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“Distruggono Firenze!”: la notte dei ponti, 3-4 agosto 1944

Da poco era cominciato ad imbrunire lievemente perché siamo nel plenilunio, quando cinque minuti avanti le ventidue è parso che un terremoto scuotesse la terra, abbiamo udito un boato prima sordo e poi fragoroso […] Ci siamo guardati in faccia: evidentemente i tedeschi cominciano la loro opera di infame distruzione”.

Con queste parole l’avvocato Gaetano Casoni rievoca nel suo diario il momento in cui, chiuso nella propria abitazione con i suoi familiari, avverte come tutti i fiorentini che i nazisti hanno iniziato a far saltare le mine posizionate ai piloni dei ponti. L’ora da tempo attesa è scoccata.

La rapida avanzata degli eserciti Alleati, dopo lo sfondamento della Linea Gustav e la liberazione di Roma, da questi agevolmente attraversata grazie allo status di “città aperta” riconosciuto dalle parti belligeranti, aveva spinto i comandi nazisti a rapide contromisure. Per consentire il completamento dei lavori della linea Gotica fra Spezia e Rimini, lungo la dorsale appenninica, viene attuata una strategia di “ritirata aggressiva” che grava sui comuni e sulle popolazioni della costa e dell’interno. Ai disagi e alle rovine causate dal passaggio delle truppe dei diversi eserciti si uniscono quelle dei combattimenti lungo le diverse linee di difesa tracciate sul territorio, oltre che ad una specifica strategia di “guerra ai civili” con il conseguente stillicidio di saccheggi, rappresaglie, singole uccisioni, stragi delle comunità delle aree attraversate dalle truppe in ritirata.
L’Arno rappresenta l’ultima grande trincea naturale su cui potersi attestare. Il passaggio del fiume deve essere impedito. Firenze, che ne è attraversata, diviene così centrale nelle strategie naziste. Il destino dei ponti è segnato.  I comandi nazisti non vogliono ripetere l’esperienza di Roma, anche se il confronto sull’attribuzione dello status di “città aperta” anima le giornate di luglio fra illusorie speranze e volontà di attribuire al nemico la responsabilità della mancata proclamazione. Al tempo stesso  si fa riferimento al presunto impegno  nazista a risparmiare la città dalle conseguenze “di un’azione combattuta entro l’abitato urbano”, come si legge nell’Avvertenza ai fiorentini, fatta pubblicare sulla “Nazione” del 27 luglio, viene usato per premere sulla popolazione affinché non compia atti di sabotaggio o aggressione nei confronti delle truppe tedesche.

Ma ogni illusione viene meno il pomeriggio del 29 luglio quando viene affissa sui muri della città l’ordinanza di sgombero dei Lungarni, pubblicata il giorno dopo sull’ultimo numero della “Nazione”. Consapevoli del pericolo imminente, a sera si riuniscono in Arcivescovado con il cardinale Elia Dalla Costa, il vice prefetto Gigli, il vice podestà De Francisci, il Soprintendente alle Belle Arti, il console svizzero Steinhäuslin. Dopo la fuga delle autorità fasciste repubblicane, gli ultimi rappresentanti delle Istituzioni cercano di adoperarsi per Firenze. Redigono un “Memorandum” per ricordare le precedenti assicurazioni date da Hitler e da Kesselring a tutela della città, che, insieme anche al rettore Marsili Libelli consegnano il giorno dopo al colonnello Fuchs, da pochi giorni comandante in capo della piazza di Firenze. Precedentemente, fino alla sua partenza il giorno 25, anche il console tedesco Gerhard Wolf si era mosso nella stessa direzione, cercando di tutelare il patrimonio artistico della città. Ma Fuchs non lascia spazio ad illusioni, richiamando le conseguenze negative subite dall’esercito nazista a seguito della proclamazione di Roma “città aperta” e mostrando un volantino lanciato da aerei inglesi in cui si invitava la popolazione a difendere la città e favorire la rapida avanzata alleata. La scelta è già stata presa. L’ultimo tentativo avanzato dalla delegazione di ottenere un lasciapassare per raggiungere il comando Alleato e ottenere precise garanzie sulla loro condotta si spenge, infatti, nella mancata risposta tedesca.

Il Comitato toscano di liberazione nazionale (CTLN) non aveva creduto nella possibilità di una trattativa e riteneva che la città potesse essere salvata solo da un’azione insurrezionale, ma è colto di sorpresa dall’ordinanza del 29 luglio. Le truppe alleate sono ancora troppo distanti dalla città, così come le formazioni partigiane, e il caos diffusosi fra la popolazione dei lungarni rende impossibile qualsiasi azione immediata.

Subito dopo l’annuncio dello sgombero, decine di migliaia di persone devono abbandonare le proprie case, con la consapevolezza di non farvi più ritorno, e trovarsi un luogo sicuro dove potersi riparare nell’imminenza della battaglia. Il carcere delle Murate, chiese, caserme, abitazioni di amici e conoscenti diventano mete ambite. In Oltrarno moltissimi sfollano a Palazzo Pitti. La reggia dei Granduchi e dei re d’Italia diviene l’alloggio del popolo di Firenze che ne occupa sale, corridoi, cortili e loggiati, dove vivranno i giorni della battaglia e trascorreranno il mese di agosto in condizioni di grave precarietà, ma sperimentando anche diffuse manifestazioni di solidarietà umana, grazie all’organizzazione che viene approntata per gestire i bisogni più imminenti e naturali.

Il precipitare della situazione è palesato il 3 agosto dalla proclamazione dello stato d’emergenza. Il comando tedesco ordina ai fiorentini di non uscire dalle proprie case. Chiusi nelle abitazioni, spesso senza adeguate riserve di acqua e di vivere, i fiorentini attendono la battaglia imminente. A sera squadre partigiane cercano di tagliare i fili delle mine al Ponte della Vittoria e alla Carraia, ma sono respinti dalle preponderanti e ben armate truppe tedesche.

I resti di Ponte Santa Trinita

I resti di Ponte Santa Trinita

Nel corso della notte fra il 3 e il 4 agosto le esplosioni provocano boati e scosse che fanno tremare la città, come un terremoto. Scrive sempre Casoni: “Ogni due ore circa si rinnovano gli scoppi di grossissime mine, i boati, i colpi che sembrano determinati da proiettili destinati a cadere su di noi; nuove nuvole si innalzano paurose quasi a precipitare l’enormità del disastro”. Ad uno ad uno sono abbattuti i ponti, fino a quello di Santa Trinita che è così saldo sui suoi piloti da richiedere tre cariche di esplosivo prima di crollare. La scelta di salvare Ponte Vecchio, particolarmente ammirato da Hitler nelle sue visite in città, comporta la distruzione del cuore medioevale di Firenze, alle sue estremità, su entrambe le sponde dell’Arno. I quartieri di Por Santa Maria e di Borgo San Jacopo, via Bardi e via Guicciardini, con le antiche e caratteristiche case torri e la casa di Machiavelli, sono dilaniati e rasi al suolo.

Al mattino, quando i fiorentini più coraggiosi salgono sui tetti o cercano di raggiungere i lungarni si trovano di fronte uno spettacolo spaventoso: monconi di pietre al posto dei piloni in Arno e montagne di macerie fumanti ai lati di Ponte Vecchio. Le esplosioni sono state così forti che pezzi del Santa Trinita sono giunti fino in via Cerretani. L’avvicinarsi del fronte ha così drammaticamente marchiato Firenze e la sua popolazione. Mentre le primi truppe delle truppe coloniali britanniche avanzano da via Senese ed entrano da Porta Romana in città e le brigate partigiane, dopo i primi combattimenti a Gavinana il giorno precedente, penetrano in Oltrarno fra l’entusiasmo della popolazione, la città è divisa in due nell’imminenza della battaglia per l’insurrezione.




L’Istituto agronomico per l’Oltremare di Firenze e la cooperazione italiana in Libia negli anni Cinquanta

L’azione italiana verso l’Africa negli anni Cinquanta, ovvero nel decennio di incerta sperimentazione nell’assistenza che precedette in Italia l’avvio di una vera e propria politica di cooperazione allo sviluppo, si evolve lentamente nel secondo dopoguerra attraverso un progressivo riavvicinamento fra l’Italia e il continente africano, sotto la spinta di una serie di contingenze politiche ed economiche. È cruciale in questa vicenda la presa d’atto della necessità di un nuovo atteggiamento, di una nuova impostazione dell’operato italiano rispetto alla gestione pratica dei rapporti con i territori al di là del Mediterraneo, che metta al sicuro la nuova dirigenza dell’Italia repubblicana dagli attacchi dell’ONU e dalla diffidenza dei paesi di nuova indipendenza: una politica certamente funzionale all’immediata querelle sulla tutela delle ex colonie italiane, ma necessaria anche successivamente quando l’Assemblea delle Nazioni Unite del 1949 aveva posto fine all’impero coloniale italiano, sottraendo all’Italia la trusteeship della Libia e riservandole quella della Somalia sotto forma di amministrazione temporanea fiduciaria.

Si trattò da quel momento di ridefinire una politica postcoloniale in linea con l’evoluzione del discorso globale. Già nel 1948 un promemoria del Ministero per l’Africa italiana (MAI) evidenziava, infatti, come «sarà facile riesumare le accuse ripetutamente rivolteci, che ci accingiamo a riportare in Africa, con il pesante apparato burocratico, i monopoli e le esclusive statali del fascismo»; sempre nello stesso promemoria si sottolineava quindi l’urgenza di cambiare atteggiamento e metodi, «stabilire un clima di fiduciosa convivenza con i paesi e le colonie confinanti, realizzabile soltanto sulla base di relazioni economiche che, dietro  i commerci e le attività italiane, non nascondano lo Stato italiano»[1]. In questa prima presa d’atto rintracciata fra le carte, e forse redatta a opera del sottosegretario per l’Africa italiana, Giuseppe Brusasca, appare già chiara la consapevolezza di una contingente necessità di adattamento, determinata dalla volontà italiana di ottenere la tutela sulle ex colonie, o quantomeno un ruolo di rilievo nel continente africano. Il concetto è espresso, ancora più esplicitamente, dall’Amministratore della Somalia, Giovanni Fornara, che in una lettera del 9 dicembre 1950 al Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro ad interim per l’Africa italiana, Alcide De Gasperi, ribadisce l’importanza dell’essere «anche l’Italia tra i paesi che hanno e che avranno una parola da dire e un apporto da dare quando si tratterà di problemi africani», una scelta che avrebbe potuto porre il paese «in una posizione vantaggiosa, in partenza, per collaborare alla soluzione di tali problemi, tanto più data la nostra abbondanza di tecnici e specialisti»[2].

"Ritorno in Somalia. … le truppe italiane salpano … alla volta di Mogadiscio per una missione di pace: l'amministrazione fiduciaria della colonia, affidata dalle Nazioni Unite al nostro paese.". In: La Domenica del Corriere, 19 febbraio 1950

Ritorno in Somalia. … le truppe italiane salpano … alla volta di Mogadiscio per una missione di pace: l’amministrazione fiduciaria della colonia, affidata dalle Nazioni Unite al nostro paese“. In: La Domenica del Corriere, 19 febbraio 1950

Proprio in merito al tema dei “tecnici e degli specialisti”, tralasciando la questione politica, che necessiterebbe di una trattazione più ampia, si accennerà qui solo all’aspetto amministrativo che, evidentemente, si lega al più noto tema della continuità dello Stato. Nel dopoguerra anche la burocrazia coloniale era rimasta fondamentalmente protetta dal processo epurativo e si conservava per lo più uguale a se stessa, salvo «qualche trasformismo ideologico: dalla retorica del colonialismo si era dovuti passare a quella dell’Eurafrica e poi persino all’ideologia della primissima cooperazione internazionale. In taluni il passaggio era stato anche sincero, dettato dalla volontà di mettere a disposizione del Paese le proprie competenze; in molti si era trattato di poco più di un travestimento che non metteva in discussione il passato nazionale ed individuale»[3].

Nel caso della burocrazia del MAI, del resto, la nuova classe politica di governo italiana si trovava di fronte a una situazione complessa: «pochi erano nel suo seno gli esperti su questioni coloniali, mentre a ragione molti degli antifascisti erano portati a non fidarsi di coloro che pure avevano tutte le credenziali per essere dei veri esperti, che però erano anche stati funzionari o pubblicisti per il regime fascista. Ciò creò disorientamento»[4]. Si considerino, ad esempio, le difficoltà incontrate da uno dei principali responsabili del MAI e della politica africana dell’Italia, l’ex partigiano e sincero antifascista Giuseppe Brusasca: ad Angelo Del Boca, che gli chiedeva come mai si fosse circondato soltanto di ex funzionari coloniali, rispose: «fu tutto quello che trovai. Ed erano i soli a saper mettere le mani nei documenti del MAI. Se li avessi estromessi il mio compito sarebbe stato anche più gravoso»[5]; e ancora, sempre con Del Boca, Brusasca giustificò queste scelte, affermando di essere stato «costretto a fare il fuoco con la legna che aveva sottomano, cioè con i rottami del più vieto colonialismo»[6].

Un’analoga continuità, tuttavia, si verificò non solo nell’immediato dopoguerra, ma anche dopo la definitiva perdita delle ex colonie nel 1949: esemplare, in quest’ottica, è l’esperienza dell’Istituto Agronomico per l’Oltremare di Firenze, passato da supporto della colonizzazione del fascismo a consulente della FAO per la cooperazione agraria con i nuovi Stati indipendenti negli anni Cinquanta e poi a soggetto attivo di cooperazione allo sviluppo negli anni Sessanta: in questo caso, gli uomini, le tecniche e le concezioni del passato furono impiegati dal governo italiano per rispondere a richieste irreversibilmente modificate, cui dovettero adattarsi contestualmente, generando la trasformazione – con successi ed errori, con novità e permanenze – di un approccio coloniale in un approccio postcoloniale alla espansione agraria italiana all’estero. Secondo Labanca si rafforzava così la convinzione che «la tecnica fosse neutra e che la loro passata collaborazione con le autorità coloniali non avesse di per sé comportata un’immedesimazione con quel progetto di dominio. Tali conclusioni erano alquanto discutibili e gli intendimenti erano certamente autoassolutori: ma la questione apparve come minore, anche perché coinvolgeva numeri assai ristretti di studiosi e di tecnici»[7]. Proprio la cultura tecnica coloniale, quindi, rappresentò un efficace canale di continuità, in particolare sul piano periferico, dove, «nell’alternativa tra “persone nuove”, che nulla avevano a che fare con il passato coloniale, ma che pure non avevano alcuna esperienza africana, e “persone vecchie”, che provenivano direttamente dal passato coloniale, ma che avevano una pregressa esperienza africana, la scelta fu evidentemente per quest’ultima opzione»[8].

L’Istituto agronomico per l’Oltremare di Firenze (IAO)

Rivista dell'IAO "L'Agricoltura Coloniale", 1921

Rivista dell’IAO “L’Agricoltura Coloniale”, 1921

Le origini dell’attuale Istituto Agronomico per l’Oltremare risalgono al progetto del 1904 di Gino Bartolommei Gioli, docente di scienze agrarie all’Istituto di Studi  Superiori di Firenze già ‘consulente agrario’ di Ferdinando Martini, di un Istituto Agricolo Coloniale pensato sul modello delle istituzioni analoghe presenti in Germania, in Francia, in Belgio, in Olanda e nel Regno Unito. Un’istituzione che avrebbe dovuto integrare (e forse anche dirigere) i lavori compiuti localmente dall’Ufficio Agrario Sperimentale in Eritrea ed essere «una ‘scuola’ ‘agricola’ di tipo teorico-pratico, perché interamente dedicata alle scienze tropicali e subtropicali e, più in generale, a quelle implicate dall’economia agricola, sia in veste pura che applicata; una scuola coloniale, perché concepita e realizzata per rispondere efficacemente alle sollecitazioni provenienti dalle colonie»[9]. Il contesto di riferimento era quello culturale toscano, e specificatamente fiorentino,  dove già spiccavano, per notorietà e per prestigio, le scuole pratiche di agricoltura di Pisa e Scandicci, l’Istituto Forestale di Vallombrosa, la Scuola di Orticoltura e Pomologia di Firenze e, ancora, la Società per gli Studi Geografici e Coloniali dell’Istituto Geografico Militare e la Scuola di Geografia, oltre che l’Accademia dei Georgofili di Firenze – con la quale Bartolommei Gioli collaborava.

