«Ecco ancora una volta la voce solenne dell’Etruria antica nella Maremma». Note sull’uso politico della storia antica nella Grosseto fascista [1]

«I nostri localisti sparirebbero, come gruppo organico,

se fosse possibile dimostrare, ciò che è augurabile,

che gli Etruschi non sono mai esistiti»[2]

 

La colonna romana collocata nel 1938 sul Bastione Mulino a vento,, oggi collocata nel Giardino dell’Archeologia

Il 24 maggio 1938 il prefetto di Grosseto, Enrico Trotta, su sollecitazione del R. Provveditore agli studi Niccolò Piccinni, inviò una lettera alla Presidenza del Consiglio dei ministri per invitare ufficialmente il ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai a presenziare ad alcune cerimonie organizzate in diversi centri della provincia. Con ogni probabilità, l’invito mirava a richiamare l’attenzione del ministro su una grave anomalia: a Grosseto mancava una sede autorizzata a svolgere gli esami di abilitazione magistrale e di maturità classica, circostanza che la rendeva l’unico capoluogo di provincia in Italia in tale condizione. Si trattava, come si sottolineava, di una «questione di prestigio» per una città in rapida crescita demografica, ormai avviata verso la trasformazione da borgo rurale a moderno centro di servizi, nonché di un «riconoscimento di una legittima aspettativa dei cittadini, delle autorità e delle gerarchie fasciste»[3].

Il viaggio, previsto «possibilmente verso la metà del prossimo giugno», avrebbe visto la partecipazione del ministro all’«inaugurazione di oltre duecento gagliardetti delle scuole elementari» e alla «posa della prima pietra dell’Istituto tecnico minerario di Massa Marittima» che coronava «un’annosa aspirazione di quella città» a dotarsi di un istituto che formasse i quadri della maggiore industria del territorio. Tra le due iniziative, era poi stata programmata una cerimonia dall’alto valore simbolico: «l’inaugurazione di una colonna romana sulle mura medicee del capoluogo, in ricordo della celebrazione del bimillenario di Augusto»[4].

La mancata partecipazione del Ministro – impossibilitato a raggiungere la provincia per i «troppi impegni per l’anno in corso»[5] – non impedì tuttavia il regolare svolgimento della celebrazione augustea, il 17 di giugno, che si aprì con un’orazione pubblica del prof. Francesco Moggio del R. Liceo ginnasio “Carducci-Ricasoli” e vide la consegna «da parte delle scuole di una colonna romana, tratta dagli scavi dell’antica Roselle ed eretta sui bastioni della città, per significare la continuità dell’idea di Roma da Augusto a Mussolini», accompagnata dall’esecuzione, da parte del coro dell’Istituto magistrale, «dell’inno a Roma e degli altri della Patria fascista»[6].

Espressione di quella tendenza all’occupazione del tempo sociale, all’imposizione di un nuovo senso della Storia e alla riorganizzazione del calendario civile precocemente espressa dal regime[7], la celebrazione del bimillenario della nascita di Augusto costituì «l’apice dell’identificazione del fascismo con la romanità»[8]. A seguito della conquista dell’Etiopia, il regime aveva infatti accentuato la propria identificazione con un immaginario di tipo imperiale, elaborato e diffuso anche grazie all’opera di storici e intellettuali militanti, che contribuirono a trasformare Mussolini in «un vero e proprio alter ego di Augusto»[9].

Diversamente da altri anniversari legati a personaggi della res publica, come quelli dedicati alla nascita di Orazio (1930) e di Virgilio (1935), il bimillenario augusteo fu accompagnato da un articolato programma di celebrazioni. Sul piano nazionale esso trovò la sua espressione più evidente nell’inaugurazione della Mostra Augustea della Romanità, aperta a Roma il 23 settembre 1937 in concomitanza con la riapertura della Mostra della Rivoluzione fascista[10]. Parallelamente, a livello locale furono promosse iniziative di varia natura, nelle quali si realizzarono le più disparate pratiche di «appropriazione/reinvenzione della storia di Roma» in funzione propagandistica[11].

Area degli scavi archeologici di Roselle (Credits: https://museitoscana.cultura.gov.it)

A Grosseto, come si è visto, le celebrazioni assunsero la forma di una vera e propria riconsacrazione di un reperto archeologico elevato a simbolo della romanità. Ciò serviva a richiamare la filiazione diretta del capoluogo della Maremma dall’antica Roselle, oggetto di scavi nella seconda metà degli anni Venti sull’onda di un crescente interesse storico e identitario. Importante centro della dodecapoli etrusca, poi conquistata dai Romani e ulteriormente sviluppatasi a cavallo tra il III e il II secolo a.C. – quando fornì grano e legname per la flotta di Publio Cornelio Scipione diretta sulle coste cartaginesi – Roselle era divenuta sede vescovile tra il IV e il V secolo d.C. Fu progressivamente abbandonata dai suoi abitanti nei secoli successivi, e nel 1138 la cattedra vescovile venne trasferita nel borgo di Grosseto, sorto lungo la via Aurelia in una posizione più facilmente difendibile dagli attacchi provenienti dal mare[12].

Tra il 1937 e il 1938, parallelamente alle iniziative promosse in occasione del bimillenario augusteo, videro la luce alcuni contributi storico-archeologici dedicati al capoluogo e a diversi centri della provincia di Grosseto. Si trattava di lavori generalmente di modesto valore scientifico e poco inclini a confrontarsi con la ricerca accademica, ma che ben si prestavano a essere utilizzati come strumenti di celebrazione della romanità fascista[13]. Gli autori appartenevano ai diversi filoni della cultura erudita locale e avevano aderito con anticipo e convinzione alle politiche culturali del regime; la loro attenzione era orientata – per usare un’espressione di Luciano Bianciardi – verso il «problema delle origini»[14], in contrasto con l’approccio degli intellettuali più giovani, impegnati invece a costruire, attraverso la letteratura e le arti figurative, l’immagine di una provincia “redenta” dalla bonifica integrale e destinata ad assumere un ruolo di rilievo nella cultura nazionale[15].

A. Salvetti, 1929, Ritratto di Monsignor Antonio Cappelli, olio su tela, conservato nel Museo di arte sacra della Diocesi di Grosseto

Tra le figure più rilevanti di questo gruppo spiccava Antonio Cappelli – il «canonico dottissimo e sordo» ricordato da Geno Pampaloni[16] – punto di riferimento della cultura grossetana. Cappelli dirigeva il Museo civico, il Museo diocesano e la Biblioteca Chelliana, oltre al “Bollettino della Società storica maremmana”, rivista che nei primi anni aveva ospitato contributi di Gioacchino Volpe e del giovane Ranuccio Bianchi Bandinelli, prima di trasformarsi, nel 1931, nell’organo del locale Istituto fascista di cultura[17]. Fu proprio Cappelli a impegnarsi con particolare costanza nella costruzione di una mitologia storica fondativa del capoluogo, incentrata soprattutto sul periodo medievale[18].

Assai più attento agli studi e alla divulgazione delle più recenti scoperte archeologiche era il pubblicista Pietro Raveggi, fondatore del Civicum antiquarium annesso alla biblioteca di Orbetello e, dal 1936, membro della locale Commissione propaganda. A lui si devono ricerche sulla città lagunare, su Ansedonia-Cosa, Talamone e sull’area meridionale della provincia, caratterizzate da un livello scientifico più rigoroso rispetto alla produzione coeva[19]. Come Cappelli, Raveggi ricopriva da molti anni l’incarico di Regio ispettore onorario per le antichità e l’arte nella provincia, funzione che gli fu confermata proprio nell’anno del bimillenario augusteo[20].

Lo studioso che nel biennio 1937-1938 si impegnò più sistematicamente nella valorizzazione della romanità in chiave fascista – espressione di quel «filone erudito più attento alla retorica di campanile che al rigore della ricerca»[21] – fu tuttavia Adone Innocenti, autore di due contributi dedicati a Roselle. In un breve articolo, L’antica via Aurelia attraverso il territorio rosellano, egli ripercorreva la genesi di «una delle più famose e magnifiche strade romane», insistendo sulla sovrapposizione di parte del suo tracciato con un’arteria più antica che collegava Roselle e Vetulonia: «Ecco ancora una volta la voce solenne dell’Etruria antica nella Maremma, che vide le legioni romane marciare sulle strade consolari al cospetto del “Mare nostrum” solcato dalla potenza marinara di Roma»[22].

Come si evince da questo testo, anche per gli intellettuali locali più allineati all’ideologia fascista appariva molto complesso celebrare la presunta romanità di Grosseto senza far riferimento alla persistenza di un radicato “sostrato etrusco” che, fin dalla metà dell’Ottocento, era divenuto un elemento costitutivo dell’identità maremmana[23] inizialmente condivisa dalle élites cittadine e, in seguito, grazie al crescente numero di scoperte archeologiche, divenuto patrimonio della cittadinanza intera[24].

Il canonico Giovanni Chelli

A conferma di ciò – e riproponendo una polemica, di ascendenza sette-ottocentesca, nei confronti di Roma e della sua eredità storica – alcuni intellettuali cittadini, ancora alla fine degli anni Venti, continuavano a contrapporre etruschi e romani, richiamandosi alla narrazione codificata dal canonico Giovanni Chelli nel 1849, fondatore del museo e della biblioteca cittadini, il quale accusava i Romani di aver sfruttato in modo irrazionale le risorse naturali e di aver compromesso l’equilibrio ambientale della regione[25].

Un esempio significativo di tali frizioni, che ostacolarono sul piano locale la completa assimilazione degli Etruschi all’interno del «mito unitario della romanità»[26], è offerto dal fascicolo dedicato a Grosseto della collana Cento città d’Italia illustrate, pubblicato sul finire degli anni Venti da Sonzogno. Riflettendo sulla decadenza delle città etrusche e, più in generale, della Maremma, l’autore del saggio, il preside del R. Liceo-ginnasio “Carducci Ricasoli” Enrico Fatini, scriveva:

Cento città d’Italia illustrate, numero dedicato a Grosseto

Forse giova pensare che i Romani abbiano incontrata accanita resistenza nell’assoggettare questo popolo generoso e fiero, e però si siano mostrati inesorabili con esso, sino a disperderne la memoria per poterne soffocare con questa ogni anelito di libertà. Sotto i Romani, il paese, trascurato e disertato, iniziò il suo disfacimento[27].

Queste dinamiche legate all’identità etrusca non si spiegano soltanto in termini di continuità culturale. Dal canto suo, il regime fascista aveva promosso, a partire dal 1925, «un processo di istituzionalizzazione dello studio degli Etruschi» sul piano nazionale: dalla creazione della prima cattedra di Etruscologia all’Università di Roma, alla convocazione dei primi convegni nazionali, fino all’organizzazione dell’Istituto di studi etruschi[28]. Il fascismo mirava a individuare nel popolo etrusco l’origine di un primigenio laboratorio dell’italianità, che avrebbe trovato pieno compimento nella civiltà romana; dal punto di vista “razziale”, gli Etruschi venivano inoltre considerati l’anello iniziale di una continuità di sangue e di stirpe che, attraverso Roma, conduceva linearmente all’Italia di Mussolini, respingendo ogni ipotesi relativa a una loro presunta origine non autoctona.

Ascia bipenne rinvenuta nella c.d. Tomba del Littore a Vetulonia nel 1898

A sostegno di tale genealogia veniva spesso richiamata l’origine etrusca del simbolo stesso del regime: il fascio littorio, la cui legittimazione archeologica era affidata al ritrovamento, avvenuto a Vetulonia nel 1898, di un’ascia bipenne racchiusa da lamine in metallo rinvenuta nella cosiddetta Tomba del Littore[29].

Sul piano locale, l’idea di una filiazione diretta tra l’Etruria e la “Terza Roma” mussoliniana trovò terreno fertile tra gli intellettuali coinvolti nell’organizzazione della cultura e della propaganda. Come scriveva Pietro Raveggi a proposito della città di Heba, «il problema etrusco si confonde con quello delle origini stesse della civiltà italica» e solo grazie al fascismo e al Duce era stato possibile «dar vita e forma a questo rifiorente culto verso la nostra antica tradizione»[30].

Nel 1943 si ebbe invece un intervento culturale di più ampio respiro, promosso direttamente dal provveditorato agli studi. In quell’anno venne infatti avviata la pubblicazione, a cura dello stesso provveditorato, di una collana di monografie sugli etruschi da distribuire nelle scuole medie della provincia. Nella Premessa del primo volume, ristampa di una ricerca dell’etruscologo Pericle Ducati del 1933, il provveditore Ernesto Lama sottolineava il ruolo primigenio della civiltà etrusca nella genealogia italica:

gli Etruschi potrebbero rivendicare una precisa funzione, oltre che nell’etnogenesi italiana, anche nella formazione storica di Roma, che dalla cultura e dalla potenza degli Etruschi trasse efficaci elementi, specie nel primo periodo, per la sua grandiosa costruzione[31]

Successivamente Lama si rivolgeva agli alunni della Maremma, motivando le ragioni dell’iniziativa editoriale con queste parole, che richiamavano la necessità di integrare il piano dell’identità locale e di quella nazional-patriottica:

Il fascino e l’ansia che sospingono l’odierna Maremma a ricercare l’origine della sua gente nel proprio sottosuolo, disseminato di tombe e di avanzi gloriosi, sembra perpetuare una volontà di potenza giammai estinta, oltre che costituire una nobile rivendicazione dello spirito severo degli antichissimi padri, della loro vita operosa ed espansiva, delle loro molteplici e gloriose attività. Portare un qualche contributo a questa nobile aspirazione dei Maremmani e, nello stesso tempo, chiarire, precisare e divulgare problemi di cultura che valgano ad illuminare la perenne gloria legata in ogni epoca, sin dalle antichissime età, alla storia d’Italia, sono i motivi e le finalità che hanno ispirato questa raccolta di brevi monografie, la cui pubblicazione si inizia in un momento fatidico ed augurale della nostra Italia, come per trarre dal profondo della storia gli auspici per l’avvenire[32].

In conclusione, appare evidente come già in epoca fascista il culto della romanità fascista non avesse trovato, nel marginale contesto sociale e culturale grossetano, un terreno realmente fertile. Da questa discrepanza, si avviò così una dinamica destinata a emergere con particolare nettezza nel secondo dopoguerra, quando, tanto nell’ambito archeologico quanto nell’opinione pubblica locale, si sarebbe progressivamente consolidata una tradizione filoetrusca, mentre il disinteresse per l’eredità romana sarebbe risultato sempre più evidente, nonostante la presenza sul territorio di scavi di grande rilievo[33]. La forte identità etrusca della Maremma, costruita dalle élite intellettuali cittadine fin dall’Ottocento, non solo resistette alle pressioni ideologiche del regime, ma finì anzi per rimodulare almeno in parte e secondo una logica di continuità locale, la stessa ricezione della politica culturale fascista.

Note

[1] L’autore ringrazia Michele Gandolfi, Adolfo Turbanti ed Elena Vellati per aver letto e commentato la prima stesura di questo contributo.

[2] Luciano Bianciardi, I localisti in «La Gazzetta», 13 settembre 1952 ora in Id., Tutto sommato. Scritti giornalistici 1952-1971, vol. 1, ExCogita, Milano 2022, pp. 101-102.

[3] Archivio di Stato di Grosseto (ASG), R. Prefettura, Gabinetto, b. 690, lettera del prefetto Trotta alla Direzione generale dell’Istruzione media classica del ministero dell’Educazione nazionale, 26 aprile 1938. Sul peculiare sviluppo sociale e urbanistico di Grosseto si veda Gian Franco Elia, Città malgrado. Profilo dello sviluppo urbano, in Simone Neri Serneri, Luciana Rocchi (a cura di), Società locale e sviluppo locale. Grosseto e il suo territorio, Carocci, Roma 2003, pp. 105 e ss.

[4] ASG, R. Prefettura, Gabinetto, b. 691, lettera del prefetto Trotta alla Presidenza del Consiglio dei ministri, 24 maggio 1938.

[5] ASG, R. Prefettura, Gabinetto, b. 691, lettera del Ministro Bottai al prefetto Trotta, 10 giugno 1938.

[6] ASG, R. Prefettura, Gabinetto, b. 691, invito per la celebrazione del bimillenario augusteo, 14 giugno 1938.

[7] Cfr. Piergiorgio Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 63-129; Claudio Fogu, The Historic Imaginary: Politics of History in Fascist Italy, Toronto University Press, Toronto 2016; Paola S. Salvatori (a cura di), Il fascismo e la storia, Edizioni della Normale, Pisa 2020.

[8] Aristotle Kallis, “Framing” Romanità: The Celebrations for the Bimillenario Augusteo and the Augusteo-Ara Pacis Project, in “Journal of Contemporary History”, vol. 46, n. 4, 2011, pp. 809-831 [traduzione mia].

[9] Andrea Giardina, André Vauchez, Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 248.

[10] Cfr. Alessandro Cavagna, Il «benefico impulso di Roma»: la Mostra augustea della romanità e le province, in Paola S. Salvatori (a cura di), Il fascismo e la storia, cit., pp. 51-72.

[11] Cfr. Piergiovanni Genovesi, Propaganda di regime tra centro e periferia. Una celebrazione “locale” della romanità fascista, in “SPES”, n. 9, 2019, pp. 71-91

[12] Doro Levi, Il Museo di Grosseto e gli scavi di Roselle, “Maremma. Bollettino della società storica maremmana”, n. 3, 1926-1927, pp. 81-87.

[13] Cfr. ad esempio Adone Innocenti, Roselle e il suo territorio, Tipografia Fascista La Maremma, Grosseto 1938; Ildebrandino Rosso, Saturnia, Tipografia Fascista La Maremma, Grosseto 1938; Pietro Raveggi, Ansedonia, Tipografia Fascista La Maremma, Grosseto 1937; Id., Sull’identificazione di Talamone etrusco-romano, Bollettino di Statistica del Comune di Grosseto, aprile 1938, pp. 1-8

[14] Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale, Feltrinelli, Milano 2009 [1957], pp. 5-12. Per una panoramica su queste figure si rimanda a Carlo Citter, Il progresso degli studi fra’800 e ‘900: la nascita dell’archeologia e i primi studiosi locali in Id., Antonia Arnoldus-Huyzendveld (a cura di), Archeologia urbana a Grosseto. Vol. I: La città nel contesto geografico della bassa valle dell’Ombrone. Origine e sviluppo di una città medievale nella “Toscana delle città deboli”, All’insegna del giglio, Firenze 2007, pp. 5-6.

