mazzino Chiesa.

Alcune missioni di cui venne incaricato dal partito appaiono particolarmente rischiose. Ad Algeri ebbe il compito di avvicinare i membri italiani della flotta navale, creare delle cellule comuniste a bordo e trovare un marinaio disposto a disertare per recarsi a un congresso ad Amsterdam, per poi andare a vivere in Russia. «Mi hanno dato una valigia a doppio fondo, con già il materiale, i clichet pronti, tutto il materiale, il passaporto svizzero, mi chiamavo Morioli Ernest». Riuscì nell’intento e tornò a Marsiglia con un disertore comunista. Sempre in Algeria, ma a Bona, fu ancora inviato per fare proselitismo tra gli italiani che caricavano i fosfati e i concimi chimici sui vapori.

Nonostante tutti questi spostamenti, il centro del suo peregrinare per i porti mediterranei rimaneva Marsiglia, dove teneva le fila dell’organizzazione dei marittimi. «Ero più utile io in questo lavoro…», dichiarò con orgoglio alla metà degli anni settanta. La guerra di Spagna segnò una cesura in questa sua attività. Si recò una prima volta come volontario insieme al fratello nelle formazioni di Giustizia e libertà, nella colonna Rosselli. Venne quindi severamente rimproverato dal partito che lo rispedì a Marsiglia a riprendere il lavoro con la Film, fortemente indebolita dalla sua partenza improvvisa. Qui però continuò a pensare alla Spagna: «è anche latore – segnalavano gli informatori fascisti – presso alcune personalità ed organizzazioni, di richieste di materiale bellico e di uomini». Riuscì a ripartire per il fronte spagnolo, per poi finire all’inizio del 1939 nel campo di concentramento di Argelès-sur-Mer. Dopo un breve periodo scappò e fece ritorno a Marsiglia, dove la polizia francese lo stava aspettando per trarlo in arresto. Riuscì a imbarcarsi clandestinamente su un vapore diretto a Tunisi. Qui trovò Giorgio Amendola e Velio Spano e fu introdotto nel gruppo degli italiani comunisti locali.

 Attualmente è ospite di un giudeo che abita nella Avenue Jean Jures [sic] n. 59. Il controscritto – appena giunto – si mise subito in contatto con gli altri compagni di fede, ai quali rimprovera la mancata energia e la mancata attività di mettere in esecuzione il programma rivoluzionario e dinamitardo anarchico. Sembra – ma non lo si può affermare con prove specifiche – che il Chiesa avrebbe preso parte alla spedizione punitiva eseguita recentemente contro la sede del Dopolavoro del circolo rionale Bab El Kadra di Tunisi.

 Nel corso del Ventennio, la vicinanza geografica tra le sponde del Mediterraneo e l’eredità storica delle circolazioni che avevano avuto luogo all’interno del bacino crearono delle condizioni favorevoli per gli antifascisti: di fronte alla situazione oppressiva che il regime fascista aveva instaurato all’interno della penisola e su cui imponeva in maniera sempre più dura i suoi apparati di controllo, il mare rappresentò una risorsa fondamentale per gli oppositori. Le vie acquatiche potevano portare con facilità in ambienti non sottoposti al codice penale fascista né alla sovranità della sua polizia, ma pur sempre familiari, grazie alla presenza delle comunità italiane e alla larga diffusione della lingua italiana nell’arco mediterraneo. La zelante attività di informatori e consoli non mancò di estendere la rete di controllo anche fuori dai confini, ma pur sempre sotto ordinamenti giuridici e statuali differenti da quelli dominati dal fascismo. In questa situazione si mossero persone e organizzazioni con una competenza specifica nel fare propaganda presso i portuali e la gente di mare. La ricostruzione dei loro percorsi e dei network su cui si muovevano è di grande interesse per un’analisi della centralità della dimensione mediterranea come spazio storico e geografico di libertà e democrazia.




Il mondo a metà e la storia contadina del Novecento

Negli anni ’70 la mezzadria era al centro dei dibattiti storiografici. In specie la ‘mezzadria classica toscana’ che lungo l’Ottocento aveva fatto discutere, tra granducato e nuova nazione, economisti e politici, liberali e protezionisti. Qualcuno aveva teorizzato di esportarla in Sicilia. L’origine si faceva risalire al XII secolo. Ai primi del Novecento questo contratto-relazione sociale che appariva statico ebbe dei momenti di forte dinamismo sindacale: lo sciopero di Chianciano del 1902 è rimasto esemplare. Nacquero delle Leghe contadine. Il fascismo le sciolse, ma cercò di valorizzare il contratto parziario (il prodotto metà al padrone e metà al contadino) come una sorta di alleanza tra contadini e proprietari. Scintille covavano sotto la cenere, ma gran parte del mondo rurale arrivò alla guerra senza particolari iniziative sociali. La guerra e il passaggio del fronte di podere in podere, l’organizzazione della Resistenza nelle zone di mezzadria più povera della montagna, la diserzione quasi generale dei giovani verso la leva repubblichina fecero entrare i mezzadri nella scena della storia, del sindacalismo e della politica.

Il dopoguerra fu animato da straordinarie lotte sociali, finalizzate soprattutto alla modifica della quota del riparto per passare dalla metà a un rapporto più favorevole al contadino. Vi furono importanti successi, ma la complessità dello scenario del nuovo sviluppo industriale spinse il padronato a non investire sulla terra e i mezzadri a non mettersi in proprio. E fu anche un momento di grandi discussioni interne alla sinistra politica dalla quale molti si sentirono abbandonati, in particolare i mezzadri.