Il 22 gennaio 1907 ebbe ufficialmente luogo l’inaugurazione dell’Istituto Agricolo Coloniale (ma già dal 1904 al 1906, Bartolommei Gioli e i suoi collaboratori avevano operato facendo capo all’Istituto Botanico dell’Istituto di Studi Superiori, vale a dire all’Università di Firenze). In quei primi anni, anche l’IAO aveva svolto una funzione di qualche rilievo per contribuire a concentrare l’attenzione e creare un clima positivo intorno alla questione libica. Negli anni successivi, a causa della guerra, l’IAO visse un periodo difficile ma, nel dopoguerra, l’attenzione rinnovata per il ruolo delle colonie permise di sollevare il problema della formazione del personale destinato a lavorarvi, questione su cui l’Istituto di Firenze poteva rivendicare un pregresso chiaro e inoppugnabile. Si poneva a quel punto l’occasione di incentivare l’azione didattico-formativa fino a consolidare l’Istituto fiorentino quale centro di eccellenza per la preparazione tecnica degli uomini destinati a espatriare.

Armando Maugini, Direttore dal 1924 al 1963 (fotografia di Lumachi, Fototeca IAO)

Armando Maugini, Direttore dal 1924 al
1963 (fotografia di Lumachi, Fototeca
IAO)

Nel 1924, l’IAO e il suo nuovo direttore Armando Maugini, figura chiave dell’Istituto che diresse dal 1924 al 1964, affrontarono un cambiamento importante in questa direzione: con il Regio decreto n. 991 del 15 maggio 1924 (convertito in legge il 20 luglio 1925), Luigi Federzoni volle trasformare l’Istituto in ente autonomo consorziale (retto da un Consiglio di amministrazione che comprendeva i rappresentanti del Ministero delle colonie, dell’economia, degli Affari esteri e dei governi coloniali), rendendolo l’organo consultivo ed esecutivo del Ministero delle Colonie, con il preciso compito di preparare i tecnici agronomi che si apprestavano a condurre o a partecipare alle missioni organizzate nelle colonie, oltreché a provvedere all’impianto di stazioni sperimentali in Tripolitania, Cirenaica, Eritrea e Somalia. Nelle fasi successive, quindi, l’IAO partecipò, con le prestazioni del suo personale scientifico, con le attività di consulenza, con l’invio di numerosi tecnici, dottori in agraria e periti agrari all’avvaloramento agricolo della Libia. Nel frattempo il suo direttore ottenne numerosi altri incarichi in Africa e in Italia: divenne infatti, tra l’altro, membro del Consiglio superiore coloniale, capo dei centri sperimentali africani e direttore dell’Ispettorato generale dell’Agricoltura del Ministero dell’Africa.

«A quel tempo l’Istituto non era certo l’unico ente a muoversi in questo campo […]. Ma facendo leva sulla solida preparazione e sulla grande tradizione agraria di Firenze e della Toscana, basata soprattutto sull’analisi della mezzadria, e sullo speciale rapporto con il ministero e con i governi coloniali l’Istituto di distinse come il più aperto e dinamico»[10]. Così negli anni successivi l’IAO, divenne il principale centro di studio, di propaganda e di consulenza agricola coloniale presente in Italia, tanto da arrivare a ricoprire, nel 1938, il ruolo di organo tecnico-scientifico del Ministero per l’Africa Italiana nel campo della ricerca e della sperimentazione agraria: il decreto legge del 17 luglio 1938, convertito in legge il 19 maggio del 1939, lo trasformava in Regio Istituto Agronomico per l’Africa Italiana, alle dipendenze dirette del MAI. All’IAO veniva insomma assegnato il compito tecnico via via sempre più rilevante di studiare l’economia delle colonie e formare il personale tecnico in grado di fornire le soluzioni più adatte ai problemi agricolo-coloniali: «una funzione tecnica e non politica, certamente, ma che comunque aveva necessariamente una ricaduta politica sull’Istituto, nel senso che ne indirizzava fermamente le attività e le scelte scientifiche»[11], ad esempio per quanto concerneva la didattica (che prevedeva ora anche corsi semestrali rivolti ai tecnici agrari che avessero vinto il concorso di ammissione al Corpo Agrario dell’Africa Italiana). Fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale, l’IAO godette quindi di una struttura solida e organizzata e di un notevole prestigio. Ne è dimostrazione fisica e concreta la nuova sede inaugurata nel 1942 in via Cocchi, la cui «magnificenza costruttiva raccontava, di per sé, il trionfo coloniale fascista»[12].

Sede  IAO ,1942

Sede IAO ,1942

Con la caduta del fascismo per l’Istituto guidato da Maugini cominciò una fase completamente diversa, su cui più qui ci si concentrerà. Come bene evidenziato da Nicola Labanca, «il punto di partenza è che non ci fu alcun taglio col passato. Praticamente gli stessi uomini che avevano fatto la vita dell’Istituto prima del 1940 continuarono a farla dopo il 1945. Non deve sorprendere quindi se essi si attivarono nel periodo fra 1945 e 1947-49, quando ancora qualcuno poteva illudersi che l’Italia sarebbe tornata a calcare da potenza coloniale le terre africane, preparando relazioni, rapporti e depliant a favore del ‘nostro ritorno in Africa’»[13]. Nel quadro delle trattative di pace, infatti, la raccolta e l’illustrazione delle attività svolte dall’Italia in Africa furono uno dei primi incarichi affidati dal Ministero all’Istituto, proprio per le sue più tradizionali esperienze coloniali: l’IAO collaborò attivamente all’esame delle materie legate alle trattative con il Governo libico, per la definizione di accordi chiamati a perfezionare a livello di politica agraria la risoluzione dei vecchi rapporti coloniali, e realizzò vari sopralluoghi in Tripolitania per documentare le mutate situazioni dei coloni e tutelare gli interessi delle famiglie contadine; contemporaneamente, su richiesta del Ministero del Tesoro, l’Istituto intervenne nell’esame delle richieste di risarcimento per danni di guerra riguardanti gli italiani negli ex possedimenti africani.

Nell’ambito della nascente cooperazione multilaterale, invece, la situazione si pose immediatamente in termini più complessi: fin dal 1950, infatti, l’Ufficio per l’assistenza tecnica del Consiglio economico e sociale dell’Onu aveva approvato le offerte di aiuto alla Libia del Regno Unito e della Francia, in qualità di potenze amministranti, ma espresso una certa riluttanza a ricorrere ufficialmente all’opera dei tecnici italiani. Le organizzazioni internazionali coinvolte, infatti, sospettavano che da parte italiana si tentasse di sfruttare la presenza dei propri esperti per realizzare un’indiretta ingerenza politica, mentre la provenienza coloniale degli uomini appariva fonte di estremo imbarazzo nel nuovo contesto africano.

Così la prima missione ONU/FAO incaricata di studiare il contesto libico, aveva escluso la possibilità di coinvolgimento di un tecnico italiano, proposto dall’Ufficio Libia del MAE per il settore agricolo; unico risultato delle pressioni italiane, invece, fu la sosta della delegazione a Roma all’inizio del luglio 1950, quando vennero organizzati incontri con il Sottosegretario agli Esteri, Francesco Maria Dominedò, alcuni capi servizio del MAI, il prof. Armando Maugini dell’IAO e i dirigenti locali degli Enti di colonizzazione, oltre che con esponenti degli interessi bancari e industriali italiani in Libia[14]. Una volta arrivata in Libia alla metà di luglio, quindi, la missione internazionale prese contatto con il Commissario del Consorzio agrario della Tripolitania, l’italiano Angelo Mariani, e vi si intrattenne sui problemi dello sviluppo agricolo della Libia in un lungo colloquio, svoltosi il 17 luglio 1950, contro la volontà della British Administration of Tripolitania (BAT)[15].

Colonizzazione agricola fascista della libia (fonte: www.italiacoloniale.com)

Colonizzazione agricola fascista della Libia (fonte: www.italiacoloniale.com)

In sostanza, mentre l’ostilità inglese era percepibile già in queste prime fasi (il tecnico Mariani, ad esempio, fu congedato dall’incarico presso la BAT, appena qualche giorno dopo la partenza della missione Onu), i rapporti italiani con l’Onu sembrarono inizialmente decollare grazie all’alto livello delle competenze tecniche italiane. Nel settembre, ad esempio, anche il Gen. Albert Lebel, nominato esperto agrario presso il Commissariato Onu per la Libia, si recò a Roma allo scopo di raccogliere informazioni sulla situazione agricola del paese. Da sottolineare anche in questo caso i suoi contatti con il direttore l’Istituto agronomico di Firenze: in un lungo e dettagliato rapporto al Ministero, il direttore Maugini sottolineava che, a suo parere, per dare rilievo all’assistenza tecnica che avrebbe potuto derivare dall’Istituto agronomico e dai tecnici italiani che conoscevano i problemi della Libia, si doveva «concedere una collaborazione quanto più possibile completa e continuativa. In questo senso ho creduto mio dovere parlare col generale Le Bel [sic] dicendogli che noi tecnici italiani sappiamo scindere quello che può essere il doloroso ricordo del passato dai doveri nuovi che su un piano diverso le N.U. devono affrontare nella Libia; e che quindi le nostre esperienze e la nostra volontà di fare del bene alle popolazioni arabe restano a disposizione del Sig. Pelt e dei suoi collaboratori, nel modo più completo e senza la minima riserva mentale»[16]. Forse anche in conseguenza, Lebel dichiarò che avrebbe sottolineato al Commissario Onu per la Libia, Adrian Pelt, «l’opportunità che l’Onu si avvalga, anche in altri specifici settori, dell’opera di studiosi e tecnici italiani, i quali, essendosi dedicati per tanti anni allo studio di quei particolari problemi, sono i più adatti per continuarli e completarli, se necessario, e comunque per fornire utili indirizzi nel quadro dell’assistenza tecnica al nuovo Stato»[17].

Tripolitania, il villaggio Corradini, anni Cinquanta

Tripolitania, il villaggio Corradini, anni Cinquanta

La promettente collaborazione dell’Onu con l’Italia, però, dopo essersi sviluppata sin da subito su un piano parallelo a causa della mancata ammissione dell’Italia nel consesso delle Nazioni Unite, si inceppò all’inizio del 1951 con la nomina della seconda missione tecnica di assistenza, guidata dallo svedese John Lindberg e composta da due esperti finanziari per il Fondo monetario internazionale e dal tecnico americano Othelo J. Wheatley per la FAO: con la visita anche di quest’ultimo all’Istituto agronomico di Firenze, infatti, si palesò «l’assurdo – rilevato anche da parte araba – degli esperti che, appena assegnati qui [in Libia], si affrettano a ricorrere ai pochi tecnici italiani rimasti sul luogo, o a fare il dispendioso viaggio a Firenze (Istituto Agronomico), per mettersi in grado di conoscere le caratteristiche dell’economia libica»[18]. Una situazione paradossale, determinata dal mancato ricorso a tecnici italiani nelle missioni di assistenza su cui, nel febbraio 1951, la crescente insoddisfazione italiana venne alla luce durante la discussione del rapporto del Commissario Pelt sull’assistenza tecnica nel Consiglio delle Nazioni Unite per la Libia: il piano venne ritenuto dai rappresentanti italiani estremamente lacunoso, proprio perché “mancante” delle competenze di coloro che in passato per lunghi anni si erano occupati di studiare le possibilità di potenziamento delle risorse del paese, ovvero i tecnici italiani. In base a queste considerazioni, la pressione italiana sulla questione fu intensificata in sede Onu, ma in breve gli ostacoli si paleserono e l’esclusione dei tecnici italiani dal Programma di assistenza tecnica delle Nazioni Unite apparve non casuale, bensì determinata sia dalla situazione costante di morosità italiana nei contributi finanziari al Fondo Onu, sia in base a considerazioni di tipo prettamente politico. Già nel giugno dello stesso anno, in effetti, fu confermata l’ipotesi che a ostacolare la scelta di esperti italiani fosse stata e fosse una precisa direttiva politica del Technical Assistance Board, ovvero proprio il «parere espresso da Pelt che la loro presenza non sarebbe ben accettata dai libici»[19].

La partecipazione all’assistenza internazionale alla Libia, nel frattempo, stava diventando sempre più il motivo del contendere fra le grandi potenze. Il 15 giugno 1951, venne firmato a Londra un accordo tripartito fra USA, Gran Bretagna e Francia per ripartire equamente fra le tre nazioni le possibilità di intervento in Libia. A causa dei crescenti interessi economici in gioco, inoltre, fu naturale che, al momento di concordare il ruolo di ogni nazione nell’assistenza alla Libia, i preesistenti contrasti si acuissero anche tra Italia e Gran Bretagna. Nella situazione di stallo determinatasi, permase così a lungo la riserva politica nei confronti dei tecnici italiani:  ancora alla data del gennaio 1953, risultavano impiegati dai programmi Onu solo 2 tecnici italiani su 103 proposti e, per quanto riguarda la FAO, su un totale di 173 tecnici proposti, ne furono accettati solo 12[20].

Conclusioni

Nel contesto libico emerge chiaramente l’effettivo impiego della cooperazione come “arma” diplomatica, politica e commerciale da parte del governo di Roma. Lo evidenzia l’atteggiamento italiano nei confronti delle contribuzioni alla Libia in termini di assistenza tecnica e finanziaria, una tendenza, molto esplicita nei documenti riservati, a subordinare le proprie promesse a concessioni libiche nell’ambito politico e contrattuale (e in particolare nelle lunghissime trattative per l’accordo sui beni), e lo dimostrano le affermazioni dei responsabili della politica italiana, ma anche le “dritte” provenienti dai funzionari locali a Tripoli. È evidente, comunque, che nei rapporti italo-libici occorre distinguere una fase iniziale fino all’indipendenza, in cui le ottimistiche speranze italiane di poter conservare un’influenza politica ed economica in Libia semplicemente mantenendo inalterati i rapporti di potere nella ex colonia risultano fuorvianti e impediscono agli attori una considerazione realistica del contesto; è in questo momento che si hanno tentativi veri e propri di un anacronistico “ritorno”, anche in termini migratori, e che l’azione italiana si rivela più caparbia e controversa. Con l’indipendenza, invece, e l’estromissione definitiva degli italiani dalla vita politica attiva del Regno unito di Libia, fondi segreti, manovre diplomatiche e resistenza a oltranza dei coloni lasciano spazio a prospettive differenti: sul piano politico e su quello commerciale, l’azione italiana è segnata dalla necessità di un accordo con la Libia che ne definisca il nuovo ruolo sulla “quarta sponda”.

Tripoli, Caffè delle Poste, anni Cinquanta (fonte: www.airl.it)

Tripoli, Caffè delle Poste, anni Cinquanta (fonte: www.airl.it)

All’inizio degli anni Cinquanta, quindi, permangono ovviamente atteggiamenti e settori retrivi, ma si sviluppano allo stesso tempo nuove interazioni e la volontà di adeguarsi alle contemporanee iniziative internazionali; un adeguamento parziale e di facciata, probabilmente, ma pur sempre uno sviluppo verso un tipo di relazione nuova. Ne è un esempio emblematico la questione dell’impiego dei tecnici italiani da parte delle Agenzie specializzate dell’Onu, che tanta parte occupa nell’azione italiana verso la Libia: si tratta evidentemente di un processo di ammodernamento, sia nell’analisi dell’opportunità politica che l’“aiuto” riveste sia nella modalità di impiego degli ex tecnici coloniali, costretti ora per ottenere un incarico a garantire equità e risultati; i “vecchi” uomini, esposti dai giornali arabi al pubblico disprezzo con campagne pesantemente denigratorie, sono tacciati di colonialismo e di sfruttamento e perdono rapidamente ogni possibilità di influire positivamente sull’immagine che l’Italia vuole proiettare, venendo via via sostituiti da figure neutre e meno compromesse. Proprio la necessità di dialogare con gli attori internazionali dello sviluppo quindi determinerà progressivamente un adeguamento parziale e di facciata del personale tecnico italiano, per il quale si può parlare di una sorta di maquillage superficiale che lo porta a inserirsi progressivamente nei nuovi posti messi a disposizione dalla crescita rapida del settore della cooperazione allo sviluppo. In pratica, si può parlare di una vera e propria selezione naturale, che progressivamente allontana chi non è riuscito a reinventarsi e porta in Africa gli uomini più adatti a integrarsi nel nuovo corso, favorendo, così, alla lunga, un vero e proprio cambiamento di mentalità. Il carattere eterodiretto di tale evoluzione, influenzata più dalle scelte della comunità internazionale che da una maturazione interna, spiega la lentezza con cui le nuove idee permeano gli uffici e la burocrazia di Roma, per la resistenza iniziale espressa di fronte a ogni proposta innovativa e il conseguente ritardo con cui i funzionari italiani affrontano i pur necessari cambiamenti.