[15] Centrale fu l’esperienza della rivista di arti e letteratura Ansedonia diretta da Antonio Meocci. Cfr. Simone Giusti, «Ansedonia» e «Mal’aria», due riviste di letteratura e arte in Maremma in Enrico Crispolti, Anna Mazzanti, Luca Quattrocchi (a cura di), Arte in Maremma nella prima metà del Novecento, Silvana, Milano, 2006, pp. 305-309. Sul contesto generale mi permetto di rimandare a Stefano Campagna, «Dobbiamo aver coscienza del nostro provincialismo culturale». Intellettuali, politica e cultura a Grosseto dal fascismo al miracolo economico di prossima pubblicazione nel Quaderno n. 20 della Fondazione Luciano Bianciardi.

[16] Geno Pampaloni, Prefazione in Antonio Meocci, Maramad, Barulli, Roma 1969, p. 12. Su Antonio Cappelli si veda Mariagrazia Celuzza, Il canonico Antonio Cappelli (1868-1939) in Cristina Gnoni Mavarelli, Laura Martini (a cura di), La cattedrale di San Lorenzo a Grosseto. Arte e storia dal XIII al XIX secolo, Silvana, Milano 1996, pp. 105-116.

[17] Fondato nel 1923 da un comitato promotore composto da studiosi locali e di rilevanza nazionale, il Bollettino della società storica maremmana cessò definitivamente le sue pubblicazioni nel 1936. Sarà poi rifondato negli anni Sessanta. Cfr. Mariagrazia Celuzza, Etruschi per forza: l’archeologia della Maremma e l’identità del territorio in Ead., Elena Vellati (a cura di), La grande trasformazione. Maremma tra epoca lorenese e tempo presente, Isgrec-Effigi, Arcidosso 2019, p. 156.

[18] A questo proposito si veda Antonio Cappelli, La signoria degli Abati del Malia e la repubblica senese in Grosseto, Tipografia Fascista La Maremma, Grosseto 1931.

[19] Cfr. ad esempio Pietro Raveggi, La Sub-Cosa e il Vico Cosano: contributo allo studio dei suburbii e vichi etruschi in Alcune comunicazioni presentate al 1. Convegno nazionale etrusco, Stabilimento tipografia sociale, Cortona, 1926. Su Raveggi si veda Giovanni Damiani, Pietro Raveggi. La vita e le opere, Effigi, Arcidosso, 2015.

[20] Cfr. ASG, R. Prefettura, Gabinetto, b. 690, lettere della R. Sovraintendenza all’arte medievale e moderna per la Toscana al prefetto Trotta, 13 gennaio 1938.

[21] Carlo Citter, Il progresso degli studi fra’800 e ‘900, cit., p. 5.

[22] Adone Innocenti, L’antica Via Aurelia attraverso il territorio Rosellano, Tipografia Fascista La Maremma, Grosseto 1938, p. 6.

[23] Sulla lunga durata di questo fenomeno identitario cfr. Mariagrazia Celuzza, Luciano Bianciardi, gli etruschi, il medioevo e Grosseto: una questione di identità? in Valentino Nizzo, Antonio Pizzo (a cura di), Antico e non antico. Scritti multidisciplinari offerti a Giuseppe Pucci, Milano, Mimesis 2018, pp. 105-106.

[24] Cfr. Ead, Etruschi per forza, cit. pp. 146-155.

[25] «Sì, questi crudeli dominatori […] non furono lenti a rapire quanto nel mio seno si conteneva di bello e raro, ad arrogarsi il godimento di ciò che non potevano rapirmi, cioè la fecondità prodigiosa del mio suolo, le miniere inesauribili, le immense foreste necessarie un tempo alla costruzione navigli […]. Ma costoro ricambiarono tanti miei benefizi colla più nera ingratitudine; perché è da essi che io ripeto la prima cagione della insalubrità del mio clima» (Giovanni Chelli, La Maremma personificata che narra le sue passate e presenti vicende, Stamperia sulle logge del grano, Firenze 1846, pp. 54-55, cit. in ivi, p. 147)

[26] Andrea Avalli, Il mito della prima Italia. L’uso politico degli Etruschi tra fascismo e dopoguerra, Viella, Roma 2024, p. 6 [versione ebook].

[27] Le cento città d’Italia illustrate. Grosseto, la Maremma risanata, Sonzogno, Milano, s.d. [1926-1929], pp. 3-4.

[28] Cfr. Andrea Avalli, Il mito della prima Italia, cit., pp. 51-87 [versione ebook].

[29] Cfr. Paola S. Salvatori, Romanità e fascismo: il fascio littorio in “Forma Urbis”, n. 6, 2013, pp. 34-52.

[30] Pietro Raveggi, Heba e la sua necropoli, in “Maremma. Bollettino della società storica maremmana”, n. 3, 1934, p. 3.

[31] Ernesto Lama, Introduzione in Pericle Ducati, La formazione del popolo etrusco, R. provveditorato agli studi di Grosseto, Grosseto 1943 [1933], p. VII.

[32] Ivi, p. VIII.

[33] Cfr. Mariagrazia Celuzza, Etruschi per forza, cit. pp. 158.




Costanzo Ciano e il controverso affondamento della “Viribus unitis” (1° novembre 1918)

Tra le numerose onorificenze conferite a Costanzo Ciano (Livorno 1875 – Ponte a Moriano 1939), “eroe navale” nonché ricchissimo armatore e gerarca ministeriale del regime fascista, è annoverata quella di Commendatore dell’Ordine Militare di Savoia, attribuitagli il 19 gennaio 1919; tale riconoscimento rimane però il più controverso ed anche il meno conosciuto fra quelli ricordati nelle biografie – sia agiografiche che critiche – del noto esponente militare, politico e imprenditoriale livornese.
L’attribuzione onorifica della “commenda” era infatti legata ad un episodio bellico, costato la vita a circa trecento marinai (le stime a riguardo oscillano fra 250 e 350) quando ormai il conflitto si era virtualmente concluso; inoltre, poneva non poche ombre sull’atteggiamento morale e la fama dell’intrepido “violatore” di porti nemici[1].
L’azione di guerra in questione avvenne nella notte fra il 31 ottobre e il 1° novembre 1918, nel porto adriatico di Pola (Pula), base strategica della Marina austro-ungarica, dove furono affondate la corazzata “Viribus unitis” e la nave passeggeri “Wien” del Lloyd Austriaco ad opera di due ufficiali della Regia Marina italiana, mentre a Padova erano in corso i negoziati per stipulare l’armistizio fra Italia e Austria-Ungheria, poi formalizzato il 3 novembre con la firma delle rispettive delegazioni che, il giorno seguente, mise fine alle ostilità.
L’imperatore Karl I d’Asburgo, fin dal 16 ottobre 1918, aveva emanato un proclama che offriva la trasformazione della Duplice Monarchia in uno stato federale. Tra i provvedimenti connessi, era prevista la cessione della flotta imperial-regia alla nuova, ipotetica, federazione jugoslava, ossia dei Croati e degli Sloveni.
Di fatto, dunque, fin dal 17 ottobre era da ritenersi conclusa per l’Austria la guerra sul fronte navale.
Il 29 ottobre, il Comando supremo delle forze armate austriache aveva quindi accettato le condizioni per la resa imposte dalle forze alleate, fra cui la consegna dell’intera flotta alle nazioni vincitrici e il 30 ottobre, venerdì, l’imperatore Karl I aveva preventivamente disposto la consegna della flotta al Consiglio nazionale degli Sloveni, Croati e Serbi[2].
Infatti, fin dal pomeriggio del 30, sulle unità navali ancorate nel porto di Pola erano state ammainate le bandiere austriache, per essere sostituite da quelle croato-slovene. Sulla “Viribus unitis”, prontamente ribattezzata “Jugoslavija”, la bandiera imperiale venne ammainata alle ore 16.45 del 31 ottobre e, poco dopo, furono issate le bandiere croato-slovene sui due alberi principali della nave, così come altrettante bandiere rosse, salutate da 21 salve di cannone. Molti marinai avevano già cucito sui berretti i distintivi jugoslavi, mentre il comando della flotta era stato trasferito, su decisione del Consiglio nazionale jugoslavo, al capitano di fregata, croato, Janko Vukovič von Podkapelski che sarebbe perito nell’affondamento.
A terra, come a bordo delle navi ormeggiate, marinai, soldati e operai dell’Arsenale militare, oltre a festeggiare la fine della guerra, avevano formato comitati dei soldati e dei marinai, alla stregua di soviet, secondo le rispettive nazionalità (austriaci, boemi, cecoslovacchi, polacchi, ucraini, ungheresi e romeni), reclamando l’immediato congedo ed issando bandiere coi colori nazionali ma anche rosse. Anche la città era in tumulto e ovunque erano apparse bandiere italiane.
L’equipaggio effettivo della corazzata – 1.087 uomini tra marinai, sottufficiali e ufficiali – era assolutamente composito: 47% slavi (croati, sloveni, serbi…), 20% ungheresi, 16% austriaci, 15% italiani. Alcuni marinai di nazionalità austriaca ed ungherese erano già sbarcati, altri (inclusi gli italiani) sarebbero partiti l’indomani; il restante equipaggio era formato solo da sloveni e croati. Nessuno avrebbe più obbedito e combattuto e, nell’illusione della pace ormai venuta, sia in città che sulle navi, si era rinunciato alle misure d’oscuramento e la vigilanza era stata allentata.
L’obiettivo dell’incursione subacquea, la “Viribus unitis”, varata il 24 giugno 1911 a Trieste ed entrata in servizio nel 1912, assumeva una valenza simbolica in quanto ammiraglia della flotta imperiale. Inoltre, a fine giugno 1914 aveva riportato a Trieste le salme dell’erede al trono Franz Ferdinand e della consorte Sofia, uccisi nel fatidico attentato di Sarajevo e, il 24 maggio 1915, aveva partecipato al bombardamento navale di Ancona. Costata 67 milioni di corone, dal punto di vista militare, era risultata inadatta alla guerra marittima nell’Adriatico ed infatti, nel corso del conflitto, la “dreadnought” rimase quasi sempre alla fonda nel porto di Pola.

LA MISSIONE IN EXTREMIS

La missione di guerra subacquea, a lungo progettata, divenne operativa il 29 ottobre quando giunse a Venezia il telegramma con l’ordine di esecuzione immediata, da parte dell’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, Capo di Stato maggiore della Marina italiana, impartito al capitano Costanzo Ciano, capo dell’Ispettorato dei Motoscafi Antisommergibili[3].
Alle due pomeridiane del 31 ottobre 1918, due torpediniere (65-PN e 66-PN) e due Mas (94 e 95), a traino di queste, lasciarono dunque il porto di Venezia, al comando di Ciano, imbarcato sulla torpediniera 65-PN[4].
Verso sera, secondo il piano prestabilito, il Mas 95, su cui prese posto Ciano, fu “mollato” dalla torpediniera e fece rotta verso Pola, trasportando a bordo la “mignatta” S2, ossia un siluro modificato e munito, a prua, di due cariche esplosive magnetiche con 175 kg di tritolo ciascuna. Giunto nei pressi delle Isole Brioni, a circa tre miglia da Pola, il Mas 95, alle 22.13, mollò la “mignatta” lasciandola alla guida dei due “incursori” subacquei che, dopo circa quattro ore di navigazione semi-sommersa, riuscirono a superare gli ultimi sbarramenti del porto e raggiungere l’obiettivo. Non senza difficoltà, una delle due cariche fu

Mignatta (Museo navale La Spezia)

assicurata allo scafo della ex “Viribus unitis”, mentre l’altra, innescata e trasportata dalla “mignatta” abbandonata alla deriva, sarebbe finita nei pressi del piroscafo “Wien” affondandolo, senza causare altre vittime. I due «motonauti», scoperti e condotti a bordo della corazzata, avvisarono il comandante che la nave stava per saltare in aria, ma a causa di un ritardo del meccanismo ad orologeria, l’equipaggio tornato a bordo, dopo un primo abbandono, fu tragicamente coinvolto dell’esplosione e nel rapido naufragio della nave da battaglia, ormai non più “belligerante”.
Le ragioni di tale affondamento restano controverse; se forse i due “incursori” erano all’oscuro che ormai la “Viribus unitis” non poteva più essere ritenuta un’unità nemica, gli alti Comandi italiani ne erano verosimilmente al corrente. Innanzi tutto, a Pola, oltre al Consiglio nazionale degli jugoslavi si era costituito anche un Consiglio nazionale degli italiani in contatto con l’Italia così come, sicuramente, in città operavano agenti dell’intelligence militare italiana. Inoltre i servizi di informazione della Marina italiana sin dalla mattina del 31 ottobre avevano intercettato messaggi che riferivano dell’avvenuto passaggio di poteri. La notizia della cessione della flotta era peraltro già di dominio pubblico ed aveva raggiunto le redazioni dei giornali.
Nonostante ciò, alle torpediniere in navigazione non fu trasmesso via radio alcun contrordine da parte dell’Ammiragliato e su tale circostanza si possono fare almeno due ipotesi: i vertici della Marina italiana intendevano concludere il conflitto con una propria clamorosa affermazione, volta a bilanciare l’ultima “gloriosa” offensiva dell’Esercito italiano a Vittorio Veneto, oppure gli stessi comandi – d’intesa con il Ministero della guerra – miravano a indebolire la flotta del nascente stato jugoslavo, per assicurarsi il controllo navale dell’Adriatico nel dopoguerra[5].
Di fatto, circa trecento marinai di varie nazionalità morirono, assurdamente, ormai convinti d’essere sopravvissuti a quattro anni di guerra.
I due ufficiali italiani, protagonisti dell’incursione, rimasero prigionieri a bordo di due unità sino al 5 novembre quando vennero liberati all’arrivo della navi italiane che presero possesso del porto di Pola; i due ardimentosi, decorati entrambi con Medaglia d’oro al valor militare e promossi di grado, erano il maggiore Raffaele Rossetti[6] e il sottotenente Raffaele Paolucci[7].
La tragica vicenda però non si concluse con tali riconoscimenti; come ha scritto Pietro Spirito: «dall’oscuro fondo del mare, in quel remoto punto dell’Adriatico, dal relitto capovolto e silenzioso della corazzata adagiata nel fango, escono un po’ alla volta i fantasmi dei marinai morti nel naufragio, e chiedono conto».

Raffaele Rossetti

Nel marzo-aprile 1919, Raffaele Rossetti scoprì casualmente i provvedimenti che la Marina italiana aveva decretato a tutto favore di Costanzo Ciano, al quale era attribuito il merito principale dell’impresa di Pola e persino dell’invenzione della “mignatta”, ossia della “Torpedine semovente Rossetti”, per cui a Ciano veniva assegnato anche un terzo del premio in denaro previsto per l’affondamento, «in ragione del tipo della nave distrutta di L. 1.300.000, secondo la percentuale del 2 per cento sul costo della nave stessa»[8] che, teoricamente, doveva spettare ai soli Rossetti e Paolucci, secondo quanto previsto dal Decreto luogotenenziale n. 615 del 21 aprile 1918.
Di fronte a quella che riteneva un’ingiustizia si rivoltò Rossetti che, a tutti gli effetti, era stato l’ideatore, il sostenitore, il progettista, il collaudatore ed infine il pilota dell’ordigno subacqueo, mentre Ciano era intervenuto quale “supervisore” solo nella fase sperimentale con alcuni suggerimenti tecnici (qualcuno accolto e qualcuno errato). Le rimostranze di Rossetti peraltro si collegavano all’analoga partecipazione di altri 14, fra ufficiali e marinai, imbarcati sui due Mas dell’impresa di Pola, che potevano avere simili diritti[9].
Rossetti, dopo aver dato le proprie dimissioni dalla Marina, intraprese ricorsi legali, proteste e rimostranze di vario genere, comprese due lettere dirette a Ciano, il quale – pur riconoscendo in privato – il diritto reclamato da Rossetti, non si sarebbe attivato conseguentemente presso i vertici della Marina, dando adito al sospetto che fosse stato proprio Ciano ad avanzare la pretesa “tripartizione”. Il dubbio si rafforzò dopo che Rossetti apprese dall’ammiraglio Eugenio Cento che nel dicembre 1918 Ciano era andato a Parigi, in occasione delle consultazioni per il Trattato di Versailles, per incontrare l’ammiraglio Thaon di Revel allo scopo di esigere una parte del premio d’affondamento tanto che, in effetti, l’ammiraglio, accogliendo l’istanza di Ciano, inoltrò al ministro della Marina, Alberto del Bono, e al Consiglio superiore della Marina l’indicazione di dividere il compenso fra Rossetti, Paolucci ed appunto Ciano.
La vertenza aperta da Rossetti durò un anno, concludendosi con un parziale riconoscimento delle sue motivazioni; mentre a Ciano, al quale era stato negato pure l’avanzamento di grado, venne concessa la “commenda”, a titolo di consolazione. Per sottolineare la sua rivendicazione, nel 1924 Rossetti ritenne opportuno dare alle stampe un documentato quanto polemico libro sull’intera vicenda. Il libro, intitolato Contro la “Viribus Unitis” (sottotitolo: Le vicende di un’invenzione di guerra), fu edito all’inizio del 1925 dalla Libreria Politica Moderna di Roma, ma, appena stampato, un’incursione fascista incendiò la tipografia e quasi tutte le copie. Fortunatamente, il piombo dei caratteri e parte dei clichés delle fotografie si erano salvati permettendo una seconda edizione, stampata presso la Società anonima poligrafica italiana, nel settembre 1925[10].
Significativamente, il libro era dedicato alla memoria di Janko Vukovič, il capitano della “Viribus unitis”, «avversario di guerra che mi lasciò, morendo, esempio indimenticabile di generosa umanità».
A dimostrazione del suo disinteresse economico, Rossetti nel 1919 devolse l’intero importo del premio e, in particolare, destinò centinaia di migliaia di lire alla vedova e al figlio undicenne del capitano Vukovič, a favore dei quali s’aggiunse un analogo ingente contributo da parte di Paolucci.
Successivamente, le strade dei due protagonisti dell’impresa si sarebbero divise, anche politicamente.

