Giulio Guelfi, un sovversivo sullo scranno più alto del Comune di Cascina.

Tra le varie biografie di personaggi appartenenti al mondo socialista e comunista che hanno animato la vita sociale e politica della provincia pisana nel periodo che va dal 1919 fino all’avvento del fascismo, quella di Giulio Guelfi è tra le più significative ai fini della ricostruzione dell’immaginario collettivo dell’epoca, sia per i diversi ruoli che il personaggio ha assunto durante la sua militanza politica e sindacale, sia per gli incarichi istituzionali e la sua puntuale azione nella lotta antifascista in patria e poi in esilio. Ad un impegno militante e una fervente convinzione sul valore delle proprie idee, che manifesta nell’arco di tutta la sua vita, in Guelfi si evidenzia – elemento assolutamente non secondario – uno spirito ribelle, sovversivo, indomito, che ben racconta del carattere del popolano pisano di questi anni. È questa un’inclinazione che trova profonde radici nella storia popolare e sovversiva della provincia sin dai tempi della costituzione delle prime sezioni della Società democratica Internazionale[1].
Giulio Guelfi nasce a Cascina il 14 settembre 1888 da Riccardo e Liberata Bracci, di professione impiegato, poi commerciante. Vive la sua formazione umana e politica nei paesi di Casciavola e Navacchio (borgate ancora oggi nel Comune di Cascina) dove presumibilmente abbraccia gli ideali socialisti che sono particolarmente diffusi nella zona. Negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale viene assunto come impiegato all’Ospedale di Piombino, rientrato a Cascina diventa ben presto uno dei promotori della sezione socialista di Casciavola e uno dei principali organizzatori della Camera confederale del Lavoro[2]. L’attività politica e sindacale di Guelfi è ricostruibile attraverso la lettura de «L’Ora nostra», il periodico della Federazione pisana del partito socialista che, tra il 1919 e il 1921 nelle cronache provinciali, riporta notizia di suoi numerosi comizi a supporto delle agitazioni contadine, bracciantili e operaie. Nello stesso periodo, secondo un profilo biografico della Prefettura pisana, Guelfi «aveva iniziata l’organizzazione delle squadre rosse e già aveva messo in funzione diverse squadre cicliste. Organizzò e fu sempre a capo di tutti i movimenti operai e sovversivi verificatisi dai primi del 1919 al 1922 nel Comune di Cascina»[3]. Lo stesso documento lo descrive «dotato di facilità di parola tanto che era riuscito ad acquistare tanto ascendente tra le masse operaie che lo seguivano ciecamente in qualsiasi violenza».
Le elezioni politiche del 1919 avevano premiato i partiti neutralisti, il PSI aveva superato il 41% dei voti ed era diventato il primo partito del collegio Livorno-Pisa e della provincia pisana[4]. Vanno nella stessa direzione le elezioni amministrative dell’autunno del 1920 che consegnano ai socialisti ben 26 comuni dei 42 della provincia, con punte di consenso straordinario a Pontedera dove ottengono il 78% dei voti[5]; l’eccezionale risultato elettorale dei socialisti si completa con l’assegnazione di 23 seggi sui 40 disponibili nel Consiglio provinciale.
Nelle elezioni amministrative dell’autunno del 1920 il PSI cascinese punta su Guelfi, che viene eletto consigliere comunale e poi Sindaco di Cascina. Il suo mandato, che dura dall’ottobre del 1920 al settembre del 1921, è un’esperienza breve ma particolarmente intensa e nella quale Guelfi riversa tutto il proprio portato umano, politico, sindacale[6] e non in ultimo il proprio carattere impulsivo e non incline alla sottomissione. Il ruolo istituzionale assunto esalta la sua figura di militante rivoluzionario e dallo scranno più alto del Comune detta la linea politica con la convinzione di preparare la strada ad un’imminente rivoluzione[7].
Il 16 ottobre è convocato il primo Consiglio comunale e i toni della seduta di insediamento ci aiutano a cogliere il clima di queste giornate; così come avviene in altri enti locali, anche nel Comune di Cascina si inneggia alla dittatura del proletariato e si propone come primo atto l’approvazione di un Ordine del giorno a favore della Russia rivoluzionaria e «pro condannati politici». L’ordine del giorno viene presentato dall’assessore Adolfo Mannocci che annuncia: «Noi percorriamo la strada che ci conduce verso il socialismo che affratella le genti pertanto la bandiera che qui abbiamo issato non l’ammaineremo giammai né per l’ambizione di un Re, né per la violenza dei governanti»[8]. Il Consiglio comunale chiede al Governo italiano l’immediato riconoscimento ufficiale della Russia dei Soviet e chiude la discussione di questo punto al grido di «Fuori dalle galere tutti condannati politici!». Nella stessa seduta, stimolato dagli interventi della minoranza che invitano la Giunta a «compiere atti di saggia e sana amministrazione», prende la parola anche il Sindaco Guelfi che annuncia e rivendica il ruolo politico della sua Amministrazione e, in risposta alla richiesta di illustrare il programma, replica: «La Direzione del Partito socialista impartirà le direzioni e noi le seguiremo […] Pel il bilancio 1921 […] colpiremo profondamente i proprietari […] governeremo e agiremo non curandoci delle pastoie delle leggi esistenti che muovono ingiustizia, faremo in odio e a dispetto della legge quello che riterremo giusto»[9]. Il Consiglio si scioglie con le conclusioni del Sindaco che ritorna sulla questione: «di programmi non ne abbiamo, so solo che abbiamo lottato, battuto e vinto in nome del Socialismo e legiferemo per il Socialismo e in nome di questo e del Popolo, che è il nostro re, dichiaro chiusa la discussione al grido di: Viva il Socialismo! Viva l’Internazionale!»[10].
Con le nuove giunte socialiste rivoluzionarie elette nell’autunno del 1920 arriva anche nella provincia pisana un nuovo cerimoniale che ha l’obiettivo di sostituire, anche nell’immaginario popolare, i simboli delle istituzioni: in alcuni Comuni viene rimossa la targa che riporta il Bollettino della Vittoria di Armando Diaz[11], il saluto alla Russia rivoluzionaria sostituisce il saluto al re e sulle facciate dei Comuni la bandiera rossa prende il posto del tricolore. Pratiche che scateneranno la reazione dello squadrismo fascista, dell’esercito[12] e i provvedimenti delle Prefetture. A Cascina la bandiera rossa sventola sulla Torre civica[13], Guelfi ha dato mandato di acquistarne una «con lo stemma dei Soviet e di quello del Comune medesimo»[14] e la spesa di £ 100,00, non prevista in bilancio, viene finanziata con un prelievo dal fondo di riserva del Sindaco.
Ad un massimalismo del linguaggio che inneggia ad una prossima insurrezione, Guelfi e i socialisti cascinesi fanno seguire un’attività amministrativa che mette in pratica le parole d’ordine che avevano animato la campagna elettorale: come primo atto la Giunta comunale incontra simbolicamente un gruppo di lavoratori fornai che chiedono un aumento del compenso giornaliero per raggiungere quello dei vicini colleghi pisani, senza che questo, sostengono durante l’incontro i lavoratori all’unisono con la Giunta, comporti un aumento del prezzo del pane[15].
Il Sindaco Guelfi caratterizza il suo mandato per interventi sociali ed economici volti ad una politica di redistribuzione delle ricchezze e al controllo dei prezzi dei beni di prima necessità e dà mandato agli uffici comunali di predisporre una «severa, precisa e improvvisa verifica»[16] sulla vendita dello zucchero alle persone ammalate e, per evitare speculazioni e lucri impropri, un attento riscontro dei buoni comunali emessi a favore degli indigenti. Si autorizza poi la vendita della carne agli ammalati anche nei giorni di chiusura dei negozi e si dà mandato all’Ente autonomo dei consumi del Comune di acquistare olio, baccalà e formaggio da rimettere in vendita a prezzo di acquisto per calmierare il mercato. Nella seduta consiliare del 9 dicembre il Sindaco Guelfi, nel valutare la situazione finanziaria dell’Ente e il disavanzo ereditato dalla precedente amministrazione[17], annuncia che non ricorrerà ad ulteriore indebitamento e dichiara che «i soldi dovranno darli coloro che li hanno» e che le tasse per l’anno 1921 saranno raddoppiate. Nella stesso consesso il Sindaco propone l’adesione alla Lega dei Comuni socialisti[18], motivando che questo percorso consentirà all’Ente di inserirsi in un progetto nazionale più ampio che porterà ad «ottenere l’applicazione dei principi socialisti, come ad esempio la progressività delle tasse superando il vecchio concetto dei massimi fiscali»[19].
Con la fine del 1920 si manifestano anche nella provincia pisana le prime violenze fasciste[20], siamo in un territorio che si inserisce a pieno titolo in quell’«Italia mediana» che ha visto sviluppare importanti laboratori politici ed ha assunto un ruolo centrale nell’affermazione della violenza fascista[21]. Nel dicembre 1920 gli squadristi pisani, con l’aiuto di squadre provenienti da tutta la regione, per ben due volte, impediscono l’insediamento del nuovo consiglio provinciale[22] che, una volta insediato, eleggerà presidente Ersilio Ambrogi[23] e vice presidente proprio Giulio Guelfi.
Nei mesi successivi le violenze fasciste arrivano anche nel piano cascinese e il primo omicidio politico avviene nel borgo di San Frediano a settimo, quando il 4 marzo Enrico Ciampi, segretario della prima sezione comunista costituitasi nel pisano[24], viene ucciso dal Marchese Serlupi, uno dei ras fascisti della zona[25]. Pochi mesi dopo, il 23 luglio, i fascisti fanno visita ad una casa colonica nella zona di Arnaccio, dove vive il consigliere socialista Oreste Bartoli e uccidono il figlio Archimede che reagisce alla bastonatura del padre.
Le parole di Guelfi all’insediamento, con le quali imprudentemente aveva annunciato che avrebbe governato non curandosi «delle pastoie delle leggi esistenti», incitano i controlli della Prefettura che già nei primi mesi di governo della giunta cascinese impugna e annulla una serie di delibere, tra questa anche quella che autorizza l’acquisto della bandiera con lo stemma comunale e la falce e martello in quanto, sostiene il Prefetto, «trattasi di spesa ispirata a criteri politici, mentre i consigli comunali non hanno dalla legge nessuna attribuzione a questo riguardo, ma devono limitarsi ad amministrare il Comune e provvedere ai servizi pubblici che dal Comune dipendono»[26].
La Giunta Guelfi continua a governare tra delibere annullate e proclami rivoluzionari basati su un marcato radicalismo verbale. Nei primi mesi del 1921 l’Amministrazione tratta l’acquisto del nuovo Teatro comunale, un’operazione sostenuta da una chiara scelta politica, afferma Guelfi in merito: «L’operaio, il lavoratore in genere deve progredire, istruirsi ed elevarsi e non essere più la macchina bruta che lavora e mangia per vivere e nelle ore di riposo gioca a carte nel proprio Circolo. Esso deve invece essere posto nelle condizioni di ricrearsi lo spirito andando a Teatro, giacché non è giusto che a Teatro possa andare il ricco che non lavora e l’operaio non possa permettersi neppure il cinematografo»[27].
L’esperienza da Sindaco di Guelfi si chiude presto, con i fatti del 18 settembre 1921. Per la giornata viene convocato, nel borgo cascinese di San Benedetto, un comizio tra le leghe confederate per organizzare la reazione sindacale ai licenziamenti e alla riduzione del salario dei lavoratori del piano di Cascina. I fascisti radunano oltre 400 squadristi, provenienti da varie parti della Toscana, con l’intento di impedire la manifestazione, intanto nel pomeriggio un folto gruppo di antifascisti parte in tram da Pontedera per raggiungere San Benedetto ma, passato l’aggregato urbano di Cascina, il convoglio viene aggredito da una scarica di colpi di rivoltella sparati da un piccolo gruppo di fascisti che, commesso il fatto, si dà alla fuga. Nell’aggressione rimangono uccisi Paris Profeti[28], segretario della sezione socialista di Pontedera, e Corrado Bellucci[29] di idee libertarie, mentre il comunista Medardo Cecconi[30] ferito viene portato all’Ospedale di Pontedera[31]. Le autorità, vista la tensione della giornata, vietano la manifestazione, nel contempo Guelfi ed altri socialisti cascinesi, non ancora a conoscenza del fatto, mentre si dirigono verso il luogo del comizio vengono assaliti a colpi di rivoltella da un gruppo di fascisti. I socialisti rispondono, ne scaturisce uno scontro a fuoco e l’unico arrestato della giornata è proprio Giulio Guelfi, con l’accusa di aver sparato un colpo di rivoltella contro i fascisti, e rinchiuso nelle Carceri di San Matteo a Pisa. Il Comune viene immediatamente commissariato e il 13 ottobre si svolge il primo consiglio comunale senza il sindaco Guelfi.
Intanto tra settembre e novembre le pressioni e le violenze fasciste nei confronti dei consiglieri socialisti e comunisti danno i propri risultati e al protocollo del Comune di Cascina giungono le dimissioni irrevocabili di gran parte degli eletti. Si tratta di comunicazioni che naturalmente non denunciano pressioni o violenza e adducono principalmente motivi personali, tra questi l’assessore Alfredo Vanni scrive che non ritiene «più opportuno ricoprire tale carica»[32], mentre solamente il consigliere comunale Modesto Marrucchi motiva le proprie dimissioni dichiarando di aver maturato la propria distanza dal Partito comunista. A queste dichiarazioni dei consiglieri comunali segue però un ultimo atto di resistenza istituzionale, una lettera di protesta inviata al Commissario prefettizio, che vede come primo firmatario Giulio Guelfi e di seguito tutti i consiglieri comunali socialisti e comunisti dimissionari. Nella nota i consiglieri comunali denunciano coraggiosamente le violenze fasciste subite: «Il fatto di aver alcuni di noi […] rassegnato le dimissioni non vuole significare la rinuncia ad amministrare, ma dette dimissioni devono essere la vibrata protesta contro chi minaccia le nostre persone e le nostre idealità […] Nel nostro Comune certo regna ancora il terrore e tutto si può commettere sotto gli occhi dell’autorità»[33].
Il 19 gennaio 1922 il re, che per lo Statuto Albertino è il garante delle istituzioni, firma il decreto di scioglimento del Consiglio comunale di Cascina[34].
Dopo la caduta dell’amministrazione da lui guidata Guelfi si trasferisce a Livorno dove assume compiti di direzione della locale Camera del lavoro. Nel febbraio del 1922 la moglie, Corinna Noccioli, è oggetto di un’imboscata a colpi di pistola nei pressi della stazione ferroviaria di Navacchio per mano di un gruppo di fascisti e la casa della famiglia è spesso oggetto di violazioni da parte degli squadristi locali. Nel marzo del 1922 Guelfi interviene al funerale di Comasco Comaschi[35], anarchico e ardito del popolo ucciso in un agguato da alcuni fascisti il 19 marzo 1922, denunciando il crimine fascista e pronunciando le seguenti parole: «Noi proletari siamo coloro che lavorano e che producono e non quelli che uccidono»[36]. La frase scatena l’ira degli squadristi locali che rispondono minacciosi dal settimanale «L’Idea fascista» facendo intendere che faranno pagare a Guelfi il suo ardimento: «Giulio Guelfi […] responsabile dell’assassinio di Zoccoli e Serlupi […] i Fascisti del comune di Cascina si impegnano pubblicamente, di fronte all’Autorità e ai cittadini, di ficcarlo in un sacco pieno di sterco»[37]. Guelfi nel suo ruolo di Sindaco subisce varie denunce e una violenta campagna stampa di denigrazione da parte dei fascisti locali e della stampa liberale che lo accusano di concussione nell’esercizio della sua funzione[38]. Per queste denunce subirà un processo che lo vedrà poi assolto dalla Corte di appello di Lucca insieme agli assessori Angelo Pasqualetti e Alfredo Vanni[39].
A Giulio Guelfi, come a gran parte dei primi antifascisti, non rimane che la strada dell’esilio, dopo un breve soggiorno a Genova si trasferisce con la famiglia a Parigi dove secondo la polizia fascista, in una nota dell’Ambasciata del 3 giugno 1926, è un membro attivo del «Comitato centrale antifascista»[40] e a seguito dell’espatrio è segnalato alla «Rubrica di frontiera» con indicazione di fermare e arrestare in caso di rimpatrio. Non è noto quando Guelfi aderisce al Partito comunista, ma già dalla metà degli anni Venti, durante appunto la sua permanenza in Francia, è segnalato come «comunista» e iscrive i propri figli alla scuola del partito a Ivry-sur-Seine: probabilmente la sua scelta matura nel 1924, a seguito dell’adesione al partito di Giacinto Menotti Serrati, faro del massimalismo socialista, che aveva illuminato la sua gioventù.
Nel 1929 Guelfi con l’intera famiglia si trasferisce a Vitry-sur-Seine, comune della Valle della Marna nella regione dell’Île-de-France, dove gestisce un piccolo albergo frequentato da noti sovversivi italiani e poco dopo si trasferisce definitivamente ad Arles dove rileva da un comunista cascinese, Giovanni Baroni, un locale che, secondo le carte di polizia, in breve tempo diventa un luogo di incontro di antifascisti. Guelfi è poi attivo nella propaganda a favore della Spagna repubblicana e nell’azione di ricerca di volontari da arruolare nelle Brigate internazionale, nelle cui file combatteranno i figli Ideale[41] e Silvano[42].
La polizia fascista mantiene un preciso controllo sulla vita di Guelfi e in un telespresso del Consolato generale di Marsiglia dell’agosto del 1937 lo definisce «il capo del movimento comunista e del soccorso rosso della regione»[43]. Giulio Guelfi muore improvvisamente ad Arles, poco dopo aver compiuto i cinquant’anni, il 7 febbraio 1939.
Dopo la Liberazione, una strada del borgo di Casciavola viene intestata al Sindaco “sovversivo” e antifascista, con la motivazione: «ex Sindaco del Comune di Cascina morto all’estero ove dovette fuggire per persecuzione politica da parte dei fascisti»[44]. La Giunta, si legge però nella delibera, si limita a prendere atto che l’intestazione è già avvenuta «per volontà popolare». All’interno del Comune di Cascina un lapide ancora oggi ricorda l’ultimo Sindaco eletto prima dell’avvento del fascismo: «I cittadini a ricordo di / Giulio Guelfi / Sindaco di Cascina (1920 -1921) / Combattente antifascista / Esule ad Arles (Francia) / Cascina 24 Ottobre 1971».

NOTE

1 Il 20 gennaio del 1871 viene approvato in Pisa lo statuto della Società Democratica Internazionale in Archivio di Stato di Pisa, Ufficio centrale della Pubblica Sicurezza b. 920. Sul periodo si v. A. Marianelli, Eppur si muove! Movimento operaio a Pisa e provincia dall’Unità d’Italia alla dittatura, Pisa, BFS, 2016; U. Sereni, Nel segno del liberato mondo. Vicende, culture, uomini e donne nel movimento operaio a Pisa tra Otto e Novecento, in La Camera del Lavoro di Pisa (1896-1980). Storia di un caso, a cura di G. Dinucci, Pisa, ETS, 2006, pp. 83-200; F. Bertolucci, Anarchismo e lotte sociali a Pisa 1871-1901. Dalla nascita dell’Internazionale alla Camera del Lavoro, Pisa, BFS, 1988; M. Bacchiet, Malfattori e birri nel fosco fin del secolo morente. Pisa 1872-1900, Pisa, BFS, 2023.

2 ACS, MI, Casellario politico centrale, ad nomen. Una biografia di Giulio Guelfi in Dizionario delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa, in https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16235-guelfi-giulio?i=12 (consultato il 25/1/2025).

3 Profilo biografico della Prefettura di Pisa del 1927 in CPC, ad nomen.

4 Cfr. Il risultato delle elezioni, «Il Ponte di Pisa» 22-23 novembre 1919; F. Bertolucci, Alle radici della guerra civile a Pisa e nella provincia. Il nodo delle elezioni amministrative dell’autunno del 1920 e l’assassinio di Carlo Cammeo 13 aprile 1921, in «ToscanaNovecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/alle-radici-della-guerra-civile-a-pisa-e-nella-provincia/ (consultato il 27/1/2025).

5 In questa tornata elettorale l’affluenza a Pontedera è inferiore al 50% degli aventi diritto. R. Cerri, Pontedera tra cronaca e storia. 1859-1922, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 1982, p. 256.

6 Intanto nel luglio del 1920 presso il Teatro Verdi di Pisa si tiene il congresso provinciale della Camera del Lavoro confederale, Guelfi relazione sui nuovi Patti coloniali e nella stessa sessione viene eletto membro della Commissione esecutiva camerale. Il Congresso provinciale della Camera del Lavoro Confederale, «L’Ora nostra», 31 Luglio 1920.

7 Sulle vicende amministrative della giunta Guelfi cfr. anche D. Sassetti, Tra storia e memoria. Il Comune di Cascina tra ventennio e Liberazione, Pisa, Pacini, 2025, pp. 9-17.

8 Archivio storico del Comune di Cascina (d’ora in poi ASC Cascina), Verbale seduta Consiglio Comunale del 16 ottobre 1920.

9 ASC Cascina,Verbale seduta Consiglio Comunale del 16 ottobre 1920.

10 ASC Cascina,Verbale seduta Consiglio Comunale del 16 ottobre 1920.

11 Sulla questione si rimanda ai fatti di Cecina del gennaio 1921, cfr. T. Barsotti, Il conflitto di Cecina in «ToscanaNovecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/il-conflitto-di-cecina/ (consultato il 30/1/2025).

12 Il 10 novembre 1920 a Livorno un gruppo di carabinieri e ufficiali dell’esercito entrano nel palazzo comunale e sostituiscono la bandiera rossa issata dopo la vittoria elettorale socialista, col tricolore. A seguito del fatto la Camera del Lavoro proclama lo sciopero generale, si registrano vari incidenti e una folla di lavoratori dei quartieri popolari riconquista il centro della città, ammaina il tricolore e al termine della giornata sul balcone del Comune rimane issata la sola parte rossa della bandiera. M. Rossi, La battaglia di Livorno, Pisa, BFS, 2021, p. 21.

13 La bandiera sventolerà sulla torre fino al 19 maggio 1921. Cfr. M. Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano 1919-1920, Roma, Bonacci, 1980, p. 163.

14 ASC Cascina, Verbale seduta Giunta Comunale del 22 ottobre 1920.

15 ASC Cascina, Verbale seduta Giunta Comunale del 22 ottobre 1920.

16 ASC Cascina, Verbale seduta Giunta Comunale del 22 ottobre 1920.

17 La precedente Amministrazione era stata guidata, dal 1915, dal primo sindaco socialista, Massimo Palla (di professione calzolaio), in gioventù anarchico e tra i primi pisani a partire per il domicilio coatto, prima a Porto Ercole poi alle Tremiti, dove sconta due anni a seguito del processo avuto nel 1894 per «apologia dell’assassinio Caserio». La Giunta Palla non marca però il proprio mandato in termini socialisti rivoluzionali. Per una biografia di Massimo Palla si rimanda a M. Bacchiet, Riglione. Questa centrale e laboriosa borgata. Vita sociale e politica. 1861 – 1948, Pisa, BFS edizioni, 2017, pp. 70-71.

18 La Lega nasce nel 1910 su iniziativa della direzione del PSI per dare un indirizzo unitario alle amministrazioni comunali socialiste. Dopo le amministrative del 1920 alla Lega dei comuni socialisti, della quale dal 1916 è segretario nazionale Giacomo Matteotti, aderiscono oltre 2 mila amministrazioni delle 8 mila e ben 25 dei 75 Consigli provinciali.

19 ASC Cascina, Verbale seduta Giunta Comunale del 9 dicembre 1920.

20 Cfr. tra gli altri F. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al Fascismo, 1918-1921, Torino, Utet libreria, 2009 e M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-1922, Milano, A. Mondadori, 2003. Per un inquadramento locale anche F. Bertolucci, Stato fascismo e antifascismo in provincia di Pisa 1920-1922, in Atti della giornata di studi su L’antifascismo rivoluzionario tra passato e presente. Pisa, 25 aprile 1992, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1993, pp. 99-127; P. Nello, Liberalismo, democrazia e fascismo. Il caso di Pisa (1919-1925), Pisa, Giardini, 1995; M. Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano. 1919-1922, Roma, Bonacci, 1980; R. Vanni, Fascismo e antifascismo in Provincia di Pisa dal 1920 al 1944, Pisa, Giardini, 1967.

21 Cfr. A. Baravelli, Riflessioni sullo squadrismo, la comparazione regionale e l’Italia mediana, in 1921. Squadrismo e violenza politica in Toscana, a cura di Roberto Bianchi, Firenze, Leo S. Olschki, 2022, pp. 21-33.

22 Sulle violenze fasciste di questo periodo si vedano anche 1921. Squadrismo e violenza politica; Il biennio nero in Toscana. Crisi e dissoluzione del ceto politico liberale. Atti del convegno di studi. Sala del Gonfalone, Palazzo del Pegaso. 2-3 dicembre 2021, a cura di S. Rogari, Firenze, Consiglio Regionale della Toscana, 2022; «Piombo col piombo». Il 1921 e la guerra civile italiana, a cura di G. Sacchetti, Roma, Carocci, 2023. Per la zona pisana si rimanda anche a Emanuela Minuto, Squadrismo e violenza politica nella provincia di Pisa, in 1921. Squadrismo e violenza politica in Toscana, a cura di R. Bianchi, Firenze, Leo S. Olschki, 2022, pp. 66-68 e F. Bertolucci, Alle radici della guerra civile a Pisa e nella provincia. Il nodo delle elezioni amministrative dell’autunno del 1920 e l’assassinio di Carlo Cammeo 13 aprile 1921, in «Toscana Novecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/alle-radici-della-guerra-civile-a-pisa-e-nella-provincia/ (consultato il 27/1/2025).