Ciò che emerge inaspettatamente nel contesto libico, invece, è la tendenza più progressista da parte dei cosiddetti tecnici: se nel rapporto dell’IAO con l’Amministrazione fiduciaria italiana in Somalia prevalse la continuità (e sul ruolo nel contesto somalo di Ferdinando Bigi, futuro direttore dell’IAO dopo Maugini, ci sarebbe da scrivere), per quanto riguarda la Libia i suggerimenti di Maugini, ad esempio, esprimono spesso considerazioni attente e al passo con l’evoluzione dei tempi, pur in uno dei settori, quello della colonizzazione agricola, dove maggiori erano le resistenze al cambiamento. Una posizione che si può spiegare con le convinzioni personali e la tiepida adesione di Maugini al fascismo, ma anche con un consapevole tentativo del direttore dell’IAO di riaffermare un ruolo nuovo per l’Istituto che non si esaurisse con la fine dell’esperienza coloniale e che contrastasse la forte diffidenza per il recente passato dell’Istituto.

16 ottobre 1945,  Quebec,  Canada: firma della Costituzione della FAO

16 ottobre 1945, Quebec, Canada: firma della Costituzione della FAO

In effetti, nonostante la sua nascita fosse avvenuta in epoca lontana da ogni riferimento fascista, fu questa un’eredità che l’Istituto, e con esso Maugini, si porteranno dietro a lungo. Il dopoguerra rappresentò quindi un momento di incertezza per la sopravvivenza stessa dell’IAO, rasserenato, però, dalle manifestazioni di simpatia e dalle richieste esterne di collaborazione per la realizzazione di studi e per la formazione di tecnici di paesi africani: nell’insieme, è certo che all’epoca l’Istituto era più conosciuto e apprezzato all’estero che non in Italia. L’attività di assistenza tecnica e consulenza dell’IAO, quindi, si rivolse in questi anni contemporaneamente a contesti diversi (come quello dell’America Latina) e a tipologie diverse di fruitori: amministrazioni pubbliche italiane, rappresentanze diplomatiche e consolari all’estero, organizzazioni internazionali (FAO, UNESCO, BIT, CIME), governi, italiani in madrepatria e all’estero; «da queste istituzioni arrivava a Firenze un linguaggio nuovo, nuove ispirazioni e una politica di nuovo conio il cui peso non puo essere sottovalutato»[21].

Nel 1953 l’Istituto assunse l’attuale denominazione di Istituto agronomico (per l’Africa italiana, poi dal 1959 per l’Oltremare). La legge che sopprimeva il Ministero dell’Africa Italiana, trasferì l’Istituto alla tutela del Ministero degli Affari Esteri, mentre la trasformazione automatica dei residenti italiani nelle ex colonie in italiani all’estero fece sì che l’Istituto passasse sotto la competenza della Direzione generale dell’Emigrazione. Si trattò di un cambiamento necessario sia per la valutazione corretta del suo mandato sia per uscire dall’identificazione con il periodo coloniale, ma non risolutivo. La situazione di generale rallentamento delle attività dell’IAO inizierà a modificarsi, infatti, soltanto quando il sistema nazionale per la cooperazione si rafforzerà sul piano legislativo, organizzativo e finanziario e affiderà all’Istituto i primi progetti. Nel 1962 l’IAO sarà infine riformato (con la legge n. 1612 del 26 ottobre in vigore dal 16 dicembre che lo confermerà sotto la vigilanza del Ministero degli Affari Esteri), ma bisognerà attendere il 1979, e la legge n. 38, denominata “Cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo”, perché all’Istituto venisse riconosciuta una rilevanza nel sistema italiano della cooperazione: l’articolo 11, infatti, recitava che “per la cooperazione allo sviluppo nel settore agricolo, il Ministero degli Affari Esteri si avvarrà anche dell’Istituto Agronomico per l’Oltremare, al quale potranno essere concessi contributi per i singoli programmi ad esso affidati”. Sarà infine nel 1987, con l’approvazione della legge n. 49 “Nuova disciplina della Cooperazione dell’Italia con i Paesi in via di sviluppo”, che l’Istituto entrerà a pieno titolo nel sistema nazionale di cooperazione allo sviluppo, come “organo tecnico-scientifico del Ministero degli affari esteri, oltre che per servizi di consulenza e di assistenza nel campo dell’agricoltura, anche per l’attuazione e la gestione di iniziative di sviluppo nei settori agro-zootecnico, forestale e agro-industriale”.

NOTE:
[1] “Promemoria” sull’AMB con indicazioni politiche programmatiche in relazione al dibattito all’ONU in AB b. 52 Azienda Monopolio Banane I f. Appunti 1948-1949.
[2] Lettera di Fornara al Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro a.i per l’Africa italiana del 9/12/1950, in AB b. 46 MAI Affari politici Somalia.
[3] Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 450.
[4] Idem, p. 430.
[5] Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, Mondadori, Cles, 1992, vol. IV Nostalgia delle colonie, p. 129.
[6] Id., L’Africa nella coscienza degli italiani, Mondadori, Milano, 2002, p. 116
[7] Nicola Labanca, Oltremare, cit., pp. 450-451.
[8] Antonio Maria Morone, Brusasca l’Africano, in Giuseppe Brusasca e gli inizi della Repubblica. Atti del Convegno di studi (27 maggio 2006), a cura di Luigi Mantovani, Ed. Città di Casale Monferrato – Assessorato alla cultura, Chivasso, 2007, p. 62.
[9] AA.VV., L’Istituto agronomico per l’Oltremare. La sua storia,  Ed. Masso delle fate, Firenze, 2007, p. 13.
[10] Nicola Labanca, Uno straordinario campo da coltivare. Il Centro di documentazione inedita dell’Istituto agronomico per l’Oltremare di Firenze e le sue ricchezze, in «I sentieri della ricerca», n. 9/10 (2009), p. 117.
[11] AA.VV., L’Istituto agronomico per l’Oltremare, cit., p. 107.
[12] Idem, p. 111.
[13] Nicola Labanca, Uno straordinario campo da coltivare, cit., p. 124.
[14]  Appunto 90/687 dell’Ufficio Libia del MAE del 9/7/1950, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 731 Libia 1951 f. A/III/c Esperti e assistenza tecnica 1950-1951.
[15] Tel.sso 140/50 dall’ambasciatore Giuseppe Vitaliano Confalonieri al MAE “Libia – Assistenza tecnica” del 31/7/1950, in  ASDMAE DGAP 50-57 b. 731 Libia 1951 f. A/III/c Esperti e assistenza tecnica 1950-1951.
[16] Cfr. Armando Maugini, “Rapporto sulla visita e soggiorno del Gen. Lebel esperto agricolo del Sig. Pelt presso l’Istituto agronomico dell’A.I.” del 10/9/1950, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 731 Libia 1951 f. A/III/c Esperti e assistenza tecnica 1950-1951.
[17] F. 90/1022 dall’Ufficio Libia del MAE “Appunto per il Segretario generale – Missione gen. Lebel, esperto agrario presso il Commissario dell’Onu per la Libia” del 29/7/1950, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 731 Libia 1951 f. A/III/c Esperti e assistenza tecnica 1950-1951.
[18] “Appunto per l’Ambasciatore Confalonieri” della Delegazione del Governo italiano al Consiglio delle N.U. per la Libia del 6/2/1951, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 731 Libia 1951 f. A/III/c Esperti e assistenza tecnica 1950-1951.
[19] L. da Confalonieri a Zoppi del 30/8/1951, in ASDMAE DGAP 50-57 b. 763 Libia 1950-51 f. Assistenza tecnica alle ex colonie nel quadro del punto IV.
[20] Cfr. Appunto 65/973/c del 23/1/1953 “Utilizzazione di esperti italiani per l’assistenza tecnica alle Nazioni Unite”, in ASDMAE b. 867 Parte generale 1953 f. 12/1 Assistenza tecnica alle ex colonie.
[21] Nicola Labanca, Uno straordinario campo da coltivare, cit., p. 125.



Per una storia della Scuola Elementare di Nozzano Castello (II°)

È doveroso soffermarci, attraverso le testimonianze raccolte, sull’11 agosto, giorno particolarmente tragico.

Il giorno 11 agosto 1944 in seguito a rastrellamenti ed arresti operati dalle SS furono radunati in Nozzano Castello nel locale scolastico varie centinaia di uomini. Di questi una parte, la maggiore, furono condotti lontano a lavorare, un’altra parte, circa 70 uomini, furono barbaramente assassinati nei dintorni di Nozzano.  Sembra che la scelta dei candidati alla morte sia stata fatta in questo semplice modo: fu domandato a quei poveretti chi voleva essere visitato e scartato dal lavoro. Tutti quelli che domandarono la visita medica furono assassinati. Un interprete chiese se vi era qualcuno che chiedesse visita. Sessantanove braccia si alzarono e firmarono così la loro condanna a morte. Infatti mentre gli altri furono fatti proseguire verso Lucca i 69 portati a scegliere la morte con atroce inganno furono rinchiusi nelle scuole di Nozzano. Molti furono torturati. Dopo tre giorni di speranze e timori la mattina dell’11 agosto a gruppi di 5 o 6 furono trucidati lungo le strade che da Nozzano portano a Lucca, Quiesa, Massaciuccoli, Massarosa. Sui corpi straziati venne posto un cartello testimoniante l’infame menzogna delle belve naziste ”uccisi per aver sparato sui tedeschi”. Sul territorio di Balbano la sera del giorno 11 vi erano 11 cadaveri crivellati di pallottole. Il giorno di poi con l’aiuto di vecchi uomini raccolti dal Pievano nel paese fu proceduto all’inumazione di questi disgraziati. Prima del seppellimento furono prese di ognuno le caratteristiche personali, l’età presunta, oggetti trovati nelle tasche e un pezzo di giacchetta di ognuno cosicché in seguito furono potuti riconoscer dai familiari e riportati nei relativi cimiteri. Quattro cadaveri furono trovati a Casanova ad occidente della casa di Giovanni Ferretti ed ivi sepolti in una fossa comune (si tratta di Pollone Oscar di Pisa, sfollato a Ripafratta, Pecori Gastone e Carissi Crocifisso maresciallo di Pisa, Dalla Croce Raulle di S.Maria in Monte.) Altri 4 cadaveri furono trovati nella cava di pietre a pochi metri dalla via che conduce a Massaciuccoli a ponente delle case, luogo detto Al Cavaliere (Giusti Guido di Ripafratta, Aladino ed Emilio Barsuglia , Pera Giuseppe di S.Angelo in Campo). Altri tre cadaveri furono trovati nel fondo detto di Bucino, fra la via di Massaciuccoli all’altezza del viottolo che sale alla casa del Giuliani al loco detto Al Cavaliere e l’imbocco del tunnel ferroviario (Sbrana Mario e Farnesi Donatello di Pisa, D’Angiolillo Aniello di Salerno, sfollato a Pisa). Con questi ultimi doveva essere assassinato un quarto, che invece riuscì a sfuggire per un puro caso e correndo nel fondo del canale si rifugiò nella casa dei Pannocchia adiacente alla linea ferrata e di qui più tardi si fece uccel di bosco. Ho saputo poi dal figlio che fu di nuovo rastrellato e condotto in Germania”. (Testimonianza del Pievano Tofani di Balbano sulla strage dell’11 agosto 1944 in Archivio Parrocchiale, Parrocchia di Balbano).

Fummo presi in 300, uomini, donne e bambini. Dopo averci inquadrati ci condussero in località Focetta. Qui ci divisero dalle donne e dai bambini. Soltanto la signora Gereschi fu costretta a seguirci. A Ripafratta un interprete ci chiese se fra noi c’era qualcuno che chiedesse visita. Molti chiesero di essere sottoposti a visita medica. Ci divisero quindi in due gruppi: uno fu fatto proseguire per Lucca, l’altro, del quale facevo parte anch’io, fu portato alle scuole di Nozzano. Passarono così 4 orribili lunghi giorni. Alcuni di noi vennero torturati. Credo che la signorina Gereschi sia stata violentata. Eravamo tutti ammassati in un’aula scolastica, sorvegliati a vista da due sentinelle armate di mitra. La mattina dell’11 agosto venne un ufficiale dell’SS. Ci disse che ci avrebbe fatto passare la visita quattro alla volta. Io fui del secondo turno. Insieme ad altri compagni mi condussero nei pressi di Filettole in località Pancone. Ci fecero scendere e subito ci fucilarono. Per meglio accertarsi della nostra morte i criminali ci spararono a bruciapelo il colpo di grazia alla nuca. Per pura combinazione anziché colpirmi alla tempia il proiettile mi prese di striscio all’orecchio sinistro. Non feci alcun movimento e forse a causa del sangue che mi usciva in grande quantità dalla ferita mi credettero morto. Infatti poco dopo si allontanarono tutti con la camionetta. Allora tentai di alzarmi ma non ci riuscii. Avevo la gamba e il braccio destro massacrati. A prezzo di atroci sofferenze, rotolandomi per terra riuscii ad avvicinarmi al Serchio. Gridai aiuto sperando che qualcuno mi sentisse. Infatti un tedesco che stava facendo il bagno nel fiume si avvicinò. Mi chiese che cosa fosse accaduto ed io gli spiegai il fatto. Dopo essersi accertato della verità delle mie parole andò via e ritornò dopo un’ora insieme a sette suoi camerati armati di mitra e due italiani che trascinavano un carretto. Vi fui caricato sopra e condotto alla Croce Rossa di Avane. Giunti a sera i soliti due italiani e due tedeschi mi portarono, sempre con il carretto, all’Ospedale di Lucca, dove verso mezzanotte mi fu fatta la prima medicazione dal momento in cui ero stato ferito. Sette giorni dopo mi amputarono la gamba sopra il ginocchio e il braccio mi fu rabberciato alla meglio, tanto è vero che ora è completamente inservibile”. (Testimonianza di Oscar Grassini (nato 01/06/1908), messo comunale di S.Giuliano Terme). (5)

Il 19 agosto 1944, dopo una prima scelta che conduce alla Pia Casa di Lucca alcuni uomini che si dichiarano abili al lavoro, 53 reclusi nella scuola di Nozzano vengono condotti fino a Bardine San Terenzo (Fivizzano) e qui legati con filo spinato e poi fucilati a colpi di mitra. Sono i rastrellati del 12 agosto a Valdicastello al termine delle operazioni di Sant’Anna di Stazzema.

Il giorno dopo, 20 agosto, parte dalla scuola di Nozzano un rastrellamento a vasto raggio nei paesi attorno a Lucca. All’alba le SS penetrano a forza nelle case e fanno scendere dal letto tutti gli uomini che, incolonnati e caricati su camion vengono portati a Lucca ed internati alla Pia Casa. Tra i rastrellati ci sono anche i fratelli Franco e Nello Orsi.