SU OPPOSTI FRONTI

Terminato il conflitto, con decreto dell’11 novembre 1919 Rossetti fu dispensato, su sua richiesta, dal servizio attivo permanente e inserito nel ruolo degli ufficiali di complemento; l’anno successivo rinunciò al grado e venne posto in congedo a decorrere dal 1° settembre 1920. Rossetti, dopo aver appoggiato l’impresa dannunziana di Fiume di Gabriele D’Annunzio, con l’ascesa del fascismo si iscrisse al Partito repubblicano italiano, entrando in rotta di collisione col regime, in conseguenza anche dello sdegno suscitato dal comportamento di Ciano che nel 1921 era stato eletto deputato per i Fasci di combattimento (del cui Consiglio nazionale era membro) nella lista del Blocco nazionale e poi, nel primo governo Mussolini, divenuto sottosegretario di Stato per la Regia Marina, nonché commissario per la Marina Mercantile.
Sin dal 1922, Rossetti fu invece posto sotto sorveglianza poliziesca e schedato, come sovversivo repubblicano, nel Casellario politico centrale[11]. Nel marzo del 1923, riteneva governo e partito fascista «entrambi ripugnanti», soprattutto per i metodi violenti e corrotti. Il 4 aprile 1923, a Santa Margherita Ligure subì quindi un’aggressione squadristica per aver gridato «Viva la libertà, abbasso il fascismo, viva l’Italia libera!» durante un comizio fascista e, dopo essere stato oggetto di un pestaggio, fu arrestato e tradotto a Genova, prima in Questura e poi in una caserma dei carabinieri.
Nel giugno del 1923 fu tra i fondatori del movimento Italia Libera che raccoglieva ex-combattenti di tendenza repubblicana ed ex-legionari fiumani su posizioni antifasciste e, proprio il grido di Rossetti, fu assunto come nome dell’organizzazione, divenendone una sorta di “padre spirituale”.
Il 13 giugno 1925, mentre era impegnato a testimoniare solidarietà nei confronti di Gaetano Salvemini, arrestato per reati d’opinione, fu nuovamente aggredito da alcuni fascisti dovendo essere ricoverato in ospedale per le lesioni subite. Dopo questo episodio lasciò l’Italia stabilendosi a Parigi, dove trovò lavoro come tipografo. Nel 1930 aderì prima al movimento antifascista Giustizia e Libertà. Nel 1932, su posizioni di sinistra, fu eletto segretario del Partito repubblicano, carica passando, successivamente, a quello de La Giovine Italia. che mantenne sino al 1933 quando venne soppiantato da Randolfo Pacciardi. Nel gennaio 1935, assieme all’ex legionario fiumano Silvio Bettini, fondò, su posizioni antifasciste, l’Association franco-italien des Ancient combattants.

Durante la guerra di Spagna partecipò ad alcune trasmissioni di Radio Barcellona lanciando proclami antifascisti e, per questo “tradimento” il regime fascista annullò la sua Medaglia d’oro al valor militare (confermata dopo la Liberazione) ma, soprattutto, la sua figura fu emarginata dalla storia ufficiale[12].
Nel 1939, in occasione della morte di Costanzo Ciano, si giunse a sostenere che «a lui, al suo inesauribile talento, si dovettero poi i sagaci studi e il perfezionamento degli ordigni necessari per forzare i porti di Trieste e Pola e colpire le grandi unità austriache; geniali fatiche che nell’ottobre 1918 si conclusero con l’affondamento della Viribus Unitis»[13].
Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, nel dicembre del 1939 Rossetti fu espulso dalle autorità francesi e a Modane consegnato alla polizia italiana che gli concesse di ritirarsi nella sua residenza a Rapallo. Nella primavera del 1941 trovò lavoro come linotipista presso l’editore Pirola di Milano; in tale periodo, pur vivendo in modeste condizioni economiche, accettò una somma di denaro dalla Marina, a patto però che fosse versata sul conto corrente di un orfanotrofio.
Dopo la Liberazione divenne membro del Consiglio comunale di Santa Margherita Ligure come consigliere indipendente in una lista comunista e capo dell’opposizione e, alle elezioni del 18 aprile 1948, fu candidato del Fronte popolare al Senato nella circoscrizione di Lucca.

Raffaele Paolucci

Al contrario, una volta tornato alla vita civile, l’ex-capitano Paolucci intraprese una rilevante attività medico-scientifica unitamente alla carriera accademica e politica all’ombra della monarchia e del regime fascista[14]. Nel 1921, assunse la guida dello squadrismo nazionalista quale comandante generale dei “Sempre Pronti per la Patria e per il Re” e fu eletto deputato al Parlamento per il Blocco Nazionale e poi del PNF, carica mantenuta sino al 1943. Nel 1935 era tornato ad indossare l’uniforme durante la guerra d’Etiopia, quando fu richiamato alle armi alla direzione di una Ambulanza Speciale Chirurgica della C.R.I. raggiungendo il grado di Maggiore generale medico. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia fascista, fu richiamato in servizio dal 5 settembre 1940, anno nel quale venne nominato dal re conte di Valmaggiore, una località nei pressi di Pola. Destinato a Roma presso il Ministero della Marina, il 22 marzo 1943 fu promosso tenente generale, per poi essere esonerato dal richiamo in servizio dal 5 agosto 1944. Nel secondo dopoguerra, Paolucci sarebbe tornato in Parlamento (1953) come presidente e senatore del Partito Nazionale Monarchico, in rappresentanza dell’Abruzzo e Molise.
Ben diverso il percorso di Costanzo Ciano, figura di primo piano del sistema di potere fascista, legato a Mussolini anche dall’acquisita parentela a seguito delle nozze fra il figlio Galeazzo e Edda Mussolini, nonché “padrone” di Livorno.
Nel 1925, nell’ambito della tendenza invalsa dopo il conflitto e incrementata durante il fascismo di creare una nuova nobiltà per meriti guerreschi, Ciano venne anche insignito, in onore dell’episodio del novembre 1917[15], del titolo nobiliare di conte di Cortellazzo che, di certo, a Livorno deve essere stato motivo di popolaresca ironia.

 

 

 

NOTE

  1. La motivazione venne riportata, con scarso rilievo, su «Il Telegrafo» del 6 marzo 1919: «Con regio decreto al capitano di vascello Costanzo Ciano, di Livorno, è stata conferita la commenda dell’ordine militare di Savoia, perché ispettore dei M.A.S. con intelligenza e perizia attendeva sino all’inizio al loro miglioramento, mentre nello stesso tempo preparava con grande fede ed amore i comandanti che dovevano portare alla vittoria le piccole unità. Nell’ultima spedizione di Pola studiò dapprima il congegno con il quale due eroi riuscirono ad affondare la nave ammiraglia della flotta nemica e accompagnò la spedizione sino sotto la diga di Pola, attendendo fino all’alba il ritorno».
  2. Il 6 ottobre 1918, a Zagabria, era stato fondato il Consiglio Nazionale degli Sloveni, dei Croati e dei Serbi (della Croazia). Il 29 ottobre il Consiglio interruppe tutte le relazioni politiche e diplomatiche tra Croazia e Austria, e tra Croazia e Ungheria. In seguito, Croazia, Slovenia e Bosnia si unirono nello Stato di Slovenia, Croazia a Serbia (SHS), poi Regno di Jugoslavia.
  3. Dopo essere entrato all’Accademia Navale di Livorno nel 1891, Ciano era stato nominato guardiamarina nel 1896, sottotenente di vascello nel 1898, tenente di vascello nel 1901. Partecipò alla guerra di Libia (1911-’12), ricevendo nel 1913 un encomio solenne per aver compiuto missioni speciali di polizia coloniale al comando del piroscafo Siracusa, requisito durante le azioni di guerra. All’entrata in guerra dell’Italia, nel 1915, venne destinato alla direzione del silurificio di Venezia della Regia Marina, ottenendo il grado di Capitano di corvetta nell’agosto del 1915 e nel 1916 sostituì il fratello Arturo al comando del cacciatorpediniere “Zeffiro”. Nel giugno 1917 venne promosso capitano di fregata e, dal luglio 1917 al maggio 1919, quale comandante di unità siluranti di superficie (Mas e torpediniere), venendo decorato con medaglia d’oro al valor militare per la famosa “beffa di Buccari” (febbraio 1918), operazione militarmente fallimentare ma che ebbe grande risonanza propagandistica grazie alla partecipazione di D’Annunzio. Nell’agosto del 1918, era stato quindi promosso capitano di vascello per meriti di guerra.
  4.  Entrambi i Mas (94 e 95) erano stati costruiti a Livorno, presso il Cantiere Navale “F.lli Orlando”, e consegnati alla Marina italiana nel 1917.
  5. L’ordine impartito era, secondo quanto riportato dallo storico Giacomo Scotti, di entrare in azione «prima che fosse inalberata la bandiera jugoslava sulla nave ammiraglia ex austriaca, per impedire che ciò avvenisse. Se fossero arrivati dopo, avrebbero dovuto distruggere la bandiera insieme alla nave».
  6. Raffaele Rossetti (Genova 1881 – Milano 1951). Laureato in ingegneria industriale nel 1904; dopo aver ha frequentato la regia Accademia Navale di Livorno, divenne tenente del Genio navale;. Nel dicembre del 1906 dopo aver conseguito la laurea in ingegneria navale e meccanica presso il politecnico di Milano fu destinato presso la Direzione delle Costruzioni Navali dell’Arsenale Militare marittimo di Taranto quale capitano del Genio navale. Nel 1912, imbarcato sull’incrociatore “Pisa” prese parte alla Guerra di Libia. Dall’aprile del 1915 al maggio del 1917 prestò servizio presso l’Ufficio Tecnico della Regia Marina a Genova, passando poi alla Direzione delle Costruzioni Navali dell’Arsenale di La Spezia col grado di maggiore del Genio navale, impegnandosi nella realizzazione di “mezzi insidiosi” per incursioni nei porti nemici. Promosso al grado superiore per merito di guerra, il 16 novembre 1919, a domanda, venne posto in congedo e promosso Tenente colonnello nella Riserva Navale.
  7. Giovanni Raffaele Paolucci (Roma 1892 – 1958). Dopo il servizio militare nel 1913 nella 10ª compagnia di sanità militare dell’Esercito, col grado di caporale e poi di sergente, allo scoppio della guerra venne richiamato e assegnato ad un lazzaretto per colerosi sul Carso. Laureatosi in medicina nel luglio del 1916, fu promosso sottotenente medico di complemento in forza all’8° Rgt. bersaglieri in Cadore. Successivamente divenne tenente e, su sua richiesta, passò in Marina, prestando servizio presso l’ospedale militare marittimo di Piedigrotta e successivamente presso il Forte San Felice a Chioggia (Ve). Imbarcato sulla “Emanuele Filiberto” come secondo medico di bordo, aveva iniziato ad interessarsi alle armi subacquee per colpire unità nemiche, entrando in contatto nel luglio del 1918 col capitano Rossetti.
  8. Il valore della “Viribus unitis” era stato stimato in Lire 65.000.000. Secondo il contatore de «Il Sole-24 Ore», l’importo di Lire 1.300.000 nel 1919 corrisponderebbero attualmente a quasi 2 miliardi di Euro (1.959.778,19).
  9.  Infatti, un ricorso in tal senso venne presentato anche dal capitano di fregata Giovanni Battista Scapin che, a bordo del Mas 95, era stato il comandante di entrambi i Mas impegnati nella missione.
  10.  Una copia originale della seconda edizione del libro è conservata presso al Biblioteca “F. Serantini” di Pisa ed è possibile riscontrarvi la mancanza di buona parte dell’apparato fotografico andato distrutto. Il libro è stato riedito dall’Associazione Culturale Sarasota (Massa, 2014).
  11. Secondo Sergio Benvenuti avrebbe invece militato nelle file del Partito Socialista Unitario (Il fascismo nella Venezia Tridentina (1919-1924), Trento, Società di studi trentini di scienze storiche, 1976, p. 114); tale affermazione appare però derivare dal fatto che nel 1922 Rossetti sostenne economicamente e collaborò, con alcuni suoi articoli contro il fascismo, a «La Giustizia», organo del Partito Socialista Unitario, oltre ad intrattenere rapporti di stima ed amicizia con Turati, Kuliscioff e Treves.
  12. Già nel 1934, nel capitolo L’affondamento della «Viribus Unitis», nel libro di Corrado Rossi Corrado, Gli Arditi del Mare, l’autore aveva preferito utilizzare le memorie di Paolucci, piuttosto che quelle scomode di Rossetti, dando rilievo alla partecipazione di Ciano e definendo «grottesca favola» e «ignobili calunnie» ad opera degli ex-alleati le obiezioni in merito all’opportunità dell’affondamento.
  13.  La risibile affermazione citata era all’interno di un articolo commemorativo pubblicato su «Il Legionario», riproposto nella raccolta di scritti necrologici (Costanzo Ciano, Roma, Pinciana, 1939), curata da Angelo Chiarini, avente come prefazione il discorso celebrativo pronunciato alla Camera da Raffaele Paolucci il 15 luglio 1939.
  14. Libero Docente di Patologia Chirurgica nel 1924, meritò la fama quale “chirurgo dei poveri” fin dal 1925, quando diresse l’Ospedale di Lanciano. Fu incaricato di Patologia Chirurgica all’Università di Bari dal 1926 al 1930, direttore della Clinica Chirurgica a Parma dal 1930 al 1932, a Bologna dal 1933 al 1938 e a Roma dal 1939 in poi come direttore dell’Istituto di Chirurgia Generale dell’Università degli Studi di Roma ”La Sapienza”. Dopo un anno di “epurazione”, nel 1946 riprese l’insegnamento all’Ateneo di Roma. Nel campo medico fu un pioniere della chirurgia polmonare, pubblicando numerosi lavori scientifici oltre a diversi volumi di tecnica chirurgica.
  15.  Il 16 novembre 1917, due corazzate austriache, scortate da 14 unità minori, bombardarono per circa quattro ore la batteria costiera della Marina italiana a Cortellazzo (Ve), venendo invano attaccate da due Mas, uno dei quali comandato da Ciano.



Giulio Guelfi, un sovversivo sullo scranno più alto del Comune di Cascina.