23 Per il profilo biografico di Ersilio Ambrogi, cfr. F. Bertolucci, Dizionario Biografico degli anarchici italiani, vol. I, BFS Edizioni, Pisa, 2002, p. 32-33 e il Dizionario Biografico delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa in
https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/12902-ambrogi-ersilio (consultato il 28/1/2025). Su profilo biografico si rimanda anche a Federico Creatini, Ersilio Ambrogi: antifascista o informatore dell’OVRA? Il Partito comunista italiano e la clandestinità, in «Toscana Novecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/ersilio-ambrogi-antifascista-o-informatore-dellovra/#:~:text=Certo%2C%20le%20due%20parti%20in%20causa%20cercarono%20in,dei%20%C2%ABsovversivi%20attentatori%20o%20capaci%20di%20atti%20terroristici%C2%BB (consultato il 28/1/2025).

24 La Federazione pisana del partito comunista si costituisce a Pisa il 27 febbraio 1921. Pisa, «L’Ordine Nuovo», 20 febbraio 1921. Sull’argomento cfr. M. Bacchiet, Le origini del Partito Comunista d’Italia nella provincia pisana, in «Toscana Novecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/le-origini-del-partito-comunista-ditalia-nella-provincia-pisana/ (consultato il 29/1/2025) e M. Bacchiet, I primi comunisti. Per un dizionario biografico della provincia di Pisa (1921-1940), in Antifasciste e antifascisti. Storie, culture politiche e memorie dal fascismo alla Repubblica, a cura di G. Fulvetti e A. Ventura, Roma, Viella, 2024, pp. 229-242.

25 Per Ciampi Enrico, «L’Ora nostra», 11 marzo 1921. Per una biografia di Ciampi si rimanda al Dizionario delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa in https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16079-ciampi-enrico (consultato il 29/1/2025).

26 Decreto del Prefetto della Provincia di Pisa del 14 dicembre 1920.

27 ASC Cascina, Verbale seduta di Consiglio Comunale del 13 febbraio 1921.

28 https://www.bfscollezionidigitali.org/oggetti/19415-paris-profeti-segretario-della-sezione-giovanile-socialista-di-pontedera-assassinato-dai-fascisti-nei-pressi-di-cascina-il-19-settembre-1921 (consultato il 30/1/2025).

29 https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/15073-bellucci-corrado (consultato il 30/1/2025).

30 Per una biografia di Metardo Cecconi si rimanda al Dizionario delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa in https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/13748-cecconi-medardo (consultato il 30/1/2025).

31 Alla notizia dell’omicidio dei due antifascisti la Camera del Lavoro di Pontedera proclama lo sciopero generale fino al termine dei funerali. Il giorno delle esequie la camera ardente viene allestita all’interno della locale «istituzione operaia» e alla testa dell’imponente corteo funebre, per volontà delle varie organizzazioni, un solo gonfalone, quello del Comune di Pontedera del quale Profeti era consigliere. La bara di Profeti, riporta «L’Avanti!», è avvolta nella bandiera socialista, mentre il drappo rosso-nero del locale gruppo anarchico abbraccia il feretro di Bellucci. Gli imponenti funerali alle vittime dell’eccidio di Cascina, «L’Avanti!», 25 settembre 1921.

32 ASC Cascina, Elezioni amministrative 1920.

33 Ib.

34 Il decreto di scioglimento viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 6 aprile 1922.

35 Sul caso Comaschi, tra gli altri, si rimanda a F. Gori, 1922-2022. L’affaire Comaschi in «ToscanaNovecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/1922-2022-laffaire-comaschi/ (consultato il 28/1/2025)

36 Il fascismo in Provincia spezza e travolge gli ultimi avanzi della tirannide rossa. Da San Frediano. La solita sfacciataggine, «L’Idea fascista», 9 aprile 1922.

37 I segretari dei Fasci di Cascina, Ogni promessa è debito, «L’Idea fascista», 4 giugno 1922.

38 Nel 1924, nei mesi immediatamente precedenti le elezioni politiche, per motivare e favorire la propria candidatura nel Listone, Arnaldo Dello Sbarba, in una bozza di promemoria per dimostrare la sua vicinanza e adesione al primo fascismo, rivendica il ruolo assunto per destituire i “sindaci rossi”, tra questi Giulio Guelfi. Cfr. R. Dello Sbarba, Arnaldo Dello Sbarba, autonomia d’una caduta in «ToscanaNovecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/arnaldo-dello-sbarba-anatomia-duna-caduta/ (consultato il 20/3/2025)

39 Gli amministratori di Cascina. Assolti, «L’Avanti!», 3 luglio 1923.

40 ACS, MI, CPC, ad nomen.

41 Ideale Guelfi, Dizionario delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16129-guelfi-ideale (consultato il 25/1/2025)

42 Silvano Guelfi, Dizionario delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16128-guelfi-silvano (consultato il 25/1/2025)

43 ACS, MI, CPC, ad nomen.

44 ASC Cascina, Delibera della Giunta Comunale n. 287 del 15 novembre 1945. L’amministrazione comunale assume la proposta del CLN locale e prende atto che l’intestazione è «di fatto già avvenuta» per volontà popolare. La stessa strada durante il regime era stata intestata a Gino Salvadori, fascista pisano morto a Marina di Pisa durante uno scontro a fuoco tra la fazione “dissidente” di Bruno Santini e i sostenitori di Filippo Morghen. Sui fatti di Marina di Pisa cfr. Conflitto tra fascisti a Pisa, «Il Popolo», 20 settembre 1924 e Giudici, Giudizi e Giudicati, «Il Ponte di Pisa», 5-6 settembre 1925.




IL CANDIDATO DEL FASCISMO AGRARIO MAREMMANO

Profilandosi ormai chiaramente la minaccia fascista, i socialisti, non solo non presero nessuna misura per fronteggiarla, ma col loro atteggiamento tendevano a impedire che ci si organizzasse a difesa. Il fascismo era infatti considerato dai dirigenti socialisti come un fenomeno di mera provocazione, tendente a far intervenire, contro le masse, le forze repressive dello stato borghese. «Non accettare la provocazione» fu fino all’ultimo la parola d’ordine dei dirigenti socialisti. Come se di fronte a bande armate che bastonavano e uccidevano, bruciavano le sedi delle organizzazioni operaie e scioglievano con la forza le amministrazioni socialiste, fosse possibile restarsene passivi, per non fare il gioco dei «provocatori». Istintivamente le masse sentivano che bisognava far qualcosa…”.
(L. Bianciardi, C. Cassola, I minatori della Maremma)

La recentissima pubblicazione del libro di Franco Dominici e Silvio Antonini, Gino Aldi Mai. Il Candidato agrario. Tra il Biennio rosso e l’avvento del Fascismo nella Maremma e nella Tuscia (1919-1924), edito da Effigi, col patrocinio dell’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, conferma la rilevanza del cosiddetto squadrismo agrario nella genesi politico-militare dei Fasci di combattimento e, in seguito, nella restaurazione economica-sociale delle campagne durante il regime fascista.
Dalla Lomellina al Molinellese, dal Polesine di Matteotti alle Puglie di Di Vittorio, il fascismo mussoliniano potè insediarsi, trovare finanziamenti e svilupparsi in territori in cui il padronato agrario, per lo più latifondista, aveva già una lunga “tradizione” di controllo e dominio della manodopera bracciantile e, più in generale, delle lavoratrici e dei lavoratori agricoli subordinati, attraverso l’impiego di propri “uomini” a cui erano demandati quei metodi violenti che non sempre potevano essere assicurati dai pur zelanti Carabinieri.
Secondo le zone, si trattava di piccoli eserciti privati formati occasionalmente da “guardie campestri”, sovrastanti, fattori, “caporali”, “factotum”, braccianti ingaggiati come crumiri, disoccupati assoldati alla giornata… che richiamavano i “bravi” di manzoniana memoria.
A loro era demandato il compito di fronteggiare proteste, scioperi ed occupazioni di terre, ma sovente erano anche la “longa manus” dei proprietari terrieri per “regolare conti” ed intimidazioni fuori dall’ambito lavorativo.

Foto della Squadra d’azione laziale, 1920, tratta da “Squadristi” di Franzinelli.

Le prime squadre fasciste s’inserirono quindi su questo terreno conflittuale, fornendo giovani votati alla violenza ed ex-combattenti per contrastare le Leghe – sia “rosse” che “bianche” – dei lavoratori della terra, compiere spedizioni punitive nei paesi non sottomessi, perpetrare persecuzioni individuali ed esecuzioni “mirate”.
L’intesa era nel reciproco interesse delle parti: i possidenti terrieri, per la tutela dei propri interessi e privilegi, potevano contare su una più efficiente guardia privata, operante come una forza politica, mentre i Fasci usufruivano di legittimazione e ingente sostegno economico, estendendo così la loro influenza, a spese del sindacalismo di classe e dell’associazionismo popolare.
Grazie alla disponibilità di camion e altri veicoli – ma in alcune zone anche di cavalli – lo squadrismo “tricolorato introdusse la tattica della “guerra di movimento”, ma risulta evidente la continuità funzionale con i pre-esistenti “mazzieri dell’Agraria”, così come appare evidente in alcune foto delle prime squadre fasciste nella campagne. Ai bastoni e alle doppiette da caccia si aggiungevano le armi da guerra, ma non vi erano ancora divise paramilitari ed elmetti e le rare camicie nere erano quelle “da fatica” allora normalmente usate dai contadini nel lavoro dei campi.
La situazione della Maremma, sia Toscana che Laziale, conferma perfettamente tale dinamica, seppure a fianco dell’importante realtà agricola vi erano non meno importanti insediamenti industriali e minerari che talvolta – come in Val di Cecina – vedevano un analogo “feudalesimo industriale”.

Non di meno, lo squadrismo «tricolorato» dovette fare i conti col forte radicamento socialista, anarchico e sindacalista, ricorrendo – con la connivenza delle forze dell’ordine e dei comandi militari – a metodi terroristici; basti pensare alla Strage di Roccastrada che nel luglio 1921 anticipò le rappresaglie nazi-fasciste “10 per 1”.
La compiacenza della forza pubblica anche nell’assalto fascista a Grosseto venne confermata da una testimonianza, pubblicata sul quotidiano anarchico «Umanità nova» del 6 luglio 1921, che riferì «dei reali carabinieri allineati fare il presentatarm allo stato maggiore fascista».
La biografia di Gino Aldi Mai, ricco proprietario terriero grossetano, prima liberale e poi decisamente fascista, che rivestì importanti cariche pubbliche e istituzionali (sindaco, podestà, senatore…), al centro del saggio degli storici Dominici e Antonini, appare in effetti paradigmatica per comprendere l’involuzione, dal paternalismo alla reazione, della borghesia agraria non solo in in Maremma, ma simile nel resto della Toscana e del Lazio, così come nella Valle Padana e nel Meridione.
Le “patriottiche motivazioni ideali” di tale passaggio al Fascismo, ebbero il loro riscontro durante il regime quando, come scrive Franco Dominici: «Il padrone tornava a essere tale a tutti gli effetti e delegava il fattore, o agente agrario. I vecchi usi e prestazioni di tipo medievale erano adesso codificati dalla legge; i mezzadri dovevano consegnare nuovamente al padrone gli animali da cortile, le uova, la legna e quelle che diventeranno le “massaie rurali” saranno obbligate a prestarsi ai servizi padronali. Le leggi sugli infortuni agrari vennero abrogate, così come la mutua dei “rossi” il patronato dei “bianchi”; la divisione degli utili dei dei diversi prodotti (latte, suini, monta, castagne, ma anche prodotti come tabacco, barbabietola e pomodori), precedentemente a favore dei mezzadri, fu riportata dalle leggi fasciste al 50% fra le due parti. Il colono tornava a condizioni di vita più misere, a un lavoro con minori certezza, alle angherie dei fattori ed a una dieta alimentare più povera».
La lettura del libro offre anche l’occasione di riflettere su come, prima sui giornali di destra e nei rapporti di polizia e in seguito nella narrazione epica dello squadrismo, il clima di guerra civile instaurato dagli «schiavisti agrari» (seconda una nota definizione dannunziana) venne mistificato come un’eroica e disinteressata battaglia per salvare l’Italia dal bolscevismo e dall’anarchia, con la conseguente glorificazione dei pochi “martiri fascisti” a fronte di migliaia di vittime, perlopiù inermi, della classe lavoratrice e la criminalizzazione di quanti impugnarono le armi per la difesa delle libertà sociali.
I necrologi commemorativi dei fascisti rimasti uccisi nel grossetano e nel viterbese, citati nel libro, forniscono un esempio dello stilema retorico utilizzato per trasformare gli aggressori in vittime e gli oppositori in criminali.
Lo squadrista ventunenne Rino Daus che, da Siena, era giunto a Grosseto per espugnare militarmente il rosso capoluogo maremmano, veniva quindi definito come un «giovinetto» che morendo avrebbe invocato «Italia! Mamma!», mentre Giovanni Migliori, «tutto dedito alla casa e la lavoro», fu ucciso in un’imboscata da «una bieca figura di comunista» a Giuncarico. Giovanni Dessy, fondatore del Fascio di Orbetello, cadde in una sparatoria con alcuni malviventi, ma la sua morte fu il pretesto per rappresaglie contro i “rossi”. Il fascista grossetano Ivo Saletti rimase ucciso al ritorno da una spedizione punitiva a Roccastrada, probabilmente colpito da un colpo partito accidentalmente da un camerata che si trovava a bordo del medesimo camion, causando per ritorsione l’eccidio indiscriminato di dieci inermi paesani. Invece, lo squadrista grossetano Andrea Agnelli, mortalmente accoltellato da uno sconosciuto e la cui uccisione fu subito attribuita «a odio di parte», a distanza di tempo fu escluso dal martirologio fascista. Nello stigmatizzare l’uccisione del fascista viterbese Amoroso Melito venne invece sottolineato il fatto che era un mutilato, ma tale condizione non gli aveva impedito di «prendere parte a parecchie spedizioni punitive».
Un ventennio dopo lo stesso schema sarebbe stato ripreso dalla propaganda della Repubblica sociale contro i partigiani: i «ragazzi di Salò», vittime dei «banditi», ed ancora oggi viene riproposto nel tentativo di riscrivere la storia, dimenticando anche Roccastrada.




LA COPPA MONTENERO-CIANO

La prima edizione della Coppa Montenero si svolse il 25 settembre 1921. La manifestazione, che nel proprio comitato organizzativo non contava ancora personalità politiche, nacque dall’intuizione di un gruppo di circa quindici livornesi legati al mondo giornalistico e all’aristocrazia cittadina[1]. L’esito di questa prima edizione fu alquanto modesto, con la partecipazione alla gara di sole otto auto[2].
Nel 1922 la gara fu anticipata di un mese, a fine agosto, per cercare di aumentare l’adesione dei piloti e il prestigio della competizione. La mossa non portò al risultato sperato e l’evento rimase una manifestazione dalla valenza prettamente regionale. Una differenza in questo secondo anno, rispetto alla prima edizione, fu comunque il notevole aumento di interesse da parte di alcune delle maggiori personalità del mondo politico e industriale cittadino[3]. Come membri del comitato d’onore figurarono infatti Salvatore Orlando, Guido Donegani e Costanzo Ciano, capitani d’industria locali che avevano agevolato e sostenuto nei mesi precedenti l’ascesa politica del Fascio livornese, completatasi proprio ad inizio agosto del 1922, a poche settimane dalla gara, con la conquista violenta del comune e il conseguente allontanamento del sindaco socialista Mondolfi[4].
Fu a partire da questa edizione che Costanzo Ciano, dall’anno successivo presidente del Comitato d’onore, intuì le potenzialità propagandistiche dell’evento e capì quanto avrebbe potuto giovare in termini di rilevanza se avesse fatto “sua” la competizione aumentandone il prestigio nazionale e divenendone l’uomo copertina.
Un cambiamento importante si concretizzò proprio nel 1923, in seguito alla costituzione, in primavera, della sezione livornese dell’Auto Moto Club[5]. Quest’ultima, a causa delle problematiche economiche riscontrate dal comitato esecutivo nelle prime due edizioni, assunse le redini organizzative dell’evento[6]. Vi fu così un miglioramento dell’intero complesso organizzativo e un conseguente primo interessamento da parte delle principali testate sportive italiane.
La svolta definitiva della Coppa Montenero si ebbe con la quinta edizione, quella del 1925, evento che riuscì ad attirare il doppio dei piloti rispetto alle quattro edizioni precedenti e ad ottenere contestualmente una maggiore copertura giornalistica sulla stampa nazionale e locale. In particolar modo proprio le due principali testate locali, «Il Telegrafo» e «La Gazzetta Livornese», controllate da Costanzo Ciano[7], seguirono con un minuzioso coinvolgimento quotidiano tutte le giornate d’avvicinamento e quelle successive di celebrazione dell’evento con articoli e approfondimenti[8].
Questo importante cambiamento fu dettato in primo luogo dal ruolo centrale che Emanuele Tron assunse nell’organizzazione. Tron fu prima membro di primaria importanza dell’Auto Moto Club Livorno (sin dalla sua prima fondazione), poi ne divenne presidente e, successivamente, con il pieno sostegno di Costanzo Ciano, fu scelto per gestire in solitaria il coordinamento dell’evento motoristico[9]. Oltre alle funzioni esercitate nel mondo dei motori, sin dall’avvento del fascismo a Livorno si ritagliò un ruolo di primo ordine anche all’interno della vita politica cittadina. Membro del direttorio del Fascio locale dal maggio 1921[10], non si limitò ad una mera rappresentanza politica, partecipando attivamente ai mesi di violenze e tensioni che culminarono con gli eventi dell’agosto 1922[11] . Nel dicembre del 1925, a pochi mesi dal gran successo dalla quinta edizione della Coppa Montenero, fu nominato inoltre segretario politico del Fascio di Livorno. Anche grazie ai risultati ottenuti nel mondo dei motori, nel 1932 venne chiamato inoltre a presiedere l’U.S. Livorno[12]. Durante gli anni della sua presidenza fu edificato il nuovo stadio intitolato ad Edda Ciano Mussolini[14].
Un importante cambiamento che mutò parzialmente la formula delle gare sul circuito del Montenero avvenne a ridosso della settima edizione dell’evento, quando fu introdotta la Coppa Ciano dedicata proprio al presidente del comitato d’onore Costanzo[15]. Per i primi due anni la Coppa Ciano fu assegnata da una corsa separata, organizzata in concomitanza a quella con cui si conferiva la Coppa Montenero. Le cose cambiarono a partire dal 1929, quando la Coppa Ciano e la Coppa Montenero divennero un’unica gara. Il trofeo del vincitore della Montenero continuò poi ad essere conferito come Coppa Ciano fino all’ultima edizione della manifestazione, svoltasi prima dello scoppio della guerra. Con la trasformazione della Coppa Montenero in Coppa Ciano si completò definitivamente quel progetto di controllo sulla kermesse che Costanzo Ciano aveva iniziato a plasmare sin dalle prime edizioni della competizione.
Di edizione in edizione si susseguirono numerosi ospiti illustri, tra i quali spiccarono autorità politiche di primaria importanza e illustri uomini di sport, che affiancavano pubblicamente Ciano e i suoi familiari durante l’intera giornata della manifestazione. Ciano non si fece però mai rubare la scena, muovendosi sempre con estrema accortezza per restare negli anni il volto dell’evento. Ogni quotidiano, locale e non, impegnato a seguire la parte sportiva della competizione riservò infatti sempre, parallelamente alla cronaca delle gare, un ampio spazio di approfondimento a Ciano e al suo ruolo. «Il Telegrafo», che era ancora sotto il suo controllo, offrì quasi ad ogni edizione della Montenero un resoconto specifico di ogni spostamento in città di Ciano nei giorni di svolgimento delle varie gare, come se le azioni compiute in quelle ore dal “Ganascia” fossero di pari importanza agli esiti sportivi di quello che avveniva tra le monoposto in pista. L’associazione diretta del nome Ciano con l’evento, il più importante della città non solo in ambito sportivo e capace di attirare già da diverse edizioni l’interesse di tutta Italia, fu quindi fondamentale nel sublimare ulteriormente il potere dell’ex militare su Livorno, suo feudo personale, e nell’alimentare di conseguenza nella popolazione livornese il culto della sua personalità.
Dopo quasi un decennio in cui la competizione si consolidò come uno degli appuntamenti motoristici più importanti dell’intero panorama nazionale, nel 1937 vi fu un cambiamento che rese l’evento ancora più rilevante. Questa edizione fu la più importante della storia della competizione, segnata dallo spostamento del Gran Premio d’Italia dal circuito di Monza al tracciato livornese[16]. La decisione di trasferire la gara automobilistica più importante d’Italia a Livorno, un riconoscimento per il comitato organizzativo con ancora a capo Emanuele Tron, arrivò grazie alla forte influenza della famiglia Ciano, estremamente volenterosa di esibire all’interno delle proprie mura cittadine un evento di estrema importanza, ma soprattutto grazie alla decisione delle principali autorità del mondo automobilistico italiano di allontanarsi dal circuito di Monza che era ormai divenuto territorio di totale dominio delle auto tedesche. Ciononostante la competizione non perse i legami con la sua storia recente e le precedenti edizioni, mantenendo anche per questa edizione speciale il titolo di Coppa Ciano. La gara non portò però il risultato atteso: a vincere fu una monoposto Mercedes-Benz, ragione per cui a partire dall’anno seguente il Gran Premio d’Italia fu trasferito nuovamente a Monza.
L’ultima edizione del Gran Premio del Montenero-Coppa Ciano, negli anni del fascismo, si svolse nell’estate del 1939, a pochi giorni dallo scoppio della guerra, che negli anni successivi impedì l’organizzazione delle più importanti gare in tutta Europa. A caratterizzare quest’ultima edizione fu il fatto che ebbe luogo a poche settimane dalla dipartita di Costanzo Ciano e fu quindi dedicata alla sua memoria[17]. La gara automobilistica, il cui prestigio era cresciuto enormemente nel corso del Ventennio fascista, nel dopoguerra non avrebbe più raggiunto i fasti delle edizioni degli anni Venti e Trenta. La sua rilevanza si affievolì dunque in modo simbolico con la morte della principale figura legata alla competizione.
Ciò che ci restituisce l’evoluzione della manifestazione, nel corso di nemmeno due decenni, è principalmente l’utilizzo strumentale che ne fece Ciano. Egli si servì dell’evento, con l’aiuto di uomini a lui fedeli come Tron, come strumento di promozione politica e per accrescere la propria autorevolezza a livello locale e nazionale.

 

Questo articolo è un estratto della tesi dell’Autore Livorno e il mondo dello sport durante il fascismo. Il caso labronico negli anni del regime (relatore prof. Gianluca Fulvetti), discussa presso il Dipartimento di Civiltà Forme del Sapere dell’Università di Pisa nell’Anno Accademico 2023/2024.

 

Note

  1. Cfr. M. Mazzoni, Lampi sul Tirreno. Le moto e l’auto sul Circuito di Montenero a Livorno, Consiglio regionale della Toscana. Comune di Livorno, Livorno 2006, p. 37; Le gare automobilistiche per la Coppa Montenero, “Gazzetta Livornese”, 22 settembre 1921.
  2. Cfr. La corsa automobilistica per la Coppa Montenero. La vittoria di Corrado Lotti, “Gazzetta Livornese”, 26 settembre 1921.
  3. Cfr. http://www.circuitodelmontenero.it/2/images/1922_pub_004.jpg.
  4. Cfr. T. Abse, Sovversivi e fascisti a Livorno (1918-1922): la lotta politica e sociale in una città industriale della Toscana, Franco Angeli, Milano 1991, p. 225-245; M. Tredici, Umberto Mondolfi, il sindaco rosso. L’amministrazione socialista a Livorno 1920-1922), Media Print Editore, Livorno 2022.
  5. Secondo tempo della “Montenero”, Rivista ufficiale del Reale Automobile Club d’Italia, 29 agosto 1937; La prima marcia turistica auto-moto-ciclistica, “Il Telegrafo”, 15 giugno 1923.
  6. I preparativi per la terza Coppa Montenero, “Gazzetta Livornese”, 3 luglio 1923.
  7. A. Viani, Il Telegrafo di Giovanni Ansaldo 1936-1943, Belforte, Livorno 1998, pp. 24-25.
  8. La V Coppa Montenero, “Il Telegrafo”, 3 agosto 1925; Il meraviglioso successo della V Coppa Montenero, ivi, 11 agosto 1925; La V Coppa Montenero. Il successo della competizione organizzata dall’Auto Moto Club Livorno, ivi, 12 agosto 1925; Al fiorentino Emilio Materassi su Itala la V Coppa Montenero, ivi, 17 agosto 1925; L’attività dell’Auto Moto Club Livorno. Per lo sport e per Livorno, ivi, 31 agosto 1925.
  9. L’indiscutibile successo della IV Coppa Montenero, ivi, 21 agosto 1924; Un’altra bella affermazione dell’Auto Moto Club Livorno, ivi, 26 agosto 1924.
  10. R. Cecchini, Livorno nel ventennio fascista, Editrice l’informazione, Livorno 2005, p. 20.
  11. N. Badaloni, F. Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno: 1900-1926, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 138-139.
  12. P. Ceccotti, Il fascismo a Livorno: dalla nascita alla prima amministrazione podestarile, Ibiskos Editrice, Empoli 2006, p. 166.
  13. Il comm. Tron nominato Presidente della Sezione calcistica della “Livorno Sportiva, “Il Telegrafo”, 1° luglio 1932.
  14. I. Bianchi, Lo stadio di Livorno, in «Liburni Civitas», A. VIII, N. I, Belforte, 1935, pp. 4-18.
  15. Le grandi manifestazioni dell’Automobile Club di Livorno, ivi, 3 marzo 1927.
  16. Il XV Gran Premio d’Italia a Livorno, ivi, 26 agosto 1937.
  17. In memoria dell’eroe, ivi, 31 luglio 1939.