20 Agosto 1944, nelle prime ore del mattino fui svegliato da un suono di voci gutturali, incomprensibili, mi ci volle un po’ di tempo prima di poter capire la situazione, poi improvvisamente balzai dal letto scossi mio fratello Franco che dormiva poco distante da me: sveglia gli dissi, c’é il rastrellamento, saltò immediatamente dal letto e tutti e due ci precipitammo verso le scale per discendere, ma era troppo tardi, saliva verso di noi un tedesco della S.S. armato fino ai denti, che non appena ci vide, spianò il suo fucile contro di noi, e con un gesto espressivo ci fece capire di seguirlo. Nella corte dove ci condusse trovammo altri amici, i quali erano attorniati dai parenti e dai genitori in lacrime. Mi misi in fila con loro e dopo dieci minuti di sosta ci avviammo verso il centro del paese, dove ci relegarono in una stalla, in compagnia di altri sfortunati. In quell’ambiente sostammo circa un’ora, poi ci caricarono tutti su di un camion pronti per partire. Fuori vidi donne che piangevano, nel vedersi strappare così i loro cari, bambini che strillavano e chiamavano i loro papà. Ansiosamente io scrutavo tutti i volti per riconoscerne qualcuno noto, e finalmente vidi mio Padre…. Non dimenticherò mai la sua espressione, rivedo ancora i suoi occhi lucidi, lo additai a mio fratello e tutti e due gli sorridemmo per infondergli coraggio, egli ci salutò con la mano, poi fece l’atto di avvicinarsi al camion, ma proprio nello stesso momento un tedesco respingeva brutalmente una donna che si era avvicinata per dare un ultimo abbraccio al proprio marito. Pochi secondi ancora, poi il camion si mise in moto, rivolsi un ultimo sguardo a mio padre e ve lo tenni fisso finché non lo vidi rimpiccolirsi e poi sparire. Ci scaricarono come sacchi alla Casa Pia in Lucca. Indescrivibile il caos che regnava la dentro, centinaia di uomini di tutte le età si muovevano in quelle stanze, in tutti i volti notavo la disperazione ed il timore per la sorte che ci era riservata. Parlai con alcuni di loro, molti si trovavano là già da dieci o quindici giorni, e dicevano che non avevano più la forza di resistervi, altri invece, erano giunti da poco, come noi. Un’ora di aspettativa, poi la mia sorte fu segnata. Un Tedesco ci mise in fila, e scrutandoci in faccia con un cenno ci faceva uscire e ci metteva da una parte, venni scelto anch’io e con gioia anche mio fratello cadde nella scelta. Così partimmo, la destinazione ci venne detta in via eccezionale da un interprete, la meta era Diecimo Pescaglia”. (Testimonianza di Nello Orsi) (6)

foto 5

Fascisti di Nozzano della XXXVI Brigata Nera (Archivio privato)

In agosto nell’Oltreserchio si muovono anche i fascisti della XXXVI Brigata Nera, capitanata da Vittorio Marlia di Nozzano che vede tra i più attivi collaboratori: Lelio Rossi di Balbano, Giuseppe Cortopassi di S.Maria a Colle, Paolino Bertolozzi di Farneta. E’ lo squadrismo fascista ad aizzare i tedeschi contro i civili. Testimonianze del tempo affermano che i fascisti locali entravano nei locali della scuola di Nozzano per cambiarsi d’abito. Indossate le divise dell’esercito tedesco uscivano con i soldati impegnati nei rastrellamenti, violenze ed uccisioni.

Il 18 agosto un sottufficiale medico della XVI Panzergrenadier, il sergente Papuska, preleva dalla sua abitazione di S.Maria a Colle il giovane Raffaello Giannini, lo conduce in Corte Cosci a Nozzano S.Pietro e lo uccide.

Il 23 agosto lo stesso Papuska, assieme al suo interprete detto “Il bolzanino”, piomba in Corte Tenente dove massacra a sangue freddo i cugini Alberto e Cherubino Vannucci, ordinando ai genitori del primo di seppellirne i corpi.

Successivamente, nella stessa corte, rastrella altri tre giovani: Pompilio, Aurelio e Pietro Vannucci. Mentre li avvia verso la scuola di Nozzano i tre tentano la fuga così li uccide a colpi di pistola. Il mattino del giorno seguente il criminale nazista fa irruzione in Corte Treppia dove uccide il giovane Alessandro Palagi. (7)

A Lucca liberata, Diana Vannucci, 16 anni, “in seguito a fucilazione del padre avvenuta in S.Maria a Colle ad opera dei tedeschi il 23 agosto ’44 e dovendo provvedere a madre e fratellino” chiederà al CpLN di Lucca di essere assunta come stenodattilografa. Uno degli innumerevoli casi di mancata giustizia e mancato risarcimento per i lutti e le perdite subite.

Il 28 agosto le truppe alleate varcano l’Arno, liberano Pisa (2 settembre) e si dirigono verso la lucchesia. Nozzano Castello non costituisce più un luogo sicuro per la Reichsführer-SS, che lo abbandona tra il 28 e 29 agosto trascinando a nord molti civili e dei sacerdoti incarcerati nella scuola elementare. Prima di abbandonare la scuola i soldati tedeschi la fanno saltare in aria facendo uso di cariche esplosive. Non tutti i camion partono verso nord. Un paio si dirigono verso Filettole e qui, in località Laiano, i soldati del tenente Gerhard Walter fanno scendere i 37 prigionieri, tra cui Don Libero Raglianti. Dopo averli fatti allineare lungo una fossa scavata da una bomba alleata, li fucilano.

E’ bene qui ricordare anche il grave episodio avvenuto nella Certosa di Farneta. Il 2 settembre i soldati tedeschi entrano con un inganno nel monastero: tutti i presenti vengono arrestati e portati in un capannone fuori dal convento. Dodici certosini – 6 monaci, tra cui un vescovo, e 6 conversi (cioè laici con l’abito religioso) – vengono fucilati nei giorni seguenti, tra Pioppeti, Camaiore, Massa, mentre gli altri vengono in parte tenuti in carcere e in parte trasferiti nel campo di concentramento di Fossoli, in attesa del trasferimento in Germania. Vengono uccisi anche 32 civili che avevano trovato rifugio nel monastero. (8)

L’8 settembre 1944 Nozzano viene cannoneggiata dalle truppe alleate. Secondo la testimonianza di Don Giovanni Galli, allora parroco di Nozzano Castello, con circa ottanta cannonate viene distrutta la torre campanaria e vengono gravemente danneggiate sia le case vicine sia la stessa chiesa.  “La Guerra che già da anni seminava morte e rovina in tutto il mondo ha cominciato a farsi violenta anche in Italia e nei nostri paesi. Nozzano è stato uno dei più provati del Comune di Lucca. Abbiamo sopportati numerosi e violenti bombardamenti quando si cercava di colpire il ponte di ferro della ferrovia e gli automezzi tedeschi che ritirandosi da Pisa passavano per le nostre vie.

Il dieci agosto ebbero inizio i rastrellamenti e le aule delle scuole in breve tempo si riempirono di uomini di ogni età portati via anche da altri paesi.  Anch’io fui rastrellato e dopo essere rimasto chiuso nella scuola fui condotto a Lucca. Feci il viaggio a piedi con una colonna lunghissima di uomini sotto la guardia delle S.S. Tedesche.

A Lucca per intercezione dell’Arcivescovo venni liberato subito e potetti rientrare in parrocchia. In paese si erano istallati gruppi di soldati tedeschi. In brevissimo tempo derubarono quasi tutto il bestiame: buoi, mucche, suini, pollame. Non contenti iniziarono la demolizione delle case e ne furono distrutte varie sia dentro il Castello come fuori. Il ventuno fui nuovamente rastrellato. Era le 6 ½ della Domenica. Stavo confessando, quando un gruppo di S.S. armate penetrarono in Chiesa e spianandomi il mitra mi costrinsero a seguirle. Anche questa volta la Madonna mi aiutò e riuscii a raggiungere il Vescovato dove rimasi fino alla liberazione da parte degli Alleati che avvenne il 9-IX-1944.

Nella notte dell’otto settembre Nozzano fu violentemente cannoneggiata dagli Alleati. Fu colpita la Torre con circa ottanta cannonate. La Cella fu semidistrutta e la campana superstite andò in frantumi. Fu colpita anche la Chiesa. Un danno immenso sia alla Torre come alla Chiesa. Delle case possiamo dire che furono poche quelle rimaste illese. I Tedeschi prima di lasciare il paese minarono e fecero saltare le scuole dove erano state chiuse e martoriate migliaia e migliaia di persone tra cui donne e sacerdoti. (9)

Lo stesso Don Giovanni Galli, a guerra finita, ricorda quei giorni:  “L’inizio del nostro calvario avvenne con l’incendio pauroso che distrusse molteplici capanne murate, ricolme del raccolto del grano ancora in manne. Era il frutto di tanti sudori, e su questo ponevamo tante speranze. I colpevoli? Stentiamo a credere alla realtà. “Se si ripeterà un fatto simile mi disse con cipiglio severo il comandante della gendarmeria tedesca che mi aveva fatto chiamare- farò delle gravi repressioni in paese. Riferisca questo ai suoi parrocchiani” Dopo il danno dovemmo prendere anche la colpa. L’incubo era così cominciato e la scuola già rigurgitava di uomini rapiti nei paesi del pisano. Di qui la maggioranza di essi era trasportata a Lucca alla Pia Casa, altri venivano falciati col mitra nei dintorni. Avete potuto vedere coi propri occhi quanti cadaveri contenesse la sola fossa di Filettole. Gli alleati sono ancora al di là dell’Arno, nel paese contiamo pochi tedeschi ma bastano per incutere terrore di morte. Una squadra sale il Castello armata di picconi. Cosa hanno intenzione di fare? Tutti ci dicono che le mine iniziano la temuta demolizione del Castello. Le case sbrecciate e smantellate cominciano a cadere. Il Castello non si riconosce più. Quale sarà la sorte della Chiesa? Se l’opera di distruzione dovesse continuare, finirebbe anch’essa in un cumulo di macerie. I vetri sono andati tutti in frantumi per lo spostamento dell’aria e pezzi di pietra gettati in alto sono poi venuti a sfondare il tetto precipitando sul pavimento. E’ doveroso salvare le suppellettili prima che sia troppo tardi; e così come dalle case si porta via ogni cosa, anche la chiesa viene spogliata. Solo nel vuoto si eleva il grande Crocifisso posto sull’altare maggiore. Alla sera di questo giorno fatale avviene un fatto inaspettato. La medesima squadra demolitrice si trasforma in vero assetto di guerra: depone il piccone e si pone in testa l’elmetto, si cinge i fianchi di bombe a mano e imbraccia il moschetto. Di lì a poco salgono velocemente il Castello alcune macchine tedesche. Le osservo, non visto, dalle persiane; conducono anche degli ufficiali. Nei dintorni della torre sta curiosando qualche bambino e qualche vecchio. Viene allontanato con la scusa che si faranno brillare delle mine ed infatti si ode una fortissima detonazione. Un sergente maggiore tedesco era stato fucilato. Pozze di sangue miste a materia cerebrale sono rimaste per vari giorni a testimoniare il fatto. Quale la causa? Per noi sarà sempre un enigma. Alcuni hanno voluto vedervi una punizione per la inutile e disumana distruzione delle case. Il fatto certo è questo che da quella sera non si udirono più scoppi di mine. Era appena cessato questo incubo, quando ebbero inizio i rastrellamenti: anche il sottoscritto va a finire alla scuola, divenuta centro di raccolta, e di qui incolonnati ci indirizzano alla Pia Casa. Appena a Lucca il sottoscritto fu liberato e dopo tre giorni mandato di nuovo in paese. Alla domenica, nuovo rastrellamento. Come molti paesani furono portati via dalle loro case, così il Parroco fu portato via dalla chiesa. Erano le sei e tre quarti del mattino e stava ascoltando le confessioni. Questa volta dovetti rimanere assente fino alla venuta degli alleati. Intanto Nozzano continua la sua ascesa nella via sanguinosa. Gli alleati sono a poca distanza da noi, quando ha inizio un violento cannoneggiamento. I proiettili cadono violentemente l’uno dopo l’altro sul paese. Il primo bersaglio è la Torre vetusta. Ha sfidato tanti secoli, è rimasta intatta mentre l’ira del tempo e degli elementi ha fatto crollare tante sue sorelle ed ora sembra divenuta debole e fiacca. Ogni colpo è un pezzo di muro che si stacca. La Torre campanaria non si riconosce più e la campana unica superstite colpita in pieno cade. Il tiro si sposta ed è la volta delle case. Quasi tutte sono state più o meno colpite, ed anche attualmente si vedono le stigmate degli squarci…..anche la Chiesa viene colpita. Prima di abbandonare il paese le S.S. tedesche demolirono alcune case in basso. Anche la frazione di Corte Pardi, oltre ai gravissimi danni al palazzo dei conti Bargagli, vide incendiate tutte le sue stalle e le sue capanne.” (10)

Nel 1948 iniziano i lavori di costruzione della nuova scuola elementare, inaugurata l’11 dicembre 1949 ed ancora intitolata ad Ermenegildo Pistelli.

E’ bene infine ricordare come il responsabile per grado delle atrocità commesse sopra descritte, il generale Max Simon, al termine della guerra, dopo essere stato rinchiuso con Reder nel Campo di Wolfsberg, venga processato a Padova davanti a un tribunale militare inglese. Il suo è l’ultimo celebrato di una serie di processi tenuti nella stessa città contro presunti criminali di guerra nazisti. Il criminale nazista viene condannato a morte, ma la sentenza è quasi immediatamente commutata con il carcere. L’ex generale viene trasferito in Germania per scontarvi la pena. Come molti altri prima di lui, è libero nel 1954 anche per intercessione dell’arcivescovo di Colonia Frings e grazie alla campagna per il perdono e la riabilitazione dei criminali di guerra che coinvolge in particolare la Germania negli anni della Guerra fredda, volta a rilegittimare l’esercito tedesco come elemento centrale nello schieramento europeo della NATO.  Durante il processo non si mostra mai pentito, affermando “rifarei esattamente tutto ciò che ho fatto”. Max Simon muore d’infarto nel 1961.

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Note:

(6)  Nello Orsi, Da rastrellati a partigiani – Diario 1944, Tra le Righe Libri 2014

(7)  Don Pio Serafini, De Tempore Belli, Istituto Storico della Resistenza

(8)   Michele Battini, Paolo Pezzino, Guerra ai civili: occupazione tedesca e politica del massacro: Toscana 1944, Marsilio 1997

(9)  Archivio Parrocchiale Nozzano Castello 1944

(10) Bollettino Parrocchiale di Nozzano Castello n.1 in Regnum Christi, maggio 194

 

 

 




Per una storia della Scuola Elementare di Nozzano Castello (I°)

Nei primi anni del ‘900 a Nozzano Castello i bambini in età scolare seguono le lezioni in abitazioni private che vengono affittate dal Comune per questo scopo. A partire dagli anni ’20 il Comune di Lucca acquisisce un edificio che sorge proprio al centro della piazza del paese per adibirlo a scuola elementare: una palazzina a due piani. Le classi sono al pianterreno e l’abitazione della maestra al piano superiore, come d’uso in quel tempo, quando le maestre avevano l’obbligo di residenza nel luogo dove insegnavano.

foto 3In un primo momento la scuola deve essere intitolata a Salvatore Bongi (Lucca 1825 – Lucca 1899), storico e bibliografo, responsabile dell’Archivio di Stato di Lucca dal 1859 fino alla sua morte, ma nel 1928, anche per la volontà dell’allora segretario federale di Lucca del partito fascista, Carlo Scorza, dal 1942 segretario nazionale del Pnf, la scuola di Nozzano viene intitolata a Ermenegildo Pistelli.

Ermenegildo Pistelli (Camaiore 1862 – Firenze 1927) è un sacerdote scolopio, filologo e glottologo, di aperte simpatie per il fascismo. In polemica con Benedetto Croce, che rifiuta sempre l’iscrizione al Partito Fascista, scrive vari articoli sul giornale “Battaglie Fasciste”, organo del fascio fiorentino. Nel 1927 viene pubblicato il suo libro “Eroi Uomini e Ragazzi”. Nella prefazione di Benito Mussolini, Ermenegildo Pistelli viene definito “fascista fedele e appassionato”. Va ricordato che proprio in quell’anno il regime fascista impone il libro unico per l’insegnamento elementare “Patria” scritto da Adele e Maria Zanetti, seguìto nel 1934 dal “Libro fascista del Balilla” di Vincenzo Meletti. (1)

La scuola sorge nella piazza dedicata ai Martiri della guerra fascista, separata dalla Casa del Fascio dal Fosso Dogaia. Oltre la scuola sorge il Campo della Rimembranza dei caduti della Prima Guerra Mondiale, cinto da una inferriata poi tolta e utilizzata come materiale bellico durante la Seconda Guerra Mondiale. Già all’inizio la scuola è insufficiente a contenere tutti gli alunni, per cui ancora si deve ricorrere a succursali dislocate presso privati, come Villa Febbrini, situata nella parte opposta della piazza, ma la scuola della piazza è quella ufficiale.

 

Manifesto con la dichiarazione dello stato di emergenza dopo l’8 settembre

Manifesto con la dichiarazione dello stato
di emergenza dopo l’8 settembre

Dopo l’11 settembre 1943 assume il comando su tutte le autorità militari e civili di Lucca e Provincia il comandante Randolf che, dichiarato lo stato di emergenza, avverte: “coloro che tentassero delittuosamente di nuocere al Reich tedesco o ai suoi soldati, devono attendersi le più severe punizioni senza alcun riguardo”.

Il 18 maggio 1944 la Circolare n.781 gab. riservata ai Podestà e Commissari Prefettizi della Provincia, al Questore e al Comandante provinciale GNR, prevede l’eventualità, in caso di Stato di Emergenza, di sfollamento nel giro di poche ore di popolazione e bestiame verso Pistoia. I Podestà, d’accordo con i Segretari del Fascio Comunale, nominano: i Capi Ammasso, che devono radunare il bestiame e i conducenti; i Capi Colonna, che guidano distintamente bestiame e persone alla località di sfollamento.