Tra le varie biografie di personaggi appartenenti al mondo socialista e comunista che hanno animato la vita sociale e politica della provincia pisana nel periodo che va dal 1919 fino all’avvento del fascismo, quella di Giulio Guelfi è tra le più significative ai fini della ricostruzione dell’immaginario collettivo dell’epoca, sia per i diversi ruoli che il personaggio ha assunto durante la sua militanza politica e sindacale, sia per gli incarichi istituzionali e la sua puntuale azione nella lotta antifascista in patria e poi in esilio. Ad un impegno militante e una fervente convinzione sul valore delle proprie idee, che manifesta nell’arco di tutta la sua vita, in Guelfi si evidenzia – elemento assolutamente non secondario – uno spirito ribelle, sovversivo, indomito, che ben racconta del carattere del popolano pisano di questi anni. È questa un’inclinazione che trova profonde radici nella storia popolare e sovversiva della provincia sin dai tempi della costituzione delle prime sezioni della Società democratica Internazionale[1].
Giulio Guelfi nasce a Cascina il 14 settembre 1888 da Riccardo e Liberata Bracci, di professione impiegato, poi commerciante. Vive la sua formazione umana e politica nei paesi di Casciavola e Navacchio (borgate ancora oggi nel Comune di Cascina) dove presumibilmente abbraccia gli ideali socialisti che sono particolarmente diffusi nella zona. Negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale viene assunto come impiegato all’Ospedale di Piombino, rientrato a Cascina diventa ben presto uno dei promotori della sezione socialista di Casciavola e uno dei principali organizzatori della Camera confederale del Lavoro[2]. L’attività politica e sindacale di Guelfi è ricostruibile attraverso la lettura de «L’Ora nostra», il periodico della Federazione pisana del partito socialista che, tra il 1919 e il 1921 nelle cronache provinciali, riporta notizia di suoi numerosi comizi a supporto delle agitazioni contadine, bracciantili e operaie. Nello stesso periodo, secondo un profilo biografico della Prefettura pisana, Guelfi «aveva iniziata l’organizzazione delle squadre rosse e già aveva messo in funzione diverse squadre cicliste. Organizzò e fu sempre a capo di tutti i movimenti operai e sovversivi verificatisi dai primi del 1919 al 1922 nel Comune di Cascina»[3]. Lo stesso documento lo descrive «dotato di facilità di parola tanto che era riuscito ad acquistare tanto ascendente tra le masse operaie che lo seguivano ciecamente in qualsiasi violenza».
Le elezioni politiche del 1919 avevano premiato i partiti neutralisti, il PSI aveva superato il 41% dei voti ed era diventato il primo partito del collegio Livorno-Pisa e della provincia pisana[4]. Vanno nella stessa direzione le elezioni amministrative dell’autunno del 1920 che consegnano ai socialisti ben 26 comuni dei 42 della provincia, con punte di consenso straordinario a Pontedera dove ottengono il 78% dei voti[5]; l’eccezionale risultato elettorale dei socialisti si completa con l’assegnazione di 23 seggi sui 40 disponibili nel Consiglio provinciale.
Nelle elezioni amministrative dell’autunno del 1920 il PSI cascinese punta su Guelfi, che viene eletto consigliere comunale e poi Sindaco di Cascina. Il suo mandato, che dura dall’ottobre del 1920 al settembre del 1921, è un’esperienza breve ma particolarmente intensa e nella quale Guelfi riversa tutto il proprio portato umano, politico, sindacale[6] e non in ultimo il proprio carattere impulsivo e non incline alla sottomissione. Il ruolo istituzionale assunto esalta la sua figura di militante rivoluzionario e dallo scranno più alto del Comune detta la linea politica con la convinzione di preparare la strada ad un’imminente rivoluzione[7].
Il 16 ottobre è convocato il primo Consiglio comunale e i toni della seduta di insediamento ci aiutano a cogliere il clima di queste giornate; così come avviene in altri enti locali, anche nel Comune di Cascina si inneggia alla dittatura del proletariato e si propone come primo atto l’approvazione di un Ordine del giorno a favore della Russia rivoluzionaria e «pro condannati politici». L’ordine del giorno viene presentato dall’assessore Adolfo Mannocci che annuncia: «Noi percorriamo la strada che ci conduce verso il socialismo che affratella le genti pertanto la bandiera che qui abbiamo issato non l’ammaineremo giammai né per l’ambizione di un Re, né per la violenza dei governanti»[8]. Il Consiglio comunale chiede al Governo italiano l’immediato riconoscimento ufficiale della Russia dei Soviet e chiude la discussione di questo punto al grido di «Fuori dalle galere tutti condannati politici!». Nella stessa seduta, stimolato dagli interventi della minoranza che invitano la Giunta a «compiere atti di saggia e sana amministrazione», prende la parola anche il Sindaco Guelfi che annuncia e rivendica il ruolo politico della sua Amministrazione e, in risposta alla richiesta di illustrare il programma, replica: «La Direzione del Partito socialista impartirà le direzioni e noi le seguiremo […] Pel il bilancio 1921 […] colpiremo profondamente i proprietari […] governeremo e agiremo non curandoci delle pastoie delle leggi esistenti che muovono ingiustizia, faremo in odio e a dispetto della legge quello che riterremo giusto»[9]. Il Consiglio si scioglie con le conclusioni del Sindaco che ritorna sulla questione: «di programmi non ne abbiamo, so solo che abbiamo lottato, battuto e vinto in nome del Socialismo e legiferemo per il Socialismo e in nome di questo e del Popolo, che è il nostro re, dichiaro chiusa la discussione al grido di: Viva il Socialismo! Viva l’Internazionale!»[10].
Con le nuove giunte socialiste rivoluzionarie elette nell’autunno del 1920 arriva anche nella provincia pisana un nuovo cerimoniale che ha l’obiettivo di sostituire, anche nell’immaginario popolare, i simboli delle istituzioni: in alcuni Comuni viene rimossa la targa che riporta il Bollettino della Vittoria di Armando Diaz[11], il saluto alla Russia rivoluzionaria sostituisce il saluto al re e sulle facciate dei Comuni la bandiera rossa prende il posto del tricolore. Pratiche che scateneranno la reazione dello squadrismo fascista, dell’esercito[12] e i provvedimenti delle Prefetture. A Cascina la bandiera rossa sventola sulla Torre civica[13], Guelfi ha dato mandato di acquistarne una «con lo stemma dei Soviet e di quello del Comune medesimo»[14] e la spesa di £ 100,00, non prevista in bilancio, viene finanziata con un prelievo dal fondo di riserva del Sindaco.
Ad un massimalismo del linguaggio che inneggia ad una prossima insurrezione, Guelfi e i socialisti cascinesi fanno seguire un’attività amministrativa che mette in pratica le parole d’ordine che avevano animato la campagna elettorale: come primo atto la Giunta comunale incontra simbolicamente un gruppo di lavoratori fornai che chiedono un aumento del compenso giornaliero per raggiungere quello dei vicini colleghi pisani, senza che questo, sostengono durante l’incontro i lavoratori all’unisono con la Giunta, comporti un aumento del prezzo del pane[15].
Il Sindaco Guelfi caratterizza il suo mandato per interventi sociali ed economici volti ad una politica di redistribuzione delle ricchezze e al controllo dei prezzi dei beni di prima necessità e dà mandato agli uffici comunali di predisporre una «severa, precisa e improvvisa verifica»[16] sulla vendita dello zucchero alle persone ammalate e, per evitare speculazioni e lucri impropri, un attento riscontro dei buoni comunali emessi a favore degli indigenti. Si autorizza poi la vendita della carne agli ammalati anche nei giorni di chiusura dei negozi e si dà mandato all’Ente autonomo dei consumi del Comune di acquistare olio, baccalà e formaggio da rimettere in vendita a prezzo di acquisto per calmierare il mercato. Nella seduta consiliare del 9 dicembre il Sindaco Guelfi, nel valutare la situazione finanziaria dell’Ente e il disavanzo ereditato dalla precedente amministrazione[17], annuncia che non ricorrerà ad ulteriore indebitamento e dichiara che «i soldi dovranno darli coloro che li hanno» e che le tasse per l’anno 1921 saranno raddoppiate. Nella stesso consesso il Sindaco propone l’adesione alla Lega dei Comuni socialisti[18], motivando che questo percorso consentirà all’Ente di inserirsi in un progetto nazionale più ampio che porterà ad «ottenere l’applicazione dei principi socialisti, come ad esempio la progressività delle tasse superando il vecchio concetto dei massimi fiscali»[19].
Con la fine del 1920 si manifestano anche nella provincia pisana le prime violenze fasciste[20], siamo in un territorio che si inserisce a pieno titolo in quell’«Italia mediana» che ha visto sviluppare importanti laboratori politici ed ha assunto un ruolo centrale nell’affermazione della violenza fascista[21]. Nel dicembre 1920 gli squadristi pisani, con l’aiuto di squadre provenienti da tutta la regione, per ben due volte, impediscono l’insediamento del nuovo consiglio provinciale[22] che, una volta insediato, eleggerà presidente Ersilio Ambrogi[23] e vice presidente proprio Giulio Guelfi.
Nei mesi successivi le violenze fasciste arrivano anche nel piano cascinese e il primo omicidio politico avviene nel borgo di San Frediano a settimo, quando il 4 marzo Enrico Ciampi, segretario della prima sezione comunista costituitasi nel pisano[24], viene ucciso dal Marchese Serlupi, uno dei ras fascisti della zona[25]. Pochi mesi dopo, il 23 luglio, i fascisti fanno visita ad una casa colonica nella zona di Arnaccio, dove vive il consigliere socialista Oreste Bartoli e uccidono il figlio Archimede che reagisce alla bastonatura del padre.
Le parole di Guelfi all’insediamento, con le quali imprudentemente aveva annunciato che avrebbe governato non curandosi «delle pastoie delle leggi esistenti», incitano i controlli della Prefettura che già nei primi mesi di governo della giunta cascinese impugna e annulla una serie di delibere, tra questa anche quella che autorizza l’acquisto della bandiera con lo stemma comunale e la falce e martello in quanto, sostiene il Prefetto, «trattasi di spesa ispirata a criteri politici, mentre i consigli comunali non hanno dalla legge nessuna attribuzione a questo riguardo, ma devono limitarsi ad amministrare il Comune e provvedere ai servizi pubblici che dal Comune dipendono»[26].
La Giunta Guelfi continua a governare tra delibere annullate e proclami rivoluzionari basati su un marcato radicalismo verbale. Nei primi mesi del 1921 l’Amministrazione tratta l’acquisto del nuovo Teatro comunale, un’operazione sostenuta da una chiara scelta politica, afferma Guelfi in merito: «L’operaio, il lavoratore in genere deve progredire, istruirsi ed elevarsi e non essere più la macchina bruta che lavora e mangia per vivere e nelle ore di riposo gioca a carte nel proprio Circolo. Esso deve invece essere posto nelle condizioni di ricrearsi lo spirito andando a Teatro, giacché non è giusto che a Teatro possa andare il ricco che non lavora e l’operaio non possa permettersi neppure il cinematografo»[27].
L’esperienza da Sindaco di Guelfi si chiude presto, con i fatti del 18 settembre 1921. Per la giornata viene convocato, nel borgo cascinese di San Benedetto, un comizio tra le leghe confederate per organizzare la reazione sindacale ai licenziamenti e alla riduzione del salario dei lavoratori del piano di Cascina. I fascisti radunano oltre 400 squadristi, provenienti da varie parti della Toscana, con l’intento di impedire la manifestazione, intanto nel pomeriggio un folto gruppo di antifascisti parte in tram da Pontedera per raggiungere San Benedetto ma, passato l’aggregato urbano di Cascina, il convoglio viene aggredito da una scarica di colpi di rivoltella sparati da un piccolo gruppo di fascisti che, commesso il fatto, si dà alla fuga. Nell’aggressione rimangono uccisi Paris Profeti[28], segretario della sezione socialista di Pontedera, e Corrado Bellucci[29] di idee libertarie, mentre il comunista Medardo Cecconi[30] ferito viene portato all’Ospedale di Pontedera[31]. Le autorità, vista la tensione della giornata, vietano la manifestazione, nel contempo Guelfi ed altri socialisti cascinesi, non ancora a conoscenza del fatto, mentre si dirigono verso il luogo del comizio vengono assaliti a colpi di rivoltella da un gruppo di fascisti. I socialisti rispondono, ne scaturisce uno scontro a fuoco e l’unico arrestato della giornata è proprio Giulio Guelfi, con l’accusa di aver sparato un colpo di rivoltella contro i fascisti, e rinchiuso nelle Carceri di San Matteo a Pisa. Il Comune viene immediatamente commissariato e il 13 ottobre si svolge il primo consiglio comunale senza il sindaco Guelfi.
Intanto tra settembre e novembre le pressioni e le violenze fasciste nei confronti dei consiglieri socialisti e comunisti danno i propri risultati e al protocollo del Comune di Cascina giungono le dimissioni irrevocabili di gran parte degli eletti. Si tratta di comunicazioni che naturalmente non denunciano pressioni o violenza e adducono principalmente motivi personali, tra questi l’assessore Alfredo Vanni scrive che non ritiene «più opportuno ricoprire tale carica»[32], mentre solamente il consigliere comunale Modesto Marrucchi motiva le proprie dimissioni dichiarando di aver maturato la propria distanza dal Partito comunista. A queste dichiarazioni dei consiglieri comunali segue però un ultimo atto di resistenza istituzionale, una lettera di protesta inviata al Commissario prefettizio, che vede come primo firmatario Giulio Guelfi e di seguito tutti i consiglieri comunali socialisti e comunisti dimissionari. Nella nota i consiglieri comunali denunciano coraggiosamente le violenze fasciste subite: «Il fatto di aver alcuni di noi […] rassegnato le dimissioni non vuole significare la rinuncia ad amministrare, ma dette dimissioni devono essere la vibrata protesta contro chi minaccia le nostre persone e le nostre idealità […] Nel nostro Comune certo regna ancora il terrore e tutto si può commettere sotto gli occhi dell’autorità»[33].
Il 19 gennaio 1922 il re, che per lo Statuto Albertino è il garante delle istituzioni, firma il decreto di scioglimento del Consiglio comunale di Cascina[34].
Dopo la caduta dell’amministrazione da lui guidata Guelfi si trasferisce a Livorno dove assume compiti di direzione della locale Camera del lavoro. Nel febbraio del 1922 la moglie, Corinna Noccioli, è oggetto di un’imboscata a colpi di pistola nei pressi della stazione ferroviaria di Navacchio per mano di un gruppo di fascisti e la casa della famiglia è spesso oggetto di violazioni da parte degli squadristi locali. Nel marzo del 1922 Guelfi interviene al funerale di Comasco Comaschi[35], anarchico e ardito del popolo ucciso in un agguato da alcuni fascisti il 19 marzo 1922, denunciando il crimine fascista e pronunciando le seguenti parole: «Noi proletari siamo coloro che lavorano e che producono e non quelli che uccidono»[36]. La frase scatena l’ira degli squadristi locali che rispondono minacciosi dal settimanale «L’Idea fascista» facendo intendere che faranno pagare a Guelfi il suo ardimento: «Giulio Guelfi […] responsabile dell’assassinio di Zoccoli e Serlupi […] i Fascisti del comune di Cascina si impegnano pubblicamente, di fronte all’Autorità e ai cittadini, di ficcarlo in un sacco pieno di sterco»[37]. Guelfi nel suo ruolo di Sindaco subisce varie denunce e una violenta campagna stampa di denigrazione da parte dei fascisti locali e della stampa liberale che lo accusano di concussione nell’esercizio della sua funzione[38]. Per queste denunce subirà un processo che lo vedrà poi assolto dalla Corte di appello di Lucca insieme agli assessori Angelo Pasqualetti e Alfredo Vanni[39].
A Giulio Guelfi, come a gran parte dei primi antifascisti, non rimane che la strada dell’esilio, dopo un breve soggiorno a Genova si trasferisce con la famiglia a Parigi dove secondo la polizia fascista, in una nota dell’Ambasciata del 3 giugno 1926, è un membro attivo del «Comitato centrale antifascista»[40] e a seguito dell’espatrio è segnalato alla «Rubrica di frontiera» con indicazione di fermare e arrestare in caso di rimpatrio. Non è noto quando Guelfi aderisce al Partito comunista, ma già dalla metà degli anni Venti, durante appunto la sua permanenza in Francia, è segnalato come «comunista» e iscrive i propri figli alla scuola del partito a Ivry-sur-Seine: probabilmente la sua scelta matura nel 1924, a seguito dell’adesione al partito di Giacinto Menotti Serrati, faro del massimalismo socialista, che aveva illuminato la sua gioventù.
Nel 1929 Guelfi con l’intera famiglia si trasferisce a Vitry-sur-Seine, comune della Valle della Marna nella regione dell’Île-de-France, dove gestisce un piccolo albergo frequentato da noti sovversivi italiani e poco dopo si trasferisce definitivamente ad Arles dove rileva da un comunista cascinese, Giovanni Baroni, un locale che, secondo le carte di polizia, in breve tempo diventa un luogo di incontro di antifascisti. Guelfi è poi attivo nella propaganda a favore della Spagna repubblicana e nell’azione di ricerca di volontari da arruolare nelle Brigate internazionale, nelle cui file combatteranno i figli Ideale[41] e Silvano[42].
La polizia fascista mantiene un preciso controllo sulla vita di Guelfi e in un telespresso del Consolato generale di Marsiglia dell’agosto del 1937 lo definisce «il capo del movimento comunista e del soccorso rosso della regione»[43]. Giulio Guelfi muore improvvisamente ad Arles, poco dopo aver compiuto i cinquant’anni, il 7 febbraio 1939.
Dopo la Liberazione, una strada del borgo di Casciavola viene intestata al Sindaco “sovversivo” e antifascista, con la motivazione: «ex Sindaco del Comune di Cascina morto all’estero ove dovette fuggire per persecuzione politica da parte dei fascisti»[44]. La Giunta, si legge però nella delibera, si limita a prendere atto che l’intestazione è già avvenuta «per volontà popolare». All’interno del Comune di Cascina un lapide ancora oggi ricorda l’ultimo Sindaco eletto prima dell’avvento del fascismo: «I cittadini a ricordo di / Giulio Guelfi / Sindaco di Cascina (1920 -1921) / Combattente antifascista / Esule ad Arles (Francia) / Cascina 24 Ottobre 1971».

NOTE

1 Il 20 gennaio del 1871 viene approvato in Pisa lo statuto della Società Democratica Internazionale in Archivio di Stato di Pisa, Ufficio centrale della Pubblica Sicurezza b. 920. Sul periodo si v. A. Marianelli, Eppur si muove! Movimento operaio a Pisa e provincia dall’Unità d’Italia alla dittatura, Pisa, BFS, 2016; U. Sereni, Nel segno del liberato mondo. Vicende, culture, uomini e donne nel movimento operaio a Pisa tra Otto e Novecento, in La Camera del Lavoro di Pisa (1896-1980). Storia di un caso, a cura di G. Dinucci, Pisa, ETS, 2006, pp. 83-200; F. Bertolucci, Anarchismo e lotte sociali a Pisa 1871-1901. Dalla nascita dell’Internazionale alla Camera del Lavoro, Pisa, BFS, 1988; M. Bacchiet, Malfattori e birri nel fosco fin del secolo morente. Pisa 1872-1900, Pisa, BFS, 2023.

2 ACS, MI, Casellario politico centrale, ad nomen. Una biografia di Giulio Guelfi in Dizionario delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa, in https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16235-guelfi-giulio?i=12 (consultato il 25/1/2025).

3 Profilo biografico della Prefettura di Pisa del 1927 in CPC, ad nomen.

4 Cfr. Il risultato delle elezioni, «Il Ponte di Pisa» 22-23 novembre 1919; F. Bertolucci, Alle radici della guerra civile a Pisa e nella provincia. Il nodo delle elezioni amministrative dell’autunno del 1920 e l’assassinio di Carlo Cammeo 13 aprile 1921, in «ToscanaNovecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/alle-radici-della-guerra-civile-a-pisa-e-nella-provincia/ (consultato il 27/1/2025).

5 In questa tornata elettorale l’affluenza a Pontedera è inferiore al 50% degli aventi diritto. R. Cerri, Pontedera tra cronaca e storia. 1859-1922, Pontedera, Bandecchi e Vivaldi, 1982, p. 256.

6 Intanto nel luglio del 1920 presso il Teatro Verdi di Pisa si tiene il congresso provinciale della Camera del Lavoro confederale, Guelfi relazione sui nuovi Patti coloniali e nella stessa sessione viene eletto membro della Commissione esecutiva camerale. Il Congresso provinciale della Camera del Lavoro Confederale, «L’Ora nostra», 31 Luglio 1920.

7 Sulle vicende amministrative della giunta Guelfi cfr. anche D. Sassetti, Tra storia e memoria. Il Comune di Cascina tra ventennio e Liberazione, Pisa, Pacini, 2025, pp. 9-17.

8 Archivio storico del Comune di Cascina (d’ora in poi ASC Cascina), Verbale seduta Consiglio Comunale del 16 ottobre 1920.

9 ASC Cascina,Verbale seduta Consiglio Comunale del 16 ottobre 1920.

10 ASC Cascina,Verbale seduta Consiglio Comunale del 16 ottobre 1920.

11 Sulla questione si rimanda ai fatti di Cecina del gennaio 1921, cfr. T. Barsotti, Il conflitto di Cecina in «ToscanaNovecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/il-conflitto-di-cecina/ (consultato il 30/1/2025).

12 Il 10 novembre 1920 a Livorno un gruppo di carabinieri e ufficiali dell’esercito entrano nel palazzo comunale e sostituiscono la bandiera rossa issata dopo la vittoria elettorale socialista, col tricolore. A seguito del fatto la Camera del Lavoro proclama lo sciopero generale, si registrano vari incidenti e una folla di lavoratori dei quartieri popolari riconquista il centro della città, ammaina il tricolore e al termine della giornata sul balcone del Comune rimane issata la sola parte rossa della bandiera. M. Rossi, La battaglia di Livorno, Pisa, BFS, 2021, p. 21.

13 La bandiera sventolerà sulla torre fino al 19 maggio 1921. Cfr. M. Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano 1919-1920, Roma, Bonacci, 1980, p. 163.

14 ASC Cascina, Verbale seduta Giunta Comunale del 22 ottobre 1920.

15 ASC Cascina, Verbale seduta Giunta Comunale del 22 ottobre 1920.

16 ASC Cascina, Verbale seduta Giunta Comunale del 22 ottobre 1920.

17 La precedente Amministrazione era stata guidata, dal 1915, dal primo sindaco socialista, Massimo Palla (di professione calzolaio), in gioventù anarchico e tra i primi pisani a partire per il domicilio coatto, prima a Porto Ercole poi alle Tremiti, dove sconta due anni a seguito del processo avuto nel 1894 per «apologia dell’assassinio Caserio». La Giunta Palla non marca però il proprio mandato in termini socialisti rivoluzionali. Per una biografia di Massimo Palla si rimanda a M. Bacchiet, Riglione. Questa centrale e laboriosa borgata. Vita sociale e politica. 1861 – 1948, Pisa, BFS edizioni, 2017, pp. 70-71.