Negli anni’70 era ancora vivo un forte dibattito sulle scelte del Partito Comunista in agricoltura, sulle responsabilità dei singoli leaders, sulla scelta di privilegiare la classe operaia urbana sacrificando i contadini, mentre allo stesso tempo prendeva piede il dibattito storiografico impegnato anche sugli aspetti sociali ed economici. Storici e storici dell’economia e poi anche antropologi culturali diedero vita a studi, discussioni, progetti museografici, raccolte di memorie, libri. Il dibattito riguardava la comprensione della natura sociale della mezzadria, di questo complesso ‘mondo a metà’ che permetteva comunque autonomie e saperi contadini rilevanti. Ci si chiedeva se essa configurasse nel tempo una specie di proletariato rurale sottoposto a una sorta di governo capitalistico autoritario, o se fosse un residuo feudale che frenava le forze produttive di una imprenditorialità contadina forte e vivace. Negli anni ’70  (che coincidono  anche con gli anni dei miei studi di sardo venuto a Siena,  sorpreso e appassionato dalla memoria del mondo contadino, così diverso e particolare)  i miei riferimenti storici furono Giorgio Giorgetti e Carlo Pazzagli,  colleghi all’Università di Siena, ma in uno scenario in cui gli studi di Giorgio Mori, Mario Mirri, Sergio Anselmi, Carlo Poni tra Toscana, Marche, Emilia,  furono importanti e in cui il gruppo degli antropologi senesi con quelli dell’Università di Perugia diedero uno contributo rilevante (Tullio Seppilli, Piergiorgio Solinas, Pietro Clemente). Del 1976 era il film di Bernardo Bertolucci Novecento dedicato alla mezzadria, mentre del 1978 era il film L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi.  Sta di fatto che tra gli anni ’60 e ‘80 del Novecento questa gigantesca quota di forza lavoro contadina dell’Italia centrale si disgregò in un processo di abbandono a corto raggio che vide il popolo contadino accedere al terziario, alla impresa commerciale familiare, ma anche all’industria. In alcune zone gli ex contadini costruirono aziende produttive e furono uno dei nuclei forti della ‘terza Italia’ che ebbe successi importanti negli ultimi decenni del Novecento. Sul mondo contadino inabissatosi con i suoi straordinari saperi pratici calò il silenzio.

Solo negli anni ’90 e nei primi anni del 2000 quel mondo riemerse nella memoria di figli e nipoti che prima se ne erano vergognati, accettando la sconfitta e la vergogna dei padri e dei nonni. Già dagli anni ’80 la memoria contadina fu documentata in musei nati in varie parti dell’Italia centrale e con diversi protagonisti. A Siena il Museo della Mezzadria senese del Novecento (Buonconvento) aprì nei primi anni 2000, ma era stato oggetto di collezionismo locale e di studi universitari già dagli anni ’70.  Resta a tutt’oggi forse il più professionale dei musei del settore (Gianfranco Molteni). Nel 1975 era nato il Museo della civiltà contadina di San Marino di Bentivoglio (Bologna) che per molti anni fu rappresentativo di una museografia progettata e insieme partecipata dagli ex contadini del territorio.  Verso gli anni ’80 ebbe riconoscimento in Emilia un museo assai particolare, una sorta di grande installazione creativa sugli oggetti della vita e del lavoro contadino inventata da un ex contadino, Ettore Guatelli. In quegli anni la scoperta del mondo contadino, dei suoi riti, delle sue regole, delle sue politiche della terra, della sua saggezza e subalternità fu importante per una generazione di studiosi che non lo avevano visto attivo, ma che contribuirono a farlo vivere nella memoria e nell’immaginazione del territorio toscano. Il voto comunista nelle aree della mezzadria fu oggetto di riflessioni e considerazioni, e ancora lo è per la crisi della lunga fedeltà che i contadini delle lotte concessero al PCI e alla CGIL

L’economista Giacomo Becattini fu il principale teorico del ruolo della mezzadria come forma originale di plasmazione del territorio, creatrice di saperi locali di lungo periodo e di una formidabile e storica ‘coscienza di luogo’ (Alberto Magnaghi) alla quale è ancora possibile rifarsi per tornare a guardare alla possibilità di un futuro delle aree interne abbandonate e delle campagne.

Negli anni 10 del 2000 il Consiglio regionale della Toscana promosse una iniziativa di valorizzazione della mezzadria. Una deputata del PD fu prima firmataria di una legge per la istituzione della Giornata nazionale in memoria della mezzadria. Venne promosso, anche se con grandi difficoltà, l’Anno dei mezzadri, col patrocinio della Regione Toscana, ma senza investimenti finanziari, coordinato dall’associazione IDAST in dialogo con gli antropologi delle Università toscane e il Museo di Buonconvento. Poi di nuovo il silenzio.

Bibliografia

Giacomo Becattini, La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale, Donzelli, 2015, con la collaborazione di Alberto Magnaghi.
Pietro Clemente, Luciano Li Causi, Fabio Mugnaini, a cura di, Il mondo a metà. Sondaggi antropologici sulla mezzadria classica, Annali Istituto Cervi, n.9, 1987.
Giorgio Giorgetti, Contadini e proprietari nell’Italia moderna: rapporti di produzione e contratti agrari dal secolo XVI a oggi, Einaudi, 1974.
Gianfranco Molteni, Buonconvento. Museo della mezzadria senese, Silvana – Fondazione Musei Senesi, 2008.
Carlo Pazzagli, L’agricoltura toscana nella prima metà dell’800. tecniche di produzione e rapporti mezzadrili, Olschki, 1973.