Articolo pubblicato nel giugno 2025.




PISA 1944, IL RITORNO DEL GATTOPARDO

Dall’incrocio di archivi pubblici e privati, il racconto di come, nel caso emblematico di Pisa, poté imporsi quella continuità di uomini e apparati che segnò il dopoguerra[1].

Per vent’anni aveva vissuto in esilio a Roma, sognando ogni giorno il grande ritorno. Con la Liberazione il momento era arrivato. In una provincia devastata dalla guerra, c’era chi invocava l’avvento di un ordine nuovo. Lui no: già settantenne, ma in ottima forma, lui voleva chiudere in fretta non solo la “parentesi fascista”, ma anche quella partigiana.
Così tornò a Pisa l’ex Ministro Arnaldo Dello Sbarba nell’anno di grazia 1944. Agendo da regista tra Roma, la “sua” Pisa e l’ancor più “sua” Volterra, strinse la giovane forza dei CLN in una morsa di poteri convergenti: prefetti, partiti moderati, governo Bonomi, tribunale, stampa. Ecco come fece e chi lo aiutò.

Collesalvetti, 31 agosto 1944: il CLN di Pisa tiene la sua ultima riunione clandestina. I nazisti abbandonano la linea dell’Arno, dopodomani si entra in città. Tutti i ponti sono stati fatti saltare, la guerra ha fatto migliaia di vittime. Ma in quest’ultima seduta si respira l’aria dei giorni grandi. Vanno nominati gli uomini che la rivoluzione democratica insedierà ai vertici di tutti gli enti pubblici, dal comune agli ospedali, dalla Cassa di Risparmio alla polizia municipale. Come sindaco viene proposto Italo Bargagna, commissario politico della 23a Brigata bis Garibaldi “G. Boscaglia”; come questore Alberto Bargagna, comandante della stessa Brigata Garibaldi; come prefetto il comunista Armando Monasterio. Su ogni nomina il CLN dovrà fare i conti con il governatore militare alleato. E mette le mani avanti: “Si delibera di mandare una relazione al governo di Roma allo scopo di evitare la nomina di Dello Sbarba a prefetto di Pisa”[2].

Da giorni circolano voci in proposito. A Roma il governo del CLN è guidato da Ivanoe Bonomi, che ha resuscitato un “Partito democratico del Lavoro” (PDL) raccogliendo vecchi notabili del prefascismo. Per Claudio Pavone “partito trasformista per eccellenza”[3]. Si sa che Bonomi, nell’Italia già liberata, sta sostituendo i “prefetti del CLN” con funzionari di carriera o con compagni del suo stesso partito. A Roma ha nominato prefetto Giovanni Persico, suo braccio destro.
Si sa che Arnaldo Dello Sbarba è tra i cofondatori di questo PDL: “A Roma, prima del 25 Luglio – racconta lui stesso – io mi tenevo in contatto con alcuni dei principali esponenti dell’antifascismo”[4]. Si sa che nella Siena appena liberata è stato lo stesso CLN a proporre a Dello Sbarba di fare il commissario dell’ospedale di Santa Maria della Scala. Lui ha declinato l’invito: gli interessa tornare a casa. A Volterra. E poi a Pisa.


Anni ’20, Arnaldo Dello Sbarba, (secondo da destra) ministro del governo Facta, in una cerimonia a Roma

L’ex ministro conta su protezioni altolocate. Come quella di Adalberto Berruti, potente capo di gabinetto al Ministero dell’interno (che il presidente Bonomi ha tenuto per sé). Berruti è stato prefetto di Pisa dal 1941 al 1943: “In quel periodo – scriverà Berruti – ebbi occasione di conoscere l’on. Arnaldo Dello Sbarba e di avere con lui, in parecchie circostanze, colloqui e scambi di vedute. Ebbi così modo di apprezzare l’elevatezza di pensiero e di sentimento dell’on. Dello Sbarba. Dopo il 25 luglio 1943 fu tra i miei più validi collaboratori nella liquidazione del fascismo pisano”[5]. I due non si erano più persi di vista. Appena lasciata Pisa, Berruti aveva ricontattato Arnaldo: “Eccellenza, le mando da Roma il mio saluto. Conservo di Lei il miglior ricordo e mi auguro di incontrarla presto”. Come dire: si tenga pronto[6].
Berruti è un piemontese la cui antipatia verso i fascisti è pari al suo rigore istituzionale[7]. Diventato capo di gabinetto, Berruti ha voce in capitolo sulla nomina dei prefetti. Pisa gli sta particolarmente a cuore. Vi destina quindi un suo uomo di fiducia: Vincenzo Peruzzo. Anche la vita di Peruzzo si era già incrociata con quella di Arnaldo Dello Sbarba. Peruzzo era stato dal 1921 al 1922 al Gabinetto per le pensioni di guerra nel governo in cui Arnaldo era ministro del lavoro. La carriera di Peruzzo aveva attraversato il fascismo. Per otto anni aveva addirittura lavorato per l’ufficio stampa di Mussolini. Il suo rapporto col regime si era guastato con la guerra: “Per noi – scrive nella sua autobiografia – si sarebbe comunque conclusa con una disfatta: soggiogati dai tedeschi vincitori, o vinti dagli alleati”[8].

Vincenzo Peruzzo arriva a Pisa il 7 settembre 1944: è “il primo prefetto dopo la Liberazione”. Scosso dalle drammatiche condizioni della città, Peruzzo se ne prende cura con una dedizione che la gente ammira. Con la politica però è diverso: ha rapporti difficili col sindaco Bargagna, consulta il meno possibile i CLN, appena può sostituisce i sindaci nominati dalla Resistenza, soprattutto se comunisti. Ai politici preferisce i tecnici. “Ma i tecnici da lui nominati – scrive Carla Forti nel suo saggio su Pisa nel dopoguerra – sono immancabilmente o rappresentanti dei poteri forti, o funzionari pubblici in carica nel precedente ventennio”[9].

Peruzzo lega subito con Arnaldo. Già il 5 ottobre – ignorando i desiderata del CLN – lo nomina commissario della Cassa di Risparmio di Pisa. “Dopo i primi sondaggi con le autorità locali e con le persone più autorevoli dell’ambiente pisano – racconta Peruzzo – mi parve di aver scelto l’uomo adatto al posto importante”.
Secondo passo. Nel novembre il prefetto nomina la giunta provinciale. “Dopo opportuni sondaggi”, Peruzzo designa come presidente il democristiano Aldo Fascetti e, tra gli assessori, l’avvocato Gino Sossi. Sossi è cognato di Arnaldo Dello Sbarba, nonché suo socio in affari e in politica.
Terzo passo. Il 23 novembre Peruzzo istituisce la “Commissione provinciale istruttoria per l’epurazione” composta dal presidente del Tribunale Tito Cangini, dal magistrato Giovanni Miele e dal matematico Leonida Tonelli. Anche Tito Cangini è legato ad Arnaldo Dello Sbarba: è stato giudice al tribunale di Volterra e presidente della locale Cassa di Risparmio[10]. In entrambi gli ambiti Arnaldo è di casa. La commissione per l’epurazione, scrive Carla Forti, “giudicherà da non punirsi quasi tutti i sospesi dal servizio”. In perfetta assonanza col prefetto che, preso in consegna dagli alleati il campo di prigionia per ex fascisti di Coltano, lo svuoterà a tempo di record dei 32.000 internati “con la liberazione – scrive ancora Forti – di quasi tutti i prigionieri”[11].

Come se non bastasse, all’inizio del 1945 il prefetto Peruzzo nomina Arnaldo Dello Sbarba anche presidente del neo-istituito “Comitato provinciale per la ricostruzione”, con l’incarico di fare “la ricognizione dei danni e le opportune proposte da sottoporre al governo per chiedere aiuti adeguati”. Il comitato ha un ruolo vitale per la ripresa economica e sociale della provincia pisana. Ma è anche uno schiaffo al sindaco Bargagna, che “senza un preventivo concerto tra noi – dice Peruzzo – aveva pure pensato di costituire una commissione”. Per Peruzzo, però, è dal prefetto e non dal Comune che devono passare le relazioni con Roma.

L’incarico per la ricostruzione offre ad Arnaldo Dello Sbarba la possibilità di dire la sua sulle scelte della città. Lo fa grazie a compiacenti interviste sul «Tirreno» diretto dal suo vecchio amico Athos Gastone Banti. Banti nel 1924 dirigeva a Firenze il «Nuovo Giornale» e aveva tentato di promuovere la candidatura di Dello Sbarba nel “Listone” fascista con una intensa campagna di stampa. Arnaldo lo compensò con due assegni da 5.000 lire firmati dal direttore della Solvay di Rosignano, generosa finanziatrice della sua carriera politica. Adesso, sul «Tirreno» di Livorno, Dello Sbarba può vantarsi della sua intimità col ministro dei Lavori Pubblici Meuccio Ruini, suo compagno di partito: “Sono mesi che io faccio la spola tra Pisa e Roma!”[12].

Oltre a Pisa c’è Volterra. Arnaldo la considera città “sua”. Ma Volterra è il baluardo della 23a Brigata bis Garibaldi “G. Boscaglia” e i partigiani pretendono l’epurazione radicale degli ex fascisti. A Volterra è forte il Partito d’azione, il più determinato a chiedere un cambio netto di classe dirigente. Presidente del CLN è l’intellettuale azionista Umberto Borgna, innovatore nell’arte dell’alabastro. Azionisti sono Giovanni Salghetti Drioli, dirigente del CLN nell’ufficio tecnico del Comune, e lo scrittore Carlo Cassola, direttore del settimanale «Volterra Libera». Membri del CLN nel giorno della liberazione sono anche il socialista Amedeo Meini, i comunisti Mario Giustarini e Fernando Frattini e il democristiano Aldo Tozzi. Ma il personale disponibile scarseggia. Così nella Giunta comunale ricorrono gli stessi nomi, ma a parti scambiate: Meini sindaco e Borgna vice, oltre a due comunisti e due socialisti come assessori e un agrario “apolitico” come unica concessione agli Alleati. In città si sono concentrati gli uomini della Brigata Garibaldi. E il governatore alleato Clive Robinson ha in linea di massima avvallato le nomine del CLN.
La più importante delle quali è il consiglio di amministrazione del grande ospedale psichiatrico che, con oltre 4.500 pazienti e centinaia di sanitari, è il maggior datore di lavoro della città. Presidente è Mario Basile del Partito d’azione (anche direttore del carcere), membri sono Amedeo Meini (anche sindaco), Mario Giustarini e Aldo Tozzi (anche assessori comunali) e Alfredo Zoppi (anche presidente della bonifica)[13].

Arnaldo Dello Sbarba considera però l’ospedale psichiatrico una propria creatura. Per diversi anni aveva infatti presieduto la “Congregazione di carità”, ente giuridico dell’istituto, in un sodalizio sempre più stretto col geniale direttore Luigi Scabia, che aveva fatto del “Frenocomio di San Girolamo” un modello d’avanguardia della psichiatria europea[14]. Da allora Scabia era diventato l’appassionato sostenitore dell’ascesa politica di Arnaldo e Arnaldo lo strenuo difensore di Scabia dagli attacchi dei fascisti. Arnaldo considerava insomma gli amministratori nominati dal CLN come spine nel fianco. E si era messo in moto.

Il 13 novembre 1944, i partiti liberale, democristiano e demo-laburista volterrani inviano una lettera di fuoco al prefetto e al questore di Pisa. Attaccano violentemente il CLN volterrano, invocano “il ritorno alla normalità” e denunciano, nell’ordine: “arbìtri (incitamento alla rivolta, detenzione abusiva di armi, minacce ecc.), accentramento di cariche, illegalità della costituzione del CDA dell’Ospedale psichiatrico”[15].
Detto, fatto. Il 23 novembre il prefetto Vincenzo Peruzzo dispone lo scioglimento del CDA e nomina un commissario prefettizio “fino alla ricostituzione dell’ordinaria rappresentanza”[16] .
La reazione del CLN volterrano è immediata. Dietro l’azione – mette a verbale il 26 novembre – c’è un ristretto gruppo “risultato chiaramente far capo ad Arnaldo Dello Sbarba, che viene aspramente giudicato per la slealtà”. I commissariamenti – ricorda il CLN – li usavano i fascisti contro Scabia. Lo stesso sistema è ora invocato da “ben individuati gruppetti reazionari e fascistoidi” a colpi di ”anonima delazione e intrighi di corridoio”[17]. Il CLN di Volterra chiede l’immediato ritiro del commissario e un incontro urgente col Prefetto.

Ma prima che la delegazione guidata da Borgna e Meini riesca a farsi ricevere dal Prefetto, un’altra tegola “sbarbiana” cade sulla testa del CLN volterrano. Il 3 dicembre 1944 l’avvocato Arnaldo Frattini, membro comunista del CLN provinciale, porta da Pisa la notizia di “una probabile ammissione dell’avv. Arnaldo Dello Sbarba in seno al CLN provinciale” in rappresentanza del Partito demo-laburista. Per i volterrani è il colmo. In una seduta straordinaria in cui i democristiani sono “assenti perché non invitati”, vista la loro posizione sull’ospedale psichiatrico, comunisti, socialisti e azionisti redigono “una relazione sulla figura morale e politica del Dello Sbarba, stilata dai presenti in base a documentazioni potute raccogliere e firmata dal presidente Borgna“, da inviare ai CLN provinciale, regionale e nazionale, nonché agli organi periferici e centrali dei partiti della sinistra[18].

La relazione è durissima. “Il Dello Sbarba – accusa Borgna – che ama presentarsi come ex deputato antifascista, sin dalle origini del fascismo collaborò con questo, riuscendo ad esservi ammesso dopo il 1935”.
A prova della compromissione di Arnaldo, Borgna cita la sua candidatura nel 1921 come capolista del “Blocco nazionale” di Giolitti, che comprendeva anche i fascisti. “Dura ancora nella memoria del popolo di Volterra – scrive – il ricordo della triste giornata di violenze esperite dalle squadre del fascio volterrano il 7 Maggio 1921 dopo il comizio elettorale tenuto al teatro Persio Flacco dal Dello Sbarba, nel quale egli rivolse infiammate parole ai fascisti”.
Quella giornata fu un vero shock per la città. Quel giorno, scriverà un testimone oculare, l’alabastraio socialista Arnaldo Fratini, “Arnaldo Dello Sbarba scese l’ultimo gradino della sua carriera politica. Durante il corteo che si svolse per le vie della città, i fascisti al suo seguito distribuirono diversi pattoni a chi, al loro passaggio, non si toglieva il cappello. Giunti all’altezza della trattoria di Balosce, di fronte al Cinema Centrale, vi entrarono spaccando tutto e picchiando tutti coloro che vi si trovavano”[19].
Nella risposta a quello che con disprezzo chiamò “Libello Borgna”, Arnaldo minimizzerà il ruolo dei fascisti quel giorno. Ma la cronaca pubblicata dal «Corazziere», giornale monarchico e conservatore cittadino, conferma che tra gli oratori ufficiali in teatro ci fu anche “il fascista signor Davino Volterrani”, che il corteo si svolse “tra canti e inni patriottici” e che di seguito il PSI affisse un manifesto che diceva: “Chi vota per Arnaldo Dello Sbarba vota per il fascismo contro il socialismo”[20].
Questo per il passato. Sul presente, Borgna cita il commissariamento dell’ospedale psichiatrico, provocato da Dello Sbarba con “l’intensa opera disgregatrice e diffamatoria che ha svolto presso la Prefettura di Pisa dove purtroppo le sue parole sembrano ancora trovare credito”. La relazione si conclude con l’appello al CLN provinciale “di respingere la richiesta d’ammissione nel suo seno dell’avv. Arnaldo Dello Sbarba”.

Arnaldo viene avvertito della relazione Borgna prima a voce da Tito Cangini, poi per lettera da Mario Piccioli, rappresentante del PDL nel CLN pisano: “Ottenni il rinvio della discussione. È opportuno che Lei prepari una esauriente risposta”. La risposta non arriva subito. Prima arrivano, firmate dai segretari volterrani di DC, PLI e PDL, tre lettere di protesta per le “violente accuse contro l’avv. Arnaldo Dello Sbarba”. Le tre lettere sono opera di una stessa mano: tra le carte private di Arnaldo se ne trova la minuta scritta con la sua inconfondibile calligrafia[21].

Il 27 dicembre arriva finalmente l’autodifesa di Arnaldo Dello Sbarba: “È venuta l’ora di gridare basta!” scrive l’accusato. “Il libello Borgna non è che la continuazione di quella caccia all’uomo, di marca squisitamente fascista, di cui sono vittima da vent’anni”[22]. Nella sua abile autodifesa Arnaldo sfrutta il vantaggio che ha, su avversari che conoscono poco della sua vera vita, per dire mezze verità – e pure qualche non verità – senza tema di smentita.
La tessera fascista ad esempio non la nega, ma la minimizza: “La conferì Ettore Muti a tutti gli ex combattenti” e lui, che non l’aveva chiesta, l’accettò. Ma “anche con quella bella tessera le diffidenze contro di me non cessarono”. E soprattutto: “nessuno mi ha mai visto né in montura, né in adunate, né in collaborazioni dirette o indirette”[23].
Arnaldo elenca invece con precisione “le persecuzioni fasciste” che ha patito: la devastazione di casa e l’ufficio sul Lungarno a Pisa; l’assedio a sua madre a Volterra; il divieto di esercitare la professione nella città della Torre pendente; l’incendio di un suo rifugio a Pietrasanta; l’aggressione degli squadristi della “banda Buffarini” alla stazione di Pisa; l’esilio a Roma; la vigilanza di polizia subita dal 1925 al 1929; il mandato di cattura spiccato dal prefetto repubblichino Adami nell’ottobre 1943 e infine la latitanza nella campagna senese.
Tutto vero. Ma sulle cruciali elezioni politiche del 1924, che segnarono la rottura del fascismo pisano con l’ex ministro, Arnaldo è molto più reticente. Scrive che i fascisti intransigenti gli impedirono “di far parte di quella lista di minoranza che la legge elettorale consentiva per i NON ADERENTI AL FASCISMO” (il maiuscolo è suo). E qui mente.
Gli archivi documentano tutt’altra verità. Raccontano cioè i tentativi da lui fatti per oltre un anno di ottenere una candidatura non di minoranza, ma direttamente nel “Listone” di Mussolini, con l’appoggio dello stesso Duce e del suo braccio destro Cesare Rossi, che elogiava “il suo contributo di affiancatore del movimento fascista in varie sue fasi”[24]. L’adesione a una lista di minoranza Arnaldo Dello Sbarba la considerò solo per qualche ora, il giorno in cui la sua candidatura coi fascisti saltò. Tentazione fugace e subito accantonata. A sera assicurò a Mussolini il suo pubblico appello a votare comunque la lista fascista come “mio disinteressato aiuto alla forte battaglia che Tu combatti con pugno sicuro”[25].

Anni ’30, Arnaldo Dello Sbarba avvocato d’affari a Roma

Sugli anni dell’esilio romano di Arnaldo, il CLN e l’opinione pubblica pisana erano ancora meno informati. L’odio fascista per Dello Sbarba era infatti concentrato a Pisa. A Roma poteva invece frequentare i palazzi del potere e diventare un avvocato d’affari di successo, salvo fare attenzione a mantenersi “indifferente” verso il regime, come segnalavano nel 1927 le autorità romane di polizia che lo sorvegliavano[26].
A proposito d’affari, dalle ricerche svolte presso l’Archivio centrale dello Stato di Roma sono emerse delle carte davvero sorprendenti. Nel 1926 Arnaldo Dello Sbarba entra in società addirittura con Marcello Piacentini, l’architetto di Mussolini, e Angelo Rossellini, grande impresario edile (e padre del futuro regista Roberto). I tre si uniscono nell’A.P.I.S. “Anonima Per le Industrie Stabili”, allo scopo di riedificare completamente l’area tra Piazza Barberini e Piazza S. Bernardo[27]. Per alcuni anni Arnaldo ha il suo studio di avvocato nella sede dell’A.P.I.S. in via S. Niccolò da Tolentino, in area Barberini. Piacentini – che presiede la società – si occupa di progettazione, Rossellini di costruzioni e Arnaldo di finanza, cioè di reperire i capitali necessari per realizzare le opere.
In questo Arnaldo ci sapeva fare, era versatile, efficiente, instancabile. Da ex Ministro al lavoro e alla previdenza sociale sapeva come attrarre gli investimenti dei grandi istituti di previdenza, delle banche pubbliche e para-pubbliche, delle assicurazioni sociali. Quello di Arnaldo era un ruolo chiave per Piacentini, diventato l’architetto prediletto dal Duce proprio per l’abilità con cui riusciva a portare a termine progetti smisurati.
Partiti i lavori nel 1926, Mussolini visitò il cantiere nel settembre del 1930 e – racconta Paolo Nicoloso nella sua biografia di Piacentini – ne rimase compiaciuto. Definì la nuova via Barberini “un’arteria di grande respiro”, ammirò “le linee architettoniche dei palazzi (…) e il nuovo cinematografo” che era stato da poco inaugurato e fu per l’epoca un’opera avveniristica[28].
Nel 1934 l’A.P.I.S. aveva già concluso la sua missione e Arnaldo ne era potuto uscire “con qualche cosa alla mano – scrisse al fratello Bruno – che vedrò come impiegare utilmente”[29].

Anni ’30, Arnaldo Dello Sbarba avvocato d’affari a Roma

Ma perfino a Pisa Arnaldo Dello Sbarba riuscì a operare nonostante l’esilio. San Giuliano Terme è un borgo termale appena fuori Pisa. Il 20 giugno del 1923, nello studio dell’avvocato Gino Sossi sul Lungarno Mediceo, venne fondata la società anonima “Regie Terme di San Giuliano” e firmato il contratto di gestione dei bagni per sessant’anni, un canone basso e l’impegno di forti investimenti. “Il perno della compagine societaria – scrive Mirella Scardozzi nella sua storia dei “Bagni di Pisa” – non era un imprenditore nel senso comune del termine, ma un personaggio politico di notevole rilievo locale e nazionale, l’avvocato Arnaldo Dello Sbarba”[30]. Come sappiamo, Sossi era cognato di Arnaldo e della società era socio anche il fratello Bruno.
Da Ministro alla previdenza, Arnaldo si era occupato intensamente di termalismo e per le “Regie Terme” il suo risiedere a Roma si rivelò vitale. Quando la crisi del 1929 farà crollare il turismo termale di lusso, sarà infatti grazie alle convenzioni con la Cassa Nazionale delle Assicurazioni Sociali che Arnaldo riuscirà a tappare i buchi nel bilancio. E quando neppure questo basterà, e le “Regie Terme”, a un passo dal fallimento, verranno accusate di inadempienza negli investimenti, sarà proprio all’Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale che Arnaldo riuscirà a vendere sia la società che gli stabilimenti – e non in una, ma in ben tre cessioni frazionate, l’ultima nel luglio 1939. Grazie a questo, scrive Mirella Scardozzi, “i 16 anni di vita della società non si rivelarono per i suoi azionisti così negativi come farebbero pensare i bilanci sempre in rosso”.

Ma torniamo al dicembre 1944 e al “libello Borgna”. Non fu la diatriba sul suo passato a far vincere Arnaldo Dello Sbarba, ma due semplici argomentazioni giuridiche della sua autodifesa. E cioè: primo, le regole istitutive dei CLN non prevedono “il diritto di sindacazione politica sulle persone delegate dai rispettivi partiti a rappresentarle”. E, secondo: il “Libello Borgna” è nullo, poiché approvato escludendo a priori una parte del CLN. Sulla questione il CLN provinciale vota infine il 29 dicembre 1944: “A maggioranza di voti si ammette l’on. Dello Sbarba in seno al CLN di Pisa”[31].
La decisione fa probabilmente parte di un unico pacchetto. Il giorno prima infatti era stato chiuso anche il conflitto sull’ospedale psichiatrico. Il prefetto Vincenzo Peruzzo era salito a Volterra e aveva negoziato col CLN un nuovo consiglio di amministrazione. Del vecchio erano rimasti in due, il presidente Mario Basile e Mario Giustarini. Tutti gli altri erano nuovi: l’ingegner Giovanni Salghetti Drioli, Emilio Vanni e un colonnello, Piero Ricci. La composizione era gradita al Prefetto, il commissario fu ritirato[32].
La questione politica invece restò aperta. Il CLN volterrano venne tartassato per mesi di domande dal CLN nazionale e dal governo Bonomi. Se la sua composizione fosse regolare, perché a Volterra PLI e PDL non fossero ammessi, quando e da chi fosse stato approvato il “Libello Borgna” e così via. I volterrani da accusatori erano diventati imputati[33].