E’ previsto l’impiego della Polizia per sostenere i Capi Ammasso e i Capi Colonna per garantire l’ordine pubblico e prevenire o reprimere ogni eventuale incidente. I nominati possono anche non essere iscritti al Partito Fascista, ma devono godere di largo prestigio fra la popolazione.

Per la Zona dell’Oltreserchio vengono nominati: per Nozzano Castello, Capo Frazione Boggioni Amleto; Capo Ammasso Simi Fausto, Capo Colonna Benetti Orlando. Per Nozzano S.Pietro, Capo Frazione Barsotti Alfredo; Capo Ammasso Micheli Giovanni; Capo Colonna Michelucci Vittorio.

Il 24 luglio 1944 la Scuola Elementare di Nozzano Castello viene requisita dalla XVI Panzergrenadier Division “Reichsführer-SS”, comandata dal generale Max Simon. La scuola diventa la sede del carcere divisionale. Nei pressi della scuola, in località Bordogna, viene istituito il tribunale che si occupa di processare e condannare a morte gli elementi sospetti. La gestione del carcere è affidata alla Feldgendarmerie del tenente Gehrard Walter.

 

Le testimonianze di chi è sopravvissuto al soggiorno nella scuola di Nozzano e al trattamento del tenente Walter sono agghiaccianti. Si dorme su pagliericci che al mattino vanno risistemati, pena le ingiurie e le percosse delle guardie. Il cibo è quasi inesistente. Le finestre sono sbarrate e in quella torrida estate l’aria è irrespirabile. Dormire è praticamente impossibile, ci si può recare alle latrine solo al mattino e alla sera. Le SS praticano ai danni dei reclusi un vero e proprio campionario di esercizi di tortura. (2)

Si legge nella testimonianza del maestro Mario Bigongiari arrestato con il fratello don Giorgio, Cappellano di Lunata (Lucca):

Il giorno 16 agosto 1944, dietro denunzia anonima di fascisti, fui arrestato insieme col fratello don Giorgio, cappellano di Lunata, col pievano don Angelo Unti e con altri uomini del paese, in tutto dieci persone, e condotto direttamente a mezzo camion nelle scuole elementari di Nozzano Castello. Arrivati, ci condussero in un’aula del secondo piano, dove trovammo altri due di Lucca, certi Ninci e Vannini; erano circa le sette del mattino. Dalle condizioni dei primi internati veduti, capimmo che ci trovavamo in carcere e fra persone su cui pesavano gravi accuse. In una prima stanza, tutto intorno alla parete c’erano dei  giovani in ginocchio di cui alcuni bendati. Nel mezzo c’era una sentinella tedesca armata di mitra che sorvegliava ogni movimento, percuotendo brutalmente chi, per stanchezza o insofferenza, cambiava posizione. Sempre al piano superiore in comunicazione con la nostra stanza, vi erano i rastrellati di Valdicastello. Tra loro in seguito conoscemmo il pievano don Libero Raglianti, un carmelitano Padre Marcello e uno studente di teologia salesiano Tognetti. Anche le condizioni di questi erano dolorose. L’aspetto lo dimostrava: barba lunga, vestiti strappati, volti cadaverici. Restammo in quella stanza, priva di qualsiasi mobile, tutta la mattina, senza subire alcun interrogatorio e senza  uscire nemmeno per i più elementari bisogni. Alle quattro del pomeriggio ci portarono in un solo coperchio di gavetta militare del grano cotto, che doveva servire insieme ad un pezzo di pane per 12 persone. La sera stessa ci fecero scendere al primo piano, in una stanza più grande con della paglia e delle panche, la quale comunicava con la stanza più terribile perché qui le sofferenze erano continue (…) Dopo due giorni cominciarono gli interrogatori. Ogniqualvolta ci interrogavano, venivamo separati l’uno dall’altro. Quando le interrogazioni non li soddisfacevano, si sfogavano brutalmente. Continuamente pesava su di noi l’incubo di una fine tragica, perché questa giornalmente era la sorte di tanti disgraziati che si vedevano partire sopra una camionetta con alcuni tedeschi armati. Poco dopo tornava la camionetta con i soli tedeschi. Ogni giorno eravamo spettatori di atrocità raffinate: troppo ci vorrebbe a raccontarle tutte. Un giorno portarono una donna di circa 30 anni. Fu messa nella stanza superiore, poi perché per i maltrattamenti subiti gridava aiuto dalla finestra, fu condotta in un piccolo gabinetto al piano superiore, sporco da non dirsi. Ve la tennero in un fetore insopportabile, senza avvicinarsi nessuno, senza bere e senza mangiare due giorni e due notti. Impazzita, fu fucilata in una fossa a poca distanza dalla scuola. Era di Camaiore, si chiamava Leila Farnocchia”.

foto 4 La scuola è separata dalle case circostanti dalla strada comunale, eppure la paura e l’istinto di sopravvivenza domina gli abitanti rimasti in paese, prevalentemente donne, bambini e anziani, inerti di fronte a ciò che accade nell’edificio. Gli uomini quasi tutti sono sfollati da Nozzano per rifugiarsi soprattutto nei locali dell’Ospedale Psichiatrico di Maggiano. Fra le memorie raccolte dalla loro viva voce c’è il ricordo dei camioncini che si allontanano pieni e ritornano vuoti e della donna di Camaiore sopra citata. Leila Farnocchia è una maestra, imprigionata perché sorpresa con volantini contro i tedeschi, secondo alcuni raccolti per terra, secondo altri da lei stessa distribuiti.

Qualche anziano, testimone del tempo, dice che sia stata sorpresa con un canestrino di viveri che sta portando al marito nei campi e accusata di portare cibo ai partigiani. Di fatto i tedeschi la trattano come una partigiana. Dalla finestra della scuola grida il suo nome e si raccomanda che venga avvertita la sua famiglia a Camaiore. Dopo il martirio nella latrina viene fucilata in un campo vicino alla scuola, lungo la strada che porta alla Chiesa di Nozzano S.Pietro. Il suo corpo viene gettato in una fossa di confine. Li rimane diversi giorni, ben visibile e nessuno osa darle sepoltura e perfino guardarla temendo rappresaglie.

Una ordinanza del comando della XVI Divisione vieta comunque la sepoltura delle vittime.

Il periodo che va dall’agosto al settembre ’44 è il più terribile per tutto il territorio, sul quale si sfoga la barbarie dei tedeschi. Lo ripercorriamo attraverso le testimonianze di persone che l’hanno sofferto e che documentano dal vivo in modo tragicamente essenziale le vicende di quei giorni.

Il periodo che intercorse fra l’arrivo degli alleati all’Arno (30 luglio 1944) e l’8 settembre, giorno della liberazione di Nozzano, è quello in cui i tedeschi infierirono sulla popolazione inerme e benché questa rimanesse calma e serena in attesa degli eventi, l’attività tedesca di brigantaggio non ebbe più limiti. Il sistema di rappresaglie e di terrore ebbe inizio con il bruciamento di 12 capanne, ove era ricoverato grano ecc., sul mattino del 29 luglio 1944… Circa la chiamata e l’avvertimento dato al parroco dalla gendarmeria altro nonera che lo scopo preciso di crearsi un alibi per commettere più agevolmente i loro delitti sulle persone e sulle proprietà, Infatti veniva razziato tutto il bestiame, ed a ciò era incaricato un soldato tedesco delle S.S. rimasto celebre in tutta la zona. Lo chiamavano Leo ed era un vero delinquente, specializzato per tale bisogna. Interi campi di patate, fagioli erano depredati sotto gli occhi di coloro che avevano lavorato e sudato. Gli uomini e perfino i ragazzi venivano rastrellati e portati a lavorare. In questo periodo di tempo veniva minato e distrutto il ponte di ferro sul Serchio, minata e divelta la ferrovia che conduce a Viareggio, minata e fatta saltare la galleria di Balbano”. (Testimonianza di Giuseppe Vecci di Nozzano Castello).

Tra il quattro e il cinque agosto una squadra di guastatori demolisce diverse abitazioni in Castello. Il giorno sei hanno inizio distruzioni in grande stile con un cinismo ed una ferocia impareggiabili, poiché il vero scopo di queste distruzioni non viene compreso dalla gente del luogo. In realtà la distruzione degli edifici sul lato sud della cerchia del Castello deve servire ai tedeschi per posizionare cannoni ed artiglieria pesante per colpire in direzione di Pisa gli alleati e frenarne così l’avanzata verso Lucca. Tra gli edifici distrutti, senza dare agli abitanti nemmeno il tempo di raccogliere le loro masserizie, c’è anche la sede della Croce Rossa Italiana, depredata di tutti i medicinali in essa riposti.

La notte tra il 6 e il 7 agosto 1944 i soldati della “Reichsführer-SS”, guidati da spie fasciste, organizzano il rastrellamento della “Romagna” nei Monti Pisani, vicino al Santuario di Rupecava. Oltre 300 uomini vengono catturati e condotti nella scuola di Nozzano. Tra i rastrellati c’è anche una donna, Livia Gereschi, giovane insegnante che conosce il tedesco e che è intervenuta spontaneamente in difesa degli sfollati, spiegando al comandante delle SS che non sono partigiani, bensì famiglie che si sono rifugiate sui monti per sfuggire ai bombardamenti degli Alleati. Ottiene così di far rilasciare donne e bambini, ma non gli uomini e lei stessa viene incolonnata insieme a loro e portata via.

A Ripafratta i prigionieri vengono divisi in due gruppi: uno di “abili al lavoro” che viene condotto alla Pia Casa di Lucca, l’altro, costituito da 69 persone tra le quali si trova anche Livia Gereschi, viene costretto a proseguire a piedi fino alla scuola elementare di Nozzano Castello. Qui i prigionieri trascorrono quattro lunghi orribili giorni, durante i quali molti di loro vengono torturati. La mattina dell’11 Agosto alcuni di loro sono portati in località Pancone, altri, tra cui Livia Gereschi, in località Sassaia nel comune di Massarosa, dove vengono uccisi a colpi di mitragliatrice.  (4)

 

Note:

(1)  Sabrina Fava, Percorsi critici di letteratura per l’infanzia tra le due guerre, Vita e Pensiero 2004

(2)  Gianluca Fulvetti, Una comunità in guerra, L’ancora del mediterraneo 2006

(3)  Mons.Francesco Baroni, Memorie di guerra in lucchesia (1940-1945) Tip. Artigianelli

(4)  Carla Forti, Dopoguerra in provincia: microstorie pisane e lucchesi 1944-1948, Franco Angeli 2007

 




Dover partire.

Come afferma Patrizia Gabrielli, quello biografico è un approccio a lungo rimasto a margine rispetto alla produzione storiografica sull’antifascismo che, solo fino a pochi anni fa, pareva prediligere una rimozione del retaggio delle storie personali, dei vissuti soggettivi quasi fossero soffocate dalle gesta dei molti eroi che contraddistinsero il periodo e segnarono la storia della nostra repubblica e della nostra libertà.

Nell’ambito della produzione memorialistica sull’antifascismo, il metodo biografico ha acquistato progressivamente uno spazio significativo, al punto che ormai, costituisce parte integrante della bibliografia sull’emigrazione con le sue memorie, autobiografie e carteggi, che hanno avuto il potere di mettere in luce angoli visuali inattesi.

Le ricche e interessanti storie soggettive e collettive contribuiscono così a rendere una visione d’insieme dell’esperienza dei fuoriusciti italiani attraverso plurimi punti di osservazione, non solo statistici o politici. La visione al tempo stesso vittimistica ed elogiativa dei migranti italiani all’estero, offre più profondi e interessanti spunti di riflessione sociologica e culturale. Infatti, ogni situazione contiene in se stessa una complessità che la rende unica. Questo articolo descrive la storia della migrazione da Marti a Valbonne durante l’affermazione del fascismo in Toscana raccontando, a titolo di esempio, la storia della famiglia Lanini una delle 28 famiglie immigrate in quel periodo da un paese che contava all’epoca 2000 anime, insieme ad altri toscani perseguitati dal fascismo[1]. In questa ondata migratoria una famiglia si caratterizzò dalle altre. In quanto strumento del regime, aveva un incarico ben preciso quello del controllo affermando le direttive del fascismo, fuori dal territorio nazionale, seppur interpretate secondo le necessità locali[2]. Il fascismo aveva provato a più riprese a incunearsi nelle società ospiti sebbene la forza del regime sia stata riconosciuta, soprattutto in Francia, con maggiore reticenza[3], sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero.

Primo Lanini arrivò a Valbonne (Francia) nell’estate del 1924 a piedi, dopo una lunga e disagiata marcia lunga 400 km durata 5 settimane. Aveva 37 anni.  Il suo è un viaggio esplorativo per verificare la situazione, trovare un alloggio, prendere accordi, stabilire contatti, comprendere le potenzialità da dove partire. Cosetta è l’ultima figlia nata in Italia e ancora vivente. Nasce il 5 dicembre 1924 al civico 18 di Borgo d’Arena, una borgata di Marti, al tempo frazione del comune di Palaia in provincia di Pisa un quartiere, molto attivo da un punto di vista di impegno politico dove risiedevano anarchici, socialisti e comunisti afferenti alla Lega mista contadini-operai formatesi con autentica partecipazione durante il biennio rosso ma anche l’associazione La fratellanza operaia legata al modello del mutuo soccorso e già attiva agli inizi del 1900.

La scelta del luogo dove installarsi con la famiglia era riconducibile essenzialmente al passaparola con altre famiglie toscane emigrate a Valbonne[4] già a fine Ottocento per motivi legati al lavoro stagionale costituito principalmente dalla vendemmia dell’uva servan e dalla raccolta dei fiori come il gelsomino e la rosa centifoglia per le profumerie di Grasse, che attirava nella zona donne e uomini provenienti anche dalla provincia di Cuneo e dalle valli limitrofe[5] e dal fatto che la Francia, in quel momento, registrava un importante presenza di antifascisti (nel dipartimento Alpi Marittime e nella Regione PACA ce ne sono molte)[6]. Il Paese confinante era stato ritenuto da Primo l’alternativa più sicura e più accessibile considerato l’inasprimento dei rapporti internazionali e l’affermarsi del fascismo. La comunità martigiana proveniva da un paesaggio rurale caratterizzato dalle belle colline inferiori pisane, punteggiato da boschi e calanchi di creta argillosa. La gente allevava polli, vitelli e porci, intrecciava cesta, costruiva cerchi per le botti, lavorava il castagno, forgiava il ferro, coltivavano la terra, il mare non era nelle loro corde, né tantomeno il paesaggio urbano di Nizza, per questo la scelta di un paese simile, se non altro per clima e contesto, sembrò la più appropriata. Valbonne al tempo, era circondata da boschi si poteva tagliare la legna, venderla, trasformarla in carbone, costruire gabbie per gli uccelli, arrangiarsi, ingegnarsi, destreggiarsi, adattarsi ma lavorare finalmente in pace e vivere in attesa di tempi migliori. Le migrazioni cambiano e arricchiscono la storia di un Paese, trasformano la composizione sociale e politica di un luogo, incrementano l’economia locale ma la transizione non è così immediata, lineare e pacifica e, sicuramente nella fase iniziale, non è mai semplice inserirsi nel nuovo tessuto sociale. Così, spesso, gli eventi sfociavano in importanti divergenze culturali anche se, nel caso di Valbonne, non ci sono state mai vere e proprie discriminazioni da parte francese[7]. L’integrazione, anche solo lavorativa, non sembrava essere facile salvo sfruttare liberamente le risorse naturali del territorio: i boschi, rendendo vitale questo settore. I martigiani si specializzarono nel taglio del bosco e nella produzione del carbone, realizzavano fascine per venderle nei ristoranti, nei panifici o nei forni di cottura della celebre ceramica di Vallauris dove si installerà Picasso dal 1948 al 1955[8].