18 La Lega nasce nel 1910 su iniziativa della direzione del PSI per dare un indirizzo unitario alle amministrazioni comunali socialiste. Dopo le amministrative del 1920 alla Lega dei comuni socialisti, della quale dal 1916 è segretario nazionale Giacomo Matteotti, aderiscono oltre 2 mila amministrazioni delle 8 mila e ben 25 dei 75 Consigli provinciali.

19 ASC Cascina, Verbale seduta Giunta Comunale del 9 dicembre 1920.

20 Cfr. tra gli altri F. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al Fascismo, 1918-1921, Torino, Utet libreria, 2009 e M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-1922, Milano, A. Mondadori, 2003. Per un inquadramento locale anche F. Bertolucci, Stato fascismo e antifascismo in provincia di Pisa 1920-1922, in Atti della giornata di studi su L’antifascismo rivoluzionario tra passato e presente. Pisa, 25 aprile 1992, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1993, pp. 99-127; P. Nello, Liberalismo, democrazia e fascismo. Il caso di Pisa (1919-1925), Pisa, Giardini, 1995; M. Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano. 1919-1922, Roma, Bonacci, 1980; R. Vanni, Fascismo e antifascismo in Provincia di Pisa dal 1920 al 1944, Pisa, Giardini, 1967.

21 Cfr. A. Baravelli, Riflessioni sullo squadrismo, la comparazione regionale e l’Italia mediana, in 1921. Squadrismo e violenza politica in Toscana, a cura di Roberto Bianchi, Firenze, Leo S. Olschki, 2022, pp. 21-33.

22 Sulle violenze fasciste di questo periodo si vedano anche 1921. Squadrismo e violenza politica; Il biennio nero in Toscana. Crisi e dissoluzione del ceto politico liberale. Atti del convegno di studi. Sala del Gonfalone, Palazzo del Pegaso. 2-3 dicembre 2021, a cura di S. Rogari, Firenze, Consiglio Regionale della Toscana, 2022; «Piombo col piombo». Il 1921 e la guerra civile italiana, a cura di G. Sacchetti, Roma, Carocci, 2023. Per la zona pisana si rimanda anche a Emanuela Minuto, Squadrismo e violenza politica nella provincia di Pisa, in 1921. Squadrismo e violenza politica in Toscana, a cura di R. Bianchi, Firenze, Leo S. Olschki, 2022, pp. 66-68 e F. Bertolucci, Alle radici della guerra civile a Pisa e nella provincia. Il nodo delle elezioni amministrative dell’autunno del 1920 e l’assassinio di Carlo Cammeo 13 aprile 1921, in «Toscana Novecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/alle-radici-della-guerra-civile-a-pisa-e-nella-provincia/ (consultato il 27/1/2025).

23 Per il profilo biografico di Ersilio Ambrogi, cfr. F. Bertolucci, Dizionario Biografico degli anarchici italiani, vol. I, BFS Edizioni, Pisa, 2002, p. 32-33 e il Dizionario Biografico delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa in
https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/12902-ambrogi-ersilio (consultato il 28/1/2025). Su profilo biografico si rimanda anche a Federico Creatini, Ersilio Ambrogi: antifascista o informatore dell’OVRA? Il Partito comunista italiano e la clandestinità, in «Toscana Novecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/ersilio-ambrogi-antifascista-o-informatore-dellovra/#:~:text=Certo%2C%20le%20due%20parti%20in%20causa%20cercarono%20in,dei%20%C2%ABsovversivi%20attentatori%20o%20capaci%20di%20atti%20terroristici%C2%BB (consultato il 28/1/2025).

24 La Federazione pisana del partito comunista si costituisce a Pisa il 27 febbraio 1921. Pisa, «L’Ordine Nuovo», 20 febbraio 1921. Sull’argomento cfr. M. Bacchiet, Le origini del Partito Comunista d’Italia nella provincia pisana, in «Toscana Novecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/le-origini-del-partito-comunista-ditalia-nella-provincia-pisana/ (consultato il 29/1/2025) e M. Bacchiet, I primi comunisti. Per un dizionario biografico della provincia di Pisa (1921-1940), in Antifasciste e antifascisti. Storie, culture politiche e memorie dal fascismo alla Repubblica, a cura di G. Fulvetti e A. Ventura, Roma, Viella, 2024, pp. 229-242.

25 Per Ciampi Enrico, «L’Ora nostra», 11 marzo 1921. Per una biografia di Ciampi si rimanda al Dizionario delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa in https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16079-ciampi-enrico (consultato il 29/1/2025).

26 Decreto del Prefetto della Provincia di Pisa del 14 dicembre 1920.

27 ASC Cascina, Verbale seduta di Consiglio Comunale del 13 febbraio 1921.

28 https://www.bfscollezionidigitali.org/oggetti/19415-paris-profeti-segretario-della-sezione-giovanile-socialista-di-pontedera-assassinato-dai-fascisti-nei-pressi-di-cascina-il-19-settembre-1921 (consultato il 30/1/2025).

29 https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/15073-bellucci-corrado (consultato il 30/1/2025).

30 Per una biografia di Metardo Cecconi si rimanda al Dizionario delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa in https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/13748-cecconi-medardo (consultato il 30/1/2025).

31 Alla notizia dell’omicidio dei due antifascisti la Camera del Lavoro di Pontedera proclama lo sciopero generale fino al termine dei funerali. Il giorno delle esequie la camera ardente viene allestita all’interno della locale «istituzione operaia» e alla testa dell’imponente corteo funebre, per volontà delle varie organizzazioni, un solo gonfalone, quello del Comune di Pontedera del quale Profeti era consigliere. La bara di Profeti, riporta «L’Avanti!», è avvolta nella bandiera socialista, mentre il drappo rosso-nero del locale gruppo anarchico abbraccia il feretro di Bellucci. Gli imponenti funerali alle vittime dell’eccidio di Cascina, «L’Avanti!», 25 settembre 1921.

32 ASC Cascina, Elezioni amministrative 1920.

33 Ib.

34 Il decreto di scioglimento viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 6 aprile 1922.

35 Sul caso Comaschi, tra gli altri, si rimanda a F. Gori, 1922-2022. L’affaire Comaschi in «ToscanaNovecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/1922-2022-laffaire-comaschi/ (consultato il 28/1/2025)

36 Il fascismo in Provincia spezza e travolge gli ultimi avanzi della tirannide rossa. Da San Frediano. La solita sfacciataggine, «L’Idea fascista», 9 aprile 1922.

37 I segretari dei Fasci di Cascina, Ogni promessa è debito, «L’Idea fascista», 4 giugno 1922.

38 Nel 1924, nei mesi immediatamente precedenti le elezioni politiche, per motivare e favorire la propria candidatura nel Listone, Arnaldo Dello Sbarba, in una bozza di promemoria per dimostrare la sua vicinanza e adesione al primo fascismo, rivendica il ruolo assunto per destituire i “sindaci rossi”, tra questi Giulio Guelfi. Cfr. R. Dello Sbarba, Arnaldo Dello Sbarba, autonomia d’una caduta in «ToscanaNovecento», https://www.toscananovecento.it/custom_type/arnaldo-dello-sbarba-anatomia-duna-caduta/ (consultato il 20/3/2025)

39 Gli amministratori di Cascina. Assolti, «L’Avanti!», 3 luglio 1923.

40 ACS, MI, CPC, ad nomen.

41 Ideale Guelfi, Dizionario delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16129-guelfi-ideale (consultato il 25/1/2025)

42 Silvano Guelfi, Dizionario delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16128-guelfi-silvano (consultato il 25/1/2025)

43 ACS, MI, CPC, ad nomen.

44 ASC Cascina, Delibera della Giunta Comunale n. 287 del 15 novembre 1945. L’amministrazione comunale assume la proposta del CLN locale e prende atto che l’intestazione è «di fatto già avvenuta» per volontà popolare. La stessa strada durante il regime era stata intestata a Gino Salvadori, fascista pisano morto a Marina di Pisa durante uno scontro a fuoco tra la fazione “dissidente” di Bruno Santini e i sostenitori di Filippo Morghen. Sui fatti di Marina di Pisa cfr. Conflitto tra fascisti a Pisa, «Il Popolo», 20 settembre 1924 e Giudici, Giudizi e Giudicati, «Il Ponte di Pisa», 5-6 settembre 1925.




L’eccidio di Aiale

Linea Gotica, quell’imponente sistema di fortificazioni che, da Massa fino a Pesaro, divideva l’Italia liberata dai territori ancora in mano alle forze nazifasciste. La decisione di attestare la maggioranza delle truppe dietro tale schieramento, unita all’azione di guerriglia e sabotaggio delle formazioni partigiane che agivano nel territorio, resero meno difficoltosa la risalita degli Alleati portando in un breve periodo alla liberazione di numerose città: a giugno vennero liberate Roma, Pescara, Grosseto e Perugia, mentre a luglio fu il turno di Siena, Ancona ed Arezzo. L’intervento alleato non riguardò però unicamente la conquista dei grandi centri, ma comprese anche l’avanzamento in quei territori meno noti dove ancora si registrava la presenza del nemico e che quindi dovevano necessariamente essere ispezionati prima di continuare la risalita della penisola.

L’avanzamento in questi territori di campagna periferici riguarda vicende poco conosciute che raramente compaiono nei libri e nei manuali di storia, ma che al pari delle grandi battaglie e della liberazione delle grandi città detengono un’importanza fondamentale all’interno della liberazione dell’Italia.

Una mappa della Valdera

Nel mese di luglio la Vª Armata Americana del generale Clark attraversò la Valdera risalendo per due direttrici che da sud confluirono su Pontedera, il confine settentrionale della vallata: alcuni reparti avanzarono nei territori posti maggiormente nell’entroterra come Lajatico, Terricciola e Capannoli, mentre gli altri contingenti si occuparono delle zone più vicine alla costa, liberando i comuni di Chianni, Casciana Terme, Lari e Ponsacco. In poco più di una settimana le truppe americane riuscirono a conquistare l’intera zona, liberandola con relativa facilità dalla presenza tedesca. Nel corso dell’avanzata non si verificarono aspri combattimenti, ma si assistette al lento avanzare delle forze Alleate, preceduto talvolta dal cannoneggiamento contro i centri abitati. L’operazione venne facilitata dal disimpegno nemico e dal progressivo spostamento dell’intero apparato militare tedesco verso l’Italia settentrionale. Data l’inferiorità numerica i tedeschi tentarono di evitare sistematicamente qualsiasi forma di scontro diretto, limitandosi a rallentare l’avanzata alleata attraverso azioni di disturbo di vario tipo. Più in generale la parte meridionale della provincia di Pisa non fu teatro di aspri combattimenti, risultando una zona relativamente tranquilla dal punto di vista militare durante tutto l’arco della guerra1.

Il passaggio delle truppe americane in Valdera

Agli inizi di luglio gli Alleati penetrarono in Valdera dalla pianura nei pressi di Volterra e dalle alture che ne segnalano il confine naturale a sud-ovest. L’unico episodio bellico di una certa rilevanza si verificò dal 6 al 9 luglio sui rilievi del Montevaso, quando tedeschi e americani si fronteggiarono duramente per il possesso dell’altura che, oltre a designare una porta d’accesso alla vallata ne offriva una magnifica prospettiva, garantendo a coloro che l’avrebbero controllata una fondamentale posizione strategica.

Dopo la conquista del Monte, gli Alleati liberarono in rapida sequenza i principali centri abitati posti nelle zone meridionali: il 12 luglio Lajatico fu il primo paese ad essere liberato, poi toccò a Chianni ed infine il 14 fu il turno di Casciana Terme. La perdita del Montevaso portò i comandi tedeschi ad accelerare le operazioni di disimpegno, lasciando nelle retrovie alcuni gruppi di soldati per disturbare l’avanzata americana con alcuni timidi attacchi, accompagnati dal flebile sostegno dell’artiglieria. In queste concitate fasi i genieri tedeschi ricoprirono un ruolo fondamentale, ostacolando il cammino alleato attraverso la distruzione di ponti ed edifici.

E’ interessante ricordare la vicenda del paese di Chianni perché i tedeschi, fra le case che dovevano minare, risparmiarono una colonica con una grande cantina trasformata in rifugio per centinaia di civili lì radunati per sottrarsi agli attacchi dell’artiglieria americana che ormai da giorni sentivano riecheggiare nella vallata2. E infatti la distruzione che gli abitanti della Valdera dovettero subire non si limitò alle deflagrazioni strategiche attuate dai genieri tedeschi, ma si estese anche ai cannoneggiamenti che l’artiglieria degli Alleati effettuava prima dell’ingresso nei paesi. Uno dei pochi comuni che riuscì a salvarsi dal fuoco americano fu Lajatico, grazie all’azione di un partigiano che riuscì a raggiungere in tempo gli avamposti americani ed informali dell’assenza di nemici in paese3. Mentre altri paesi come Capannoli e Casciana Terme vennero invece intensamente colpiti dai bombardamenti nonostante non vi fosse più la presenza dei tedeschi. E il martellamento degli americani causò in alcuni casi la distruzione di importanti edifici e portò alla morte di numerosi civili che non attendevano altro che la liberazione.

Come abbiamo visto dopo la perdita del Montevaso i comandi tedeschi decisero di spostare i reparti a Pontedera e lungo tutta la vallata i civili assistettero alla lenta ritirata della Wehrmacht, quell’esercito che un tempo aveva fatto tremare mezza Europa, ora si trascinava stancamente verso l’Arno, esausto per le fatiche accumulate nel corso del conflitto e demoralizzato per l’andamento della guerra. Il giovane Filippo Sassetti, sfollato a Casciana Terme, ricorda nitidamente il passaggio delle truppe:

Una notte seduti su un muricciolo che costeggiava il viale d’ingresso, sentimmo un rumore insolito calare dalla strada di Chianni in cima al viale Magnani. Passava, molto lentamente e nel buio più assoluto, una colonna di mezzi diretti, attraverso il centro del paese, verso Pontedera, verso nord. Non erano solo macchine, perché accanto al rumore dei motori, c’era in sottofondo, uno scalpiccio di passi, un battere di zoccoli sull’asfalto e tanti cigolii di ruote di carro. Durò un quarto d’ora il passaggio di questa colonna, poi il suono si attutì e si spense. Dopo una mezz’ora rieccoti lo stesso trambusto: tinnare di oggetti metallici, starnuti di cavalli e motori imballati. Cominciò così la ritirata tedesca attraverso Casciana (…)”4.

Liberati i comuni meridionali, gli Alleati si apprestarono a conquistare la parte settentrionale della vallata, e dopo aver espugnato Casciana Terme, trovarono sulla loro strada Lari, un comune del pisano che fino al luglio del ‘44 non aveva conosciuto gli effetti devastanti della guerra, scorgendone soltanto le ripercussioni nel crescente numero di civili che nell’ultimo periodo era giunto in campagna per fuggire ai bombardamenti sulle città. Se in un primo momento le zone rurali avevano garantito agli abitanti dei centri urbani una rinnovata parvenza di normalità, l’arrivo del fronte determinò per gli sfollati un triste ritorno agli effetti provocati dalla guerra: anche nella remota Lari la guerra giunse con tutto il suo carico di distruzione e dolore.

Anna Maria Vanni Morelli, all’epoca sedicenne, ricorda che la notte del 10 luglio bussò alla porta della sua casa a Lari Robert Mӧller, un capitano tedesco che nei mesi precedenti aveva soggiornato da loro e con il quale la famiglia, come del resto gli altri civili, avevano un piacevole ricordo. All’inizio della primavera il graduato aveva dovuto abbandonare la Valdera per dirigersi nel sud Italia a prestare il proprio supporto nel tentativo di contenere l’avanzata alleata all’altezza di Cassino. Ma con lo sfondamento della Linea Gustav e le prospettive cambiate drasticamente, il capitano si trovava nuovamente in Valdera in procinto di abbandonare la vallata con il proprio reparto. Prima di dirigersi verso Pontedera Mӧller ricambiò l’ospitalità ricevuta informando la famiglia Morelli dell’imminente arrivo del fronte e della necessità di trovare un rifugio per scampare ai colpi d’artiglieria5.

Anna Maria Vanni Morelli

Venuti a conoscenza degli incombenti pericoli i Morelli si trasferirono in un rudimentale rifugio immerso nella vegetazione appena fuori l’abitato di Lari. Con l’avvicinarsi del fronte anche altri larigiani si trasferirono in quel rifugio provocando un sovraffollamento dei locali che portò la famiglia a decidere di recarsi da alcuni parenti nella vicina Aiale, una borgata distante pochi minuti da Lari. Rispetto al precedente nascondiglio quello odierno offriva garanzie di sicurezza maggiori: era formato da “tre grandi cantine scavate nel tufo, collegate tra loro da tre corridoi nei quali un uomo poteva stare in piedi”, inoltre gli ingressi erano protetti dagli argini della strada che in quel punto erano molto alti, rendendolo un luogo difficilmente bersagliabile6.

Le giornate nel rifugio trascorrevano lentamente e tra le mura della cantina correvano le voci più disparate: prima gli americani venivano segnalati a Volterra, per poi essere avvistati a Collesalvetti o essere addirittura già entrati a Pontedera… Insomma, stando a queste voci gli Alleati erano dovunque tranne che a Lari, dove invece segnalavano la loro presenza solamente a suon di colpi d’artiglieria. La mattina del 16 le voci di un loro arrivo si fecero via via più insistenti, la notizia ebbe il duplice effetto di fugare i dubbi che serpeggiavano all’interno del rifugio e di risvegliare l’animo dei presenti. Le persone che affollavano la cantina erano ora percorse da un’euforia contagiosa, desiderose di poter scorgere finalmente quei soldati americani di cui tanto si parlava ma che ancora non si era riusciti a vedere. Per celebrare l’imminente arrivo le donne si misero a preparare la pasta al ragù, mentre gli uomini si occuparono di infiascare il vino dalle damigiane. Nell’entusiasmo collettivo qualcuno si affacciò cautamente dall’entrata del rifugio per poter segnalare l’arrivo degli americani. Quando ormai l’acqua per la pasta bolliva e si era già iniziato a brindare in barba a qualsiasi forma di superstizione si udì urlare “Eccoli! Eccoli! Sono arrivati!”. Udite quelle parole tutti i presenti immediatamente si riversarono all’entrata per ammirare il sospirato arrivo degli americani: accalcati all’uscio videro avanzare lungo la strada, che da Lari porta ad Aiale, un gruppo di una decina di soldati procedere in modo guardingo. Di fronte a loro gli abitanti del rifugio non riuscirono a reprimere le proprie emozioni e si lanciarono per strada acclamando ed abbracciando quei salvatori con l’elmetto. Dopo un’iniziale titubanza i fanti si lasciarono anch’essi trasportare dall’entusiasmo, accettando di buon grado i bicchieri di vino che gli venivano offerti e le numerose pacche che piovevano sulle loro spalle. In una frazione di secondo, come d’incanto, la guerra con il suo carico di sofferenza sparì per far spazio ad un momento di beatitudine che pervase tutti i presenti e cancellò per un istante tutti i brutti momenti7.