La situazione precipita nell’aprile 1945. Il 10 il CLN di Volterra, a conclusione di una vasta raccolta di informazioni, vuole finalmente deliberare sull’epurazione degli ex fascisti. E comincia dall’assemblea dei soci della Cassa di Risparmio di Volterra. I democristiani propongono di delegare il compito alla Cassa stessa, ma la sinistra fa muro: “non è logico che gli epurandi possano decidere sulla loro stessa epurazione!”. La lista viene approvata, contiene 14 nomi, su 6 la DC vota contro. Ci sono cognomi che contano: Ciapetti, Guidi, Lagorio, Inghirami, Ginori. C’è anche Arnaldo Dello Sbarba – quella è la sua “banca di casa”. È un azzardo.
Il giorno dopo Borgna e compagni vengono convocati d’urgenza dal Governatore alleato. Si tratta delle misure contro gli ex fascisti. La seduta è drammatica. Riferendosi ad arresti di fascisti in zona, il governatore dice che “non si può trattenere una persona verso la quale non vi siano denunce specifiche”. Borgna ribatte: “i maggiormente responsabili ed in special modo i sovvenzionatori ed i sostenitori del fascismo” hanno sempre agito nell’ombra. Coi criteri del Governatore “non potranno mai essere arrestati né colpiti“. Il Governatore non cede. Cede il CLN, riservandosi di raccogliere denunce più circonstanziate e intanto di spiegare alla popolazione “la ragione dei mancati arresti”[34].
Ma non basta. In base a due successive circolari del CLN provinciale, il CLN di Volterra prima è costretto ad accogliere il PLI, poi a fare marcia indietro sull’epurazione. Va delegata agli enti interessati: proprio quel che pochi giorni prima era stato giudicato “illogico”.
Alla fine – ed è il 24 aprile, proprio alla vigilia della Liberazione – Umberto Borgna si dimette dal CLN. Si dimettono anche Amedeo Meini, il sindaco, e Mario Basile, il presidente dell’ospedale. Formalmente perché l’ennesima circolare da Pisa vieta il cumulo delle cariche.
Ma la realtà è diversa. Umberto Borgna mette a verbale una sua emozionata dichiarazione. “Lascio il CLN con molto dolore – dice Borgna – non voglio né posso continuare la lotta sleale fatta di questioni personali, di piccole, grette ambizioni. Non sono uomo politico. Rimpiango il lungo e snervante periodo della lotta clandestina. Lo rimpiango per quello spirito di fraternità che tutti ci animava”. Ribadisce che per lui, azionista, i CLN sono “la base della futura politica italiana, la più pura espressione del popolo antifascista, del popolo italiano di domani”. Un popolo “che ha veramente sofferto e che è buono e deve essere aiutato, amato, sorretto nella dura lotta di ricostruzione materiale e morale”.
Quella di Borgna non è però una rinuncia: “Ho altre responsabilità cittadine – dichiara – alle quali debbo doverosamente portare tutto il mio massimo contributo”. Intende innanzitutto la giunta comunale, di cui è il vicesindaco. La scelta è lungimirante. Sarà infatti proprio attraverso le istituzioni cittadine che, negli anni a venire, potranno fruttificare le istanze antifasciste, con il partigiano comunista Mario Giustarini sindaco amatissimo di Volterra per ben 34 anni, dal 1946 al 1980[35].

Anni ’50, Arnaldo Dello Sbarba a Pisa

Ma nell’aprile del 1945 nemmeno l’uscita di Borgna basta a calmare le acque attorno al CLN volterrano. Tra il maggio e il giugno 1945 Tito Cangini, presidente del tribunale di Pisa, accusa «Volterra Libera» di parlare di “magistratura reazionaria”. Cangini respinge “le ingiurie di questo fogliuccio volterrano” e annuncia querele contro “il professor Cassola” se non viene sconfessato. A luglio il CLN provinciale sconfessa Cassola e “deplora l’attacco di Volterra Libera contro la magistratura”[36].
La guerra a mezzo stampa contro «Volterra Libera» e il CLN riprende in agosto con l’uscita del «Il Porcellino», quindicinale ispirato, finanziato e in parte scritto da Arnaldo Dello Sbarba. Nelle carte private di Arnaldo si trovano lunghi manoscritti su presunte malversazioni del “trio Borgna-Meini-Salghetti”. Uno è indirizzato al prefetto Peruzzo. Non si sa se gliel’abbia spedito[37].
In parallelo l’ascesa di Arnaldo Dello Sbarba continua. Il 25 novembre 1945 viene designato a Roma nella “Commissione di studio per la riorganizzazione dello Stato”, organo della “Consulta nazionale” che fa da parlamento provvisorio. Lì ritrova l’amico prefetto Adalberto Berruti, che per la commissione lavora.
Il 18 aprile 1946 Arnaldo passa da commissario a presidente regolarmente eletto della Cassa di Risparmio di Pisa. Lo rimarrà fino alla fine del 1951. Di qui alla sua morte (1958) diventerà anche presidente dell’ACI, della Croce Rossa, del Gioco del Ponte, degli Istituti riuniti di ricovero ed educazione di Pisa, della Domus Galileiana, del Credito Agrario[38].

Il 2 giugno 1946 viene proclamata la Repubblica. I CLN vengono sciolti, ma la loro esperienza si è logorata da tempo. In seguito al conflitto su epurazione e ruolo dei CLN, tra il dicembre 1944 e il giugno 1945 ha governato a Roma per sette mesi un “Bonomi ter” da cui socialisti e Partito d’azione sono rimasti polemicamente fuori. Sono gli stessi sette mesi in cui si è consumata la resa di conti tra Arnaldo Dello Sbarba e il CLN volterrano.
Siamo all’epilogo. Il 31 luglio 1946 il prefetto Adalberto Berruti lascia il Ministero degli interni. Due mesi dopo anche il prefetto Vincenzo Peruzzo lascia Pisa. Arnaldo gli dedica un pubblico saluto: “Fu il prefetto che fece concorde la nostra discordia“. Missione compiuta.

NOTE

[1] Per questo articolo sono stati consultati i seguenti archivi: Archivio della Biblioteca Guarnacci di Volterra, Fondo A. Dello Sbarba, (d’ora in poi BGV/FAdS); Archivio storico postunitario del comune di Volterra, Fascicolo CLN-Verbali delle adunanze (d’ora in poi ASCV-Postunitario); Archivio di Stato di Pisa, Fondo Comitato di Liberazione Nazionale (d’ora in poi ASPi/CLN); Archivio centrale dello Stato di Roma, Fondo Dello Sbarba Arnaldo (d’ora in poi ACS/FAdS); Ivi, Casellario Politico Centrale, b. 1695 Dello Sbarba Arnaldo, (d’ora in poi ACS/CPC); Archivi privati di famiglia (d’ora in poi AP/AdS). Ringrazio la forte squadra di amici di Volterra per l’infaticabile aiuto: Danilo Cucini, Gian Paolo Debidda e Giovanni Tamburini dell’ANPI; Silvia Trovato, archivista del comune e Elena Dello Sbarba, custode delle memorie familiari.

[2]      ASPi/CLN, Verbale 31 agosto 1944.

[3]      Cfr. C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello stato, Torino, Bollati Boringhieri, 1995. In particolare i cap. 2 e 3. Sullo sfondo storico: C. Pavone, Una guerra civile, Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Borignhieri, 1991. Sulla continuità dello Stato e degli apparati militari: D. Conti, Gli uomini di Mussolini: prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana, Torino, Einaudi, 2017.

[4]      ASPi/CLN, “È venuta l’ora di gridare basta!”, prot. 1000/2-A, 30 dicembre 1944.

[5]      BGV/FAdS, Memoria di Adalberto Berruti per Arnaldo Dello Sbarba, 6 giugno 1948.

[6]      BGV/FAdS, Cartolina di  Adalberto Berruti, 22 agosto 1943.

[7]      Cfr. L’ombra del potere. Biografie di capi di gabinetto e degli uffici legislativi, a cura di G. Tosatti, Società per gli studi di storia delle istituzioni, 2016,  pp. 33-35.

[8]      Per tutte le citazioni del prefetto Peruzzo cfr. Vincenzo Peruzzo, ricordi del primo prefetto di Pisa dopo la Liberazione, a cura di C. Forti, Pisa, Pacini, 2012.

[9]      Cfr. C. Forti, Dopoguerra in provincia, microstorie pisane e lucchesi, 1944-1948, Milano, F. Angeli, 2007, pp. 100-112.

[10]      Cfr. Cangini Tito, in Dizionario di Volterra, a cura di L. Lagorio, Pisa, Pacini, 1984, pp. 926-927.

[11]      Cfr. C. Forti, Dopoguerra in provincia, microstorie pisane e lucchesi, 1944-1948, cit., pp. 72-79. Nel saggio sono riportati i seguenti dati: Il campo di Coltano passò all’amministrazione italiana il 28 agosto 1945. Ospitava 32.229 internati. Il 27 settembre 1945 cominciarono gli interrogatori, che si conclusero il 29 ottobre. Circa 30.000 internati furono subito liberati e 2.700 trattenuti, ma parecchi fuggirono o, trasferiti in un campo presso Arezzo, furono presto liberati. 313 furono prelevati dalle Questure competenti, 45 ufficiali dell’esercito furono trasferiti al Forte Boccea a Roma e 187 ufficiali di Marina al campo di Narni.

[12]      Cfr. Il Tirreno, 25 maggio 1945.

[13]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza del 14 luglio 1944, n. 7. Il “Libro dei verbali del CLN di Volterra, dal 9 luglio 1944 al 4 settembre 1945” è stato conservato da Luigi Riondino e donato all’Archivio del Comune di Volterra il 9 luglio 2024, in occasione dell’80° anniversario della Liberazione della città.

[14]      Cfr. V. Fiorino, Le officine della follia, Il frenocomio di Volterra, Pisa, ETS, 2011.

[15]      BGV/FAdS, Lettera Dc, PLI e PDL del 13 novembre 1944.

[16]      ASPi, Gabinetto del prefetto, Decreto 6973, div. 2/2, del 23 novembre 1944.

[17]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 26 novembre 1944, n. 17.

[18]      ASPi/CLN, b. 1 f. 5, Attività e posizione politica dell’avv. Arnaldo Dello Sbarba, Memoriale del 4 dicembre 1944 del CLN volterrano al CPLN e p.c. al CTLN.

[19]      AP/AdS, A. Fratini, Appunti per una storia del socialismo volterrano, esemplare originale dattiloscritto dell’autore, pp. 58-59.

[20]      Cfr. «Il Corazziere», nn. 1° e 14 maggio 1921.

[21]      BGV/FAdS, Lettere del 23 dicembre 1944 della Dc, del PLI e del PDL e minuta manoscritta non datata.

[22]      ASPi/CLN, “È venuta l’ora di gridare basta!”, cit.

[23]      In BGV/FAdS: Arnaldo Dello Sbarba torna sulla vicenda in una autobiografia in terza persona scritta nel 1948: “Venuto segretario del partito fascista Ettore Muti, il quale dichiarò che la rivoluzione fascista era finita e bisognava rientrare nella costituzionalità e nella legalità, fece appello all’associazione combattenti a collaborare con la di lui opera; molti amici della provincia di Pisa fecero premura all’onorevole Dello Sbarba, ex combattente iscritto, di esaminare se non fosse dovere civico e patriottico di non estraniarsi dall’assecondare il richiamo del Muti. Si recarono a Roma per avere un colloquio con Muti ed avutolo per due volte a distanza in una sala dell’hotel Moderno, Muti confermò le promesse dichiarando che se queste non si fossero verificate egli avrebbe lasciato la sua carica. Scongiurò i combattenti di non fare un secondo Aventino. Allora fu deciso di accogliere l’invito tanto quanto bastava per rendere possibile un’eventuale futura collaborazione per cui fu accettata la tessera. Ma rimasero nell’attesa. Questa tessera è rimasta lettera morta, l’onorevole Dello Sbarba e gli altri rimasero in disparte e in silenzio, delusi ed umiliati di essere stati così ingenui da credere non a Muti, il quale in realtà se ne andò, ma alla possibilità che il fascismo si trasformasse”.

[24]      BGV/FAdS, Lettera di Cesare Rossi al senatore Ginori Conti del 9 dicembre 1923.

[25]      BGV/FAdS, Lettera di Arnaldo Dello Sbarba a Benito Mussolini del 20 febbraio 1924. Sulle lotte interne al fascismo pisano e la tentata candidatura di Arnaldo Dello Sbarba nel “Listone” fascista del 1924, cfr. R. Dello Sbarba, Arnaldo Dello Sbarba: anatomia di una caduta, in «ToscanaNovecento», portale di storia contemporanea. https://www.toscananovecento.it/custom_type/arnaldo-dello-sbarba-anatomia-duna-caduta/?print=print

[26]      Cfr ACS/CPC, Segnalazione del 7 luglio 1927 del Prefetto di Roma Paolo D’Ancona al Ministero dell’Interno, Direzione generale di P.S., Divisione affari generali e riservati: “Pregioimi comunicare che l’ex deputato Dello Sbarba avv. Arnaldo abitante in via Viminale 43 e con studio in via Pie’ di Marmo 18, da vari anni non risulta che esplichi alcuna attività politica e serba regolare condotta. Nei riguardi dell’attuale regime fascista dimostrasi indifferente”.

[27]      Cfr. ACS, Guida Monaci, Guida commerciale, scientifica e artistica della città di Roma, aa. dal 1926 al 1946.

[28]      Cfr. P. Nicoloso, Marcello Piacentini. Architettura e potere: una biografia, Udine, Gaspari, 2018, pp. 121-122.

[29]      BGV/FAdS, Lettera di Arnaldo al fratello Bruno Dello Sbarba del 16 aprile 1933.

[30]      Cfr. M. Scardozzi, Un paese intorno alle terme, da Bagni di Pisa a San Giuliano Terme, 1742-1935, Pisa, ETS, 2014.

[31]      ASPi/CLN, Verbale della seduta del 29 dicembre 1944.

[32]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 28 dicembre 1944, n. 20.

[33]      ASPi/CLN, Corrispondenza tra CPLN, CCLN, CLN Volterra, Gabinetto governo Bonomi, Uffici centrali e periferici di PLI e PDL, tra il 1° gennaio e il 30 marzo 1945.

[34]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 11 aprile 1945, n. 21.

[35]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 24.04.45, n. 32. Su Mario Giustarini si v. M. Bacchiet, Giustarini Mario, in Dizionario biografico online delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa, Biblioteca Franco Serantini, Istituto di storia sociale, della Resistenza e dell’età contemporanea. https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16112-giustarini-mario?i=10

[36]      ASPi/CLN, Corrispondenza tra CPLN e Tito Cangini dal 15 maggio 1945 al 29 luglio 1945.

[37]      BGV/FAdS, diverse memorie stilate da Arnaldo Dello Sbarba tra il 1944 e il 1945, tra cui un intero “Blocco di appunti”.

[38]          Cfr. E. Dello Sbarba e S. Trovato, Inventario dell’archivio di Arnaldo Dello Sbarba, «Rassegna volterrana», a. 90, 2013.




L’odissea della famiglia Nasibù

Ad oltre vent’anni dall’ultima impresa coloniale compiuta da un paese europeo, il 3 ottobre 1935 le armate italiane invasero l’Etiopia, violando l’indipendenza dell’unico stato africano riuscito a scampare al colonialismo europeo di fine Ottocento e inizio Novecento. Intenzionato a voler raggiungere un successo che gli avrebbe garantito di poter accrescere il consenso interno ed affermare internazionalmente l’immagine del paese, Mussolini mise in piedi un apparato bellico che non aveva precedenti nella storia dell’espansionismo occidentale: nel corso del conflitto venne inviato in Etiopia oltre mezzo milione di soldati coadiuvati nella loro azione dalla presenza di numerosi mezzi motorizzati e dal sostegno dell’aviazione e dell’artiglieria. Malgrado l’evidente vantaggio nei confronti dell’avversario gli italiani riuscirono a rendersi protagonisti di terribili episodi, come l’utilizzo di armi internazionalmente proibite come l’iprite o di deliberate violenze nei confronti dei civili. Nel giro di sette mesi l’esercito dell’imperatore Hailé Selassié venne annientato dalla travolgente superiorità delle forze messe in campo da Mussolini; grazie a tale vantaggio gli uomini guidati da Badoglio riuscirono a sconfiggere l’esercito etiope dopo una serie di battaglie campali che si combatterono nella prima metà del 1936[1].

Con l’ingresso ad Addis Abeba il 5 maggio 1936 e la successiva proclamazione dell’impero, il regime dichiarò ufficialmente concluso il conflitto italo-etiopico. La fuga dell’imperatore e l’entrata dell’esercito italiano nella capitale avevano fornito a Mussolini la possibilità di poter dichiarare formalmente conclusa la guerra. Tuttavia la fine delle ostilità era lontana, sia perché erano ancora presenti nel paese numerosi soldati sopravvissuti al conflitto, sia perché ampie porzioni del territorio rimanevano ancora inesplorate considerata la celerità con la quale Badoglio e Graziani avevano proceduto verso Addis Abeba. Tale incertezza non si limitò al periodo immediatamente successivo alla conquista, ma si protrasse per l’intero arco della presenza italiana in Etiopia fino all’abbandono della colonia nel 1941[2].

Fra i militari etiopi il degiac[3] Nasibù Zamanuel, comandante in capo delle forze armate del fronte sud, fu certamente il generale che si distinse maggiormente nel corso del conflitto. Rispetto agli altri graduati di rango elevato il degiac era stato l’unico fra i generali ad esser stato nominato da Hailé Selassié per le sue capacità militari e per le doti che aveva evidenziato nel corso della sua carriera politica come console ad Asmara, Governatore di Addis Abeba e direttore del Ministero della guerra. Pur disponendo di un numero inferiore di soldati e di armamenti obsoleti, Nasibù riuscì a tener testa alle truppe guidate da Rodolfo Graziani, responsabile italiano delle operazioni sul fronte sud. Oltre allo svantaggio numerico e tecnologico il generale dovette fronteggiare le modalità di combattimento adottate dal comandante italiano che prima di compiere un’avanzata era solito bombardare le posizioni nemiche per poi irrorarle di iprite, ma, nonostante ciò, gli uomini guidati da Nasibù Zamanuel riuscirono a rallentare l’avanzata delle truppe italiane.

A pochi giorni dalla conclusione del conflitto, il generale raggiunse l’imperatore a Gibuti per accompagnarlo nel suo esilio europeo. Sfortunatamente nel corso della guerra i gas utilizzati da Graziani avevano causato danni irreparabili ai polmoni di Nasibù, che si spense in una clinica svizzera il 16 ottobre 1936. Poco prima di morire il degiac recò l’ultimo servigio ad Hailé Selassié, preparando il famoso discorso che l’imperatore tenne alla Società delle Nazioni per denunciare l’aggressione fascista ad uno stato indipendente: “Rappresentanti del mondo, sono venuto a Ginevra per adempiere, presso di voi, al più ingrato fra i doveri di un capo di Stato. Quale risposta dovrò riferire al mio Popolo?”[4].

 

Atzede Babitcheff e il degiac Nasibù Zamanuel pochi mesi dopo il loro matrimonio

 

La notizia della scomparsa raggiunse la famiglia che era rimasta in Etiopia. La perdita del capofamiglia gettò nello sconforto i suoi cari, aumentando l’incertezza che ormai da tempo accompagnava la loro esistenza. Malgrado il lutto la vedova Atzede Babitcheff reagì con sorprendente lucidità e con una forte dose di coraggio; intimorita dalle inquietanti notizie riguardanti le violenze compiute ai danni dei civili, decise di giocare d’anticipo e di chiedere a Graziani il trasferimento in Italia della famiglia. Oltre alla paura per le potenziali ripercussioni che i figli avrebbero potuto subire, in quanto membri di una famiglia che si era apertamente opposta all’invasione, Atzede era spinta dalla volontà di voler garantire loro un’adeguata educazione e un ambiente consono alla loro crescita. Graziani acconsentì favorevolmente alla proposta, ben lieto di poter allontanare dalla colonia una famiglia che un giorno avrebbe potuto congiurare contro l’Italia o costituire un punto di appoggio per i ribelli, ed approvò perfino la richiesta di Atzede di poter ricevere mensilmente i soldi provenienti dall’affitto della residenza familiare, che sarebbero risultati fondamentali per il pagamento dell’istruzione dei figli[5].

 

Atzede Babitcheff insieme alle figlie Martha e Amaretch

 

Il trasferimento in Italia dei Nasibù non rappresentò però un caso isolato, ma fu l’anticipazione di un fenomeno che nei mesi successivi avrebbe assunto dimensioni maggiori. Inseguito all’attentato compiuto nel febbraio 1937 ai danni di Graziani, divenuto nel frattempo la principale carica presente in colonia, vennero deportati nella penisola circa 400 etiopi appartenenti alla nobiltà e alla classe dirigente. Le autorità coloniali decisero di allontanare dal paese gli elementi ritenuti politicamente più pericolosi con l’intento di fiaccare la lotta armata privandola del potenziale sostegno delle figure più eminenti del paese. Deportati dal marzo 1937 i confinati vennero inizialmente trasferiti nell’isola dell’Asinara (Sassari) per poi essere successivamente destinati in altre località della penisola a seconda del loro livello di pericolosità: gli “irriducibili” vennero condotti a Longobucco (Cosenza) dove furono soggetti ad un regime detentivo più duro e severo, mentre coloro che erano considerati maggiormente collaborativi vennero trasferiti a Tivoli e Mercogliano (Avellino), in cui poterono usufruire di un trattamento meno rigido. Generalmente la presenza in Italia dei confinati non si estese a lungo e la maggioranza di essi poté rientrare in patria dall’estate del 1938, eccetto gli etiopi considerati pericolosi che tornarono nel loro paese solamente alla fine del 1943[6].

Per diverse ragioni la storia della famiglia Nasibù non può essere accostata alla vicenda degli altri confinati presenti in Italia, rappresentando semmai una singolare anomalia. In primo luogo, il trasferimento in Italia dei familiari del defunto degiac non fu un’imposizione delle autorità coloniali, ma fu una decisione seguita alla proposta di Atzede Babitcheff di voler allontanare i propri figli dalla spirale di violenza che aveva invaso il paese. In secondo luogo, rispetto agli altri confinati, i Nasibù vennero trasferiti da un luogo all’altro del paese senza che vi fosse un’apparente motivazione dietro a tali spostamenti, ma piuttosto la volontà di voler infierire su un gruppo di persone ormai divenute innocue. Nel corso di otto anni la famiglia affrontò numerosi spostamenti che la portarono nelle più disparate località, dal caos di Napoli alla pace delle Dolomiti, dal capoluogo toscano alla campagna aretina, giungendo persino per qualche breve periodo a Tripoli e Rodi.

Il 5 dicembre 1936 la famiglia salpò da Gibuti in direzione dell’Italia[7]. A bordo della nave ebbero modo di familiarizzare con alcuni aspetti che avrebbero caratterizzato il loro confino, come la presenza degli agenti di sicurezza che ironicamente chiamavano “angeli custodi” e l’impossibilità di potersi avvicinare ai passeggeri italiani. Dopo poco più di una settimana di viaggio giunsero a Napoli dove vennero sistemati in un appartamento sul lungomare di via Caracciolo. La permanenza nel capoluogo campano non durò a lungo visto che dopo appena due mesi la famiglia venne inspiegabilmente trasferita in Libia, per poi essere nuovamente riportata in Italia.

 

I figli di Nasibù fotografati a Napoli. Da sinistra: in alto un amichetto italiano e Fassil; in basso Amaretch, Brahanou e Martha

 

Amaretch, Brahanou e Martha affacciati sul balcone dell’appartamento in via Caracciolo a Napoli

 

Nei primi tre anni di confino i Nasibù vennero spostati in rapida sequenza da un luogo all’altro, subendo complessivamente sette trasferimenti (Napoli – Tripoli – Napoli- Rodi – Napoli – Tripoli – Vigo di Fassa)[8].

Alla fine dell’estate del 1940 la famiglia ottenne l’autorizzazione per essere trasferita da Vigo di Fassa a Firenze. Arrivati nel capoluogo toscano poterono ricongiungersi con lo zio Vittorio, che nel frattempo era giunto in Toscana con qualche mese d’anticipo, trovando ospitalità presso i Solari, e grazie all’aiuto di questa nobile famiglia fiorentina trovarono una sistemazione in un appartamento di via Borgo Pinti 92. Poco dopo il loro arrivo a Firenze iniziarono i primi segnali dell’entrata in guerra, come il coprifuoco e il razionamento dei beni alimentari[9].

Dopo che la famiglia trovò sistemazione, Atzede si premurò di garantire ai propri figli la possibilità di poter proseguire gli studi: Martha e la sorella vennero iscritte all’internato del Sacro Cuore, che già avevano avuto modo di frequentare durante il confino napoletano, mentre Fassil venne ammesso per il tempo necessario a sostenere gli esami di riparazione come esterno al collegio Cicognini di Prato, dopo esser stato rifiutato dal Liceo Michelangelo di Firenze per motivi razziali. Secondo quanto affermato da Martha, durante la breve presenza al Cicognini, il fratello fu protagonista di un episodio che rischiò di compromettere ulteriormente la già precaria posizione della famiglia: chiamato in modo irriguardoso e volontariamente discriminatorio da parte di un professore, il giovane etiope aggredì fisicamente quest’ultimo incappando in una denuncia e nell’espulsione dalla scuola. Fortunatamente l’incidente non provocò nessun provvedimento, risolvendosi con il richiamo da parte del Federale di Firenze affinché un caso del genere non si ripetesse[10].