unnamedParisina Bottai con il primogenito Rigoletto, 10 anni,  Alfio, 5 anni e Cosetta, di soli sei mesi[9], arrivarono a Valbonne un anno più tardi, nell’estate del 1925, quando ormai in Italia erano state parzialmente approvate le leggi fascistissime trasformando, progressivamente, la monarchia parlamentare in una dittatura totalitaria. Arrivarono con il treno con un biglietto di terza classe fino a Ventimiglia dove Primo li raggiunse e li aiutò a passare la frontiera. Lanini era un socialista non interventista (aderente in un successivo momento al comunismo) che, suo malgrado, fu coscritto quattro anni nel corpo degli alpini e inviato sul fronte orientale in Trentino Alto Adige per combattere durante la Prima Guerra mondiale[10]. Tornato a casa, scioccato da quanto aveva visto e vissuto, demoralizzato e amareggiato per il trattamento riservato loro al rientro dalla guerra, cercava, come tutti i reduci, di reinserirsi nel tessuto sociale e riprendere stabilmente il suo lavoro di boscaiolo che gli consentisse di mantenere la famiglia. Così quando le camice nere andarono a cercarlo a casa per ingaggiarlo nelle loro spregiudicate imprese intimidatorie, Primo non ne volle sapere: era stanco della violenza e del dolore. Era un uomo giusto, dignitoso, le sue pretese erano semplici e lecite:  voleva solo ricominciare a lavorare e dimenticarsi dell’orrore della vita delle trincee e della disillusione delle promesse fatte. Lanini non condivideva l’ideologia fascista pertanto si rifiutò con fermezza di partecipare anche alla Marcia su Roma. Considerato un sovversivo, divenne vittima delle vessazioni delle cosiddette squadracce e a seguito di un’aggressione fisica grave decise di mettersi in salvo con la famiglia da un paese ingrato e illiberale.. Vi erano già state nel Comune di Palaia situazioni di tensione alcune delle quali trasformarsi in tragedia. Una sera durante una veglia clandestina, un gruppo di camicie nere provenienti da Pontedera fece irruzione nella casa dove si erano riuniti clandestinamente alcuni esponenti antifascisti e cominciarono a colpire all’impazzata con il manganello tutti i partecipanti alla riunione. Emilio Doni (1886-1954) attivo sindacalista e autorevole sindaco di Palaia già dal 1920 si mise miracolosamente in salvo saltando velocemente fuori dalla finestra e nascondendosi dentro il forno per il pane. Doni fu costretto a dimettersi dal ruolo di sindaco a causa dell’avanzamento dell’ondata nera guidata dai proprietari terrieri della zona tra tensioni e tumulti che sfociarono in feroci aggressioni e atti di sangue. Ma l’evento determinante che fece maturare definitivamente la scelta di Primo Lanini di trasferirsi in Francia fu l’aggressione e l’omicidio di un compaesano. Primo, che da qualche tempo aveva già preso in considerazione l’ipotesi della fuga all’estero, ne fu convinto soprattutto dopo l’assassinio di Alvaro Fantozzi[11]  segretario della Camera del lavoro di Palaia di soli 29 anni avvenuto sulla strada di Castel del Bosco al mattino del 2 aprile 1922 mentre si recava a un comizio a Marti per cercare di ripristinare la Lega mista contadini-operai. Lanini comprese che la situazione stava degenerando, accelerò dunque i tempi passando velocemente all’azione avvalendosi delle indicazioni di altri martigiani che anni prima avevano già tentato l’avventura in cerca di fortuna e che nel frattempo, grazie a scelte oculate, erano diventati abbienti. Infine, la realtà nella quale questo giovane toscano dovette, suo malgrado, vivere gli prospettò un avvenire tranquillo e agiato, così quando, al termine della Seconda Guerra Mondiale si paventò l’idea di ritornare a casa a Marti, la scelta fu quella di restare in Oltralpe, a Valbonne dove morirà nel 1973[12]. Nonostante un forte senso esistenziale lo legasse ancora alla Toscana, la sua vita era ormai orientata a Valbonne e la Francia gli aveva procurato protezione e benessere economico.

[1] Famiglie provenienti da Marti: Bottai, Balducci, Bagnoli, Bandini, Banti, Doni, Trinti, Monti, Catalini, Giglioli, Ciampini, Cenci, Corti, Costagli, Ceccarelli, Giannini, Marmeggi, Gorini, Lanini, Nardi, Pretini, Pitti, Telleschi, Ulivieri, Regoli, Pistolesi, Pupeschi, Vanni. Famiglie originarie di Ponte a Egola : Billeri, di Forcoli : Doveri, di Massa : Trietti, di Pontremoli : Biasini e Valenti. Infine, famiglie provenienti da Pistoia: Vivarelli e Bizzarri.
[2] Il fascismo aveva provato a più riprese a incunearsi nelle società ospiti sebbene le forza del regime sia stata riconosciuta, soprattutto in Francia, con maggiore reticenza, sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero.
[3] La penetrazione del fascismo nelle comunità italiane all’estero è stata per lungo tempo sottovalutata dalla storiografia, tanto in Italia quanto nei paesi d’arrivo. La storia del fascismo all’estero si è arricchita, nel corso degli anni, di diversi contributi che hanno ricostruito la penetrazione del regime in svariati contesti nazionali e regionali. Nell’ambito della storiografia italiana, il contributo recente più interessante appare quello di Matteo Pretelli.
[4] Demografia di Valbonne village: 1891 = 1015 , 1896 = 1138, 1901 = 1067, 1911 = 1045, 1921 = 831, 1926 = 949, 1931 = 1063. Nel periodo di cui stiamo parlando Valbonne contava 949 abitanti. Ultimi dati aggiornati al 2017 = 13 325 abitanti.
[5] Il Comune di Valbonne si era già dimostrato accogliente nei confronti degli italiani che svolgevano lavori stagionali poiché aveva già ospitato altri migranti toscani, provenienti da Marti primo su tutti Amerigo Balducci giunto nel villaggio nel 1895 con la moglie Zaira Nardi, seguiti, in ordine sparso, da altre 6 famiglie di cui il nucleo di Armando Nardi e Ida Petrini arrivati a Valbonne nel 1904 che rappresentano un’importante testa di ponte per la successiva migrazione politica.
[6] Occorre ricordare, a titolo di esempio, la famiglia di Amleto Gorini martigiano installatosi a Draguignan e Danilo Gorini che fu a lungo sindacalista nella CGT e che partecipò alla Resistenza francese.
[7]  Le condizioni di vita erano piuttosto favorevoli e la comunità locale dimostrava quanto meno una certa tolleranza nei loro confronti. Nel censimento del 1936 si contano in Francia 720.000 italiani tra esuli antifascisti e comunità di lavoratori immigrati di cui 11.000 aderenti ai partiti politici antifascisti.
[8] Studi antropologici mostrano che la catena di immigrazione si organizzava per via familiare, così che le nuove comunità che si formavano erano omogenee per area di provenienza; la stabilità di tale flusso migratorio è confermata dall’esiguo numero di ritorni in Toscana.
[9] L’ultima figlia della famiglia Lanini, Angel, nascerà in Francia nel 1931.
[10] Primo Lanini fu insignito dal capo della Repubblica dell’Ordine di Vittorio Veneto dell’Onorificenza di cavaliere al valore militare (Numero d’ordine 315). L’onorificenza commemorativa fu istituita in Italia nel 1968 dall’allora presidente Giuseppe Saragat.
[11] Alvaro Fantozzi, Segretario della Camera del lavoro di Palaia e Assessore comunale a Pontedera, fu un infaticabile organizzatore di leghe bracciantili. Il giovane fu assassinato con armi da fuoco la mattina del 2 aprile 1922 da tre fascisti di San Miniato rimasti poi impuniti. Dopo l’omicidio Fantozzi, che scosse per la sua cruenza tutta la Valdera, i comunisti aggredirono due fascisti a cui seguì una pronta rappresaglia delle camicie nere che, in varie località della Provincia di Pisa, bastonarono gli avversari.
[12] Solo due famiglie dell’ondata migratoria tornarono a Marti dopo la fine della seconda guerra a causa di lutti e della necessità di fornire un aiuto materiale ai propri cari. Gli altri rimasero tutti in Francia dove nel frattempo avevano preso la nazionalità.




Una campagna elettorale fiorentina ad “alta conflittualità”.

La parte clerico-moderata si prepara con alacrità all’assalto di Palazzo Vecchio. L’«Unione Liberale», che ne è l’organo, sta per essere sollecitamente battezzata e per entrare in guerra aperta. Tra le forze reazionarie si serrano le file, e non v’è dubbio che la lotta elettorale imminente sarà tra le più vivaci che si ricordino in Firenze: sarà anche altrettanto grave nelle sue conseguenze, e decisiva per la fisionomia politica della città.

Noi sentiamo di non esagerare affatto la portata di questa battaglia (…) Sin che sulla torre di Palazzo Vecchio sventola la bandiera della Democrazia, il fermento di vita nuova per cui le forze democratiche si risollevano in ogni angolo della Regione non può spegnersi e ritornare nella quiete mortale, che la democrazia fiorentina ha tanto cooperato a interrompere col suo esempio e col suo richiamo. Una democrazia stabilmente insediata al governo di Firenze irraggia il calore della sua energia sino ad ognuna delle nostre terre.[1] 

 

Il 5 maggio 1910, anticipando l’imminente convocazione dei comizi per il rinnovo parziale del Consiglio comunale fiorentino, «L’Opinione Democratica», quotidiano fondato e diretto dal futuro Gran Maestro della Massoneria, Domizio Torrigiani, chiamava a raccolta contro il probabile assalto dei clerico-liberali le forze della Democrazia fiorentina, le quali da tre anni governavano Palazzo Vecchio. L’Unione dei Partiti Popolari, un’alleanza bloccarda stipulata tra socialisti, repubblicani, radicali e demo-sociali, aveva infatti clamorosamente vinto le elezioni amministrative generali fiorentine del 1907, spezzando l’intramontabile egemonia dei liberali moderati fiorentini e mandando al governo della città due giunte di sinistra guidate, la prima (1907-1909), dall’avvocato Francesco Sangiorgi – primo Sindaco popolare della città – e la seconda (1909-1910) dal medico anatomista Giulio Chiarugi, entrambi appartenenti al piccolo gruppo dei demo-sociali.

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Domizio Torrigiani, futuro Gran Maestro della Massoneria. Fu candidato nella lista popolare alle elezioni amministrative fiorentine del 1910 quando diresse il quotidiano elettorale “L’Opinione Democratica” (Fonte immagine: Wikipedia, public domain)

Salite al potere con un programma in undici punti nel quale erano state richieste fra le altre cose la municipalizzazione dei servizi pubblici, una riforma tributaria a base progressiva, la laicizzazione delle opere pie, la refezione scolastica gratuita e l’insegnamento laico, le forze popolari avevano dato vita nei tre anni di loro governo a un’esperienza amministrativa di grandi novità in campo sociale e culturale. Tra le principali realizzazioni delle due giunte bloccarde si potevano annoverare: il rilancio dell’edilizia popolare, l’organizzazione di inchieste sulle condizioni di vita e di lavoro nelle fabbriche, una larga opera di risanamento igienico-sanitario (che vide la costituzione dell’Istituto di igiene del comune, la costruzione di un nuovo impianto per il servizio di nettezza urbana e il progetto per il nuovo ospedale di Careggi), la laicizzazione dell’istruzione e dei nosocomi (l’insegnamento religioso nelle scuole fu reso facoltativo e negli ospedali si sostituirono le suore-infermiere con del personale laico appositamente formato), infine misure straordinarie volte alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio storico-artistico cittadino (fu istituito l’Ufficio comunale di Belle Arti e Antichità, il Museo del Risorgimento e la Galleria d’arte moderna, nonché avviati i lavori di restauro di Palazzo Vecchio). Queste ed altre misure più propriamente “politiche”, quali il sussidio annuo concesso alla Camera del Lavoro cittadina o l’intitolazione nel 1909 della via dell’Arcivescovado al pedagogista libertario spagnolo Francisco Ferrer Guardia, avevano contribuito a segnare una profonda discontinuità nel governo cittadino rispetto alle precedenti amministrazioni rette dai liberali fiorentini.

Il sorteggio di venti consiglieri su sessanta – tredici popolari (tra cui l’avvocato Giuseppe Pescetti, primo deputato socialista toscano, e Sebastiano Del Buono segretario della Camera del Lavoro di Firenze) e sette monarchici (più due dimissionari) – da rinnovarsi con la convocazione dei comizi fissata per il 19 giugno 1910 rappresentò per l’amministrazione popolare la prima effettiva prova elettorale dopo il successo del 1907. Considerazioni politiche e opposte progettualità municipali si intrecciavano in vista delle urne, riaccendendo la tradizionale conflittualità tra “liberali” e “popolari”, i primi ansiosi di modificare gli equilibri municipali nella speranza di poter rientrare in possesso del governo della città e i secondi decisi invece a consolidare la loro esperienza amministrativa. La giunta Chiarugi a quell’appuntamento aveva cercato di giungere mettendo al sicuro alcuni importanti provvedimenti, quali un progetto di riscatto dei ponti di ferro cittadini e la costruzione di alcuni edifici scolastici, ottenendo però per tutta risposta l’intervento della Giunta Provinciale Amministrativa, controllata dai liberali, la quale bloccò e poi rigettò il progetto di bilancio preventivo per il 1910, agendo, a detta dei popolari, con finalità elettorali. Già in precedenza, la portata finanziaria dei progetti varati dalla giunta Sangiorgi avevano prodotto evidenti difficoltà per l’amministrazione bloccarda, sollevando persino contrasti e dissidi entro i tre partiti popolari alleati.

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L’avvocato Francesco Sangiorgi, primo sindaco popolare di Firenze eletto nel 1907 (Fonte immagine: Wikipedia, public domain)

Nonostante alcune incertezze inziali, alle elezioni parziali del giugno 1910, l’alleanza popolare tra socialisti, repubblicani e demo-sociali venne riconfermata. Il 26 maggio presso la Fratellanza Artigiana d’Italia si tenne l’assemblea delle commissioni elettorali dei tre partiti popolari nella quale si sancì la suddivisione dei seggi all’interno della lista comune, assegnandone 11 ai socialisti, 6 ai repubblicani e 3 ai demosociali. Tra i nomi in lizza, oltre a quelli del Pescetti e di Del Buono, vi erano anche quelli del già citato Domizio Torrigiani (presentato contemporaneamente candidato alle provinciali per il mandamento di Santa Maria Novella), dell’avvocato Michele Terzaghi, direttore del settimanale della federazione socialista fiorentina «La Difesa», del libraio Oreste Gozzini e dell’ex radicale Alfredo Brogi, entrambi candidati repubblicani. Più tardi vennero diffusi un manifesto unico nel quale si difendevano le posizioni conquistate durante la gestione popolare del comune in «fede al programma» del 1907.

Sul fronte opposto, i liberali si presentavano alle urne con una formazione inedita, esito di una profonda e radicale rifondazione delle strutture organizzative del partito avviatasi all’indomani del pesante fallimento subito in occasione delle elezioni politiche del 1909, quando essi avevano perduto contro i candidati dei popolari in tre dei quattro collegi cittadini. Il 30 gennaio 1910 era stata infatti costituita l’Unione Liberale affidata alla presidenza del marchese trentasettenne Filippo Corsini che veniva a raccogliere, rifondendole, tutte le vecchie gradazioni monarchie fiorentine: dai moderati appartenuti alla Patria, Re, Libertà e Progresso (la vecchia associazione dei consorti toscani creata nel 1882) ai democratici della Federazione Democratica Costituzionale, dai giovani liberali borelliani al gruppo degli ex-radicali riuniti attorno alla figura di Lorenzo Piccioli-Poggiali, l’ex ferroviere passato dall’internazionalismo delle origini a posizioni di liberalismo progressista. Si trattava in sostanza di un soggetto nuovo cui corrispondeva una politica di rottura col vecchio moderatismo toscano e di opposizione tanto ai clericali quanto al socialismo. Tra le linee programmatiche del neocostituito sodalizio liberale si trovavano alcune aperture a ipotesi di intervento pubblico nella vita economica, l’ammissione di alcune forme di municipalizzazione dei servizi, un potenziamento dell’istruzione e dell’educazione nazionale e laica intesa anche come base di accesso a una cittadinanza politica più consapevole funzionale a una prossima introduzione del suffragio universale maschile. Sul piano tattico elettorale, invece, veniva dichiarata la piena indipendenza d’azione del sodalizio, che lo poneva perciò a netta distanza dai «partiti che in politica si fanno sgabello della fede e dell’organizzazione religiosa»[2].