8. Ancora Anna Maria Vanni Morelli ricorda con dolore quella straziane scena, “Quando mi ebbi e riaprii gli occhi mi accorsi che accanto a me c’era il corpo di un uomo mezzo bruciato e attorno, a raggiera, altri tredici cadaveri orrendamente mutilati. C’era un silenzio di morte e io credetti di essere l’unica persona ancora in vita”. Quella che sembrava la prima giornata di pace si tramutò improvvisamente in un nuovo giorno di lutto.

Nel corso degli anni l’episodio ha prestato il fianco a numerose interpretazioni, dividendo la popolazione locale tra coloro che sostengono che si sia trattata di un’azione di guerra che involontariamente ha colpito le persone uscite dal rifugio e coloro che invece affermano che si trattò di un deliberato attacco nei confronti dei civili. Nonostante il colpo di artiglieria abbia colpito anche i soldati americani, l’eccidio di Aiale non si può non far rientrare all’interno delle violenze perpetrate dalle truppe in ritirata, in quanto rappresenta un attacco deliberato e ingiustificato contro un gruppo di persone inermi, intente a festeggiare la liberazione. Ad oggi non conosciamo ancora con esattezza il reparto della Wehrmacht responsabile della strage, poiché non è mai stata condotta un’inchiesta che potesse individuare i responsabili dell’accaduto.

In una recente ricerca condotta da Chiara Brogi è stato evidenziato come il numero di vittime che a lungo è stato riportato sia probabilmente da dover ridimensionare. La studiosa ha condotto un’accurata indagine confrontando gli atti di morte conservati all’interno dell’archivio comunale e i registri della Propositura di Santa Maria Assunta e San Leonardo di Lari con i nominativi delle vittime riportati sulle targhe commemorative presenti sul luogo dell’eccidio. Da questo esame è emerso come due delle persone che vengono incluse all’interno del numero complessivo di vittime risultino in realtà decedute nei giorni immediatamente precedenti il fatto. La ricerca ci porta dunque a ritenere che il numero più corretto di civili uccisi sia quello di quindici piuttosto che quello di diciassette. È doveroso ricordare che la tendenza ad inglobare all’interno del numero complessivo delle vittime dovute ad una strage anche le morti avvenute in prossimità dell’evento è un errore piuttosto diffuso, comune a numerosi eccidi avvenuti nella penisola9.

12 ha poi aggiunto a pochi metri dalla lapide una lastra di vetro recante i nomi delle vittime. Infine, nel 2023, il writer larigiano Ozmo, al secolo Gionata Gesi, ha realizzato su un muro posto a fianco del rifugio dove si è consumato l’eccidio un murales raffigurante un cielo azzurro solcato da un arcobaleno. Nell’ottica dell’artista l’opera vuole fornire a tale spazio nuova vita, favorendone l’utilizzo quale luogo d’incontro e di dialogo e non limitarlo alla funzione meramente ossequiosa13.

Le lastre collocate sul luogo dove si è consumato l’eccidio

 

Il murales di Ozmo

NOTE:

1 La parte meridionale della provincia di Pisa è tristemente nota soprattutto per la strage di Guardistallo, nella quale persero la vita 46 civili.

2 F. Pettinelli, Quando passò il fronte, (La provincia di Pisa nel 1944), CLD Libri, Fornacette-Pisa 2005, p. 68.

3 Ivi, p. 74.

4 Testimonianza di Filippo Sassetti citata in F. Pettinelli, Quando passò il fronte, cit., p. 57.

5 Testimonianza di Anna Maria Vanni Morelli citata in F. Pettinelli, 1944. Uomini e fatti della guerra in Valdera, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera 1990, p. 131.

6 Ivi, p. 132.

7 Ivi, pp. 132-133.

8 Stando alle testimonianze erano caduti tre soldati americani.

9 C. Brogi, Scheda sulla strage di Aiale sull’Atlante delle stragi nazifasciste, https://www.straginazifasciste.it/wp-content/uploads/schede/aiale_cascianaterme-lari_19440716.pdf.

10 Nel corso della seconda metà del Novecento l’unico riferimento all’eccidio è rintracciabile in una pubblicazione del 1990 del giornalista Fausto Pettinelli.

11 I. Mencacci, 60 anni…per non dimenticare, Lari in diretta. Periodico d’informazione dell’Amministrazione Comunale di Lari, luglio 2004, p. 3.

12 Il comune di Casciana Terme Lari è stato istituito nel 2014, in seguito al referendum indetto dalle amministrazioni di Lari e Casciana Terme che ha portato alla loro fusione.

 

 

Articolo pubblicato nell’ottobre 2025




Da tecnico cinematografico a partigiano

L’8 settembre 1943 l’annuncio dell’armistizio colse il Paese impreparato e in uno stato di profonda confusione. Pietro Badoglio, nel suo messaggio radiofonico, comunicò la cessazione delle ostilità con gli angloamericani, ma non fornì ulteriori indicazioni, lasciando nell’incertezza le forze armate e la popolazione civile. Le truppe italiane si trovarono allo sbando, prive di una strategia comune: molte furono disarmate dai tedeschi, altre cercarono di resistere, altre ancora si dispersero nel caos.

 

 

La Germania, fino a quel momento alleata, reagì con durezza occupando militarmente gran parte del territorio e instaurando un regime di controllo diretto. Nel giro di pochi giorni l’Italia si ritrovò divisa in due: il Sud controllato dagli Alleati e il Centro-nord in mano ai nazifascisti con un popolo spaesato, incerto se dover scegliere di collaborare o resistere. L’armistizio invece di rappresentare la fine della guerra segnò dunque l’inizio di una nuova fase, ancor più dolorosa e incerta, fatta di fame e di bombardamenti, di violenze e di soprusi.

Anche in Versilia la proclamazione dell’armistizio venne accolta con sentimenti contrastanti da parte degli antifascisti locali. Tra gli oppositori del regime non era presente una strategia condivisa su come affrontare la situazione, vi erano coloro che propendevano per un atteggiamento attendista e altri che invece sostenevano la necessità di dover intervenire immediatamente. Tra i più accesi oppositori al fascismo dominava la volontà di voler sfruttare il momento d’incertezza per assestare un colpo alle forze occupanti e sperare in un’insurrezione generale da parte della popolazione, mentre tra le fazioni moderate regnava l’indecisione, dettata dall’incapacità di prevedere l’evolversi degli eventi e dall’ormai ventennale inattività politica dovuta alla soppressione dei partiti.

Il comunicato di Badoglio aveva portato numerosi giovani e soldati dell’ormai disciolto esercito a ritirarsi sulle Apuane in attesa di conoscere l’evolversi della situazione. Sebbene fossero alimentati da una notevole determinazione i primi combattenti versiliesi dovettero ben presto riconoscere che la volontà e gli uomini non erano di per sé sufficienti per fronteggiare un nemico numericamente e tecnologicamente superiore. A parte qualche fucile trovato in cantina e qualche arma sottratta alle caserme i primi combattenti non disponevano di armamenti necessari per combattere i nazifascisti. Era dunque vitale per la nascente Resistenza versiliese riuscire ad incrementare il numero di equipaggiamenti bellici[1].

In questo momento della storia entra in scena il protagonista del nostro racconto, il ventinovenne Manfredo Bertini, nome di battaglia Maber. Nel 1943 Manfredo era ormai un affermato tecnico cinematografico che aveva curato la fotografia di numerosi film dell’epoca come Pioggia d’estate (1937), Ragazza che dorme (1941) e Il Re d’Inghilterra non paga (1941)[2]. Grazie a questa professione era stato esentato dal servizio militare e non aveva preso parte al conflitto. Nel corso del Ventennio Manfredo non aveva aderito a nessun gruppo clandestino e non aveva evidenziato un particolare interesse nei confronti della politica, limitandosi a concentrare l’attenzione sulla sua carriera di tecnico cinematografico. Nonostante ciò, dopo l’8 settembre Manfredo fu fra i primi a prender parte alla neonata Resistenza versiliese, non tanto per un’affinità con gli ideali comunisti quanto semmai per la comune avversione nei confronti di un nemico che opprimeva la popolazione e ne limitava la libertà.

 

 

Il lavoro che svolgeva gli aveva permesso di restare ai margini della guerra oltre a garantirgli ottimi guadagni che lo avevano messo al riparo dalle difficoltà economiche generalmente legate al conflitto, ma malgrado ciò, decise di sposare la causa della Resistenza e di accettare i rischi che questa comportava. Coloro che ebbero la fortuna di conoscerlo lo ricordano unanimemente come un uomo solare e spiritoso, capace di infondere fiducia e speranza alle persone che lo circondavano. Oltre ad essere un individuo particolarmente carismatico Maber era anche dotato di una notevole intelligenza e di una rapidità di pensiero che gli consentivano di risolvere situazioni all’apparenza insolubili.

 

I titoli di coda del film “Cenerentola e il signor Bonaventura”

 

Per ovviare alla situazione di stallo creatasi dopo l’8 settembre Manfredo propose agli esponenti della Resistenza versiliese di inviare una persona oltre le linee nemiche per stringere un contatto con gli Alleati, segnalare la propria presenza agli angloamericani, e richiederli i rifornimenti necessari per combattere gli occupanti. Manfredo per questa missione, denominata Operazione Gedeone, propose sua cognata, Vera Vassalle, una ventitreenne viareggina, persona fidata e capace, dalle profonde convinzioni antifasciste. La decisione di affidare l’incarico ad una ragazza poteva sembrare un azzardo, ma era invece motivata dalla considerazione che difficilmente avrebbe attirato le attenzioni dei nemici; inoltre ad avvalorare ulteriormente questo ragionamento contribuiva anche l’andamento claudicante di Vera, dovuto alla poliomielite che l’aveva colpita nell’infanzia. Partita da Viareggio il 14 settembre 1943, affrontò un estenuante viaggio durato due settimane, al termine del quale riuscì a varcare la linea del fronte e raggiungere gli americani a Montella, un piccolo comune montano in provincia di Avellino. Informati delle sue intenzioni, i militari la misero immediatamente in contatto con la sede dell’OSS (Office of Strategic Services) situata a Napoli. Una volta giunta nel capoluogo campano fu addestrata all’utilizzo delle telecomunicazioni e alla conoscenza dei sistemi informativi.

Terminato il periodo di formazione la giovane fu segretamente sbarcata nei pressi di Orbetello, nel gennaio 1944, da dove risalì fino a Viareggio, portando con sé l’attrezzatura necessaria per trasmettere e ricevere i messaggi degli Alleati. L’operazione si concluse positivamente e Vera riuscì a giungere nella sua città natale il 19 gennaio 1944[3].

 

Vera Vassalle

 

Ma non fu semplice riuscire subito ad attivare le comunicazioni con gli Alleati. Il radiotelegrafista affiancato ai combattenti toscani aveva smarrito i piani di comunicazione rendendo quindi impossibile qualsiasi contatto con gli angloamericani. Nonostante questo intoppo, i partigiani non interruppero però la loro attività e riuscirono a rendersi protagonisti di alcune azioni di disturbo ai danni delle forze occupanti e ad organizzare il primo rifornimento nella notte del 18 febbraio. Per l’occasione Maber coniò l’espressione “per chi non crede”, il segnale convenuto per dare il via all’iniziativa; il messaggio oltre a rappresentare l’avvio dell’operazione voleva anche rappresentare un invito a coloro che per paura o incertezza non avevano ancora sposato la causa. L’aviolancio si concluse con successo e i partigiani nascosti sulle Apuane riuscirono a raccogliere complessivamente diciassette bidoni carichi di materiali fondamentali per la lotta ai nazifascisti[4].

Radio “Rosa” divenne operativa solamente nel marzo 1944 con l’arrivo di Mario Robello, il tecnico inviato dagli Alleati con i nuovi piani di comunicazione. Nel corso della sua attività la stazione non limitò la propria azione al sostegno della Resistenza versiliese, ma estese il suo supporto anche all’assistenza degli altri gruppi sparsi per la regione, rappresentando un utile legame tra gli angloamericani e le unità impossibilitate a ricevere o fornire notizie. Nel corso della sua attività Radio “Rosa” organizzò numerosi rifornimenti e tenne costantemente aggiornati gli Alleati sugli spostamenti nemici.

Il primo rifornimento del 18 febbraio non passò inosservato attirando le attenzioni dei fascisti locali che organizzarono un rastrellamento nella zona: diversi componenti della formazione partigiana furono arrestati compreso Maber fermato presso l’abitazione del padre la mattina del 5 marzo, ma che riuscì a scappare con uno stratagemma. Prima di essere portato in caserma Manfredo chiese di poter utilizzare il bagno, uno dei militi entrò nella stanza e vedendo una minuscola finestrella dalla quale ipotizzò che fosse impossibile passare gli accordò il permesso. E una volta nel bagno Maber, grazie al suo fisico minuto, riuscì a passare da quell’angusto pertugio facendo perdere le sue tracce[5].

Il giorno dopo fece recapitare a suo padre un sarcastico messaggio che riassume meglio di tante altre parole la figura di Manfredo, capace di scherzare perfino in un frangente drammatico come quello:

Caro vecchio padre volevo mandarti una serratura nuova per sostituire quella rotta per colpa mia, ma fino ad ora me ne è mancato il tempo. Se tu per caso avessi modo di rivedere quei signori che vennero a cercarmi la mattina del cinque, avrei caro che tu cercassi di giustificarmi presso di loro per quella mia brutta maniera di andarmene senza salutarli. In ogni modo appena potrò di nuovo vederli, mi scuserò personalmente a voce e li persuaderò di tutte le mie buone intenzioni[6].

 

Il biglietto inviato al padre

 

Durante il periodo di clandestinità Manfredo venne nascosto nell’abitazione delle sorelle Anna e Maria Barsella,  che contribuirono enormemente alla lotta al nazifascismo rendendo la loro casa il quartier generale della Resistenza viareggina, un luogo dove poter occultare armi e documenti compromettenti e dove poter organizzare gli incontri con gli esponenti delle altre formazioni toscane. Pur non potendosi mostrare pubblicamente, Maber continuò a coordinare la lotta ai nazifascisti e a rappresentare un importante legame con gli Alleati e gli altri gruppi di ribelli.

Tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate si registrò un raffreddamento nei contatti tra i combattenti versiliesi e gli angloamericani: il numero degli aviolanci diminuì e gli Alleati divennero più vaghi nelle comunicazioni. Per ravvivare il legame Maber ritenne necessario un incontro analogamente a quanto aveva fatto Vera qualche mese prima e insieme all’amico Gaetano De Stefanis partirono a bordo di una motocicletta alla volta del sud Italia. Lungo il tragitto vennero fermati ad un posto di blocco e avevano addosso ogni genere di materiale sensibile, come mappe e documenti, ma nonostante la sfortunata circostanza Maber riuscì miracolosamente a salvarsi anche in questa situazione, iniziando a pronunciare una sequela di parolacce che alle orecchie dei tedeschi non avevano alcun significato, ma che inspiegabilmente riuscirono a dare il tempo a quest’ultimo di potersi appartare e gettare il materiale compromettente prima che procedessero alla perquisizione[7].

Una volta entrati in contatto con gli Alleati Manfredo e Gaetano vennero indirizzati presso gli uffici dell’OSS. Visti gli ottimi risultati raggiunti in Versilia gli angloamericani decisero di sfruttare le capacità acquisite negli ultimi mesi e incaricarono loro di creare un altro centro d’informazione nel nord Italia che li tenesse informati sugli spostamenti dei nazisti (Missione Balilla). Nell’agosto 1944 i due partigiani vennero paracadutati nel piacentino, più precisamente nella zona intorno a Pecorara dove operava la Divisone “Piacenza” di Giustizia e Libertà, comandata da Fausto Cossu. Nei primi mesi ci fu l’invio di numerosi messaggi dal quartier generale della Sanese e furono organizzati gli aviolanci con l’arrivo dei fusti di metallo paracadutati dal cielo.

 

Alcuni componenti della Divisione “Piacenza”

 

La situazione precipitò quando agli inizi di ottobre Manfredo fu ferito mentre viaggiava su un’auto nel tratto di strada che da Pecorara porta a Pianello. Le circostanze dell’infortunio rimangono ancora poco chiare: non sappiamo se è stato colpito dai nazifascisti o addirittura dai compagni partigiani perché sembra si trovasse su un’automobile tedesca. Il fatto è che Maber venne colpito al braccio sinistro e la ferita purtroppo si rivelò più grave del previsto, peggiorando di giorno in giorno e procurandogli un dolore continuo. Fu quindi trasferito in casa di una cugina di Fanny Zambarbieri, Caterina Politi, e curato dal Dott. Ricci Oddi, un medico partigiano[8].

 

Manfredo insieme al dott. Ricci Oddi

 

Costretto a letto dalla dolorosa ferita riceveva ogni giorno le visite di Fanny e dell’amica Pia Bertani, alle quali chiedeva spesso di cantargli Firenze sogna di Cesare Cesarini. Da Manfredo si recavano sovente anche i comandanti partigiani per parlare di questioni organizzative, in quel caso le due ragazze si allontanavano dall’abitazione. Andavano a visitarlo anche il Dott. Ricci Oddi e un’infermiera, una ragazza di Pianello Val Tidone che pare gli somministrasse anche della morfina quando lui non riusciva più a resistere al dolore. Con il passare dei giorni, però, la ferita non migliorava costringendolo a ricorrere sempre più spesso alle iniezioni di morfina per alleviare il dolore. All’epoca gli antibiotici erano pressoché inesistenti e la ferita era probabilmente infetta[9].

Agli inizi di novembre arrivarono notizie allarmanti riguardo un massiccio concentramento di forze tedesche a Castel San Giovanni. I partigiani della Divisione Piacenza furono costretti a sciogliere le formazioni e fuggire nei vicini boschi, ed anche Maber nella notte tra il 23 e il 24 novembre insieme ad alcun compagni si incamminò per raggiungere il comando situato alla Sanese portandosi dietro il maggior numero di armi. Ma la ferita non era migliorata e Manfredo febbricitante faticava a stare dietro ai propri compagni. Arrivati alla Sanese chiese agli altri partigiani di installare l’antenna della radio su di un alto castagno e riprovò insistentemente a contattare gli Alleati senza riuscire a ricevere nessuna risposta[10].

Probabilmente è in questo momento che Manfredo maturò la decisione di abbandonare definitivamente il gruppo. Tallonati dai nazisti e privi di qualsiasi sostegno, gli uomini della “Piacenza” avevano ormai le ore contate e Maber si sentiva un peso perché la sua presenza rallentava la loro fuga. L’abbandono degli Alleati e il martellamento incessante dell’artiglieria nemica lo convinsero sempre più della scelta meditata in quei giorni, e dopo l’ennesima richiesta di aiuto agli angloamericani caduta nel vuoto, si allontanò con una scusa e si fece esplodere con una granata. Ai compagni non restò che comporne i resti mortali e dargli sepoltura sotto ad un albero, nei pressi della cascina, avvolgendolo nel telo del paracadute con cui era atterrato nel Piacentino appena un paio di mesi prima.

Prima di togliersi la vita Manfredo aveva scritto ai suoi compagni una lettera d’addio:

“Date le mie condizioni di salute, veramente pessime, a seguito della ferita ricevuta tre mesi orsono, sentendomi incapace a proseguire con mezzi propri, anche per la fatica sostenuta durante la giornata di oggi e di ieri, sono costretto a fare quello che sono in procinto di compiere per consentire agli altri componenti la missione di mettersi in salvo e continuare il lavoro. Sono certo infatti che la fatica che li attende sarà tale da non consentire la cura del sottoscritto; e sono certo d’altra parte, dati anche i rapporti di parentela e di stretta amicizia che mi legano con icomponenti la Missione Balilla I e Balilla II, che per nessuna altra ragione al mondo, diversa da quella che io stesso sto per procurare, i detti componenti abbandonerebbero il sottoscritto. Giuro di fronte a Dio che la mia di stanotte non è una fuga e questo desidero sappia mio figlio. Groppo 24 novembre 1944 Manfredo Bertini”[11]

Nonostante si sia distinto nel corso della Guerra di Liberazione e sia stato insignito della medaglia d’oro al valor militare, dopo la sua scomparsa la figura di Manfredo Bertini non è stata ampiamente celebrata.  Il suo ricordo affiora sporadicamente nella toponomastica della provincia di Lucca e Massa, senza però lasciare un segno indelebile o destare l’attenzione dei passanti[12]. Il tributo più significativo lo troviamo a Montecarlo, il paese natale di Manfredo, dove nel 1975 è stata affissa una targa sulla facciata dell’abitazione nella quale era cresciuto[13]. Un ulteriore riferimento alla sua memoria si incontra sul lungomare di Viareggio, dove sorge lo stabilimento Maber, donato nel secondo dopoguerra dal Comune alla vedova, come gesto di riconoscenza per la scomparsa del marito.

 

Targa posta sulla facciata dell’abitazione dove nacque Manfredo

 

Più recentemente il ricordo di Manfredo è riemerso nel 2011, in occasione del Festival del Cinema di Viareggio, nel corso del quale sono stati proposti al pubblico alcuni fotogrammi di Pioggia d’estate, l’inedito film girato nel 1937 da Mario Monicelli, a cui aveva collaborato. Il tutto è stato reso possibile grazie alla ricerca del regista Riccardo Mazzoni, che è riuscito a rinvenire il materiale nell’archivio di Andrea Bertini, il figlio di Manfredo[14].

 

 

[1]      L. Guccione, Missioni “Rosa” – “Balilla”: Resistenza e Alleati, Vangelista, Milano 1987, pp. 32-33.

[2]      https://www.imdb.com/it/name/nm1068683/.

[3]      F. Bergamini, G. Bimbi, Antifascismo e Resistenza in Versilia, A.N.P.I. Versilia, Viareggio 1983, pp. 58-60.

[4]      L. Guccione, Missioni “Rosa” – “Balilla”, cit., pp. 77-78.

[5]      F. Bergamini, G. Bimbi, Antifascismo e Resistenza in Versilia, cit., pp. 81-85.

[6]      Messaggio inviato da Manfredo Bertini al padre, citato in L. Guccione, Missioni “Rosa” – “Balilla”, cit., pp. 82-83.

[7]      F. Bergamini, G. Bimbi, Antifascismo e Resistenza in Versilia, cit., pp. 110-112.

[8]      L. Guccione, Missioni “Rosa” – “Balilla”, cit., p. 137.

[9]      Intervista a Giovanna Fanny Zambarbieri, https://www.youtube.com/watch?v=xR2vujiKFoY.

[10]    L. Guccione, Missioni “Rosa” – “Balilla”, cit., pp.154-157.

[11]    Lettera d’addio di Manfredo Bertini, citata in L. Guccione, Missioni “Rosa” – “Balilla”, cit., p. 163.

[12]    Abbiamo una via dedicata a Manfredo Bertini a Viareggio, Camaiore, Lucca e una piazza a San Salvatore, frazione del comune di Montecarlo.

[13]    L’abitazione dove Maber è cresciuto si trova in via Cerruglio.

[14]    https://www.iltirreno.it/versilia/cronaca/2011/10/11/news/cosi-ho-ritrovato-i-fotogrammi-di-pioggia-d-estate-1.2737038.

 

Articolo pubblicato nel settembre 2025




IL CANDIDATO DEL FASCISMO AGRARIO MAREMMANO

Profilandosi ormai chiaramente la minaccia fascista, i socialisti, non solo non presero nessuna misura per fronteggiarla, ma col loro atteggiamento tendevano a impedire che ci si organizzasse a difesa. Il fascismo era infatti considerato dai dirigenti socialisti come un fenomeno di mera provocazione, tendente a far intervenire, contro le masse, le forze repressive dello stato borghese. «Non accettare la provocazione» fu fino all’ultimo la parola d’ordine dei dirigenti socialisti. Come se di fronte a bande armate che bastonavano e uccidevano, bruciavano le sedi delle organizzazioni operaie e scioglievano con la forza le amministrazioni socialiste, fosse possibile restarsene passivi, per non fare il gioco dei «provocatori». Istintivamente le masse sentivano che bisognava far qualcosa…”.
(L. Bianciardi, C. Cassola, I minatori della Maremma)

La recentissima pubblicazione del libro di Franco Dominici e Silvio Antonini, Gino Aldi Mai. Il Candidato agrario. Tra il Biennio rosso e l’avvento del Fascismo nella Maremma e nella Tuscia (1919-1924), edito da Effigi, col patrocinio dell’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, conferma la rilevanza del cosiddetto squadrismo agrario nella genesi politico-militare dei Fasci di combattimento e, in seguito, nella restaurazione economica-sociale delle campagne durante il regime fascista.
Dalla Lomellina al Molinellese, dal Polesine di Matteotti alle Puglie di Di Vittorio, il fascismo mussoliniano potè insediarsi, trovare finanziamenti e svilupparsi in territori in cui il padronato agrario, per lo più latifondista, aveva già una lunga “tradizione” di controllo e dominio della manodopera bracciantile e, più in generale, delle lavoratrici e dei lavoratori agricoli subordinati, attraverso l’impiego di propri “uomini” a cui erano demandati quei metodi violenti che non sempre potevano essere assicurati dai pur zelanti Carabinieri.
Secondo le zone, si trattava di piccoli eserciti privati formati occasionalmente da “guardie campestri”, sovrastanti, fattori, “caporali”, “factotum”, braccianti ingaggiati come crumiri, disoccupati assoldati alla giornata… che richiamavano i “bravi” di manzoniana memoria.
A loro era demandato il compito di fronteggiare proteste, scioperi ed occupazioni di terre, ma sovente erano anche la “longa manus” dei proprietari terrieri per “regolare conti” ed intimidazioni fuori dall’ambito lavorativo.

Foto della Squadra d’azione laziale, 1920, tratta da “Squadristi” di Franzinelli.

Le prime squadre fasciste s’inserirono quindi su questo terreno conflittuale, fornendo giovani votati alla violenza ed ex-combattenti per contrastare le Leghe – sia “rosse” che “bianche” – dei lavoratori della terra, compiere spedizioni punitive nei paesi non sottomessi, perpetrare persecuzioni individuali ed esecuzioni “mirate”.
L’intesa era nel reciproco interesse delle parti: i possidenti terrieri, per la tutela dei propri interessi e privilegi, potevano contare su una più efficiente guardia privata, operante come una forza politica, mentre i Fasci usufruivano di legittimazione e ingente sostegno economico, estendendo così la loro influenza, a spese del sindacalismo di classe e dell’associazionismo popolare.
Grazie alla disponibilità di camion e altri veicoli – ma in alcune zone anche di cavalli – lo squadrismo “tricolorato introdusse la tattica della “guerra di movimento”, ma risulta evidente la continuità funzionale con i pre-esistenti “mazzieri dell’Agraria”, così come appare evidente in alcune foto delle prime squadre fasciste nella campagne. Ai bastoni e alle doppiette da caccia si aggiungevano le armi da guerra, ma non vi erano ancora divise paramilitari ed elmetti e le rare camicie nere erano quelle “da fatica” allora normalmente usate dai contadini nel lavoro dei campi.
La situazione della Maremma, sia Toscana che Laziale, conferma perfettamente tale dinamica, seppure a fianco dell’importante realtà agricola vi erano non meno importanti insediamenti industriali e minerari che talvolta – come in Val di Cecina – vedevano un analogo “feudalesimo industriale”.

Non di meno, lo squadrismo «tricolorato» dovette fare i conti col forte radicamento socialista, anarchico e sindacalista, ricorrendo – con la connivenza delle forze dell’ordine e dei comandi militari – a metodi terroristici; basti pensare alla Strage di Roccastrada che nel luglio 1921 anticipò le rappresaglie nazi-fasciste “10 per 1”.
La compiacenza della forza pubblica anche nell’assalto fascista a Grosseto venne confermata da una testimonianza, pubblicata sul quotidiano anarchico «Umanità nova» del 6 luglio 1921, che riferì «dei reali carabinieri allineati fare il presentatarm allo stato maggiore fascista».
La biografia di Gino Aldi Mai, ricco proprietario terriero grossetano, prima liberale e poi decisamente fascista, che rivestì importanti cariche pubbliche e istituzionali (sindaco, podestà, senatore…), al centro del saggio degli storici Dominici e Antonini, appare in effetti paradigmatica per comprendere l’involuzione, dal paternalismo alla reazione, della borghesia agraria non solo in in Maremma, ma simile nel resto della Toscana e del Lazio, così come nella Valle Padana e nel Meridione.
Le “patriottiche motivazioni ideali” di tale passaggio al Fascismo, ebbero il loro riscontro durante il regime quando, come scrive Franco Dominici: «Il padrone tornava a essere tale a tutti gli effetti e delegava il fattore, o agente agrario. I vecchi usi e prestazioni di tipo medievale erano adesso codificati dalla legge; i mezzadri dovevano consegnare nuovamente al padrone gli animali da cortile, le uova, la legna e quelle che diventeranno le “massaie rurali” saranno obbligate a prestarsi ai servizi padronali. Le leggi sugli infortuni agrari vennero abrogate, così come la mutua dei “rossi” il patronato dei “bianchi”; la divisione degli utili dei dei diversi prodotti (latte, suini, monta, castagne, ma anche prodotti come tabacco, barbabietola e pomodori), precedentemente a favore dei mezzadri, fu riportata dalle leggi fasciste al 50% fra le due parti. Il colono tornava a condizioni di vita più misere, a un lavoro con minori certezza, alle angherie dei fattori ed a una dieta alimentare più povera».
La lettura del libro offre anche l’occasione di riflettere su come, prima sui giornali di destra e nei rapporti di polizia e in seguito nella narrazione epica dello squadrismo, il clima di guerra civile instaurato dagli «schiavisti agrari» (seconda una nota definizione dannunziana) venne mistificato come un’eroica e disinteressata battaglia per salvare l’Italia dal bolscevismo e dall’anarchia, con la conseguente glorificazione dei pochi “martiri fascisti” a fronte di migliaia di vittime, perlopiù inermi, della classe lavoratrice e la criminalizzazione di quanti impugnarono le armi per la difesa delle libertà sociali.
I necrologi commemorativi dei fascisti rimasti uccisi nel grossetano e nel viterbese, citati nel libro, forniscono un esempio dello stilema retorico utilizzato per trasformare gli aggressori in vittime e gli oppositori in criminali.
Lo squadrista ventunenne Rino Daus che, da Siena, era giunto a Grosseto per espugnare militarmente il rosso capoluogo maremmano, veniva quindi definito come un «giovinetto» che morendo avrebbe invocato «Italia! Mamma!», mentre Giovanni Migliori, «tutto dedito alla casa e la lavoro», fu ucciso in un’imboscata da «una bieca figura di comunista» a Giuncarico. Giovanni Dessy, fondatore del Fascio di Orbetello, cadde in una sparatoria con alcuni malviventi, ma la sua morte fu il pretesto per rappresaglie contro i “rossi”. Il fascista grossetano Ivo Saletti rimase ucciso al ritorno da una spedizione punitiva a Roccastrada, probabilmente colpito da un colpo partito accidentalmente da un camerata che si trovava a bordo del medesimo camion, causando per ritorsione l’eccidio indiscriminato di dieci inermi paesani. Invece, lo squadrista grossetano Andrea Agnelli, mortalmente accoltellato da uno sconosciuto e la cui uccisione fu subito attribuita «a odio di parte», a distanza di tempo fu escluso dal martirologio fascista. Nello stigmatizzare l’uccisione del fascista viterbese Amoroso Melito venne invece sottolineato il fatto che era un mutilato, ma tale condizione non gli aveva impedito di «prendere parte a parecchie spedizioni punitive».
Un ventennio dopo lo stesso schema sarebbe stato ripreso dalla propaganda della Repubblica sociale contro i partigiani: i «ragazzi di Salò», vittime dei «banditi», ed ancora oggi viene riproposto nel tentativo di riscrivere la storia, dimenticando anche Roccastrada.




LA COPPA MONTENERO-CIANO

La prima edizione della Coppa Montenero si svolse il 25 settembre 1921. La manifestazione, che nel proprio comitato organizzativo non contava ancora personalità politiche, nacque dall’intuizione di un gruppo di circa quindici livornesi legati al mondo giornalistico e all’aristocrazia cittadina[1]. L’esito di questa prima edizione fu alquanto modesto, con la partecipazione alla gara di sole otto auto[2].
Nel 1922 la gara fu anticipata di un mese, a fine agosto, per cercare di aumentare l’adesione dei piloti e il prestigio della competizione. La mossa non portò al risultato sperato e l’evento rimase una manifestazione dalla valenza prettamente regionale. Una differenza in questo secondo anno, rispetto alla prima edizione, fu comunque il notevole aumento di interesse da parte di alcune delle maggiori personalità del mondo politico e industriale cittadino[3]. Come membri del comitato d’onore figurarono infatti Salvatore Orlando, Guido Donegani e Costanzo Ciano, capitani d’industria locali che avevano agevolato e sostenuto nei mesi precedenti l’ascesa politica del Fascio livornese, completatasi proprio ad inizio agosto del 1922, a poche settimane dalla gara, con la conquista violenta del comune e il conseguente allontanamento del sindaco socialista Mondolfi[4].
Fu a partire da questa edizione che Costanzo Ciano, dall’anno successivo presidente del Comitato d’onore, intuì le potenzialità propagandistiche dell’evento e capì quanto avrebbe potuto giovare in termini di rilevanza se avesse fatto “sua” la competizione aumentandone il prestigio nazionale e divenendone l’uomo copertina.
Un cambiamento importante si concretizzò proprio nel 1923, in seguito alla costituzione, in primavera, della sezione livornese dell’Auto Moto Club[5]. Quest’ultima, a causa delle problematiche economiche riscontrate dal comitato esecutivo nelle prime due edizioni, assunse le redini organizzative dell’evento[6]. Vi fu così un miglioramento dell’intero complesso organizzativo e un conseguente primo interessamento da parte delle principali testate sportive italiane.
La svolta definitiva della Coppa Montenero si ebbe con la quinta edizione, quella del 1925, evento che riuscì ad attirare il doppio dei piloti rispetto alle quattro edizioni precedenti e ad ottenere contestualmente una maggiore copertura giornalistica sulla stampa nazionale e locale. In particolar modo proprio le due principali testate locali, «Il Telegrafo» e «La Gazzetta Livornese», controllate da Costanzo Ciano[7], seguirono con un minuzioso coinvolgimento quotidiano tutte le giornate d’avvicinamento e quelle successive di celebrazione dell’evento con articoli e approfondimenti[8].
Questo importante cambiamento fu dettato in primo luogo dal ruolo centrale che Emanuele Tron assunse nell’organizzazione. Tron fu prima membro di primaria importanza dell’Auto Moto Club Livorno (sin dalla sua prima fondazione), poi ne divenne presidente e, successivamente, con il pieno sostegno di Costanzo Ciano, fu scelto per gestire in solitaria il coordinamento dell’evento motoristico[9]. Oltre alle funzioni esercitate nel mondo dei motori, sin dall’avvento del fascismo a Livorno si ritagliò un ruolo di primo ordine anche all’interno della vita politica cittadina. Membro del direttorio del Fascio locale dal maggio 1921[10], non si limitò ad una mera rappresentanza politica, partecipando attivamente ai mesi di violenze e tensioni che culminarono con gli eventi dell’agosto 1922[11] . Nel dicembre del 1925, a pochi mesi dal gran successo dalla quinta edizione della Coppa Montenero, fu nominato inoltre segretario politico del Fascio di Livorno. Anche grazie ai risultati ottenuti nel mondo dei motori, nel 1932 venne chiamato inoltre a presiedere l’U.S. Livorno[12]. Durante gli anni della sua presidenza fu edificato il nuovo stadio intitolato ad Edda Ciano Mussolini[14].
Un importante cambiamento che mutò parzialmente la formula delle gare sul circuito del Montenero avvenne a ridosso della settima edizione dell’evento, quando fu introdotta la Coppa Ciano dedicata proprio al presidente del comitato d’onore Costanzo[15]. Per i primi due anni la Coppa Ciano fu assegnata da una corsa separata, organizzata in concomitanza a quella con cui si conferiva la Coppa Montenero. Le cose cambiarono a partire dal 1929, quando la Coppa Ciano e la Coppa Montenero divennero un’unica gara. Il trofeo del vincitore della Montenero continuò poi ad essere conferito come Coppa Ciano fino all’ultima edizione della manifestazione, svoltasi prima dello scoppio della guerra. Con la trasformazione della Coppa Montenero in Coppa Ciano si completò definitivamente quel progetto di controllo sulla kermesse che Costanzo Ciano aveva iniziato a plasmare sin dalle prime edizioni della competizione.
Di edizione in edizione si susseguirono numerosi ospiti illustri, tra i quali spiccarono autorità politiche di primaria importanza e illustri uomini di sport, che affiancavano pubblicamente Ciano e i suoi familiari durante l’intera giornata della manifestazione. Ciano non si fece però mai rubare la scena, muovendosi sempre con estrema accortezza per restare negli anni il volto dell’evento. Ogni quotidiano, locale e non, impegnato a seguire la parte sportiva della competizione riservò infatti sempre, parallelamente alla cronaca delle gare, un ampio spazio di approfondimento a Ciano e al suo ruolo. «Il Telegrafo», che era ancora sotto il suo controllo, offrì quasi ad ogni edizione della Montenero un resoconto specifico di ogni spostamento in città di Ciano nei giorni di svolgimento delle varie gare, come se le azioni compiute in quelle ore dal “Ganascia” fossero di pari importanza agli esiti sportivi di quello che avveniva tra le monoposto in pista. L’associazione diretta del nome Ciano con l’evento, il più importante della città non solo in ambito sportivo e capace di attirare già da diverse edizioni l’interesse di tutta Italia, fu quindi fondamentale nel sublimare ulteriormente il potere dell’ex militare su Livorno, suo feudo personale, e nell’alimentare di conseguenza nella popolazione livornese il culto della sua personalità.
Dopo quasi un decennio in cui la competizione si consolidò come uno degli appuntamenti motoristici più importanti dell’intero panorama nazionale, nel 1937 vi fu un cambiamento che rese l’evento ancora più rilevante. Questa edizione fu la più importante della storia della competizione, segnata dallo spostamento del Gran Premio d’Italia dal circuito di Monza al tracciato livornese[16]. La decisione di trasferire la gara automobilistica più importante d’Italia a Livorno, un riconoscimento per il comitato organizzativo con ancora a capo Emanuele Tron, arrivò grazie alla forte influenza della famiglia Ciano, estremamente volenterosa di esibire all’interno delle proprie mura cittadine un evento di estrema importanza, ma soprattutto grazie alla decisione delle principali autorità del mondo automobilistico italiano di allontanarsi dal circuito di Monza che era ormai divenuto territorio di totale dominio delle auto tedesche. Ciononostante la competizione non perse i legami con la sua storia recente e le precedenti edizioni, mantenendo anche per questa edizione speciale il titolo di Coppa Ciano. La gara non portò però il risultato atteso: a vincere fu una monoposto Mercedes-Benz, ragione per cui a partire dall’anno seguente il Gran Premio d’Italia fu trasferito nuovamente a Monza.
L’ultima edizione del Gran Premio del Montenero-Coppa Ciano, negli anni del fascismo, si svolse nell’estate del 1939, a pochi giorni dallo scoppio della guerra, che negli anni successivi impedì l’organizzazione delle più importanti gare in tutta Europa. A caratterizzare quest’ultima edizione fu il fatto che ebbe luogo a poche settimane dalla dipartita di Costanzo Ciano e fu quindi dedicata alla sua memoria[17]. La gara automobilistica, il cui prestigio era cresciuto enormemente nel corso del Ventennio fascista, nel dopoguerra non avrebbe più raggiunto i fasti delle edizioni degli anni Venti e Trenta. La sua rilevanza si affievolì dunque in modo simbolico con la morte della principale figura legata alla competizione.
Ciò che ci restituisce l’evoluzione della manifestazione, nel corso di nemmeno due decenni, è principalmente l’utilizzo strumentale che ne fece Ciano. Egli si servì dell’evento, con l’aiuto di uomini a lui fedeli come Tron, come strumento di promozione politica e per accrescere la propria autorevolezza a livello locale e nazionale.

 

Questo articolo è un estratto della tesi dell’Autore Livorno e il mondo dello sport durante il fascismo. Il caso labronico negli anni del regime (relatore prof. Gianluca Fulvetti), discussa presso il Dipartimento di Civiltà Forme del Sapere dell’Università di Pisa nell’Anno Accademico 2023/2024.

 

Note

  1. Cfr. M. Mazzoni, Lampi sul Tirreno. Le moto e l’auto sul Circuito di Montenero a Livorno, Consiglio regionale della Toscana. Comune di Livorno, Livorno 2006, p. 37; Le gare automobilistiche per la Coppa Montenero, “Gazzetta Livornese”, 22 settembre 1921.
  2. Cfr. La corsa automobilistica per la Coppa Montenero. La vittoria di Corrado Lotti, “Gazzetta Livornese”, 26 settembre 1921.
  3. Cfr. http://www.circuitodelmontenero.it/2/images/1922_pub_004.jpg.
  4. Cfr. T. Abse, Sovversivi e fascisti a Livorno (1918-1922): la lotta politica e sociale in una città industriale della Toscana, Franco Angeli, Milano 1991, p. 225-245; M. Tredici, Umberto Mondolfi, il sindaco rosso. L’amministrazione socialista a Livorno 1920-1922), Media Print Editore, Livorno 2022.
  5. Secondo tempo della “Montenero”, Rivista ufficiale del Reale Automobile Club d’Italia, 29 agosto 1937; La prima marcia turistica auto-moto-ciclistica, “Il Telegrafo”, 15 giugno 1923.
  6. I preparativi per la terza Coppa Montenero, “Gazzetta Livornese”, 3 luglio 1923.
  7. A. Viani, Il Telegrafo di Giovanni Ansaldo 1936-1943, Belforte, Livorno 1998, pp. 24-25.
  8. La V Coppa Montenero, “Il Telegrafo”, 3 agosto 1925; Il meraviglioso successo della V Coppa Montenero, ivi, 11 agosto 1925; La V Coppa Montenero. Il successo della competizione organizzata dall’Auto Moto Club Livorno, ivi, 12 agosto 1925; Al fiorentino Emilio Materassi su Itala la V Coppa Montenero, ivi, 17 agosto 1925; L’attività dell’Auto Moto Club Livorno. Per lo sport e per Livorno, ivi, 31 agosto 1925.
  9. L’indiscutibile successo della IV Coppa Montenero, ivi, 21 agosto 1924; Un’altra bella affermazione dell’Auto Moto Club Livorno, ivi, 26 agosto 1924.
  10. R. Cecchini, Livorno nel ventennio fascista, Editrice l’informazione, Livorno 2005, p. 20.
  11. N. Badaloni, F. Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno: 1900-1926, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 138-139.
  12. P. Ceccotti, Il fascismo a Livorno: dalla nascita alla prima amministrazione podestarile, Ibiskos Editrice, Empoli 2006, p. 166.
  13. Il comm. Tron nominato Presidente della Sezione calcistica della “Livorno Sportiva, “Il Telegrafo”, 1° luglio 1932.
  14. I. Bianchi, Lo stadio di Livorno, in «Liburni Civitas», A. VIII, N. I, Belforte, 1935, pp. 4-18.
  15. Le grandi manifestazioni dell’Automobile Club di Livorno, ivi, 3 marzo 1927.
  16. Il XV Gran Premio d’Italia a Livorno, ivi, 26 agosto 1937.
  17. In memoria dell’eroe, ivi, 31 luglio 1939.

Articolo pubblicato nel giugno 2025.




AGOSTO 1917. LIVORNO IN GUERRA. L’AFFONDAMENTO DELL’UMBERTO I

A Livorno, in piazza Luigi Orlando (Porta a Mare), all’ingresso di quello che fu il Cantiere Navale Orlando, è visibile una lapide che, con retorica patriottica, ricorda 14 operai del Cantiere caduti «sulle trionfate alture o nei gorghi del nostro mare aperti da nemica insidia» durante il Primo conflitto mondiale.
Tra questi lavoratori del Cantiere morti in guerra, ben cinque perirono nello stesso evento bellico, ossia l’affondamento della nave Umberto I su cui erano imbarcati, avvenuto il 14 agosto 1917; i loro nomi, non sempre riportati correttamente, erano: Gino Magherini, Sergio Magrini, Gino Nencini, Oscar Ratti e Vincenzo Spinelli.
Tra i 26 marinai dell’Umberto I morti in tale frangente vi erano anche altri due livornesi, Antonio Ammagliati e Pilade Coscetti, di cui si ignora l’occupazione civile[1].
Questa è la ricostruzione sommaria – sulla base delle informazioni disponibili – di quel tragico quanto misconosciuto affondamento, ma anche di quanto avvenne al Cantiere Navale appena ne giunse notizia.

L’Umberto I

L’Umberto I era stata una nave passeggeri di lusso, costruita nei cantieri scozzesi Mc Millan & Sons di Dumbarton per conto della società genovese “Rocco Piaggio e Figli”: varata il 15 agosto 1878, venne intitolata al nuovo re d’Italia, appena salito al trono.
La nave con scafo in ferro e rivestimenti esterni in legno, lunga 109,72 metri e con una stazza lorda di 2746 tonnellate, aveva una propulsione mista, ossia a vela e motore, e poteva raggiungere la considerevole velocità di 13/14 nodi. Destinata al trasporto passeggeri sulle rotte per il Sud America (Genova- Montevideo-Buenos Aires e Genova-Rio della Plata); disponeva di due ponti e tre classi: prima, per circa 90 passeggeri in lussuose cabine ubicate a poppa; seconda, con cabine per 80 passeggeri a centro nave; terza, a prua, per 800-870 emigranti. L’equipaggio, invece, contava 80 uomini.
Dopo il passaggio di proprietà, nel 1885, alla Navigazione Generale Italiana, il piroscafo aveva continuato a trasportare passeggeri verso il Sud America, con un viaggio che durava una ventina di giorni.
Nell’ottobre del 1887, a seguito dei gravi danni riportati incagliandosi nei pressi dell’isola di Ponza, dovette essere rimorchiata sino a La Spezia dove venne sottoposta a lavori di riparazione protrattisi per tre mesi.
Nel 1890 il piroscafo fu noleggiato per il trasferimento del 4º Reggimento di Fanteria a Cagliari.
A partire dal 1894 l’Umberto I venne trasferito dalle linee oceaniche a quelle mediterranee per l’Egitto prestandovi servizio sino al 1896 quando fu requisito dalla Regia Marina durante la guerra d’Etiopia per essere adibito a nave ospedale, dislocata nel porto di Massaua.
Al termine della campagna d’Africa, tornò alla navigazione civile sulla linea celere Napoli – Palermo – Tunisi.
Nel 1908, alle dipendenze del Ministero dell’Interno, venne impiegata per portare soccorso a Messina dopo il devastante terremoto.
La nave, ormai usurata, nel 1910 venne venduta alla Società Nazionale di Servizi Marittimi che la utilizzò come nave da carico.
Nel 1913 fu quindi acquistata all’armatore G. Orlando ed immatricolata nel compartimento di Livorno.
Nel 1915, allo scoppio della Prima guerra mondiale, fu di nuovo requisita dalla Marina militare che la convertì al ruolo di incrociatore ausiliario, con un armamento costituito da un cannone da 120/40 mm. e due da 76/40 mm., collocati a prua e a poppa della nave.
Il suo impiego fu principalmente quello di scorta per i convogli, anche se – secondo alcuni fonti – avrebbe pure operato come trasporto truppe.
La sua ultima missione fu comunque col compito di scorta: salpato da Genova, alle ore 8.30 del 14 agosto 1917, l’Umberto I era alla testa di un convoglio con destinazione Gibilterra composto da sette piroscafi, tre italiani e quattro norvegesi.
É presumibile che, dato che attraverso Gibilterra giungevano i rifornimenti di carbone, alimentari e di materie prime provenienti dai paesi alleati, i sette mercantili, dopo aver scaricato a Genova stavano tornando indietro, fossero pressoché vuoti; per questo motivo, l’Umberto I appariva come l’obiettivo più importante.
Alle 18.30 mentre stava navigando all’altezza di Albenga, a circa 800 metri a est dell’Isola Gallinara, fu raggiunto da due siluri lanciati dal sommergibile tedesco UC 35 [talvolta confuso col sommergibile U 35] al comando di Hans Paul Korsch. I siluri colpirono lo scafo a poppa, all’altezza della paratia divisorio fra la stiva n. 3 e la sala macchine, distruggendo le scialuppe collocate nella zona poppiera ed il locale del radiotelegrafo; nonostante le sette paratie stagne, in pochi minuti seguì l’affondamento, causando la morte di 26 uomini su un totale di 80 membri dell’equipaggio (41 civili “militarizzati” e 39 militari). La maggior parte delle vittime rimase bloccata sottocoperta, senza avere il tempo di salire sul ponte, e in particolare non ebbe scampo il personale addetto alla sala macchine.
Tra questi, sicuramente, vi erano gli operai militarizzati del Cantiere dato che le loro qualifiche erano rispettivamente: capo meccanico di 1ª classe (Spinelli), 2° capo elettricista (Magherini), capo macchinista (Ratti), fuochista scelto (Nencini), macchinista marittimo (Magrini).
Gli altri due livornesi periti nell’affondamento, il marinaio Ammagliati e il marinaio scelto Coscetti, erano invece – presumibilmente – a tutti gli effetti arruolati nella Marina militare.
Secondo alcune fonti, mentre la nave stava affondando, l’elica ancora in funzione avrebbe fatto altre vittime tra i naufraghi in mare ed invano, il comandante Ernesto Astarita avrebbe tentato di scendere sottocoperta, tra le fiamme, per fermare le macchine, perdendovi la vita. Si salvò, invece, il tenente di vascello Cesare Pagani, anch’egli livornese, decorato con Medaglia d’argento al valor militare.
Il personale dei rimorchiatori e i pescatori di Albenga, per l’opera di soccorso prestata, vennero proposti per una riconoscimento civile al valore di marina. Al comandante militare Pagani e al tenente commissario di bordo Ruspini fu conferita la medaglia d’argento al valore militare, al radiotelegrafista Coen la medaglia di bronzo così come alla memoria del capitano di macchina Oscar Ratti, mentre al comandante Astarita fu attribuita la croce di guerra.
Il relitto dell’Umberto I si trova ancora dove affondò; adagiato, sul lato di babordo, su un fondale sabbioso a 50 metri di profondità; le immersioni subacquee hanno rivelato una grande spaccatura, causato dal siluramento, che divide lo scafo in due tronconi, avvolto dai resti di innumerevoli reti da pesca.

L’UC 35

Sin dalla primavera del 1915, un consistente numero di sommergibili tedeschi vennero inviati, via mare e – smontati – via terra, alle basi adriatiche di Pola e Cattaro per operare nel Mediterraneo, sotto la bandiera da guerra asburgica e alle dipendenze del comando supremo della flotta austro-ungarica. Grazie a tale inquadramento piratesco i sommergibili tedeschi poterono attaccare anche le navi italiane, ancor prima della dichiarazione italiana di guerra alla Germania imperale (28 agosto 1916), rimanendo inseriti nella flotta austro-ungarica pure dopo la dichiarazione di belligeranza.
Fra i 45 sommergibili della Kaiserliche Marine operanti da Pola e Cattaro vi era l’UC 35, un sommergibile posamine costiero del tipo UC II, dal 14 giugno 1917 posto sotto il comando dell’Oberleutnant zur See Hans Paul Korsch, decorato con la Croce di Ferro di prima e seconda classe.
L’UC 35 era stato varato nel 1916 nei cantieri Blohm & Voss di Amburgo: lungo 50,4 metri e con un dislocamento di 427 ton. (509 sotto la superficie), poteva immergersi sino a 50 metri sotto la superficie ed aveva un equipaggio di 26 uomini.
Oltre a 18 mine tipo UC200, disponeva di 7 siluri e, in coperta, di un cannone da 88 mm e una mitragliatrice. Dopo che il piccolo convoglio alleato venne avvistato vicino ad Albenga, lo attaccò in immersione lanciando due siluri da prua, riuscendo poi a dileguarsi.
L’Umberto I era il suo 27° obiettivo colpito (fra cui 16 nave italiane), operando nel Mar Ionio, nel Canale di Sicilia, nel Mar Tirreno e in quello Ligure. Altre 26 unità – di varia nazionalità – furono successivamente attaccate dall’UC 35 per un totale di 48 navi affondate (71.084 ton.) e 5 danneggiate (16.706 ton.), prima d’essere a sua volta individuato il 16 maggio 1918 a sud-ovest della Sardegna e affondato dal pattugliatore francese Ailly a colpi di cannone. Dell’equipaggio, vi furono solo cinque marinai superstiti, mentre gli altri 21 sommergibilisti, tra cui il comandante Korsch, perirono in mare.

Morire di guerra e di lavoro

La notizia dell’affondamento, seppure non riportata sui giornali sottoposti a censura militare, era comunque subito arrivata e circolata a Livorno, presumibilmente perché la nave era di proprietà dei Fratelli Orlando, oppure attraverso i livornesi superstiti.
Infatti, il 16 agosto 1917 gli operai del Cantiere Navale, attraverso la Commissione interna, richiesero ed ottennero di astenersi dal lavoro nel turno pomeridiano, in segno di lutto sia per la morte avvenuta due giorni prima del compagno Angelo Ciopi, operaio sessantaduenne, vittima del lavoro, che per la tragica fine degli ex-compagni “militarizzati” sull’Umberto I, vittime della guerra.
Per tragico paradosso, durante il conflitto, nel Cantiere Navale di Livorno, dove gli operai “esonerati” dall’arruolamento erano comunque sottoposti a disciplina militare, furono costruiti anche sette sommergibili per la Regia Marina italiana.
La Direzione del Cantiere, onde evitare un’agitazione interna, aveva infatti acconsentito alla partecipazione delle maestranze – già entrate in sciopero in altre occasioni – al funerale dell’operaio Ciopi, svoltosi nella serata del 16 agosto con la partecipazione degli aderenti alla Federazione metallurgica (FIOM). Tenendo conto del sottinteso significato politico che veniva ad assumere il funerale, il Prefetto predispose, preventivamente, «un largo servizio di vigilanza per garantire l’ordine pubblico» . La stampa locale, da parte sua, riferì in cronaca del funerale dell’operaio, ovviamente senza alcun riferimento ai morti in mare dell’Umberto I.
Pochi giorni prima, il papa Benedetto XV aveva rivolto «ai Capi dei popoli belligeranti» l’appello alla pace, noto per il riferimento alla «inutile strage».

Nota

  1. L’elenco completo delle vittime si trova, a cura di Silvia Musi, nel portale di storia Pietri Grande Guerra. Storie di uomini e donne nella Prima guerra mondiale (https://pietrigrandeguerra.it/wp-content/uploads/2012/04/Elenco-caduti-UMBERTO-I-1.pdf).