L’istruzione dei figli era per la signora Atzede di primaria importanza e lungo tutta la loro tormentata permanenza nella penisola – dal 1936 fino al 1945 – si impegnò costantemente nella ricerca di scuole che accettassero i propri figli: «La mamma, ovunque si andasse, ci iscriveva a nuove scuole». Ma a causa delle leggi razziali tale intenzione si rivelò particolarmente difficoltosa, se non impossibile da realizzare nelle scuole pubbliche, mentre Atzede riuscì a far ricevere un’educazione ai propri figli negli istituti religiosi. È probabile che in questo caso il regime chiudesse un occhio, e come ipotizzato da alcuni studiosi, il Pontificio collegio etiopico e padre Gaudenzio Barlassina, un missionario italiano che aveva operato in Etiopia per diversi anni, si fossero impegnati in favore della famiglia e avessero contattato le scuole religiose per favorire la loro iscrizione.

Il 5 maggio 1941, cinque anni dopo l’ingresso di Badoglio ad Addis Abeba, l’imperatore Hailé Selassié poté ritornare nella capitale dopo aver sconfitto, grazie al supporto degli inglesi, le ultime forze italiane presenti sul territorio. La perdita dell’Etiopia determinò un generale allentamento delle misure restrittive nei confronti di tutti i confinati etiopi presenti nella penisola: Atzede, ad esempio, doveva recarsi a segnalare la propria presenza in Questura solamente una volta alla settimana, mentre i confinati considerati più pericolosi iniziarono ad avere maggior libertà di movimento[11]. Ma il caos seguito all’allontanamento degli italiani comportò l’interruzione del pagamento degli affitti delle case appartenute al defunto degiac, denaro destinato al pagamento delle rette delle scuole che Amaretch, Martha, Fassil e Brahanou frequentavano. Così Atzede si trovò costretta a dover fronteggiare una situazione complicata: prima decise di vendere i pochi gioielli che ancora possedeva, dopodiché scelse di iscrivere i figli a scuole meno costose, le ragazze iniziarono ad andare dalle suore di Santa Reparata, mentre i ragazzi frequentarono il Collegio Cavour[12].

Malgrado questi accorgimenti la situazione economica non migliorava e dopo varie sollecitazioni di Atzede, il 14 novembre 1941, il Ministero dell’Africa Italiana (MAI) approvò lo stanziamento di 2.000 lire mensili per il sostentamento dei Nasibù, ma era una cifra ancora troppo bassa per la sopravvivenza di una numerosa famiglia costretta a dover fare i conti con il caroprezzi dovuto alla guerra. Più il conflitto si prolungava e maggiori divenivano le difficoltà che erano costretti ad affrontare, ma Atzede non si diede per vinta e continuò a scrivere alle più alte cariche fasciste, finché un giorno il Prefetto di Firenze si attivò in loro favore facendo salire il sussidio mensile a 4.000 lire. E non appena la signora Babitcheff poté ritirare il denaro lo stanziò immediatamente all’istruzione dei propri figli iscrivendo i ragazzi al collegio Domengi Rossi e le ragazze al Sacro Cuore[13].

Nell’estate del 1942 l’intensificarsi dei bombardamenti portò Atzede ad optare per un temporaneo trasferimento della famiglia nella campagna toscana. Analogamente a molti italiani che abitavano in importanti città della penisola, i Nasibù decisero di abbandonare Firenze e di sfollare a San Giustino, un piccolo paese nella provincia di Arezzo. Il cambio di località si rivelò ideale, catapultando la famiglia in uno scenario ancora lontano dagli effetti della guerra. Se nel capoluogo toscano il passaggio degli aerei era sinonimo di bombardamenti e di terrore, nella campagna aretina la loro comparsa provocava l’effetto opposto, costituendo una fonte di curiosità e di divertimento per la popolazione del piccolo borgo. Al rombo dei motori gli abitanti erano soliti precipitarsi fuori dalle loro abitazioni ipotizzando verso quali mete fossero diretti, mentre i più piccoli, affascinati da quegli oggetti di metallo che sfrecciavano fra le nuvole, esplodevano in grida d’emozione e canti sfrenati. Nel periodo di permanenza nel piccolo paese i Nasibù poterono constatare che, rispetto alle grandi realtà urbane come Firenze e Napoli, nelle campagne la popolazione era caratterizzata da una maggiore spontaneità e dall’assenza di pregiudizi: gli abitanti del borgo aiutarono in diverse occasioni i nuovi arrivati, mentre i ragazzi non faticarono a crearsi una rete di amicizie, inserendosi rapidamente tra i loro coetanei[14].

Sebbene la vita a San Giustino procedesse tranquillamente e non fosse ancora turbata dalla presenza della guerra, l’istruzione continuò a ricoprire per Atzede un ruolo cruciale, rappresentando il motivo principale dei loro spostamenti, cosicché i Nasibù tornarono dopo pochi mesi ad abitare in quell’appartamento di via Borgo Pinti a Firenze. Il secondo soggiorno fiorentino, dalla fine del 1942 all’autunno dell’anno successivo, rappresentò uno dei periodi più complicati della loro permanenza in Italia, a causa della fame e degli stenti che la famiglia era ormai costretta a subire giornalmente. In questa situazione Atzede mise da parte l’educazione dei figli e pose naturalmente al primo posto il loro sostentamento e il loro benessere fisico. Agli inizi del 1943 la vedova riuscì ad ottenere dal Prefetto di Firenze il trasferimento per la seconda volta nelle Dolomiti, luogo indubbiamente più tranquillo per la crescita spensierata dei ragazzi lontano dai venti di guerra e soprattutto luogo in cui non si pativa la fame.

Alla notizia della liberazione di Roma (4 giugno 1944) Atzede con i propri figli partirono immediatamente verso Firenze, certi che di lì a poco anche il capoluogo toscano sarebbe stato liberato.

Giunti a Firenze, dopo un viaggio non privo di incidenti con il convoglio costretto a fermarsi a causa dei bombardamenti, i Nasibù ebbero la sorpresa di trovare il loro appartamento di via Borgo Pinti occupato da famiglie di sfollati. Privi di un’abitazione vennero indirizzati verso una casa in via Atto Vannucci, vicino all’attuale Stazione ferroviaria in via dello Statuto. L’appartamento era ampio e spazioso, ma dopo pochi giorni dalla loro sistemazione scoprirono che il quartiere era in gran parte abbandonato per la presenza nelle vicinanze di un deposito di munizioni, obbiettivo di possibili bombardamenti. Colta dal panico la famiglia si rifugiò nella casa degli amici Solari in via del Sole.

Dopo la liberazione di Firenze i Nasibù si spostarono a Roma intenzionati a far ritorno in Etiopia. L’arrivo nella capitale sancì la conclusione delle loro tribolazioni, “finalmente la vita si riprendeva i suoi diritti sulla morte, la gioia sulla tristezza, l’entusiasmo sull’afflizione. Liberi da ogni tipo di vigilanza, liberi di vivere come ci piaceva, eravamo sommersi dall’eccitazione[15]. In un turbinio di emozioni la famiglia passò nel giro di pochi giorni dalle sirene che preannunciavano i bombardamenti alla possibilità di poter essere ricevuta dal principe Umberto di Savoia e da papa Pio XII.

Dopo un breve periodo a Roma gli etiopi vennero trasportati insieme ad altri rifugiati al campo di concentramento di Bari, da dove salparono nel gennaio 1945 in direzione di Port Said. E dopo una breve permanenza in Egitto la famiglia intraprese l’ultima tappa del viaggio giungendo ad Addis Abeba nell’aprile 1945, otto anni dopo la partenza da Gibuti.

Con la sua scelta coraggiosa Atzede era riuscita a proteggere i suoi figli e in qualche modo a far sì che non interrompessero il loro percorso di crescita sul piano dell’istruzione.

 

Note:

[1] Cfr. A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. La conquista dell’Impero, Laterza, Roma-Bari 1979.

[2] Cfr. M. Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1935-1941, Laterza, Roma-Bari 2008.

[3] Titolo nobiliare etiope corrispondente a quello di conte.

[4] Citato in A. Del Boca, Il negus. Vita e morte dell’ultimo re dei re, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 179.

[5] M. Nasibù, Memorie di una principessa etiope, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 13-14.

[6] Cfr. P. Borruso, L’Africa al confino. La deportazione etiopica in Italia (1937-39), Lacaita, Manduria-Bari 2004.

[7] Il gruppo era composto da undici elementi, la vedova Atzede, i cinque figli Fassil, Amaretch, Brahanou, Martha e Theodros, il nonno materno Ivan e i suoi figli Haregue, Helena e Vittorio ed infine la governante Enkoyé.

[8] M. Nasibù, Memorie di una principessa etiope, cit., pp.146-147.

[9] Ivi, p. 184.

[10] Ivi, pp. 185-187.

[11] G. Ferraro, Una liberazione “diversa” e le lettere “amhariche” degli anni di confino dei deportati etiopi, in «Rivista Calabrese di Storia del ‘900», n. 2, 2013, pp. 240-242.

[12] M. Nasibù, Memorie di una principessa etiope, cit., pp. 189-190.

[13] Ivi, pp. 195-196.

[14] Ivi, pp. 197-201.

[15] Ivi, p. 222.

 

Articolo pubblicato nel maggio 2025.




Guerra fascista e crisi di regime: la provincia di Pistoia tra il 1940 e il 1943

Il presente lavoro, tratto dalla tesi di laurea magistrale dell’autore, cerca di indagare come la guerra fascista (1940-1943), anche a livello locale, abbia contribuito ad alimentare quella crisi che il regime fascista si trovava a vivere da qualche anno prima dell’inizio della guerra, avvenuta attraverso il fallimento e l’incapacità di gestire tutti i problemi sociali riguardanti il fronte interno. Come campo di analisi è stata scelta la provincia di Pistoia. Lo studio di come la società italiana abbia reagito all’entrata in guerra, voluta fortemente dall’ideologia imperialista e bellicista del regime fascista, il quale però stava trascinando in un conflitto devastante un paese che non aveva preparato né sul fronte esterno né nel fronte interno, ci permette di comprendere meglio gli anni della guerra fascista e di capire come quel regime, che per venti anni aveva controllato totalmente il paese e che nella guerra aveva posto il suo fondamento, sia potuto nel giro di soli tre anni cadere sotto il peso del proprio fallimento.  La ricerca archivistica si è svolta principalmente all’Archivio di Stato di Pistoia nel fondo Sottoprefettura poi Prefettura di Pistoia: archivio di Gabinetto 1861-1944 che conserva una numerosa documentazione del periodo richiesto, con notizie provenienti da tutta la provincia di Pistoia dato che tutte le amministrazioni comunali dovevano fare riferimento al capo della provincia, come viene denominato durante la RSI, il prefetto.

Per comprendere meglio quanto detto finora è opportuno partire da un’analisi di cosa è stato il regime fascista a Pistoia e soprattutto durante la guerra. Partiamo col riassumere brevemente che il fascismo pistoiese, a differenza del panorama toscano, non ha saputo esprimere figure forti che incarnassero l’ideologia fascista del capo forte al comando e in particolare, dopo la morte del primo federale di Pistoia Leopoldo Bozzi, la provincia e i suoi organi di comando (federazione provinciale del PNF e prefettura) sono diventati un semplice trampolino di lancio per dirigenti fascisti verso cariche e province più ambite. Detto questo, la federazione provinciale del PNF non mancò di portare avanti la causa bellica del regime attraverso una martellante propaganda grazie al giornale della federazione pistoiese del PNF «Il Ferruccio».  In esso si possono trovare tra il ’40-’43 miriadi di articoli che si incastrano perfettamente nelle direttive del regime sulla gestione della stampa e che cambiano con l’evolversi del conflitto: troviamo nell’estate del 1941 una rubrica che rispecchia la propaganda antisovietica del regime chiamata «Taccuino antibolscevico» uscito in supporto dell’invasione italiana dell’Urss. Non mancano gli articoli anche in supporto del fronte interno che si basano per la maggior parte su esempi di vita quotidiana o di chi dona qualcosa in supporto della guerra o dei soldati stessi le cui lettere vengono ripubblicate sul giornale. Interessanti sono anche gli articoli in cui al posto di consigli pratici su come aiutare i cittadini a superare la crisi alimentare in corso, si elogiano le donne italiane e la loro amministrazione parsimoniosa della casa.[1]

Una lettura completamente diversa da quella dei giornali fascisti ci arriva dalle relazioni delle autorità sullo “spirito pubblico”. Se in un primo momento vediamo la popolazione che cerca di sopperire alle difficoltà dovute al conflitto (carenza alimentare in primis), già nel 1941 vediamo come sia Carabinieri che Questura trovassero nella popolazione un senso di stanchezza dovuto al fatto che il paese fosse in uno stato di guerra continua dalla guerra in Etiopia e che lo stesso nuovo conflitto si sarebbe allungato una volta che gli Stati Uniti fossero entrati in guerra. Il principale problema della popolazione però, secondo i rapporti, è la grave difficoltà nel reperire generi alimentari, soprattutto per le classi più povere che non possono sopravvivere con quanto dato dalla tessera annonaria e che non possono ricorrere ai prezzi gonfiati sia del mercato nero sia dei commercianti. Una situazione di malessere e avversione verso il regime che aumenta poi nel 1942, in cui carabinieri e polizia rivelano un palese malcontento «che potrebbe un giorno, prossimo o lontano, esplodere e degenerare».[2]

Dobbiamo inoltre considerare che la maggior parte della gestione amministrativa del fronte interno (rifugi antiaerei, alimentazione, profughi, mobilitazione civile eccetera) era stata delegata ai comuni, i quali però dovevano riferire, tramite un complesso e macchinoso apparato burocratico, a varie sezioni provinciali o comunali le quali a loro volta facevano capo o al prefetto o ad altri funzionari, rendendo di conseguenza complessa qualsiasi operazione. Inoltre specialmente ai podestà pistoiesi, il prefetto aveva ordinato di astenersi da erogare fondi non previsti nel bilancio anche per opere straordinarie. In sostanza le spese andavano contenute nei limiti del possibile; ciò ovviamente comportò una difficoltà immane nella gestione del fronte interno. Prendiamo ad esempio la creazione di rifugi antiaerei: un piano di prevenzione esisteva fin dal 1932 e nel 1935 la città poteva contare una copertura per circa il 37% della popolazione (i rifugi erano tutti ricavati da scantinati, niente costruito ex novo). Questo è dovuto al fatto che la città era stata considerata come zona non militarmente interessante e quindi pochi fondi furono stanziati nella protezione antiaerea, situazione che nel 1943, con la vittoria alleata nella campagna d’Africa cambiò radicalmente. Pistoia diventò lo snodo fondamentale per l’attraversamento degli Appennini attraverso la Porrettana e per la presenza delle Officine San Giorgio, convertite alla produzione bellica. Ad inizio 1943 i rifugi presenti e in fase di ristrutturazione potevano proteggere solo il 37% della popolazione, che era aumentata anche per la presenza di profughi, la quale non si fidava della sicurezza dei rifugi.[3] La situazione alimentare crollò lasciando la popolazione alla fame e allo strozzinaggio del mercato nero, con una vigilanza annonaria che non riusciva ad impedire che queste irregolarità cessassero. Ciò aumentò notevolmente il divario tra ricchi e poveri, i quali dovevano accontentarsi dei generi razionati; un divario aumentato anche dalle province vicine a Pistoia, la cui popolazione che aveva possibilità economiche maggiori acquistava generi alimentari a prezzi stratosferici, ma sottraendoli poi alla provincia pistoiese. Una carenza alimentare che peggiorò anche nell’inverno ’42-’43 in cui si registrò una notevole mancanza di patate e legumi, il cui enorme valore nutritivo rappresentava la principale fonte di sostentamento.[4] Un importante ruolo, che ha in parte contribuito alla crisi del regime, fu quello svolto dalla Chiesa cattolica che durante la guerra fascista cercava di prendere il più possibile le distanze da quel regime che aveva scagliato di nuovo il paese in guerra, lasciando il regime orfano di quella istituzione fondamentale per il consenso di una buona parte degli italiani che all’epoca si riconoscevano cattolici. Nelle pagine del periodico dell’Azione cattolica pistoiese, «L’Alfiere», possiamo trovare l’esempio perfetto di quel «patriottismo tiepido»[5] che contraddistinse la chiesa cattolica italiana nel sostegno propagandistico al conflitto: articoli su articoli che non elogiano la guerra, ma che invitano semplicemente al rispetto dell’ordine e al supporto morale dei soldati.[6] Una visione d’insieme di come la guerra fascista e la crisi di regime siano state vissute dalla popolazione civile, la possiamo trovare attraverso le fonti orali. Nelle testimonianze presenti nel fondo audiovisivo dell’Archivio storico dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia, possiamo trovare alcuni tratti comuni nelle esperienze vissute dagli intervistati: prima di tutto troviamo il trauma dello scoppio della guerra, insieme  alla fame patita. A differenza delle relazioni delle autorità qui si nota un altro divario tra chi viveva in città e chi viveva in campagna: i secondi potevano contare sui frutti del proprio lavoro, mentre i cittadini si ritrovarono a patire una fame nera. Le fonti orali ci aiutano anche a leggere e capire come e anche dove si sia sviluppato il fenomeno della Resistenza. Come poli della nascita di queste cellule antifasciste troviamo (oltre alla famiglia che rappresenta il primo contatto con l’antifascismo) la scuola e il luogo di lavoro: le Officine San Giorgio per esempio ritornano spesso nelle testimonianze dove i nuovi operai venivano avvicinati dagli operai più anziani che li “formavano” all’antifascismo.[7] Le storie e le memorie di queste persone possono però essere un interessante punto di partenza per delineare da dove e come la Resistenza pistoiese nacque grazie alle loro esperienze comuni. Ed è importante delineare una storia della lunga resistenza perché ciò ci permette di comprendere meglio le cause e le modalità con cui la crisi che ha portato al crollo del regime si è manifestata. Dietro ogni insuccesso del regime fascista, dei “vecchi” antifascisti (cioè antifascisti che avevano vissuto le violenze politiche pre-marcia) tramite discussioni mirate, quasi chirurgiche per non farsi scoprire, contribuirono a formare le menti di quei ragazzi e ragazze nati nei primi anni ‘20 che poi diventeranno protagonisti e protagoniste del movimento resistenziale.

In conclusione possiamo dire che lo studio del periodo 1940-1943 non debba essere così trascurato e che meriti un’attenzione un po’ più particolare da chi fa divulgazione storica e che si trova a trattare il tema della Seconda guerra mondiale in Italia, come credo sia anche imprescindibile uno studio del primo triennio di guerra per avere una maggiore comprensione del fenomeno della Resistenza. Come non se ne deve esimere chi si occupa di storia del fascismo. Il triennio ‘40-’43 rappresenta la prova della verità, in cui tutta la propaganda guerriera e trionfale del fascismo, fa i conti con la dura realtà dei fatti, cioè l’impreparazione non solo militare, ma anche civile, burocratica, finanziaria e amministrativa nel saper gestire una guerra totale, moderna e brutale sia sul fronte esterno che su quello interno.  Questo non significa svalutare il regime fascista o tentare di renderlo meno amaro; significa prendere consapevolezza e far capire con quale incoscienza il regime ha scelto di sacrificare i suoi soldati e la sua popolazione. Il regime è in crisi agli inizi degli anni ‘40 e la guerra fascista non fa che peggiorare questa crisi; provando a identificare un periodo in cui ciò accade, azzarderei l’ipotesi che se, come già sostengono altri valenti storici e storiche, il fascismo era in crisi alla fine degli anni ‘30, il 1940 segna l’inizio della fine, cioè il periodo in cui buona parte della popolazione decise di smettere di credere in esso, arrivando poi alla disillusione più completa tra il 1941 e il 1942, con il culmine raggiunto nel luglio del 1943 a seguito dell’invasione anglo-americana della penisola che ha poi portato al 25 luglio 1943. Le vicende tra il 1940 e il 1943 sono fondamentali per la lettura storica dei venti anni di regime fascista, «rappresentandone se vogliamo la “rivelazione”».[8]

[1] Vedi in «Il Ferruccio»: Paradiso sovietico, 14/7/1941; Mistica bolscevica, 8/12/1941; Disciplina di popolo nella certezza della vittoria, 3/1/1942; Attestati di solidarietà con i camerati alle armi, 3/1/1942; Lettera di una madre, 26/1/1942; Lettere dalla Russia. Vincenzo, bersagliere scrive alla moglie, 16/3/1942; Per la disciplina delle presenti circostanze, 12/7/1940.

[2] Archivio di Stato di Pistoia, fondo Sottoprefettura poi prefettura di Pistoia Archivio di Gabinetto 1861-1944, busta 266, fascicolo 1939 Rapporto al duce del l0 ottobre 1942 sulla situazione alimentare e sulle condizioni dello spirito pubblico. Relazione, carteggio ed atti, cc. 58. 1942.

[3] ASPt, f. Sottopref., b.132, f. 1154 23.3.”Difesa antiaerea. Esercitazioni ed esperimenti. Pratica generale”, cc. 44. 1932-1936; f. 1155 23.3. Difesa antiaerea. Esperimenti e ricoveri nella provincia di Pistoia, cc. 356. 1933-1934; fascicolo 1156 23.3. “Difesa antiaerea. Progetti protezione antiaerea’, cc. 58. 1934-1936; b.241, f. 1802 12.A.3. “Pistoia. Comitato provinciale protezione antiaerea, ‘Ricoveri, norme sull’oscuramento ed affari diversi, cc. 96. 1942-1945;

[4] ASPt, f. Sottopref., b. 243, f. 1806 12.A. 6. “Disciplina annonaria’ ‘. Disposizioni di massima, uffici addetti, infrazioni annonarie, cc. 1588. 1941-1944.

[5] L. Ceci, I cattolici tra «non belligeranza» e intervento italiano, in 1940: il fascismo sceglie la guerra, a cura di P. Corner, Roma, Viella, 2022, pp. 61-82.

[6] Si veda in «L’Alfiere»: B., T., Fede nella Provvidenza, 1/8/1943; C., G., La persona umana di fronte allo Stato, 12/9/1943; De Mori, G., Gli eroi del dolore, 18/4/1943; Debernardi, G., Appello di Mons. Vescovo ai parroci della Diocesi, 25/7/1943 e Esortazione del Pastore della Diocesi, 15/8/1943; M., R., Servire la patria 16/6/1940 e Sguardo al futuro, 25/10/1942.

[7] Molte delle testimonianze conservate presso l’ASISRPT e a cui si fa qui riferimento sono state trascritte in La guerra che ho vissuto. «I sentieri della memoria», a cura di M. Francini, Firenze, Unicoop, 1997.

[8] G. Fiocco, Guerra fascista e guerra italiana (1940-1943), in «Studi storici», 55/1 (2014), pp. 271-285, p.271.

 

Emanuele Vannucci è laureato in Scienze Storiche all’Università degli Studi di Firenze. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia, di cui è membro del Consiglio direttivo, in progetti inerenti la didattica, la ricerca e la divulgazione storica e l’archivio audiovisivo. I suoi interessi di studio sono legati alla Resistenza, all’Antifascismo, alla Seconda Guerra Mondiale e alla Public History.




Prima della strage: gli anni Trenta, le relazioni industriali e l’opposizione al regime nella miniera di Niccioleta

L’ex miniera di Niccioleta – frazione del Comune di Massa Marittima in provincia di Grosseto – è nota soprattutto nella memoria pubblica per l’efferata strage1 nazifascista del 13-14 giugno 1944, quando 83 minatori furono massacrati tra il piccolo borgo minerario e Castelnuovo Val di Cecina (Pi), nei giorni della ritirata tedesca.

In questa sede non ci soffermeremo sull’analisi della dinamica di questo episodio già accuratamente studiato, ma sulla portata di quei comportamenti di dissidenza e opposizione al fascismo diffusi tra i minatori di questo villaggio minerario nel corso degli anni Trenta, ritenuti di massimo consenso al regime. A tal fine crediamo necessaria una panoramica sulle difficili condizioni socio-economiche degli operai di questo contesto produttivo, che alimentarono lo scontento e li indussero a manifestare il loro sentimento antifascista anche con gesti eclatanti, ben prima dell’antifascismo organizzato manifestatosi con la lotta di Liberazione.

Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2056)

Dopo le prime operazioni di ricerca avviate dall’inizio degli anni Venti, la miniera2 di pirite di Niccioleta di proprietà della Società Montecatini entrò definitivamente in funzione nel 1929, quando fu stipulato il contratto di lavoro per i primi 150 operai. Era solo l’inizio di questa attività produttiva, che garantì al colosso della Montecatini il monopolio della pirite italiana, la materia prima fondamentale per la produzione di acido solforico, impiegato per le esigenze dell’industria chimica e per la produzione di fertilizzanti per l’agricoltura. Negli anni successivi i lavori furono rapidamente ampliati e crebbero sia le maestranze che la produzione3. In Maremma la Montecatini era già attiva dal 1899 e, per quanto riguarda la pirite, deteneva la proprietà anche delle miniere di Gavorrano e Boccheggiano. Nei primi anni Trenta fu inaugurato un imponente sistema di teleferiche, il più lungo d’Europa (oltre 40 km), che permetteva di collegare le tre miniere con Scarlino scalo: da qui il minerale estratto veniva caricato sui treni o condotto a Portiglioni per esser spedito via mare. All’inizio degli anni Trenta e fino al 1940 a Niccioleta fu dato avvio alla costruzione del vero e proprio villaggio minerario di impronta architettonica razionalista, organizzato secondo un ordine gerarchico e dotato dei principali servizi.