Filippo Corsini

Il marchese Filippo Corsini, presidente dell’Unione Liberale ed eletto sindaco di Firenze alle elezioni del novembre 1910, ritratto da Filiberto Scarpelli (Fonte: G. Spadolini, “Firenze fra l’800 e ‘900: da Porta Pia all’età giolittiana”, Le Monnier, Firenze, 1984)

Si trattava di una dichiarazione importante, in quanto per la prima volta veniva espressamente negata la volontà di proseguire sulla strada delle intese clerico-moderate che invece in precedenza avevano spesso caratterizzato la condotta elettorale dei liberali. Simili dichiarazioni urtarono però i clericali del Comitato Cattolico Elettorale cittadino i quali votarono in risposta un ordine del giorno di condanna, salvo poi proporre una propria lista di venti candidati, nove dei quali erano in comune con la lista presentata dall’Unione Liberale. Coincidenza questa che spinse i popolari a rivolgere ai liberali le consuete accuse di clerico-moderatismo. Tra i candidati dell’Unione, al posto dei tradizionali esponenti del patriziato fiorentino che da decenni fornivano i quadri del partito liberale, si trovavano invece per lo più esercenti, commercianti, imprenditori, come gli industriali Giovanni Berta e il fotografo Vittorio Alinari, e persino impiegati subalterni come Giuseppe Mariotti o il ferroviere Virgilio Fontebuoni.

La montante campagna elettorale si dimostrò subito tesa, dando corso nei giorni immediatamente precedenti le elezioni a una serie di tafferugli e incidenti. Dopo che a favore dei popolari erano giunte adesioni da parte degli impiegati postelegrafonici e dell’Associazione del personale dipendente del Comune, una rappresentanza dissidente di quest’ultima organizzò una riunione elettorale presso il Gambrinus nella quale intervennero circa trecento tra impiegati e salariati comunali e al termine della quale fu votato a maggioranza un ordine del giorno di adesione alla lista dell’Unione Liberale. Una serie di disordini scoppiò prima e dopo la riunione nell’adiacente piazza Vittorio Emanuele (oggi Piazza della Repubblica). Qui

[…] Alcuni giovani della Unione Liberale si sono soffermati sotto i portici, ed i numerosi popolari che facevano aia dalla parte del Paskowski hanno intonato il Miserere e l’Ave Maria. Gli altri hanno risposto con grida di abbasso ed i popolari hanno cominciato allora a cantate l’Inno dei lavoratori e l’Inno repubblicano.[3]

Poco dopo altri gruppi di sostenitori delle opposte fazioni, direttisi in Piazza del Duomo, si azzuffavano in Piazza dell’Olio facendo intervenire la pubblica forza.

pieraccini 2

Gaetano Pieraccini, medico e deputato socialista eletto nelle file dei popolari alle elezioni amministrative fiorentine del 1910, ritratto da Filiberto Scarpelli (Fonte: G. Spadolini, cit.)

Negli stessi giorni, l’affissione dei manifesti elettorali nelle vie del centro e specialmente in Piazza Duomo e intorno al Palazzo Arcivescovile diviene spesso occasione per il formarsi di manifestazioni spontanee che procedendo incalzate dalla polizia terminano solitamente o in via Martelli (quelle popolari) sotto la redazione dell’«Opinione Democratica» o in via Ricasoli (quelle liberali) sotto la sede dell’Unione Liberale. Quasi ogni volta scoppiano nei cortei tumulti, tafferugli e persino episodi di scontri armati, come accade ad esempio il 19 giugno in via Ricasoli, quando a seguito di alcuni colpi di pistola esplosi nella folla rimangono feriti alcuni manifestanti e vengono di conseguenza effettuati alcuni arresti.

Preannunciatesi con tali segni di conflittualità, quelle del 19 giugno 1910 furono tra le elezioni municipali fiorentine più partecipate dei precedenti due decenni, registrando un’affluenza alle urne del 64%. Il voto assegnò una netta vittoria alla lista dell’Unione Liberale, che vide eleggere tutti e venti i propri candidati. I quattro posti di minoranza vennero occupati invece da candidati popolari: due socialisti uscenti vennero riconfermati (il Pescetti e il ferroviere Alessandro Alessandrini) e due repubblicani (Gozzini e Brogi).

Per i popolari si trattò di un duro colpo che spinse il sindaco Chiarugi, la sua Giunta e tutta la vecchia maggioranza popolare a presentare in tronco le proprie dimissioni come atto di responsabilità morale di fronte alla sconfitta. Con il governo municipale dimissionario, Palazzo Vecchio fu affidato al commissario prefettizio Alfredo Ferrara a cui spettò traghettare l’amministrazione verso nuove elezioni, stavolta generali, fissate per il novembre del 1910. Il rinnovo di tutti e sessanta i consiglieri costituiva per i liberali una grande occasione per mettere in mora l’esperienza delle due giunte popolari e ambire così a riprendere il controllo di Palazzo Vecchio dopo tre anni di assenza. La battaglia elettorale venne inaugurata nella sostanza dallo stesso commissario prefettizio Ferrara con la pubblicazione del bilancio di previsione per il 1911 del Comune nel quale veniva indicato un deficit di un milione e duecentomila lire, stimato a incrementare fino a due milioni e mezzo; con questo documento, tacciato subito dai popolari come un “bilancio elettorale”, si metteva sostanzialmente all’indice la gestione finanziaria delle due precedenti giunte popolari. Per concentrare il fuoco contro il presunto malgoverno dei popolari, l’Unione Liberale, oltreché continuare a fare affidamento su «La Nazione», il vecchio foglio dei moderati toscani, stampò e fece uscire per tutto il periodo elettorale un proprio quotidiano, «La Gazzetta Liberale».

Il nuovo giornale 16 giugno

Un articolo de “Il Nuovo Giornale” del 16 giugno 1910 riporta la notizia di scontri e disordini verificatisi tra elettori popolari e liberali.

Riconfermando nel proprio manifesto il suo programma di «democrazia liberale», l’Unione presentava una lista di maggioranza di 48 candidati con nomi rappresentativi delle più varie tendenze (liberali di destra come Paolo Guicciardini, Alessandro Chiappelli o il nazionalista Enrico Corradini, liberali di sinistra come Mario Aglietti, il futuro sindaco di Firenze Orazio Bacci, Piccioli-Poggiali, Guido Mazzoni e borelliani quali Ademiro Campdonico) che per il loro assortimento non mancarono di suscitare da parte degli avversari l’accusa di costituire una sorta di «arcobaleno che va dal violetto cupo» per non dire «nero», «fino al giallo chiaro e al roseo tendente invano al rosso»[4]. Seguivano poi da parte dei popolari le solite accuse di taciti accordi stabiliti dai liberali con i cattolici e mantenute anche dopo che questi ultimi ebbero dichiarato la loro formale estraneità dalla contesa elettorale.

Entro il fronte popolare, nel frattempo, la situazione si era particolarmente complicata, facendosi strada tra i tre partiti la tentazione di rompere l’unità bloccarda in nome di una linea di intransigenza elettorale. La rottura si ebbe a seguito dell’XI Congresso socialista svoltosi a Milano tra il 21 e il 25 ottobre 1910, dove venne sanzionata la responsabilità dei repubblicani per aver scisso durante le vertenze agrarie scoppiate in Romagna «le forze dell’organizzazione operaia a vantaggio della reazione capitalistica». In ragione del rifiuto delle accuse mosse dai socialisti, la sezione repubblicana fiorentina decise di rinunciare a qualunque trattativa elettorale con i “partiti affini”, maturando pertanto la decisione di uscire dall’alleanza popolare. La defezione dei repubblicani ridusse perciò i contraenti dell’unione popolare a due, dopo che socialisti e demo-sociali ebbero riconfermata la decisione di presentarsi alle elezioni assieme. Mentre perciò i repubblicani presentarono una propria scheda di minoranza, socialisti e demosociali votarono una lista comune di maggioranza di 48 candidati.

Gazzetta 12 nov

“La Gazzetta Liberale”, il foglio dell’Unione Liberale, attacca la gestione popolare del comune di Firenze (12 novembre 1910)

Come già nel turno precedente di giugno, anche stavolta la campagna elettorale raggiunse un’intensità inedita. Senza riguardi fu la lotta per la diffusione delle schede elettorali, l’affissione di manifesti e la mobilitazione degli elettori organizzata quest’ultima ciascuno secondo le proprie possibilità. L’Unione Liberale – riportava sarcasticamente un giornale avverso – aveva disposto ad esempio

che tutti gli elettori unionisti vadano domani mattina a votare in veicolo. Sono stati mobilitati molti fiacres e un grandissimo numero di automobili. Per accedere a questi veicoli vari sono state stampate tessere speciali, di diversa forma e di diverso colore, classificando gli elettori a seconda della loro importanza.[5]

Un gran numero di comizi ed assemblee si susseguirono le une alle altre nei giorni e nelle settimane precedenti il voto, registrando una partecipazione massiva senza precedenti. La sera del 24 novembre, ad esempio, furono circa settemila i sostenitori che si riunirono alla Palestra Ginnastica Fiorentina per assistere alla grande adunanza elettorale dei popolari inaugurata dal segretario della Camera del Lavoro Sebastiano Del Buono. Non da meno i sostenitori dei liberali che in circa cinquemila la sera precedente avevano preso d’assalto il Salone della Pergola per assistere alla manifestazione organizzata dall’Unione Liberale. Numerosi anche i contraddittori organizzati tra sfidanti, come quello tenutosi nella sede dell’Associazione Aurelio Saffi tra il socialista Gaetano Pieraccini e il repubblicano Gino Meschiari. Decisamente in grande stile il “confronto all’americana” che, sotto lo sguardo vigile di poliziotti in borghese infiltrati nel pubblico, si svolge il 25 novembre presso il Teatro della Pergola tra “popolari” e “liberali” nel quale prendono parola e si affrontano sui rispettivi programmi i principali candidati dei due partiti in lotta. Senza precedenti, sono anche però gli incidenti e gli episodi di violenza registratisi al margine di alcuni assembramenti elettorali. Il più eclatante è sicuramente l’aggressione subita dal socialista Gaetano Pieraccini, per la quale la stampa di partito fece ricostruzioni del tutto contraddittorie, scatenando una raffica di accuse da ambo le parti. Secondo il racconto offerto dalla stampa popolare, il medico e deputato socialista, recatosi ad assistere con regolare invito all’adunanza dell’Unione Liberale, sarebbe stato bastonato all’ingresso della sala da alcuni liberali riportando lesioni alla testa e venendo ricoverato a Santa Maria Nuova. Per la stampa liberale, invece, il Pieraccini sarebbe stato erroneamente colpito da alcuni suoi stessi compagni di partito durante il tentativo di entrare senza invito all’adunanza organizzata dagli avversari col celato intento di recare disturbo.

Fieramosca 25 nov Pieraccini

Si riporta la notizia dell’aggressione subita dal socialista Gaetano Pieraccini all’ingresso del salone della Pergola in occasione di un’adunanza elettorale dell’Unione Liberale (“Il Fieramosca”, 25 novembre 1910)

Il 27 novembre, con una percentuale di affluenza del 62,5%, il voto riconfermò ampiamente la vittoria della lista dell’Unione Liberale, i cui candidati ottennero tutti i 48 seggi di maggioranza. Di questi, 26 facevano ingresso per la prima volta in Consiglio. Tra di loro vi erano: il figlio del deputato Francesco Guicciardini, Paolo, tra i fondatori assieme al senatore Guido Mazzoni (altro eletto) dell’Unione Liberale; il letterato Alessandro Chiappelli; il medico igienista e fotografo Giorgio Roster; lo storico e museologo Giovanni Poggi; i già citati Orazio Bacci ed Enrico Corradini; Giotto Dainelli, figlio del generale ed ex consigliere comunale Luigi e altri ancora. Seguivano quindi i dodici consiglieri di minoranza eletti nella lista dell’Unione dei Partiti Popolari il primo dei quali in ordine di elezione era staccato dall’ultimo dei liberali di circa tremila voti. Tre di questi erano eletti per la prima volta (i socialisti Giuseppe Del Bene, Vincenzo Pugliese e Giovanni Fantechi) a cui si aggiungevano i demosociali Francesco Sangiorgi, Giulio Chiarugi e Vittorio Tarchiani e i socialisti Diego Garoglio, Carlo Corsi, Alessandro Alessandrini, Giovanni Pescetti, Adolfo Capaccioli e Gaetano Pieraccini.

L difesa 12 nov

I socialisti fiorentini rinnovano l’alleanza elettorale dei partiti popolari per le elezioni amministrative del novembre 1910 (“La Difesa” 12 novembre 1910)

Proclamati i nuovi eletti, a capo della nuova amministrazione fu designato dalla maggioranza consiliare il presidente dell’Unione Liberale Filippo Corsini, eletto nuovo sindaco di Firenze nella adunanza del 12 dicembre 1910. Dopo tre anni di gestione popolare del comune, i liberali tornavano così alla guida della città. I propositi del nuovo corso municipale dichiarati in un apposito manifesto affisso alla cittadinanza nel quale ci si augurava che da quelle elezioni potesse avere inizio per l’amministrazione cittadina «un’era nuova di lavoro fecondo, al quale tutti gli eletti, così quelli della maggioranza come quelli della minoranza portino senza ire, senza rancori, il contributo della loro assidua e diligente operosità»[6], sarebbero però stati presto smentiti. A fronte dell’aggravarsi della situazione sociale e politica del paese si sarebbe assistito negli ultimi anni dell’età giolittiana all’approfondirsi della crisi di rappresentatività della classe liberale italiana e della sua incapacità di tenere il passo con le trasformazioni sociali ed economiche del paese. Il protrarsi del conflitto politico tra liberali e popolari (socialisti soprattutto), sarebbe infatti divenuta di lì in poi, e almeno sino all’avvento del fascismo al potere, una costante anche della scena fiorentina.

 

[1] Si serrano le file, «L’Opinione Democratica», 5 maggio 1910.

[2] All’Unione Liberale, «Fieramosca», 26 maggio 1910.

[3] Tafferugli, colluttazioni e squilli di tromba per un’adunanza al Gambrinus, «Il Nuovo Giornale», 16 giugno 1910.

[4] La lista dell’Unione e “la vecchia minoranza”, «Fieramosca», 20 novembre 1910.

[5] Caste elettorali, «Fieramosca», 26 novembre 1910.

[6] L’adunanza del gruppo consigliare dell’Unione Liberale, «L’Unità Cattolica», 2 dicembre 1910.




Giulia Faldi: un’antifascista nelle carte del Casellario Politico Centrale

Nato a Pescia nel 1901, Zamponi si era distinto dopo la Grande Guerra come attivo propagandista tra la Lucchesia e la Valdinievole: fu qui che, con ogni probabilità, conobbe la futura moglie. Dopo l’adesione al PCd’I seguì un peregrinare tra Pescia e Asti, prima di tornare a Monsummano, reduce da due importanti esperienze a Torino (dove collaborò all’Ordine Nuovo) e a Milano (esponente del Comitato sindacale nazionale comunista). In Valdinievole, tuttavia, la situazione iniziava a farsi sempre più complessa: la cultura contadina aveva fornito alla politica fascista ampi spazi di movimento, guardando con sospetto ai primi processi di sviluppo industriale e promuovendo istanze di economia morale legate alle forme di sussistenza garantite dai ceti localmente dominanti. Il 30 marzo 1921, una spedizione di camice nere a Monsummano aveva imposto ai carabinieri il rilascio di tre fascisti in arresto. In aprile si registrò invece un nuovo tentativo di aggressione ai danni di due cittadini, mentre il 22 luglio dello stesso anno una trentina di squadristi partirono dalla città termale per distruggere il circolo socialista di Pieve a Nievole. Il culmine della tensione fu poi raggiunto a novembre, quando il deputato socialista Lorenzo Ventavoli venne aggredito nella sua abitazione da quattro carabinieri che avrebbero dovuto garantirne la sicurezza15. Braccato dalla polizia fascista e senza lavoro, alla fine del 1922 Zamponi decise così di emigrare a Marsiglia, soluzione comune a molti antifascisti per sfuggire al crescendo di arresti e proseguire il proprio impegno politico: cinque mesi dopo, sulla costa francese, fu raggiunto dalla compagna.