Le condizioni di vita degli addetti alle miniere non furono però mai facili. Già nel 1926 venivano denunciate le manchevolezze del sindacalismo fascista4 da parte del sindaco di Massa Marittima, Innocenzo Vecchioni, che riferiva sia «l’abbandono pressoché continuo di questa massa benemerita per parte di chi è preposto alla sua tutela economica e morale», sia le angherie di alcune direzioni di miniere verso le masse dei lavoratori organizzati nel sindacato fascista, riferendosi in particolare «ai licenziamenti o retrocessioni di grado per ripicche verso chi ha un grado nell’organizzazione, come è avvenuto nelle Miniere Niccioleta e Accesa»5. Dal canto suo, il segretario provinciale dei sindacati fascisti, Gino Finotello, rilevava il mancato rispetto dei concordati di lavoro da parte delle imprese, in primis nella parte riferita ai cottimi6. Nello stesso anno il segretario federale Ferdinando Pierazzi e Finotello7 si recarono a Roma presso i vertici delle organizzazioni politiche e sindacali, per far presente la necessità di rinnovare o elaborare contratti equi in favore delle maestranze operaie locali, i cui guadagni erano giudicati largamente insufficienti alle necessità di vita. Dopo la lunga e difficile opera di conciliazione per i patti collettivi di lavoro ispirati ai principi corporativi (nel 1928 furono stipulati quelli per i minatori e gli operai metallurgici), in provincia cominciò ad assumere proporzioni preoccupanti la disoccupazione, dovuta principalmente alla crisi dell’industria mineraria e al ristagno dell’edilizia. La concorrenza estera, la minor richiesta dei mercati, le carenze infrastrutturali, la scarsa competitività dovuta agli alti costi e alla bassa qualità di alcune produzioni erano le cause principali delle difficoltà economiche in Maremma, inserite nel ben più ampio contesto della grave crisi economico-finanziaria internazionale, il cui episodio più eclatante fu il crollo della borsa di Wall Street nell’ottobre 1929, che comportò anni di recessione.

Tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta la crisi colpì principalmente le industrie estrattive, edili, chimiche, metallurgiche e del legno, traducendosi in sospensioni o chiusure di attività, riduzioni delle giornate lavorative, continui licenziamenti, all’interno di contesti produttivi divenuti sempre più minacciosi e autoritari.

Alla fine degli anni Venti, tra tutte le miniere della Montecatini la situazione era particolarmente critica a Gavorrano8, dove il lavoro era ridotto a cinque giorni settimanali, le paghe erano molto basse, quelle sui cottimi venivano periodicamente ridotte e le maestranze erano molto scontente e conducevano una vita di ristrettezze con forti ricadute sullo stato di salute, come dimostravano le statistiche degli ammalati. Solo il 30 novembre 1929 furono stabilite le nuove tariffe salariali9 per i minatori della Montecatini, dopo l’accordo siglato tra l’Unione industriale fascista della provincia di Grosseto e l’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria. Pur vantando che l’apertura della miniera di Niccioleta aveva rappresentato il segno della volontà di dar massimo impulso all’attività estrattiva, nell’ottobre 1931 la Montecatini fece presente la gravissima contrazione nei programmi commerciali di collocamento e vendita delle piriti estratte nelle miniere maremmane. In sei mesi fu accumulato uno stock per oltre 100mila tonnellate nonostante l’orario ridotto e i licenziamenti degli operai, poiché la Germania – principale mercato estero – aveva denunciato i contratti di forniture e rinunciato a nuovi acquisti, mentre la domanda era calata pure nel mercato interno per la diminuzione della produzione del susperfosfato per l’agricoltura10. La società optò, dunque, per i licenziamenti degli operai di minor resa nelle miniere di pirite maremmane. Il 1° ottobre 1931 persero il lavoro 88 operai della miniera di Niccioleta e 57 di quella di Boccheggiano. Un altro duro colpo per i minatori della Montecatini si verificò il 17 ottobre 1931, quando in sede ministeriale furono concordate le riduzioni salariali del 21%11. Il 21 ottobre 1931, durante il cambio turno, circa cento operai della miniera di Gavorrano rivolsero ingiurie al direttore della miniera e ripresero i lavori con mezz’ora di ritardo. Intervenne Solimeno Petri, commissario dell’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria, che chiese l’intervento del Comitato intersindacale al fine di riesaminare la questione della riduzione salariale (ristabilendo un guadagno giornaliero di almeno 12 lire per gli adulti e otto per donne e ragazzi), mantenere le cinque giornate lavorative settimanali e infine creare spacci aziendali – a cura della Montecatini – per alleviare lo stato di disagio dei lavoratori12.

Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2057)

Il prefetto di Grosseto Giovanni Tafuri sollecitò l’intervento del Ministero delle Corporazioni, che nel dicembre 1931 cercò vanamente di convincere la Montecatini – che aveva già licenziato 350 operai – a mantenere le cinque giornate lavorative, evitando il licenziamento di altri 350 lavoratori. Quest’ultima non si mosse però dalle condizioni poste (riduzione a quattro delle giornate lavorative settimanali con il licenziamento di 350 lavoratori o mantenimento delle cinque giornate lavorative con il licenziamento di ben 700 operai), scegliendo la seconda opzione e facendo presente che solo per questioni di ordine politico non aveva ancora provveduto al licenziamento del secondo scaglione di 350 lavoratori13. Un episodio che dimostra la subalternità e la scarsa capacità d’imposizione dello stesso Ministero nei confronti della Montecatini.

La situazione era particolarmente critica pure alla miniera di Niccioleta e rischiava seriamente di compromettere il consenso al regime. Circa 200 dei 350 operai occupati nel borgo minerario non acconsentirono al pagamento dei contributi sindacali e al rinnovo della tessera per l’anno 1932, motivando tale dissenso con le loro disagiate situazioni economiche. Il Comando dei carabinieri di Massa Marittima dispose indagini per verificare che fra la massa operaia non vi fossero sobillatori che agivano per scopi antinazionali14. Stessa cosa era successa a Boccheggiano, dove 300 operai avevano rifiutato il rinnovo della tessera sindacale a causa del suo aumento da sei a 10 lire, mostrando al contempo un forte malcontento per le loro tristi condizioni economiche e per il generale disinteresse del sindacato verso le loro problematiche15.

Nell’aprile 1932 fu lo stesso Direttorio federale grossetano a richiedere la revisione dell’accordo salariale al Ministero delle Corporazioni, dopo aver constatato che gli operai dipendenti dalle miniere di Boccheggiano e Niccioleta percepivano un salario medio giornaliero di 10 lire lavorando cinque giorni a settimana. Si trattava di un guadagno ritenuto insufficiente alle più stringenti necessità quotidiane, che aveva depresso lo stato d’animo dei minatori con ripercussioni in campo politico16. In quel periodo la produzione annua totale delle tre miniere di pirite della Montecatini (Gavorrano Niccioleta e Boccheggiano), più quella di Ravi di proprietà della Società Marchi, ammontava a circa 400mila tonnellate. Il 15 giugno 1932 il prefetto Celi tornò dunque a invocare l’adozione di misure protezionistiche presso il Ministero delle Corporazioni, poiché, stando ai dati da lui recepiti, porre il divieto d’importazione alle 150mila tonnellate di pirite provenienti da Spagna e Grecia avrebbe giovato alla Montecatini, che sarebbe potuta tornare alle sei giornate lavorative nelle sue miniere, con l’assunzione di nuova manodopera17.

Nulla si mosse però a livello governativo. Il 30 luglio 1932 la direzione della miniera di Montecatini di Gavorrano affisse i manifesti che comunicavano il licenziamento di 250 operai. Scoppiarono così nuovi disordini, con circa 300 minatori che si radunarono davanti alla direzione stessa, emettendo grida ostili e lanciando pure qualche sasso contro gli uffici Bedeaux18. Quest’ultimo è il nome dell’inventore del sistema omonimo di razionalizzazione del lavoro volto ad aumentare la produttività, che fu introdotto anche nelle miniere maremmane della Montecatini a partire da quella di Gavorrano dal 1° marzo 1932, tra le lamentele degli operai e una notevole diffidenza anche da parte delle autorità fasciste. Tale sistema si basava sulla scomposizione analitica del lavoro e per le paghe si allacciava a meccanismi d’incentivi a partire dall’unità Bedeaux, corrispondente alla quantità di lavoro che poteva essere svolto da un operaio, in condizioni normali, in un minuto.

Il segretario federale Vecchioni, rivolgendosi al Ministero delle Corporazioni, considerò l’atteggiamento degli operai come diretta conseguenza degli inqualificabili sistemi della Montecatini e della mancanza di comprensione dei dirigenti della miniera. Le autorità fasciste maremmane temevano che il calo della produzione e i licenziamenti avrebbero avuto gravi conseguenze per il mantenimento del consenso al regime e dell’ordine pubblico a livello locale, ecco quindi la necessità di una continua mediazione con le forze imprenditoriali, avvantaggiate però proprio da quel sistema corporativo adottato dal fascismo, che per porre fine alla lotta di classe aveva minato libertà e diritti dei lavoratori.

L’ira delle autorità locali verso la Montecatini si manifestò anche nel corso della riunione del Comitato intersindacale del 23 luglio 1932. Petri si soffermò a lungo sulla questione degli operai della Montecatini, che in soli due anni avevano visto i loro salari dimezzati. Al di là delle riduzioni salariali elencò altre anomalie dovute al comportamento della società, quali: la mancata istituzione di spacci aziendali; l’introduzione arbitraria del sistema Bedeaux nella miniera di Gavorrano a partire dal 1° marzo 1932, che riduceva notevolmente i salari dei lavoratori (da una paga media giornaliera di 26,2 lire con la tariffa a cottimo pieno si scendeva alle 17,2 lire con i valori Bedeaux); la cessazione al 1° luglio 1932 della garanzia accordata per il mantenimento della paga media giornaliera a 17,2 lire; l’arbitrio nel conglobamento del carovita nel guadagno giornaliero; il licenziamento di 30 operai in seguito a un infortunio mortale verificatosi nella miniera di Gavorrano quale diretta conseguenza dell’introduzione del Bedeaux; l’annuncio della chiusura della miniera di Fenice Capanne a Massa Marittima; ed infine l’arbitraria riduzione apportata ai guadagni di alcune squadre di operai addetti ai lavori di rialzamento dei bacini. Il segretario federale Vecchioni condannò, invece, il metodo utilizzato dalla Montecatini, che provvedeva ai licenziamenti senza contrattazione con gli organismi sindacali interessati, «ai quali premerebbe che il numero dei licenziati non venisse a gravare su una sola località ma fosse sempre equamente ripartito fra i diversi paesi dai quali le miniere traggono la manodopera». Dal punto di vista politico Massa Marittima risultava il centro più vulnerabile della provincia, tanto che Vecchioni non esitò a definire come «antifascista» l’azione della Montecatini nei confronti del paese minerario. «Tale sistema, che può aver avuto, come conseguenza diretta una diminuzione notevole di fiducia verso gli organismi politici e sindacali della provincia, che, a dire degli stessi operai, non avrebbero saputo sufficientemente arginare l’azione della Montecatini, è riprovevolissimo», le durissime parole del federale19.

Il 7 agosto 1932 la Montecatini licenziò definitivamente i 250 operai già segnalati. Tra questi riuscirono a salvare il posto di lavoro solo 90 operai di Massa Marittima, in parte confermati a Gavorrano (35), in altra parte assunti a Niccioleta (55).

Niccioleta. Edificio dell’Associazione Nazionale Combattenti di Niccioleta
Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949  (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2118)

Nel 1933 proseguirono le difficoltà nei mercati del rame, del mercurio e dei prodotti metallurgici. Petri ribadì che persisteva uno stato di depressione morale tra i minatori – in primis tra quelli di Niccioleta e Boccheggiano – visto il «considerevole malcontento sia per l’inadeguamento dei salari al bisogno della vita, sia per i noti metodi esotici di lavoro, arbitrariamente applicati»20. La questione dei minatori maremmani assunse una rilevanza nazionale e fu trattata perfino nella riunione del Direttorio nazionale del Pnf a Bari, nel settembre 1933. Intanto, i provvedimenti antidisoccupazione, rimasti a lungo lettera morta, trovarono una loro prima applicazione a partire dalla fine del 1934, sulla base di alcune misure cardine quali le 40 ore settimanali, l’abolizione del lavoro straordinario, la limitazione dell’impiego di donne e ragazzi alle prestazioni di loro competenza specifica e la sostituzione dei lavoratori pensionati. Fu una prima boccata d’ossigeno per le maestranze locali, con alcune industrie – tra cui quelle estrattive – che ripresero le assunzioni, ponendo un primo argine alle conseguenze drammatiche dell’assenza di lavoro, particolarmente sentite nell’area amiatina e in quella dell’Argentario. Tra il 10 e il 15 dicembre 1934, con l’applicazione delle 40 ore lavorative la Montecatini procedette all’assunzione di 167 operai, tra cui 32 a Niccioleta, 46 a Boccheggiano e 80 a Gavorrano21.

Era vicina anche la resa dei conti col sistema Bedeaux. L’introduzione di questo sistema di lavoro – applicato anche alle miniere di Gavorano, Boccheggiano, Ravi e Rigoloccio della Montecatini – aveva infatti originato una lunga vertenza che fu posta a livello nazionale. La maggiore intensità di lavoro richiesta agli operai si era risolta addirittura in una diminuzione delle paghe. La questione fu chiusa il 9 novembre 1934 con la mozione del Comitato corporativo centrale22, che ristabiliva il primato della regolazione collettiva per l’applicazione di qualsiasi sistema di salario o incentivi, mantenendo ai lavoratori la possibilità di conoscere con chiarezza e semplicità gli elementi che componevano la loro retribuzione. Tale atto sancì l’abolizione del Bedeaux e il ritorno alle tariffe a cottimo pieno nelle miniere della Montecatini, con piena soddisfazione delle autorità fasciste locali23.

L’episodio del Bedeaux costituì però un’eccezione. «Non potevano esserci dubbi ormai su quale fosse la collocazione del fascismo nel conflitto tra padroni e operai. La presenza sempre più diffusa in ruoli chiave della gerarchia della miniera – anche se soprattutto nelle mansioni inferiori di sorveglianza – di personale di esplicita appartenenza fascista, spesso di matrice squadrista, ne era la manifestazione più esplicita. L’identificazione del fascismo con il comando capitalistico, e viceversa, era netta. […] Emerse talvolta qualche residua frizione tra le autorità locali e la Montecatini, indotta dalla percezione dello strapotere che la società mineraria stava esercitando, ma nessuna giunse mai a incrinare la consonanza di fondo. Questo connubio Stato/capitale, o anche fascismo/capitale, sperimentato dai minatori già nel sottosuolo, si riproduceva in superficie, dove, insieme al ruolo primario di antagonista di classe, assumeva quello benevolo, ma sempre diffidente e all’occorrenza severo e perfino brutale, del padre di famiglia attento ai bisogni dei propri figli»24.

L’accordo per le tariffe salariali delle maestranze della Montecatini fu stipulato il 22 febbraio 1935. Furono stabilite le tariffe per i lavori a cottimo, i quali dovevano esser fissati mediante un biglietto rilasciato all’inizio del lavoro dal capo servizio al capo compagnia, contenente indicazioni sulle caratteristiche fisiche e tecniche del lavoro stesso: una loro mutazione poteva portare al diritto della revisione dei prezzi di cottimo. Per i lavori non previsti nelle tabelle allegate l’impresa era chiamata ad applicare nuove tariffe provvisorie della durata di due mesi, «tali da permettere agli operai laboriosi e di normale capacità lavorativa di raggiungere un guadagno non inferiore a quello delle categorie cui appartengono». Nella liquidazione dei guadagni di cottimo doveva risultare con semplicità ed evidenza il lavoro eseguito, con a parte le trattenute sul salario. Infine, furono stabilite delle maggiorazioni per il lavoro straordinario e festivo25. Tra gli operai della Montecatini si manifestò da subito una certa apprensione per la prima liquidazione in loro favore con il nuovo sistema: timori giudicati infondati dal prefetto di Grosseto Francesco Palici di Suni, che il 3 maggio 1935 scrisse che le nuove tariffe avevano migliorato, sia pure di poco, le condizioni salariali delle maestranze26. Ci possiamo chiedere se ci furono veramente questi miglioramenti salariali. Ci vengono in aiuto due importanti documenti. Il primo, prodotto dal sindacato provinciale fascista dei lavoratori dell’industria, specifica che le tariffe concordate nel 1935 erano ispirate al desiderio di assicurare all’operaio laborioso e di normale capacità produttiva il guadagno della paga ad economia maggiorata del minimo di cottimo. Nelle paghe non furono però conteggiate le operazioni passive, ossia i “tempi persi” che pure venivano considerati nell’unità Bedeaux, procurando così un danno economico per i lavoratori27. Ciò è confermato da un importante promemoria prefettizio del giugno 1939, che rivela come la trasformazione del Bedeaux in cottimo normale e tale mancato conteggio comportarono una diminuzione di circa il 12% dei salari. Inoltre, più in generale, calcolando tutte le riduzioni e gli aumenti per le maestranze della Montecatini dal 1930 al 1939, emergeva un quadro impietoso, ovvero un abbassamento dei salari del 36-40%28.

All’inizio del 1936 la miniera di Niccioleta poteva contare su circa mille lavoratori ed era in pieno sviluppo. Produceva, infatti, quasi 17mila tonnellate di pirite al mese, con un rendimento medio a operaio maggiore rispetto alle miniere di Gavorrano e Boccheggiano, dove si producevano rispettivamente 24mila e 12mila tonnellate con 1.660 e 800 operai. La situazione produttiva era in continuo miglioramento per i prezzi di vendita molto più remunerativi (1,6-1,7 lire per unità zolfo rispetto alle 1-1,1 del 1935), ma paradossalmente la situazione salariale delle maestranze era sempre più preoccupante, poiché con i loro guadagni i minatori non erano in grado di garantirsi il minimo indispensabile per soddisfare i loro bisogni materiali, tanto che ogni mese centinaia di lavoratori si dimettevano dalle miniere di pirite della Montecatini per cercare fortuna altrove29.

Il 25 giugno 1936 il questore di Grosseto riferì al prefetto lo stato di disagio dei minatori della miniera di Niccioleta per gli scarsi guadagni e la loro richiesta di un nuovo contratto di lavoro, specificando che «la stessa questione si agita nelle altre miniere dipendenti dalla Montecatini. Si rende pertanto necessario e urgente un radicale provvedimento prima che abbiano a verificarsi incidenti»30. Lo stesso prefetto Palici di Suni un mese prima aveva avvertito i ministeri competenti, facendo presente che le paghe in tutte le miniere della Montecatini continuavano ad essere estremamente basse – con massimi che raramente superavano le 12 lire – ed esprimendo quindi la necessità di concedere almeno un ritocco parziale ad alcune categorie di lavoratori31.

Credits: autore Civilini, Lando (attr.) – Datazione: 1935 – 1949 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2061)

Presso le confederazioni interessate si era aperta una vertenza per la revisione dei salari nella miniera della Niccioleta, che stava per essere deferita all’esame del ministero delle Corporazioni, poiché non era stato possibile raggiungere l’accordo sulla richiesta dei lavoratori di determinati salari base, oltre la maggiorazione di cottimo del 20%. Per il prefetto, più che insistere sulla determinazione sempre complessa e difficile dei salari base, sarebbe stato più utile estendere le tariffe di cottimo pieno in vigore nella miniera di Gavorrano alle altre miniere maremmane della Montecatini. Il 23 luglio 1936, presso il Ministero delle Corporazioni, fu stipulato l’accordo salariale integrativo per gli operai della miniera di Niccioleta (poi esteso a quella di Boccheggiano), che prevedeva a seconda delle categorie di lavoratori un aumento dal 7 al 20% sui salari fino al momento percepiti32. Per tutto il personale furono stipulate le paghe a economia e quelle con il 20% di cottimo. Le tariffe di cottimo dovevano essere fissate sul posto di lavoro nei primi cinque giorni del mese dal caposervizio in relazione alle condizioni fisiche e tecniche del lavoro. Fissati i prezzi, i capiservizio erano tenuti a rilasciare ai capicompagnia i biglietti contenenti le indicazioni delle caratteristiche fisiche e tecniche del lavoro ed i prezzi unitari, che dovevano essere sottoscritti dal capo compagnia. Erano previste inoltre maggiorazioni per le temperature nei cantieri interni, gli straordinari (20% in più per le prime due ore, 35% per le ore successive), i giorni festivi (50% in più della paga a economia) e le ore straordinarie notturne (60% in più della paga a economia)33.

La situazione però non migliorò e le controversie continuarono, soprattutto per quanto riguardava l’applicazione del minimo di cottimo, che la Montecatini intendeva riservare solo alle categorie di lavoratori sotto facile controllo e non, in caso di insufficiente produzione, ai singoli minatori che lavoravano «con una certa indipendenza a squadre nei sotterranei della miniera»34. Il prefetto cercò di convincere il segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Fernando Marino, a svolgere opera di persuasione presso le masse operaie per far loro comprendere l’equità degli accordi sottoscritti in sede ministeriale. Marino restò però fermo nelle sue posizioni, chiarendo che dopo l’entrata in vigore dell’accordo salariale per i minatori della Niccioleta e di Boccheggiano, ad un considerevole numero di minatori adibiti ai lavori a cottimo non era stata corrisposta la paga di 15,8 lire giornaliere indicata nel suddetto accordo35.

La questione in ballo era se al lavoratore a cottimo dovesse spettare in ogni caso, quindi indipendentemente dal risultato della lavorazione, la percentuale minima di maggiorazione oltre la paga base. Marino chiariva che la giurisprudenza era ormai concorde nel ritenere che la maggiorazione di cottimo spettasse indistintamente a tutti i cottimisti, portando a sostegno della sua tesi la sentenza del pretore di Massa Marittima del 12 dicembre 1936, che nella causa intentata dell’operaio della Niccioleta, Orlando Orioli, contro la Montecatini, aveva condannato quest’ultima a pagare la somma richiesta dal lavoratore (15,91 lire), più gli interessi e le spese del giudizio. Orioli, classe 1908, nato a Siena e residente a Massa Marittima, aveva citato la Montecatini innanzi al pretore di Massa Marittima per ottenere il pagamento di 15,8 lire a titolo di corresponsione della differenza fra il salario percepito nel mese di agosto 1936 (14,29 lire giornaliere) e quello che gli sarebbe spettato nella misura del minimo garantito per il lavoro a cottimo (paga base di 13,15 lire più il 20% di maggiorazione). La sentenza specificò che la quota di maggiorazione era dovuta a tutti i cottimisti e costituiva parte integrante del salario36. Marino confermava che il sistema di vigilanza attivo in miniera avrebbe impedito la mancanza di laboriosità, essendo previste inoltre le punizioni disciplinari e i demansionamenti degli operai. Quest’ultimi, a loro volta, erano sicuramente interessati a produrre per superare i minimi di paga. L’insufficienza produttiva non era quindi dovuta alla mancata laboriosità dei minatori ma ad un’errata fissazione dell’unità di cottimo o alle difficoltà verificatesi nel corso dei lavori, un fenomeno frequente causato dalla durezza della roccia, dal ritardato scoppio di una mina, dalla mancanza di legname e di armature o da altre imprevedibili circostanze37.

Una quarantina dei 250 minatori adibiti nei lavori a cottimo nella miniera della Niccioleta non percepivano il 20% di maggiorazione perché il minerale estratto non raggiungeva la quantità stabilita e la Montecatini non li considerava laboriosi e di normale capacità lavorativa, appellandosi all’articolo due del contratto provinciale di lavoro. Le compagnie erano formate da quattro o sei operai: solo in quelle che producevano il quantitativo di materiale stabilito la Montecatini corrispondeva la paga giornaliera di 15,8 lire stabilita dal contratto. La repressione di ogni atto di dissidenza all’interno della miniera era all’ordine del giorno. I carabinieri di Massa Marittima, venuti a sapere che fra la massa operaia di Niccioleta vi erano elementi «non laboriosi, che tentano di creare dissidi», svolsero accertamenti per identificare i presunti sobillatori, in realtà colpevoli solamente di richiedere il trattamento economico previsto dal contratto di lavoro. Il 13 gennaio 1937 fu identificato quale «autore principale di tale lagnanza«» l’operaio Gino Quintavalle, classe 1911, un reduce della guerra d’Etiopia, che si batteva affinché agli operai fosse corrisposta la paga prescritta dal contratto. Quintavalle fu licenziato per indisciplina ma il fascio locale non attribuì nessuna colpa alla Montecatini38. Perfino i carabinieri di Grosseto rivelarono però che serpeggiava il malcontento tra gli operai di Niccioleta anche per la severità e l’eccessivo autoritarismo dei dirigenti della miniera. Quest’ultimi avrebbero dovuto porre, quindi, una maggiore attenzione al riguardo, per evitare che questo di stato di cose, giudicato ancora non allarmante, si acuisse39.

Credits: Stefani, Bruno (1901/ 1978) – Datazione: 1936 – 1943 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_2124)

Nel corso del 1937 continuarono le lamentele degli operai di Niccioleta sia per la totale inadeguatezza della paga minima giornaliera in relazione al costo della vita (il riferimento era soprattutto alle paghe giornaliere dei manovali, pari a 11,4 lire per i 225 manovali esterni e a 11,7 lire per i 191 interni), sia per lo sconsiderato rialzo dei prezzi degli spacci aziendali, che dopo l’aumento del 7% dei salari degli operai erano addirittura cresciuti del 20%. Il questore di Grosseto invitò, dunque, i carabinieri ad esercitare assidua vigilanza e a comunicare ogni emergenza riguardante l’ordine pubblico40. Il 15 gennaio 1938 entrò in vigore il contratto collettivo per la disciplina dei cottimi, che all’articolo due garantiva ai cottimisti il guadagno della paga ad economia più la maggiorazione del cottimo togliendo la condizione dell’”operaio laborioso e in normale capacità produttiva”, mentre all’articolo tre prevedeva che agli operai dovessero essere comunicate per iscritto e da subito le indicazioni del lavoro da eseguire e del compenso unitario corrispondente (tariffa di cottimo). La Montecatini, come rilevato dal sindacato fascista, non solo non assolse a tali doveri, ma aumentò considerevolmente il personale addetto alla sorveglianza degli stessi operai, al fine di ottenere da essi un aumento della produzione con mezzi coercitivi. «Pertanto gli operai che non riescono ad aumentare il proprio rendimento vengono, su indicazione degli stessi sorveglianti, chiamati in Direzione e diffidati di licenziamento. Gli operai temono fortemente che la Direzione miri a ottenere delle medie di rendimento assolutamente superiori alla loro normale capacità fisica, le quali non potrebbero essere mantenute, mentre potrebbero costituire dei precedenti di riferimento in caso di contestazioni o revisioni di tariffe di cottimo», scriveva il segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Luigi Turchi, che segnalò tale fenomeno alla competente federazione nazionale di categoria e chiese all’Unione fascista degli industriali di Grosseto di rispettare sia l’articolo 19 del vigente contratto collettivo nazionale di lavoro per l’industria mineraria, sia l’articolo tre del contratto collettivo per la disciplina dei cottimi41.

L’ultima modifica contrattuale degli anni Trenta si ebbe con il contratto collettivo per gli operai addetti alle aziende minerarie della provincia di Grosseto, siglato a Roma il 27 gennaio 1939 ad integrazione di quello nazionale stipulato il 9 maggio 1937. Per i lavoratori delle singole miniere della Montecatini furono stabiliti dei minimi di paga ad economia per la giornata lavorativa di otto ore, con i guadagni di cottimo adeguati a tali minimi e maggiorati della percentuale di cottimo (20% per le miniere di Niccioleta e Boccheggiano)42. Altre controversie sorsero però in merito all’accordo interconfederale per gli aumenti del ventennale, sottoscritto il 20 marzo 1939, che doveva essere applicato nella misura del 10% su tutti gli elementi di retribuzione. La Montecatini, però, rivalendosi su un presunto onere derivato dal nuovo contratto, dispose l’aumento del solo 5%, suscitando ancora una volta il malumore degli operai. Quest’ultimi, temendo di non vedersi concessi gli aumenti disposti dal duce, manifestarono al sindacato fascista la forte volontà di trasferirsi in altre province per poter guadagnare di più. La vertenza, risolta il 19 giugno 1939 dopo ampio esame presso le competenti federazioni nazionali, stabilì l’aumento del solo 7% da applicarsi su tutti i guadagni a cottimo o ad economia degli operai interessati, a far data dal 31 marzo 1939. La Montecatini si impegnò a corrispondere gli arretrati nella misura differenziale del 2% entro il mese di luglio43. Anche tale transazione non segnò la fine dei problemi per i minatori delle miniere di Gavoranno, Ravi e Rigoloccio della Montecatini: dopo la modifica unilaterale delle tariffe di cottimo da parte della direzione delle miniere fu infatti aperta una nuova vertenza collettiva44.

I minatori di Niccioleta rimasero stretti, da una parte, dalle rigidità del corporativismo fascista, subalterno alle esigenze del mondo imprenditoriale e incapace di migliorare le sorti degli operai nonostante gli apparenti sforzi – e i ben più rilevanti limiti – del sindacato dei lavoratori dell’industria, ridotto generalmente all’impotenza; dall’altra, dal crescente autoritarismo della Montecatini, spalleggiata dalle autorità locali fasciste e votata in primis a tutelare i suoi profitti.

Dopo questa lunga disamina, riteniamo che la complessità delle condizioni socio-economiche dei minatori nel corso degli anni Trenta sia stato un fattore che abbia contribuito a creare fra di loro un clima di diffusa ostilità al regime, in un territorio, il massetano45, dove tra l’altro nel corso del tempo si erano compenetrate varie tradizioni: repubblicana ottocentesca (mazziniano-garibaldina), anarchico-libertaria, socialista e comunista.

«Nelle miniere di Boccheggiano e Niccioleta, in tutto il periodo del fascismo si manifestarono avversioni alla dittatura. Gli antifascisti intensificarono la loro lotta con il reclutare nuovi proseliti alla causa contro la dittatura mussoliniana, quando ancora non tutti avvertirono che l’aggressione fascista alla giovane repubblica di Spagna avrebbe messo in pericolo la pace nel mondo, si era negli anni 1936-1937. Ebbene, a Massa Marittima fin da questi anni operava un gruppo di ispirazione anarchico-libertario, facente capo a Giuseppe Gasperi, operaio della miniera di Niccioleta. Nel 1938, a Boccheggiano, per iniziativa di Bandino Pimpinelli e Ideale Tognoni, si costituì una sezione clandestina comunista»46.

Lo scrittore Luciano Bianciardi, autore insieme a Carlo Cassola del libro inchiesta “I minatori della Maremma”, confidò nella lettera all’editore in cui spiegava come era nato il volume, che «negli anni del fascismo furono proprio certi minatori di Niccioleta che mi parlarono, per la prima volta, di Gramsci, quegli stessi minatori che da me volevano sentir parlare di Croce»47.

Negli anni Trenta possiamo isolare alcuni episodi di manifesta opposizione al regime nella miniera di Niccioleta. L’11 luglio 1935 furono arrestati quattro operai originari dell’Amiata, più precisamente di Abbadia San Salvatore (SI), traferitisi nel territorio di Massa Marittima dopo la chiusura delle miniere di mercurio amiatine, che aveva comportato il licenziamento di molti operai. Erano stati accusati di aver cantato canti sovversivi come “Bandiera Rossa”, di essersi fatti fotografare con delle maglie rosse per mettere in evidenza le loro idee politiche (e perfino di aver litigato con il fotografo perché nell’immagine non si scorgeva bene il colore rosso), nonché di aver rivolto offese all’effigie del duce riprodotta sui giornali, sputandovi pure sopra. La data scelta per compiere questi “atti sovversivi” non era per nulla casuale e fa capire molto di più: si trattava infatti del 1° maggio, il giorno della festa del lavoro, abolita dal regime il 20 aprile del 1923, in favore della ben più autarchica e individualista festa del lavoro italiano, fissata il 21 aprile, in coincidenza con la fondazione (Natale) di Roma.

Credits: Stefani, Bruno (1901/ 1978) – Datazione: 1936 – 1943 – Luogo: Niccioleta (Collocazione: Milano (MI), Centro per la cultura d’impresa, fondo Edison, EDS_ST_DV_7395)

I quattro giovani arrestati48 erano: Primo Vagnoli, classe 1901, comunista, dal 1935 domiciliato a Massa Marittima e minatore nella miniera di Niccioleta; Carlo Contorni, classe 1902, di fede comunista, che ad Abbadia San Salvatore non risultava avesse mai svolto propaganda o partecipato a manifestazioni sovversive; Mauro Capecchi, classe 1909, anche lui giunto alla miniera di Niccioleta nel 1935 dopo aver perso il posto di lavoro nelle miniere di mercurio dell’Amiata; Lorenzo Contorni, classe 1910, celibe, con due fratelli e tre sorelle, un minatore di idee comuniste privo di precedenti penali che ad Abbadia San Salvatore non aveva mai dato luogo a rilievi, trasferitosi a Massa Marittima nel 1935 per dare un sostegno alla famiglia. Il loro caso fu trattato dalla Commissione provinciale per i provvedimenti di polizia, che nella seduta del 23 luglio 1935 condannò al confino i quattro giovani minatori – considerati un pericolo per l’ordine nazionale – assegnando pene differenti: un anno per Vagnoli, due per Capecchi e Contorni Carlo, tre per Contorni Lorenzo.

Quest’ultimo ebbe la condanna più pesante nonostante gli accertamenti eseguiti avessero escluso che potesse trovarsi a cantare “Bandiera Rossa” con i compagni la sera del primo maggio. I carabinieri reali della tenenza di Massa Marittima non escludevano però la sua partecipazione ad altre manifestazioni sovversive, riferendosi ad atti raccolti a suo tempo e dichiarando che i suoi ideali e comportamenti erano di dominio pubblico sia nel suo paese di nascita, sia nell’ambiente in cui lavorava. Tutto ciò bastò per la condanna a tre anni, a dimostrazione di quanto fosse sommaria l’amministrazione della giustizia nella dittatura fascista.

Lorenzo Contorni49 fu assegnato al confino di Ponza (LT), dove «tenne cattiva condotta, affiancando i comunisti più pericolosi e non dando prova di ravvedimento». Fu prosciolto il 10 marzo 1937 e munito di foglio di via obbligatorio per Siena. Neanche il confino placò però il suo antifascismo, visto che ottenne la qualifica di patriota per la sua attività svolta all’interno della III Brigata Garibaldi SAP di Campiglia (Livorno), dal marzo 1944 fino al 25 giugno dello stesso anno50.

Carlo Contorni51, invece, fu confinato a Ventotene (LT), mantenne sempre le sue idee e continuò a frequentare i comunisti della colonia, senza dar luogo a particolari rilievi. Trasferito a Fuscaldo (Cs) il 15 settembre 1936, fu dimesso dal confino il 10 luglio 1937 e tornò a svolgere il lavoro di minatore nella miniera di Sirai-Pozzo Tanas in Sardegna. Scontò due anni di confino a Ventotene pure Mauro Capecchi, che prese poi le armi nella lotta di Liberazione nel territorio amiatino. Fu infatti partigiano combattente dal 12 settembre 1943 al 20 luglio 1944 all’interno della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”, dove ricoprì pure la carica di comandante del VII distaccamento (nome di battaglia “Faro”)52.

La pena minore toccò invece a Primo Vagnoli53, che fu tradotto a Palazzo San Gervasio (Mt) e dopo aver scontato un anno di confino andò a vivere nella provincia di Siena, dove era nato e aveva domicilio.

Almeno due dei quattro protagonisti di questo primo gesto eclatante di antifascismo all’interno della miniera di Niccioleta condividono un lungo percorso di opposizione al regime, sfociato nella lotta partigiana. La dura realtà di vita di miniera negli anni Trenta, non solo a livello lavorativo ma anche per la difesa delle proprie idee di libertà e giustizia, è ben restituita dallo stesso racconto di Mauro Capecchi.

«Il lavoro era duro è in mezzo a noi erano sempre presenti spie fasciste, ma anche operai che, in caso di necessità, si sarebbero prestati al gioco dei fascisti: gente debole, paurosa e soprattutto affamata. Iniziai a prendere contatto con i minatori. Loro esprimevano lamentele ed eravamo tutti d’accordo nell’attribuire al governo fascista la colpa dei mali che ci affliggevano. […] Come ho detto, la vita a Niccioleta era assai dura. Nelle pause di lavoro discutevamo e i nostri nuovi compagni recepivano con piacere i nostri rilievi contro i padroni e il fascismo. Mi ricordo che la domenica andavamo a Massa Marittima, dove si ritrovava la maggior parte degli operai; si faceva merenda e si beveva il vino, che era la medicina che faceva riprendere le energie a chi era costretto a fare un lavoro così pesante. Intanto ad Abbadia il fascio locale, a nostra insaputa, prendeva misure per controllarci: spesso a Niccioleta venivano operai che si spacciavano per minatori di altre miniere e che erano pronti ad unirsi alle critiche contro il fascismo, per poi riferire alla polizia quanto avevano sentito dire da noi»54.

Servivano dunque tanto coraggio, una coscienza vigile ed occhi accorti per fare un minimo di propaganda e mantenere almeno una piccola opposizione interna nei luoghi di lavoro, ora che il fascismo al potere aveva spazzato via ogni forma di libertà e compresso i diritti dei lavoratori all’interno dell’ideologia corporativa. Tutto era più complicato soprattutto negli anni Trenta, considerati periodo di massimo consenso al regime.

Eppure qualcosa in miniera continuava a muoversi ed ancor prima della guerra di Spagna, che segnò un periodo di ripresa per l’antifascismo. Perfino il capo servizio della miniera di Niccioleta, l’impiegato Corrado Rossetti, classe 1895, originario di Vercelli, finì nel mirino del regime per la sua attività considerata ostile. I fatti si riferiscono al febbraio 1935, quando l’ingegnere Mario Delfino, addetto alla miniera e fiduciario del fascio, venne a conoscenza che alcuni operai dipendenti dal capo servizio Rossetti non volevano aderire al versamento delle quote in favore dell’Ente opere assistenziali (EOA). La responsabilità ricadde sullo stesso Rossetti, accusato di non aver svolto adeguata attività propagandistica fra i lavoratori. Fu dunque sollecitato da Delfino ad adoperarsi affinché quest’ultimi comprendessero «l’alto fine sociale e umanitario delle suddette ritenute». Interrogato dai carabinieri, Rossetti dichiarò che avrebbe rifiutato tal compito, perché contrario a qualsiasi forma di collaborazione e dubbioso sul reale impiego delle trattenute. In generale, l’impiegato non iscritto al Partito nazionale fascista (Pnf) era descritto come individuo dal carattere impulsivo e contrario al regime, non ossequiente alle leggi e non ben visto sia dalla maggioranza della popolazione, sia dalle autorità politiche locali, che lo ritenevano capace di esplicare propaganda sovversiva. Pur risultando di buona condotta morale e privo di precedenti penali, Rossetti non partecipava mai alle cerimonie patriottiche del posto, né frequentava persone di sicura fede fascista. In relazione alla nota della Prefettura di Grosseto del 29 maggio 1935, fu diffidato ai sensi dell’articolo 174 del Testo Unico di Pubblica Scurezza dal prefetto di Trento, poiché dopo tale episodio era stato trasferito a Calceranica (TN), sempre alle dipendenze della Montecatini. Qui Rossetti fu adeguatamente vigilato e chiamato a desistere da tali atteggiamenti sconvenienti, pena provvedimenti di polizia di maggior rigore. In seguito, mantenne una buona condotta e fu radiato dal Casellario politico centrale il 19 novembre 193655. Quel che aveva dichiarato non può però passare inosservato: la mancata propaganda a favore delle opere assistenziali del regime, così come la mancata fiducia verso la reale destinazione dei fondi raccolti, testimoniano una consapevolezza abbastanza diffusa sui frequenti casi di peculato, corruzione, conflitto d’interessi, nepotismo e favoritismi vari che contraddistinguevano l’operato del partito fascista nelle province, compresa quella di Grosseto, provocando disservizi e un generale malcontento nella popolazione, oltre a un forte scetticismo sulla moralità dei personaggi pubblici in camicia nera56. D’altronde, per fare solo un esempio simile a quello di Niccioleta riguardante la provincia di Grosseto, sempre nel 1935, ad Arcidosso la sezione del fascio locale era talmente screditata a causa dei molti casi di malaffare, che gran parte dei cittadini del posto preferirono inviare le fedi direttamente al duce, senza alcuna mediazione del partito, in occasione della giornata della fede del 18 dicembre 1935, organizzata per consegnare l’oro alla patria dopo le sanzioni contro l’Italia a causa dell’invasione dell’Etiopia57.

Dalle fonti di polizia la miniera di Niccioleta risulta particolarmente temuta per l’ordine pubblico, tanto da esser costantemente vigilata. Il 15 settembre 1936 il Comando della tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima richiese l’allontanamento dai lavori della miniera dei fratelli Pizzetti (Bruno ed Elvezio), minatori comunisti, e di altri individui sovversivi tutti originari di Abbadia San Salvatore (Settimio Rosati, Corrado Forti, Temistocle Coppi e Giuseppe Pacchierini), «perché capaci di svolgere opera deleteria sul buon andamento del lavoro e di inculcare nell’animo dei compagni sentimenti antifascisti e contrari alle nostre istituzioni»58.

Il durissimo lavoro in miniera comportò anche un alto numeri di morti sul lavoro, a causa sia delle malattie professionali (in primis la silicosi), sia degli incidenti dovuti alle scarse condizioni di sicurezza. Negli anni Trenta 11 persone persero la vita nelle operazioni lavorative in miniera: tra questi vi fu Gino Cini, un ventinovenne minatore di Prata, che morì il 30 marzo 1938 a causa di una frana nel cantiere adiacente alla miniera, dove effettuava lavori nella galleria di scolo. I compagni decisero l’astensione dal lavoro fino al seppellimento della salma, rifiutandosi di obbedire ai voleri della Montecatini che reclamava la ripresa del lavoro per i turni di mezzanotte e commentando con risentimento la decisione della Società59.

Tre anni più tardi, i minatori della Niccioleta sempre provenienti dall’Amiata furono autori di un clamoroso gesto di ribellione verso le autorità fasciste, originato dalla volontà di celebrare l’antico rito farsesco del carnevale morto. Si tratta di una festa satirica e goliardica, ancora oggi celebrata durante il mercoledì delle ceneri soprattutto in alcune parti dell’Italia centro-meridionale, che decreta la fine del carnevale mettendo in scena «la denuncia sociale e il ribaltamento dei ruoli, in forma di parodia delle autorità costituite e di protesta ritualizzata». Attualmente il funerale del carnevale più noto è quello di Montuorio al Vomano (TE), le cui origini paiono risalire proprio agli anni Venti del Novecento, quando alcuni giovani universitari del posto che studiavano a Napoli recuperarono tale tradizione osservata in Campania come forma di opposizione al regime fascista, che provvide a proibirla nel giro di pochi anni. «A Reggello, nel Valdarno, a Marroneto, nel grossetano, ad Amalfi, nel golfo di Salerno, il Carnevale morto era o è incarnato da una persona scelta fra gli abitanti del paese, secondo un modello onnipresente nelle regioni centro-meridionali della Penisola»60.

Difficile non leggere la volontà di criticare il regime anche nella mascherata organizzata dai minatori di Niccioleta per l’ultimo giorno di carnevale, che fu vietata dal segretario del fascio di Massa Marittima, Francesco Casanova. Nonostante il permesso non concesso, il 1° marzo 1938, verso le ore 23, una quarantina di minatori – tra cui undici col viso dipinto di nero – iniziarono a circolare per il borgo minerario, trasportando in barella un compagno che rappresentava il carnevale moribondo. Verso mezzanotte la comitiva giunse dinanzi alla sede del Dopolavoro dove era in corso una festa da ballo: i minatori cercarono di forzare l’ingresso ma il segretario amministrativo del fascio che si trovava sulla porta, Umberto Bellini, cercò di respingerli prima di essere colpito con un pugno al viso dall’operaio Mario Ghilardi, che dette il via all’irruzione nel locale. Dopo esser stato informato su quanto stava succedendo, Casanova si recò sul posto e fu aggredito con alcuni pugni dagli operai, non riportando conseguenze e riuscendo infine a far uscire dal locale i minatori, grazie all’aiuto di Bellini e della guardia giurata della miniera, Luigi Torrini. L’intervento dei carabinieri di Massa Marittima condusse all’arresto di undici operai per violenza contro pubblico ufficiale, tra cui un comunista, due ex sovversivi, cinque apolitici, due giovani fascisti e un fascista.

Retro della scheda anagrafica di Duilio Rosati con la qualifica di Caduto per la lotta di Liberazione (Credits: Fondo Ricompart)

Tra gli arrestati cinque erano originari di Santa Fiora, ovvero i due giovani fascisti Mario e Raffaello Ghilardi, entrambi del 1915, oltre a: Giacomo Bani (cl.1883), il più anziano del gruppo che prima dell’avvento del fascismo professava idee socialiste; Luigi Vagaggini (cl.1906), con precedenti penali ma considerato di buona condotta politica; Armando Dondolini (cl.1913) e Guido Martellini (cl.1914), ambedue privi di precedenti e di buona condotta in genere. Provenivano da Castell’Azzara Flavio Testi (cl.1891) e Agostino Mastacchini (cl.1900), da Abbadia San Salvatore Flavio Paganini (cl.1909) e da Piancastagnaio Duilio Rosati (cl.1907), tutti fino al momento considerati di buona condotta politica61. Fu evidentemente subito rilasciato l’undicesimo componente della carnevalata, il comunista Corrado Fortini. Gli altri dieci, ad eccezione di Mario Ghilardi, furono messi in libertà provvisoria il 17 marzo 1938, circa un mese dopo l’accaduto. Tornarono dunque alla miniera di Niccioleta alle dipendenze della Montecatini mentre il processo era ancora in fase istruttoria. «Quando li liberarono – intervenne anche il Dottor Mori per chiedere la liberazione, perché erano bravi operai – rivennero a Niccioleta e c’era un posto chiamato Poggio della Madonna, un podere con grandi querci. E si ritrovarono tutti su – familiari, amici – e fecero una merenda. Cantavano…tanto è vero che quando tornai a casa chiesi cosa cantavano. Era un motivo, una canzone che non conoscevo, non sapevo. E ‘l mi’ babbo, dopo un pò di tempo mi disse che era ‘L’internazionale’. Però non si vide nessuno», la testimonianza di Stelio Olivelli, cugino di Guido Martellini62. Cinque degli undici giovani minatori che avevano sfidato il regime con quell’irriverente rito carnevalesco, ovvero lo stesso Martellini, Mario Ghilardi, Agostino Mastacchini, Flavio Paganini e Duilio Rosati, trovarono la morte a Castelnuovo Val Di Cecina il 14 giugno 1944, massacrati dai nazisti. I loro nomi risultano nel fondo Ricompart con la qualifica “caduti nella lotta di Liberazione”. Non erano, infatti, partigiani combattenti ma avevano presumibilmente preso parte ai turni di guardia per salvare la miniera (e quindi i loro posti di lavoro) dai possibili atti di devastazione da parte dell’esercito tedesco in ritirata. L’elenco con i nominativi di coloro che svolsero la vigilanza armata agli impianti della miniera fu recuperato dal reparto responsabile della strage, il III Polizei-Freiwillingen-Bataillon-Italien. Se la strage s’inserisce nella logica della “ritirata aggressiva tedesca” che mirava a far terra bruciata e a diffondere il terrore nella popolazione civile, il perché di questa ferocia sui minatori può esser spiegato con la loro «estraneità al fascismo che poi era diventata ostilità acclarata, duratura e quasi unanime nei suoi confronti e quindi nei confronti dei suoi alleati. Un’ostilità che […] trovava proprio nel paese il luogo ove coagularsi»63.

Il miglior ritratto dei minatori di Niccioleta rimasti vittime nella strage emerge dalle accalorate parole di Padre Ernesto Balducci, l’autore de “L’uomo planetario”, originario di Santa Fiora, che di tanti di quei lavoratori era stato amico d’infanzia e compagno di scuola.

«I miei compagni non ebbero modo né tempo di scrivere lettere. Ma non avrebbero saputo che cosa scrivere, dato che non sono morti per la patria, non sono morti per la libertà, sono morti perché hanno fatto, nel luogo di lavoro, quello che dovevano fare. La miniera era il loro inferno, dove morivano un po’ ogni giorno, ma era anche il pane delle loro famiglie. Era la morte e la vita, il luogo della loro servitù e della loro potenza virile. Gli impianti che volevano salvare erano del padrone, ma erano anche parte di loro, gli strumenti della loro fecondità. Morendo per salvarli ci hanno lasciato un messaggio che sarebbe toccato a noi tradurre in un nuovo diritto di proprietà. E invece i padroni si ripresero le miniere. Anzi, si ripresero l’Italia64.

 

 

NOTE:

1Sulla strage vedi: P. Pezzino, Storie di guerra civile. L’eccidio di Niccioleta, Il Mulino, Bologna, 2001; K. Taddei (a cura di), Coro di voci sole. Nuove verità sull’eccidio degli 83 minatori della Niccioleta, Effigi, Arcidosso -Gr, 2017.

2Sulla storia della miniera vedi: R. Zipoli (a cura di), Niccioleta. Fotografie e memoria di una comunità mineraria, Biblioteca comunale “Gaetano Badii” di Massa Marittima, 2022. Per un’ampia e completa bibliografia su Niccioleta si rimanda allo stesso volume pp. 461-472. Il 3 dicembre 2023 a Niccioleta è stato inaugurato il percorso della memoria, un itinerario urbano pedonale che con l’ausilio di 14 pannelli ripercorre le tappe salienti della storia di questo villaggio minerario. Il progetto, realizzato dal Comune di Massa Marittima e dal Parco nazionale delle Colline Metallifere con il contributo della Regione Toscana e di Massa Marittima Multiservizi, ha ottenuto il patrocinio del Comitato provinciale Anpi “Norma Parenti” e dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea (Isgrec).

3ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Relazione situazione maestranze dipendenti della miniera di pirite ella Niccioleta della S.A. Montecatini (18/5/1936).

4Prima ancora della fase corporativa, il sindacalismo fascista in Maremma conobbe una sonora sconfitta con la destituzione di Luigi di Castri, il segretario provinciale dei sindacati fascisti che nell’estate 1924 guidò la mobilitazione dei minatori al fine di promuovere uno sciopero generale della categoria, per recuperare parte delle conquiste del Biennio rosso che erano state cancellate nel contratto del 1923. Di Castri sfidò la stessa Montecatini, che stava diventando uno dei maggiori sostegni del regime nell’ambito dell’economia nazionale. A fine 1924 fu deposto da ogni incarico, espulso dall’organizzazione e costretto a lasciare Grosseto. Successivamente, con la svolta totalitaria ed i patti di Palazzo Vidoni (2/10/1925), la Confederazione generale dell’industria e quella delle corporazioni fasciste si riconobbero reciprocamente quali unici rappresentati del capitale e del lavoro, abolendo le commissioni interne di fabbrica. Seguì la legge 3 aprile 1926 n. 563, che segnò la fine dei sindacati non fascisti, disciplinò giuridicamente i contratti di lavoro, istituì il ministero delle Corporazioni, creò la Magistratura del Lavoro per la risoluzione delle controversie ed abolì serrate e scioperi. Il 21 aprile 1927 fu emanata la Carta del Lavoro, il documento simbolo del corporativismo fascista. Sulla questione Di Castri vedi A. Turbanti, La classe operaia delle miniere nella guerra e nella Resistenza, in S. Campagna e A. Turbanti (a cura di), Antifascismo, guerra e Resistenze in Maremma, Isgrec-Effigi, Arcidosso -Gr, 2021, pp. 228-233.

5ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 504. Lettera del sindaco di Massa Marittima Innocenzo Vecchioni al prefetto di Grosseto (22/4/1926).

6ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 504. Lettera del segretario provinciale dei sindacati fascisti Gino Finotello all’Unione industriale grossetana (16/9/1926).

7Le sorti di Gino Finotello, segretario dei sindacati fascisti della provincia di Grosseto dal maggio 1924 al maggio 1927, non furono migliori di quelle del suo predecessore Di Castri. In seguito ai forti contrasti con il segretario federale Ferdinando Pierazzi, denunciò le ingerenze della Federazione provinciale del Pnf sull’organizzazione interna e l’autonomia dei sindacati, chiese urgentemente l’invio di un ispettore confederale per porre termine al dissidio tra la Federazione provinciale del Pnf e l’Ufficio provinciale dei sindacati fascisti, difese il proprio operato e richiese il trasferimento in altra provincia (21/5/1927). Secondo Finotello, le gerarchie politiche premevano per affidare compiti sindacali di notevole importanza all’interno dell’Ufficio a uomini di cultura limitata e completamente digiuni di sindacalismo. In seguito, un passaggio fondamentale fu lo “sbloccamento” dei sindacati fascisti del 22 novembre 1928, che comportò lo scioglimento della Confederazione nazionale dei sindacati fascisti con la conseguente costituzione delle Confederazioni autonome di categoria, privando di ulteriore forza contrattuale il sindacato, ormai ridotto al totale controllo governativo. ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 498.

8ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 595. Lettera del podestà di Massa Marittima Innocenzo Vecchioni al prefetto di Grosseto (30/8/1928).

9Le nuove tariffe salariali per i minatori della Montecatini ne “La Maremma” (8/12/1929).

10ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Lettera della Società Montecatini al prefetto di Grosseto (5/10/1931).

11ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Tabelle salariali delle maestranze della miniera di Niccioleta della Società Montecatini dopo le riduzioni del 21%.

12ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Lettera del commissario dell’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria Solimeno Petri al segretario federale e al prefetto di Grosseto (27/10/1931).

13ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Lettera del ministero delle Corporazioni al prefetto di Grosseto (30/12/1931).

14ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 569 bis. Circolare del Comando tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima. Oggetto: situazione economica e politica a Massa Marittima (1/3/1932).

15ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 569 bis. Biglietto postale di stato urgente del Comando tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima (28/2/1932).

16ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Ordine del giorno della riunione del Direttorio federale del 2/4/1932, trasmesso al prefetto di Grosseto e al ministero delle Corporazioni (19/4/1932).

17ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Circolare del prefetto di Grosseto Giuseppe Celi ai ministeri delle Corporazioni, dell’Interno e delle Comunicazioni (15/6/1932).

18ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 596. Telegramma del Comando tenenza dei carabinieri reali di Massa Marittima al prefetto di Grosseto (30/7/1932).

19ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 569 bis. Verbale della riunione del Comitato intersindacale del 23 luglio 1932.

20ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 538. Rapporto mensile sulla situazione industriale della provincia, stilato dal commissario dell’Unione provinciale dei sindacati fascisti dell’industria, Solimeno Petri (27/12/1933).

21ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 634.

22«[…] Un ordinamento come quello fascista nel quale il capitale e il lavoro sono sullo stesso piede di uguaglianza dinanzi allo Stato, non può e non deve servire ad una Compagnia straniera a carattere commerciale, per fare i suoi interessi permettendo lo sfruttamento della nostra più grande ricchezza: l’uomo. […] I primi a fare la grande esperienza del nordico sistema di meccanizzazione umana sono stati proprio i forti minatori di Gavorrano e Boccheggiano non abituati certo né a cronometrare lo sforzo generoso delle proprie braccia, né a numerare le gocce del loro sudore. Istintiva e naturale è stata, sin dal primo momento, la loro avversione al Bedeaux […] Per la sua unilateralità il sistema stesso sfuggiva ad ogni controllo, ad ogni disciplina sindacale, ed i rappresentanti degli operai, nei loro tentativi di tutelare gli interessi dei lavoratori, sempre si trovavano di fronte agli ostacoli creati dalla sfuggente tortuosità del sistema. Così per due anni è stata la nostra provincia il campo di questa battaglia senza clamore, combattuta dalle forze sane della nuova economia nazionale contro la prepotente invadenza della tendenza esotica. […] Oggi l’intervento del Duce ha sciolto il nodo inestricabile ed ha aperto la strada maestra alla soluzione del problema. E la provincia di Grosseto […] terra che ha per primo promosso la crociata del diritto e della giustizia, esulta oggi che il grande gesto di giustizia è compiuto, ed al Duce magnifico rivolge il tributo di gratitudine e devota riconoscenza». Giustizia mussoliniana, ne “La Maremma” (17/11/1934).

23Collaborazione fascista in atto, ne “La Maremma” (2/2/1935).

24A. Turbanti, La classe operaia delle miniere nella guerra e nella Resistenza, op. cit., pp. 234, 236.

25Dopo l’abolizione del Bedeaux: la stipulazione dell’accordo per le tariffe salariali degli operai della Montecatini, ne “La Maremma” (23/2/1935).

26«[…] Si sono così dimostrati pienamente infondati gli allarmi diffusi prima della liquidazione tra la massa operaia, e le diffidenze di questa verso l’organizzazione sindacale dei lavoratori, i cui dirigenti, centrali e periferici, hanno invece dimostrato in quest’occasione di saper tutelare gli interessi degli operai con avvedutezza ed energia». ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 645. Relazione mensile sulla situazione politica ed economica della provincia, inviata dal prefetto di Grosseto Francesco Palici Di Suni al Capo del Governo, ministro dell’Interno (3/5/1935).

27ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Luigi Turchi, all’Ispettorato corporativo, Circolo di Firenze (14/7/1939).

28ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703. Promemoria sulle applicazioni degli aumenti del ventennale alle maestranze minerarie della Società Montecatini della provincia di Grosseto (17/6/1939).

29ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Relazione prefettizia sulla situazione delle maestranze dipendenti dalle miniere di pirite della Niccioleta della Società Montecatini (18/5/1936).

30ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del questore di Grosseto Francesco Fiocca al prefetto di Grosseto (25/6/1936).

31ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del prefetto di Grosseto Francesco Palici di Suni al ministero delle Corporazioni e p.c. al ministero dell’Interno. Oggetto: miniera della Niccioleta, vertenze salariali (23/5/1936).

32ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del ministero delle Corporazioni, Direzione generale del lavoro, previdenza e assistenza, al prefetto di Grosseto. Oggetto: accordo integrativo salariale per gli operai della miniera di Niccioleta (24/7/1936).

33ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 640. Accordo integrativo salariale del contratto provinciale per le miniere della Provincia di Grosseto, da valere per gli operai dipendenti dalla Miniera di Niccioleta della Società Montecatini (23/7/1936).

34ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera della Società Montecatini al prefetto di Grosseto (12/9/1936).

35ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Fernando Marino, al prefetto di Grosseto (3/10/1936).

36 Il testo della sentenza chiariva che «[…] la quota di maggiorazione è dovuta a tutti i cottimisti e fa parte integrante del salario onde il datore di lavoro non può in nessun caso corrispondere al lavoratore una retribuzione inferiore a quella resultante dalla paga base e dalla percentuale minima di lavorazione. […] Il contratto di cottimo non è fatto per gli operai inferiori al tipo normale per laboriosità e capacità. La laboriosità e la normale capacità sono dunque qualità che devono sussistere in ogni operaio che viene adibito al lavoro a cottimo. La dichiarazione XIV della Carta del Lavoro prescrive dunque che il lavoratore a cottimo di normale laboriosità e capacità deve conseguire un minimo di guadagno oltre la paga base; dal che può desumersi che essendo i lavoratori adibiti al cottimo tutti presumibilmente forniti delle supradette qualità, tutti gli operai che lavorano a cottimo devono conseguire quel minimo di retribuzione che è costituito dalla paga base più la maggiorazione di cottimo». ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 666.

37ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Fernando Marino, al prefetto di Grosseto. Oggetto: garanzia minimi di cottimo operai miniera Boccheggiano-Niccioleta (12/1/1937).

38ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis. Lettera del comandante del Gruppo carabinieri reali di Grosseto, Ettore Chiurazzi, al prefetto di Grosseto. Oggetto: paghe degli operai della miniera di Niccioleta (29/1/1937).

39ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis. Lettera del comandante del Gruppo carabinieri reali di Grosseto, Ettore Chiurazzi, al prefetto di Grosseto. Oggetto: malcontento negli operai addetti alla miniera Niccioleta della S.A. “Montecatini” di Massa Marittima (23/4/1937).

40ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 679 bis.

41ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 688. Lettera del segretario dell’Unione provinciale della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Luigi Turchi, al prefetto di Grosseto (31/1/1938).

42ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 709. Contratto collettivo integrativo a quello nazionale per l’industria mineraria, da valere per gli operai addetti alle aziende minerarie della provincia di Grosseto (27/1/1939).

43 ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703.

44 La modifica consisteva nell’includere nelle voci di cottimo già esistenti delle nuove operazioni (ad esempio la colmata di carrello, lo spostamento di carrello ecc.) precedentemente pagate a parte. In pratica, mentre prima l’arrivo del carrello carico di minerale alla bocca del fosso comprendeva numerose operazioni separatamente retribuite, con il nuovo metodo la Montecatini mirava a retribuire le squadre operaie complessivamente per ogni carrello giunto alla bocca del fosso. Si cercava quindi di ottenere dagli operai un maggior rendimento con la stessa retribuzione. I lavoratori furono invitati a squadre per accettare i nuovi prezzi di cottimo: chi rifiutò di accettare tali condizioni senza aver prima consultato l’organizzazione sindacale competente fu passato al sistema di retribuzione a economia, con una riduzione di guadagno del 10% e l’ammonizione di severi provvedimenti disciplinari in caso di un calo di rendimento. Il sistema in pratica eludeva l’articolo due del contratto nazionale sulla disciplina del lavoro a cottimo, permettendo di non aumentare le tariffe insufficienti. Il malcontento tra gli operai crebbe, mentre la Montecatini, spalleggiata dall’Unione degli industriali, accusava di demagogia gli esponenti dei sindacati. I carabinieri di Grosseto riferirono che l’influenza della Montecatini era tale che gli stessi ambienti locali avrebbero preferito soffocare la tesi dei sindacati pur di conservare la benevolenza della Società. La situazione era definita preoccupante per ragioni economiche, di equità e per il mantenimento dell’ordine pubblico. ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 703. Lettera del Comando del gruppo carabinieri reali di Grosseto al prefetto di Grosseto (20/5/1939).

45Al Comune di Massa Marittima è stata attribuita la medaglia d’argento al Valor Militare per il suo contributo alla lotta di Liberazione. Nella motivazione è stata citata anche la difesa degli impianti minerari di Niccioleta.

46M. Tanzini, “Sui martiri di Niccioleta”, in “Tracce…percorsi storici, culturali e ambientali per Santa Fiora“, anno IX, Effigi, Arcidosso, 2004. Su Giuseppe Gasperi vedi: www.bfscollezionidigitali.org/entita/13539-gasperi-giuseppe. Sulla cellula comunista di Boccheggiano vedi: R. Zago, O-3-R. Nascita e primi anni di attività clandestina dell’organizzazione comunista rivoluzionaria di Boccheggiano, in “Toscana Novecento” (www.toscananovecento.it).

47L. Bianciardi, C. Cassola, “I minatori della Maremma“, Laterza, Bari, 1956 (ultima edizione Minimum Fax, Roma, 2019).

48ASGR, Fondo R. Prefettura, b. 645, relazioni sulla situazione politica della provincia inviate dal questore Francesco Fiocca al prefetto di Grosseto (30/7/1935 e 31/7/1935).

49ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 422, f. Contorni Lorenzo.

50https://partigianiditalia.cultura.gov.it/persona/?id=5bf7d1c42b689817c8bac296

51ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 449, f. Contorni Carlo.

52https://partigianiditalia.cultura.gov.it/persona/?id=5bf7d1852b689817c8bab62e

53ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 471, f. Vagnoli Primo.

54F. Avanzati, Gente e fatti dell’Amiata. Abbadia S. Salvatore fra storia, mito e memoria 1900-1937, La Pietra, Milano, 1989, pp. 220-221.

55ASGR, Fondo Questura, schedario politico CPC, b. 466, f. Rossetti Corrado.

56 P. Corner, Italia fascista. Politica e opinione popolare sotto la dittatura, Carocci, Roma, 2015; M. Grilli, Il governo della città e della provincia, in V. Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), Isgrec-Effigi, Arcidosso -Gr, 2018.

57Per la situazione politico-amministrativa di Arcidosso vedi: ASGR, fondo R. Prefettura, b. 628; ACS, MI, DGAC, Podestà e consulte municipali, b. 168, f. 1007, s.f. 1, Arcidosso.

58ASGR, Fondo Questura, Istruzioni relative ad affari riservati, b. 518.

59ASGR, Fondo Questura, Istruzioni relative ad affari riservati, b. 519. Per le statistiche sui morti sul lavoro nella miniera di Niccioleta vedi: S. Polvani, Miniere e minatori. Il lavoro, le lotte, l’impresa, Leopoldo II, Follonica -Gr, 2002, pp. 40-41.

60www.gransassolagaich.it/riti-e-pratiche-sociali/allegro-funerale/

61Tutta la documentazione su questo episodio in: ASGR, Fondo Questura, Istruzioni relative ad affari riservati, b. 519.

62L. Niccolai, Resistenza e guerra di Liberazione sul Monte Amiata (ottobre 1943-giugno1944), in AA.VV., Miniere e società, Giornate di Studio. Dal “memoriale unico” del 1919 alla strage di Niccioleta”, in “Tracce…percorsi storici culturali e ambientali per Santa Fiora”, anno IX, Effigi, Arcidosso -Gr, 2004, pp. 67.

63A. Turbanti, La classe operaia delle miniere nella guerra e nella Resistenza, op. cit., p. 265.

64E. Balducci, Quei miei compagni di scuola diventati minatori e fucilati, ne “L’Unita”, (20/6/1984).




MUSA LIBERTARIA. Virgilia D’Andrea

Le ricerche storiche talvolta nascono da semplici curiosità, salvo poi rivelare imprevisti motivi d’interesse, e questo è uno di quei casi.
Di Virgilia D’Andrea, sindacalista anarchica, poeta e propagandista vi sono diverse biografie, ma in nessuna di queste avevo trovato traccia di una sua conferenza di cui sapevo soltanto il titolo, insolito: Musa libertaria.
Ne ero venuto a conoscenza, nel corso di una ricerca sulla storia della Camera sindacale del lavoro di Livorno, fra il 1920 e il ’22, prima del fascismo.
Infatti, la sera del 15 giugno 1922, Virgilia D’Andrea, allora trentaquattrenne, tenne una partecipata conferenza presso la Camera sindacale, aderente all’USI, situata in viale Caprera, nel popolare quartiere della Nuova Venezia.
Nei giorni precedenti in varie zone della città erano avvenuti ripetuti scontri tra fascisti e sovversivi, anche con rivoltellate, e la tensione era alta così come lo sarebbe stata nelle settimane seguenti, per cui il titolo di quella conferenza poteva apparire quanto meno fuori luogo, anche se per l’anarchica di Sulmona la poesia era un’arma.
Questo il sintetico resoconto della serata che venne pubblicato sul periodico degli anarchici livornesi «Il Seme» del 18 giugno 1922:

Improvvisamente il giorno 12 corr. un telegramma giunto alla Camera del Lavoro Sindacale, annunciava l’arrivo della valorosa compagna Virgilia D’Andrea, invitando a preparare una conferenza per il giovedì sera.
Per quanto il tempo fosse ristretto la C.d.L.S. fece subito delle circolari di avviso a tutte le sezioni aderenti, nonché ai gruppi ed ai partiti di avanguardia, invitandoli a fare la necessaria propaganda per la riuscita della conferenza, disponendo poi per l’affissione di un manifesto murario che ne avesse dato l’annuncio, ma che all’ultim’ora la Questura non volle permettere con la scusa dell’ordine pubblico.
Inutile commentare intorno a questo artificioso sabottamento [sic] dell’imprevista conferenza, che però non è riuscito ad impedire che la vasta sala fosse gremita di lavoratori tra cui buon numero di donne e fanciulle.
Alle ore 21, presentata con acconce parole, dal nostro [Riccardo] Sacconi, la compagna D’Andrea imprese il suo dire, svolgendo maestrevolmente il tema: Musa libertaria.
Ci è impossibile seguire la valente oratrice nella sua fine e forbita dicitura, solo ci limitiamo a dire che simili conferenze dovrebbero essere fatte più spesso ed ascoltate anche da chi dimentico di ogni forma di vivere civile vive compiendo le più tristi azioni non escluso il delitto.
L’impressione dell’uditorio fu superiore all’attesa, ed in tutti è rimasto vivo il desiderio di potere al più presto provare ancora un simile godimento intellettuale, che noi speriamo la buona compagna non vorrà negarci.

Sfogliando le cronache del quotidiano anarchico «Umanità nova», si apprende che nei mesi precedenti Virgilia D’Andrea aveva proposto e svolto un tour di conferenze pro-Umanità nova in varie città, richiedendo che il costo del biglietto per assistervi fosse di almeno una lira; i temi proposti erano Musa libertaria, Il valore del sentimento nella vita, I nostri prigionieri, «che meglio si addicono al suo temperamento oratorio e alle sue facoltà».
Da «Umanità nova» del 4 gennaio 1922 si apprende che la sera del 31 gennaio 1921, presso un teatro di Rimini, nonostante i problemi frapposti dalla polizia, aveva tenuto, a sostegno del giornale anarchico, una conferenza dal titolo analogo: Musa liberatrice:

la compagna D’Andrea [che] per oltre un’ora tenne il pubblico legato alla parola sua vibrante e commossa. Rievocò il periodo di calma tranquilla dell’anteguerra, disse dell’ubbriacatura guerresca e continuò declamando le sue poesie, tutte vibranti di pura ed umana passione.

Come avvenuto a Rimini e Livorno, però i relativi resoconti di tali iniziative non riferivano i temi toccati nel corso della conferenza e, a quanto mi risulta, il testo della stessa non è mai stato pubblicato e comunque non figura nelle diverse raccolte edite delle sue conferenze, suscitando dunque almeno in chi scrive un certo interesse.
Probabilmente, per la stessa ammissione dei militanti autori di tali resoconti, vi era imbarazzo a descrivere le suggestioni letterarie e le emozioni da queste suscitate tra i proletari e i compagni presenti; d’altronde, come avrebbe annotato Virgilio Mazzoni, nel recensire positivamente su «Umanità nova» del 27 luglio 1922, i «versi ribelli» di Tormento, «sebbene nel nostro campo, la poesia non abbia gran fortuna… commerciale».
La mia curiosità è quindi rimasta a lungo senza risposta ma, per caso, è stata almeno parzialmente soddisfatta avendo di recente trovato nella cronaca romana di «Umanità nova» del 22 marzo 1922, un articolo che raccontando della stessa conferenza svoltasi il 19 marzo a Roma, ne tratta in modo abbastanza circostanziato, tanto da meritare d’essere trascritto integralmente.

Come fu accennato ieri, la conferenza tenuta dalla compagna Virgilia D’Andrea domenica mattina al Salone dei Parrucchieri, è riuscita splendidamente.
Benchè fosse a pagamento, organizzata pro Circolo di Studi Sociali, il pubblico è accorso ugualmente numerosissimo e molti compagni e simpatizzanti affollavano il salone di via Cavour.
La compagna D’Andrea venne presentata dal compagno Billi, studente universitario, e parlò circa un’ora fra l’attenzione vivissima e commossa del pubblico, che dimostrò una comprensione una sensibilità vivissima.
Con il lirismo semplice ma suggestivo che le è abituale, con le parole vibranti di commozione interiore che ella sa dire e che sanno sì bene trovare l’animo dell’uditorio e scuoterlo profondamente, l’oratrice evocò gli episodi più salienti della vita del popolo italiano dalla guerra al fascismo, incastonando nel discorso che appunto aveva per tema «Musa libertaria», brani di poesie ed intere liriche di sua composizione (esse verranno tra breve raccolte in volume), le quali scritte sotto l’impressione immediata degli avvenimenti man mano che si svolgevano in questi ultimi tempi e aventi perciò tutta la naturalezza delle cose spontanee, non potevano non avvincere e non appassionare l’uditorio.
«Cieco di guerra», «Decimazione», «Il ritorno dell’esule» (riferentesi al rimpatrio del nostro Malatesta), «Presa e resa delle fabbriche», tutti questi episodi, queste tappe del faticoso cammino dei lavoratori verso il suo domani, verso le sue conquiste, ebbero nei versi della nostra buona compagna tale impeto comunicativo, che tutti i presenti non potettero astenersi dal manifestare nel modo più tangibile la loro commozione.
Noi siamo sicuri che trattenimenti artistici e sociali ad un tempo come questi, giovino assai alla propaganda ed all’educazione delle masse.
Il proletariato, i giovani, gli uomini del lavoro, hanno bisogno , non solo della conferenza critica e polemica, non solo della fanfara, ma anche della melodia. Sono queste delle sublimazioni dello spirito il cui giovamento non è affatto da mettersi in dubbio.
In questa conferenza si è verificato quel che accade quando l’oratore riesce ad avvincere l’anima ed il cervello di chi ascolta. Il pubblico applaude; ma è più forte in lui il bisogno di trattenere l’applauso per non turbare lo stato di godimento spirituale in cui è versato. Ma l’applauso trattenuto è poi scoppiato scrosciante quando l’oratrice, ricordando tutte le nostre vittime, tutti i morti sulla via della lotta rivoluzionaria ha chiuso con i magnifici versi del Carducci:
«… Sangue dei morti affretta
I rivi tuoi vermigli e i fati
Al ciel vapora e di vendetta
Inebria i nostri figli!».

L’annunciato libro era Tormento, con prefazione di Errico Malatesta e copertina scarlatta, pubblicato a Milano nello stesso anno dalla Tipografia Zerboni, e nel marzo del 1923 l’Autrice venne denunciata per vilipendio e istigazione all’odio di classe, con mandato di cattura, proprio in relazione a quella sua raccolta di poesie che, evidentemente, oltre a commuovere il proletariato lo invitavano alla rivolta.
Nel patetico tentativo di sintetizzare il contenuto della raccolta di poesie, uno zelante funzionario di questura scrisse: «Il libro è scritto in versi, ed i versi sono trasmodanti di felina bile contro l’Italia nei suoi poteri e nel suo assetto sociale: sono versi scritti pensatamente e con studio per istigare a delinquere, eccitare all’odio e vilipendere l’Esercito».
Prima però di soffermarsi sulle “trasmodanti” poesie presentate da Virgilia nel corso della conferenza, faccio qualche ipotesi sulla parte di questa in cui, come accennato dall’anonimo redattore romano, aveva evocato «gli episodi più salienti della vita del popolo italiano dalla guerra al fascismo».
Presumibilmente furono, più o meno, gli stessi temi e protagonisti ripresi nelle innumerevoli conferenze che avrebbe tenuto tra il 1929 e il 1932 negli Stati Uniti dove era emigrata, assieme al compagno di vita, ideali e militanza Armando Borghi, per sfuggire alle persecuzioni fasciste e poliziesche.
In particolare, nelle conferenze Tenebre e fiamme nella tragedia italiana e Le Tradizioni italiane rinnegate e tradite dal fascismo, partendo dalle pagine della letteratura italiana, non sottomesse per amore di libertà alle precedenti dominazioni, Virgilia D’Andrea aveva sostenuto che «il fascismo fu ed è l’antitesi profonda del pensiero italiano», citando anche Vittorio Alfieri: «L’arte mia sono le muse; la predominante mia passione l’odio della tirannide».
Tenendo conto che quelle conferenze americane erano rivolte ad un pubblico composto soprattutto da lavoratori immigrati dall’Italia, verso cui il regime fascista svolgeva un’intensa propaganda incentrata sul patriottismo, attraverso i giornali e le conferenze organizzate dai Fasci costituiti anche negli Stati uniti, si comprende il senso antifascista delle conferenze culturali dell’instancabile anarchica.
Delle quattro poesie recitate a Roma, e quasi sicuramente anche a Livorno, Cieco di guerra (agosto 1920) e Decimazione (settembre 1919) erano contro gli orrori della Prima guerra mondiale, con la maledizione della retorica patriottica «irridente insulto», e ne Il ritorno dell’esule (dicembre 1919), dedicato al rientro clandestino di Malatesta in un’Italia attraversata dai sommovimenti rivoluzionari, vi era l’attesa «Per l’urto immane della «rossa» storia», mentre La presa e la resa delle fabbriche (ottobre 1920) era una sorta di amaro bilancio politico dell’Occupazione delle fabbriche, conclusasi pochi mesi prima, «sotto il cielo nero».
Tutte questioni che urlavano vendetta e giustizia sociale, facendo pericolosamente appello al cuore non meno che all’intelligenza di ogni oppresso e di ogni sfruttata.