Da quel momento, la Faldi iniziò ad essere seguita. Venne interrogato il padre, anziano e ritenuto poco pericoloso per «non essersi mai allontanato da Monsummano». Date le difficoltà nel rintracciare gli spostamenti della coppia, il 4 ottobre 1925 la polizia arrivò persino a fare irruzione nella casa di famiglia e a perquisire ogni stanza. Dopo aver trovato supporto nella rete del Soccorso Rosso, Zamponi (con il falso nome di Luciano Fabbri) si era intanto iscritto alla sezione del Partito comunista francese di Rue Sambre et Meuse e aveva proseguito la sua attività politica nei circoli parigini legati al fuoriuscitismo italiano: i suoi spostamenti proseguirono ininterrottamente, soprattutto dopo l’iscrizione alla Confédération générale du travail. Nel frattempo Giulia era rientrata in Italia per alcuni mesi (il 3 aprile 1927) e, una volta ottenuto il passaporto per l’America del Sud, aveva segretamente fatto rotta verso Parigi. Nella capitale la Faldi ritrovò il marito – segretario regionale a Nancy – e ne affiancò l’attività politica, anche dopo le forti tensioni che quest’ultimo ebbe con il partito, scambiato per una potenziale spia nel corso del 1926-1927: stando ad un rapporto del Regio console d’Italia a Nizza, ella era ritenuta «anche in Francia una pericolosa propagandista comunista, capace di organizzare riunioni per i nostri connazionali e di coadiuvare lo Zamponi nelle sue funzioni di segretario regionale dei gruppi italiani di lavoro».

Abili nel muoversi all’interno della rete antifascista, i due continuarono ad eludere la sorveglianza. Dopo una segnalazione – giustificata con motivi occupazionali – nella zona mineraria tra il Belgio (con passaggi documentati a Bruxelles e Marchienne-au-Pont) e il Lussemburgo, sulla scia di ulteriori avvistamenti la polizia fascista tentò di agganciare contatti con le ambasciate di Berlino (28 gennaio 1928), Lione e Ginevra, ma sempre senza successo: come recitava una velina firmata il 14 giugno 1929 dal prefetto di Pistoia, Mauro Di Sanza, «malgrado le diligenti indagini esperite con il massimo impegno, non [era] stato possibile accertare il comportamento politico dei coniugi Zamponi, né il loro preciso recapito». Con ogni probabilità, la coppia – che nel frattempo aveva avuto un figlio, Bruno – si trovò a vivere separata per un lungo periodo. Dopo l’arresto di Zamponi nel ristorante parigino del comunista Lazzaro Raffuzzi (1928) e la successiva fuga, peraltro, la casa della Faldi venne nuovamente perquisita dall’arma di Monsummano. Ciononostante, malgrado dalla scoperta di una lettera clandestina fosse emersa l’esistenza di un punto di appoggio a Villerubane-Lione a nome di Antonietta Radeschi (forse pseudonimo della stessa Faldi), per il regime fu ancora una volta complesso intercettare una rete di spostamenti sempre più fitta. L’ipotesi di una residenza a Ginevra, ad esempio, venne presto scartata nel timore che la Faldi avesse deciso di indirizzare le proprie corrispondenze in Svizzera per poi farle ritirare da una persona di fiducia; cadde nel vuoto anche la soffiata di una sosta a Berlino, constatato – il 16 giugno 1931 – che in città «non erano mai stati presenti Zamboni (o Zambon) di nome Fulvio» e che «la Faldi Giulia non [era] stata rintracciata né conosciuta presso il locale presidio di Polizia Ufficio Anagrafe».

Ad ogni modo, le problematiche della latitanza cominciavano a farsi sentire. Pressati dalla polizia fascista e segnati da una situazione occupazionale resa ancora più gravosa dell’onda lunga della crisi economica del 1929, dopo una nuova tappa a Parigi i due coniugi decisero così di presentarsi al consolato di Lione per chiedere il rimpatrio (12 settembre 1933). Nelle settimane successive, Zamboni – che dopo il fermo si era mosso sotto un’altra falsa identità, quella di Piovani – fu munito di certificato di nazionalità, mentre la prefettura di Pistoia chiese di mutare lo status della Faldi da «comunista da fermare» in «comunista da perquisire e segnalare». Ciò che i funzionari fascisti non avevano capito, in realtà, era che quella soluzione costituiva solo un nuovo tentativo di depistaggio. Alla frontiera, infatti, i due si erano improvvisamente separati: rientrata in Italia dal valico di Bardonecchia e subito fermata, la Faldi provò a convincere la polizia che il marito non si era dato alla fuga, ma che, dopo averla accompagnata alla frontiera, si era recato a Ginevra da un amico – il pisano Filippo Falaschi – che si era offerto di trovargli un lavoro. Una versione supportata anche dalla nota rilasciata il 22 novembre 1933 alla questura di Bologna dall’ispettore generale di Pubblica Sicurezza, il commendator D’Andrea:

Con riferimento alla nota a margine, ho il pregio di comunicare all’E.V. quanto mi riferisce in proposito il Commissario Capo Cav. Aloisio dirigente la sotto-zona di Firenze: “Il sovversivo in oggetto [Zamponi] non risulta sia rientrato nel Regno. Ha rimpatriato invece il 14 settembre u.s. dal valico di Bardonecchia proveniente dal Belgio la moglie Faldi Giulia, la quale ha dichiarato che il marito l’ha accompagnata fino a Lione da dove si sarebbe recato a Ginevra presso un suo amico, certo Foloschi Filippo da Pisa, che gli avrebbe trovato colà del lavoro. Successivamente, e, cioè, il 28 ottobre decorso, lo Zamponi inviava da Lione un telegramma alla moglie chiedendo sua notizie e il 5 novembre le scriveva dandole il seguente indirizzo: Rita Gambotto, Rue Roposte 16 Lione. Comunico, infine che il nome dello Zamponi figura nel noto elenco degli espulsi del P.C. sequestrato all’emissario Fontana Angelo.16

Eppure, il 19 dicembre dello stesso anno Zamponi fu arrestato a Ventimiglia e ricondotto a Pistoia. Interrogato a lungo, riuscì a convincere il questore di non voler «esplicare in nessun modo attività politica contraria al regime», fornendo alle autorità solo le informazioni meno compromettenti. Il 10 aprile 1938, poche settimane prima della visita di Adolf Hitler a Roma, sia Zamponi che la Faldi vennero comunque inseriti nell’elenco delle «persone che, pur non ritenendosi opportuno comprendere tra quelle da arrestarsi in determinate contingenze», si riteneva potessero «costituire un pericolo in occasione del viaggio del Führer in Italia».

Da lì in poi, su quella donna di «statura media, pallida, con capelli castani folti, corporatura piccola, fronte alta, viso lungo, occhi castani e naso rettilineo» e sul marito cadde il silenzio. Sappiamo però che, dopo l’8 settembre 1943, quest’ultimo riallacciò i contatti con il partito e che, assieme alla moglie, prese parte all’attività del Cln. Non a caso, il 9 settembre 1944 venne eletto dallo stesso organo sindaco di Monsummano, partecipando alla rinascita democratica della vita provinciale con il ruolo di segretario della Federazione pistoiese del Pci: nel 1946, dopo le dimissioni di Pieruccioni, le sue capacità dirigenziali gli valsero inoltre una chiamata alla guida di una delle federazioni comuniste più deboli della Toscana, quella lucchese, prima di essere eletto deputato nelle fila “togliattiane” dal 1953 al 1958.

In tutto questo, Giulia Faldi non giocò mai il mero ruolo di spalla attribuitole dal fascismo. La sua biografia, capace di intrecciare gran parte dei nodi storiografici accennati nell’introduzione di questa breve disamina, mostra a tutti gli effetti le forme e le istanze di un impegno diretto che – nelle pieghe dell’antifascismo storico – vide protagonista un numero di donne ben superiore rispetto a quello estraibile dal Cpc. Quello della Faldi fu un percorso segnato da un forte impeto politico e ideologico, costruito attraverso le fitte trame della rete antifascista europea e caratterizzato da una contrapposizione costante e solidaristica al regime.

Una storia che, passando da un’analisi ermeneutica della carte del CPC, riesce a  fornire uno sguardo più dettagliato sui processi politici e sociali – collettivi, individuali e di genere – che animarono la provincia di Pistoia nella prima metà del Novecento, oltre a creare nuovi margini di dialogo tra la dimensione locale dell’antifascismo e quella internazionale.

 

Federico Creatini si è laureato all’Università di Pisa nel 2015 e ha conseguito il dottorato in Storia contemporanea presso l’Università di Bergamo nel 2019. Attualmente è borsista post-doc presso l’Università di Pisa, dove svolge anche la funzione di cultore della materia. Ha all’attivo numerosi articoli e contributi; nel 2019 è stata pubblicata la sua prima monografia, «Dalla fabbrica alla città. Conflitto sociale e sindacato alla Cucirini Cantoni Coats di Lucca (1945-1972)», Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca.




Giulia Faldi: un’antifascista nelle carte del Casellario Politico Centrale

Le carte del Casellario Politico Centrale rappresentano una fonte imprescindibile per lo studio delle norme e delle modalità fasciste di sorveglianza politica. Inaugurato in piena età crispina con la circolare 5116 del 25 maggio 1894, l’allora Servizio Schedario nacque come strumento di controllo e di repressione del sovversivismo anarchico e socialista. Un’istituzione coercitiva che, con l’avvento del regime, si avvalse di un inquadramento sempre più rigido e strutturato, passando da mero archivio ad ufficio autonomo sotto le dipendenze della I sezione della Divisione affari generali e riservati della P.S. Come recentemente osservato da Gianluca Fulvetti, fu durante la fase di costruzione dello “stato totalitario” che «questo sistema venne integrato dal fascismo con gli strumenti repressivi previsti dalla sua legislazione eccezionale»1; di conseguenza – riprendendo le parole di Andrea Ventura – ai «rapporti prettamente descrittivi delle prime segnalazioni si aggiunsero delle informative standardizzate e un sistema di controllo periodico capace di abbracciare l’intera vita del sorvegliato e di arrivare […] in ogni angolo del pianeta»2.

Dal punto di vista della ricerca, tuttavia, l’esame della dimensione repressiva costituisce solo una faccia della medaglia. Un’importanza analoga, se non superiore, è relegabile a due campi d’indagine distinti ma convergenti: quello degli antifascismi e quello degli antifascisti. Certo, sarebbe impossibile riassumere in poche righe un dibattito storiografico complesso e di lunga durata. Ciononostante, nel tentativo di ricostruire le molteplici forme di opposizione al regime, è doveroso sottolineare quanto e come una lettura critica dei fascicoli del CPC (che si chiudono con il 1943) possa consegnare agli studiosi importanti indicazioni al riguardo. In questa sede ne evidenzierò due, le più significative al fine di problematizzare la vicenda posta al centro della disamina.

Anzitutto, l’importanza della relazione tra spazio (inteso come spazio di controllo politico) e luogo (inteso come perimetro geografico)3. Negli ultimi anni è stata sottolineata la necessità di un confronto più attento fra la dimensione locale del fascismo e quella del regime a livello nazionale4. Un’indicazione volta a comprendere meglio le vicendevoli influenze tra centro e periferia, analizzando in chiave bilaterale l’eterogeneità delle dinamiche provinciali e le specificità del controllo sociale. Le carte del CPC, da questo punto di vista, assumono le vesti di un duplice osservatorio privilegiato: da un lato, se integrate con i fascicoli delle questure locali o con gli interrogatori, le sentenze e i rapporti provenienti dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e dai tribunali penali, possono aiutare a scavare nelle continuità e nelle rotture dei fascismi locali5; dall’altro, attraverso le inedite angolature socio-economiche, politiche e conflittuali rinvenibili dalla documentazione, forniscono un mezzo rilevante per esaminare da vicino gli sviluppi territoriali – non sempre omogenei – dell’antifascismo.

Si colloca qui la seconda linea di ricerca, quella relativa agli antifascisti. Un universo complesso nel quale i fascicoli del CPC divengono una bussola in grado di svelare, oltreché il «profilo e la mentalità delle istituzioni e dei dipendenti pubblici preposti alla sorveglianza e alla repressione del dissenso, […] le voci dirette, e dal basso»6  del sovversivismo. Certo, non si può attribuire alle carte una completezza che, in alcuni casi, si smarrì nella fitta rete intrecciata dalle sacche d’opposizione. È comunque possibile cogliervi la trasversalità dell’antifascismo, le differenze tra «antifascismo popolare» e «antifascismo politico», le traiettorie e le forme del fuoriuscitismo antifascista e occupazionale (soprattutto verso la Francia e il Belgio, ma anche verso il Sud America e i richiami della Guerra civile spagnola), fino a ricostruire vicende talvolta lacunose e incomplete, ma in grado di fornire preziosi dettagli sui percorsi di uomini e donne sovente destinati a giocare un ruolo di primo piano anche nella Resistenza e nella costruzione dell’edificio repubblicano7.

Nelle pieghe di un sistema capillare e sterminato, però, a risaltare è soprattutto la latenza (per diversi motivi) di due corpi socio-politici: quello degli antifascisti cattolici e quello delle antifasciste8. Ci concentreremo qui sul secondo aspetto, inerente alle donne marginalizzate dalle attenzioni poliziesche e relegate dal regime al ruolo di «angeli del focolare domestico». Scendendo repentinamente nel contesto pistoiese, nel database del CPC ne troviamo infatti sole 45 su un totale di 1.468 schedati9. Tra queste, c’è Giulia Faldi. Nata a Monsummano10  il 30 luglio 1899 dal padre Giulio e da Guglielma Bartoletti, fin dall’adolescenza si trovò a vivere una realtà animata da forti tensioni conflittuali. Nella cornice di un’area segnata dalla piccola proprietà terriera, dove a poderi parcellizzati e spesso concessi a mezzadria si sommavano fattorie di piccole-medie dimensioni (non di rado di proprietà nobiliare) collocate nella zona tra Tizzana e Monsummano11, prese parte attiva alle manifestazioni organizzate dal movimento socialista bracciantile. A confermalo era un’accurata relazione rilasciata il 28 ottobre 1926 dalla prefettura di Lucca, nella quale la Faldi – attraverso un lessico fortemente ideologizzato – veniva definita una «attiva comunista»:

La predetta è cresciuta in una famiglia di sovversivi. Il padre fu per vari anni acceso socialista e tuttora professa false idee. Il fratello è tuttora un sovversivo irriducibile per cui la Faldi Giulia sin da giovinetta si dette al sovversivismo. Essa organizzò e presiedette comizi e riunioni; benché abbia poca cultura (avendo frequentato solo la scuola elementare) è abbastanza intelligenze e loquace, ed è stata una assidua propagandista specie nelle campagne fra le masse di contadini. In ogni agitazione e manifestazione sovversiva che veniva organizzata in paese essa era sempre presente e fra le persone più accese. Non risulta sia stata mai arrestata o denunciata all’autorità giudiziaria, però è stata più volte richiamata al dovere dai vari comandanti della stazione di Monsummano e da funzionari […] dell’ordine pubblico. Dopo l’avvento del fascismo fu costretta a troncare la sua propaganda sovversiva e a rimanere in casa molto riservata12.

Nelle carte del CPC, tuttavia, non c’è traccia del padre. Si trovano invece pochissime informazioni sul fratello Gino, muratore di undici anni più grande. Esponente di zona e militante «nella parte estremista del partito socialista», egli prese «parte attiva a tutte le manifestazioni sovversive del secondo dopoguerra» quando fu «candidato al Consiglio comunale e provinciale».

Denunciato nel 1921 e poi prosciolto in Camera di consiglio dalle accuse di tentato omicidio, bancarotta fraudolenta e «apologia di reato e di delitto contro i poteri dello Stato per professe idee comuniste», con l’avvento del fascismo fu sottoposto ad un controllo sempre meno stringente, frutto di un «contegno riservato» e di rari richiami13. Un trattamento ben diverso rispetto a quello riservato alla sorella, assieme alla quale – in seguito alla scissione di Livorno del 21 gennaio 1921 – aveva aderito al Partito comunista d’Italia. Il motivo non era da ricercare solo nella febbrile attività politica della Faldi, ma piuttosto in una delle poche circostanze ritenute inderogabili dal regime per sorvegliare una donna: il suo legame affettivo con un antifascista di spicco. Non era un caso che, nonostante i precedenti, la prima segnalazione su Giulia Faldi fosse arrivata solo nel 1923, indicata come «assidua propagandista […] fra le donne» . E non era un caso che il vasto fascicolo a lei riservato riportasse spesso informazioni sul marito: il comunista Fulvio Zamponi14.

 

[continua]

 

Federico Creatini si è laureato all’Università di Pisa nel 2015 e ha conseguito il dottorato in Storia contemporanea presso l’Università di Bergamo nel 2019. Attualmente è borsista post-doc presso l’Università di Pisa, dove svolge anche la funzione di cultore della materia. Ha all’attivo numerosi articoli e contributi; nel 2019 è stata pubblicata la sua prima monografia, «Dalla fabbrica alla città. Conflitto sociale e sindacato alla Cucirini Cantoni Coats di Lucca (1945-1972)», Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca.