Cafiero Lucchesi e Dino Amilcare Alajeff Meoni

Sono presentati in due articoli 4 profili biografici di altrettanti comunisti dell’area di Firenze e Prato che subirono le persecuzioni del fascismo; tre di loro furono anche vittima dello stalinismo mentre Meoni che viene qui ricordato avrà comunque un percorso di distacco critico dal PCI nel dopoguerra.

LUCCHESI Cafiero

(Prato 7.1.1897 – Butovo, Mosca (Russia) 4.6.1938)

 Nato a Prato nel 1897 da Al(a)dino e da Laudomia Lumini, famiglia imbevuta di ideali anarchici e socialisti. Frequentati i primi anni delle elementari, lavora come operaio nell’industria pratese degli stracci. Membro della gioventù socialista nel 1912, nel 1916 è denunziato, insieme ad altri, per propaganda contro la guerra in occasione della chiamata alle armi della classe 1897; soldato durante la guerra mondiale, diserta e nel 1918 è arrestato e condannato. Tornato in libertà riprende il suo lavoro. Ardito del popolo e iscritto al PCd’I dal 1921, nel novembre dello stesso anno è coinvolto in scontri con i fascisti, che hanno un seguito nel gennaio successivo, in data 11, quando, in risposta all’ennesima provocazione da parte del comandante delle squadre d’azione pratesi, tenente Federico Guglielmo Florio, spara alcuni colpi di rivoltella, ferendo a morte il suo persecutore, che muore 6 giorni dopo, ed altre persone per coprirsi la fuga. Un telegramma del 12 gennaio inviato dalla Prefettura di Firenze al Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, così descrive l’accaduto: «pomeriggio oggi, mentre ex Tenente Florio dirigente quel Fascio (di Prato, n.d.r.) accompagnato alcuni fascisti, sostava Porta Serraglio, imbattevasi nel comunista Lucchesi Cafiero, già condannato grave pena per diserzione, che lo fermava per parlargli. Tenente Florio allontanavasi da compagni, ma mentre sembrava che egli parlasse tranquillamente col Lucchesi, questi estratta rivoltella che teneva abusivamente, sparò tre colpi contro il Florio che riportava ferita all’addome per la quale versa in gravissime condizioni …». La Prefettura omette di riferire come, già in precedenza più volte, l’incontro con Florio era costato a Cafiero Lucchesi bastonate, frustate, calci, sputi e umiliazioni soprattutto quando era colto in compagnia della fidanzata Giulia Giacomelli. Leonetto Tintori, famoso pittore pratese, all’epoca dei fatti non ancora quattordicenne, è testimone oculare della sparatoria e in una sua memoria narra come anche in quella circostanza il giovane comunista sia stato provocato per l’ennesima volta dal capo squadrista. La posizione di Cafiero è aggravata dal contenuto della scheda personale del 5 dicembre precedente redatta per il Casellario Politico Centrale: in essa è descritto con «espressione fisionomica truce», gode di «pessima fama» ed è «acerrimo nemico del fascismo». Dopo lo scontro con Florio, colpito da mandato di cattura il 22 gennaio, egli si rende introvabile, nonostante che le ricerche della polizia si svolgano anche all’estero. Questa vicenda fa precipitare la situazione in città, dando luogo ad una settimana di terrore e alle dimissioni della giunta comunale socialista. Infatti la reazione fascista alla morte dello squadrista in ospedale provoca la devastazione e l’incendio della Camera del Lavoro e della sede della Lega Laniera, il danneggiamento della tipografia dove si stampa il settimanale socialista “Il Lavoro”, il tentativo di incendio della casa di Cafiero e la distruzione di sedi di cooperative ed associazioni operaie. Inoltre, al di là di ogni evidenza sull’identità dello sparatore, le autorità di polizia, in sintonia con la propaganda fascista, riescono a costruire un castello di false testimonianze per avallare la tesi di un complotto comunista sulla base del quale sono processati e condannati a pene pesantissime molti oppositori locali. Intanto Cafiero, rifugiatosi in un  primo tempo a Trieste, secondo la testimonianza di Egidio Bellandi, raggiunge poi l’URSS come emigrato politico.  Trova lavoro in una fabbrica tessile di Mosca, sposa poco dopo un’operaia russa, che gli dà presto un figlio. Nel 1924, con sentenza del 3 febbraio, è condannato in contumacia all’ergastolo e successivamente, il 26 gennaio 1933, inserito nella rubrica di frontiera e nel Bollettino delle ricerche. La caccia scatenata a suo carico dalla polizia infatti si è estesa anche all’estero, finché il 29 agosto 1932, da un’informazione di un fuoruscito pratese, Mario Imprudenti, rifugiatosi a Mosca, risulta che «Cafiero Lucchesi […] originario di Prato, dove avrebbe abitato in via Giudea, alto, magro, dai capelli bianchi, di circa 32-33 anni, risiede a Mosca da circa 5 anni. Dirige attualmente un reparto in una fabbrica di stoffe …». Il 21 novembre 1935 l’Ambasciata italiana a Mosca comunica che in Russia egli svolge attività politica e probabilmente aderisce alla sezione italiana del soccorso rosso, aiutando alcuni comunisti detenuti nelle carceri fasciste. Intanto la corrispondenza del fratello Primomaggio e del padre Aladino è strettamente controllata, ma non emerge niente di utile per le ricerche. Il 14 febbraio 1938 l’Ambasciata riferisce che è possibile che Cafiero Lucchesi sia stato accusato di trotzkismo ed arrestato: l’accusa che gli viene rivolta è di avere legami con circoli di emigranti sospettati di spionaggio. Al club internazionale degli emigrati, sia pure in posizione defilata, è membro della minoranza di sinistra che, composta da una mezza dozzina di elementi, fa capo a Virgilio Verdaro. Nel 1929 tutta l’opposizione all’interno della dirigenza del club degli emigrati italiani viene epurata e, 6 anni più tardi, viene chiuso lo stesso club, giudicato covo di spie dalla polizia politica. Secondo gli informatori della polizia italiana nel 1936 è inviato in Spagna: infatti la polizia avanza l’ipotesi che «il pericolosissimo comunista Lucchesi Cafiero, assassino del Martire Fascista Florio» si trovi a Madrid, da dove fa pervenire «ai compagni di Prato ingenti somme di denaro» e nel 1938 è segnalato a Barcellona come «il maggiore Lucchesi»; ma del fatto non ci sono conferme.  Già segnalato come bordighista dai dirigenti del PCd’I della sezione quadri del Komintern, è arrestato nel marzo del 1938 a Mosca con l’accusa di attività spionistica a favore dell’Italia, condannato alla pena di morte e fucilato nel poligono di Butovo, nei pressi di Mosca, nel giugno successivo. Riabilitato il 31.12.1959.

 FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione affari generali e riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Archivio generale del Comune di Prato, carte Egidio Bellandi; Corneli Dante, Lo stalinismo in Italia e nell’emigrazione antifascista, Elenco delle vittime italiane dello stalinismo (A-L), quinto libro, Tivoli, Edito in proprio, 1981; R. Daghini, Da Prato a Mosca solo andata. La sorte di cafiero Lucchesi dopo l’omicidio di Federico Guglielmo Florio, in “Microstoria”, IX (2007); M. Di Sabato, Storia del fascismo e dell’antifascismo nel Pratese, Roma, Ediesse, 2013; Dundovich Elena, Gori Francesca, Guercetti Emanuela (acd), Reflections on the Gulag. With a Documentary Appendix on the Italian Victims of Repression in the USSR, Milano, Feltrinelli, Annali, XXXVII, 2001; M. Palla (a cura di), Storia dell’antifascismo pratese, Pisa, Pacini Editore, 2012; D. Saccenti, Memorie, Firenze, Istituto Gramsci, sezione toscana – CLUSF, 1981; F. Venuti, Ricordo di un combattente. Dino Alajeff Meoni, Prato, Pentalinea, 2017; www.fondazionebordiga.org; www.memorialitalia.it; www.pratoreporter.it; httpp://archive.is.

Meoni001MEONI Dino Amilcare Alajeff

(Prato, 03.05.06 – Prato, 21 marzo 1979)

 Figlio dell’anarchico Leonello, nasce a Prato il 3 maggio del 1906. Dopo la sua nascita la famiglia emigra in Francia per evitare persecuzioni politiche e già all’età di otto anni partecipa col padre a manifestazioni sindacali e pacifiste. Nel 1921 ritorna a Prato ed entra immediatamente in conflitto con i fascisti locali quando definisce il capo degli squadristi pratesi, Federico Guglielmo Florio, “un pagliaccio”; sebbene un appunto del Commissariato di PS lo presenti come dedito alla vita randagia, ma senza precedenti né pendenze penali, egli tuttavia ben presto aderisce al movimento giovanile comunista impegnandosi a diffondere materiale di propaganda del partito. Il 29 gennaio del 1929 la Pretura di Prato lo condanna a sei mesi di reclusione, alle spese di giudizio e a cinque anni di condizionale per oltraggio a un brigadiere dei RR CC e a un milite della MVSN per avere detto: “Fate pure, per ora avete ragione, ma anche per voialtri finirà, ed allora faremo i conti“.

Nel 1931, prima della scadenza della condizionale, è nuovamente arrestato come aderente all’organizzazione comunista e il 18 febbraio dell’anno successivo, dopo l’arresto del 31 gennaio, è denunciato al TS dalla Questura di Firenze. Dalla sentenza istruttoria n°65 del 29 aprile 1932 si apprende che, nonostante la sua dichiarazione di non avere mai svolto attività politica, da tempo era frequentatore della bottega del sarto Zola Settesoldi, insieme a molti giovani comunisti della città. Alla presenza dello stesso Giudice Istruttore, Meoni dà prova dei suoi sentimenti sovversivi dichiarando che non teme l’autorità di PS e tanto meno il TS e che non gli importa di riportare una condanna.

L’11 novembre del 1932 è scarcerato in occasione del decennale fascista e da quel momento riprende la sua attività politica clandestina per finire di nuovo arrestato il 27 febbraio 1934 con l’accusa di aver costituito, organizzato e diretto il partito comunista, facendo di esso parte e svolgendo propaganda a favore del medesimo: nel corso del 1933 infatti aveva intrapreso l’opera di ricostruzione dei quadri del partito dopo le retate del 1930 e del 1932, raccogliendo intorno a sé militanti come Armando Bardazzi, Egidio Tommaso Bellandi, Valentino Bianchi, Assuero Martino Vanni, che costituiranno il nucleo più resistente all’attività repressiva delle autorità di polizia. Egli stabilisce contatti col gruppo comunista di Sesto Fiorentino e di Firenze e organizza il Soccorso rosso, almeno finché non viene sospeso dal comitato per contrasti con Egidio Bellandi e Fernando Pacetti. Con sentenza n°1 del 28 gennaio 1935 il TS lo condanna a dieci anni di reclusione, al pagamento delle spese processuali,a quelle della propria custodia preventiva e alla libertà vigilata con due anni di condono condizionale.

Trasferito dal penitenziario di Regina Coeli, arriva il 5 marzo a quello di Civitavecchia (RM) per essere recluso nelle celle “separate”, dove conosce fra gli altri Mauro Scoccimarro, Giancarlo Pajetta e Umberto Terracini. Il Regio Decreto del 15 febbraio 1937 n°77, emanato per la nascita del principe di Napoli Vittorio Emanuele di Savoia, che prevedeva un’amnistia piena per le pene non superiori a tre anni e una riduzione di alcuni anni per le altre, permette la sua scarcerazione nel 1938: da quel momento è sottoposto ad una asfissiante sorveglianza. Ritornato a Prato, viene a sapere che anche il padre Leonello e il fratello Paleario sono stati arrestati: per aiutare la madre, si impiega presso il lanificio Campolmi, dove riprende a creare, con pazienza e determinazione, un embrione di organizzazione comunista, contribuendo a mantenere i collegamenti col direttivo del partito e riuscendo a sfuggire alla vasta retata dell’OVRA attuata nel Pratese nel mese di giugno del 1941.

Pochi giorni dopo la caduta di Mussolini è arrestato insieme al fratello e a numerosi comunisti per istigazione all’astensione dal lavoro, secondo quanto riferisce una prefettizia del 5 agosto, ma subito dopo il rilascio, si attiva per ricostruire il gruppo dirigente comunista pratese e un embrione di sindacato: il 24 agosto, insieme ad Assuero Vanni e ad Alberto Torricini, come rappresentante dei tessili pratesi, sigla a Firenze un accordo con la parte padronale che concede a tutti i dipendenti delle aziende tessili pratesi la somma di £ 500 a titolo di conguaglio salariale. Nel mese di settembre entra a far parte del CLN pratese e alla fine di febbraio del 1944 collabora con Bogardo Buricchi per l’organizzazione dello sciopero generale del marzo successivo nelle fabbriche cittadine. Quando i carabinieri si presentano nel lanificio dove lavora per arrestare i dipendenti che avevano scioperato e consegnarli ai nazisti per la deportazione, riesce a sfuggire alla cattura e da quel momento entra nella Resistenza armata.

Dal 1° marzo al 25 ottobre del 1944 milita nella brigata garibaldina “Gino Bozzi”, che opera sull’Appennino pistoiese-emiliano ed in Garfagnana. A lui è affidato il compito di stabilire i collegamenti della brigata con l’organizzazione comunista di Pistoia e il comando militare del CLN provinciale ed è anche il responsabile dell’approvvigionamento di generi alimentari a favore delle popolazioni delle zone liberate dai garibaldini. Infine la sua attività si estende alla ricerca di contatti con altre formazioni operanti sull’Appennino.

Nel dopoguerra è rappresentante delle maestranze tessili pratesi nella nuova Camera del Lavoro, è redattore del periodico del PCI “Il Proletario”, fa parte per un certo periodo della Commissione annonaria del Comune e sul piano politico caldeggia il patto di unità d’azione tra i partiti antifascisti, nonostante la deriva premonitrice del clima della guerra fredda della situazione politica nazionale, allo scopo di dare, come egli stesso scrisse, “un fattivo contributo all’opera grandiosa che dovrà essere compiuta per la resurrezione e il benessere della nostra città. Successivamente si allontana dal Pci imputando alla direzione del partito una serie di errori compiuti nel quadro del clima della guerra fredda e dell’offensiva padronale succeduta alla rottura dell’unità antifascista, collocandosi in un’area della sinistra critica.

 FONTI: Testimonianza raccolta da Giovanni Verni (archivio privato); Archivio di Stato di Prato, Commissariato di PS, 1923, busta 24; Archivio Istituto Storico della Resistenza in Toscana, CLN di Prato, Relazione sulla Resistenza pratese; Archivio Istituto Storico della Resistenza in Toscana, fondo Boniforti; Istituto Culturale e di Documentazione “Alessandro Lazzerini”, Prato, “Il Proletario”, LA 29 Palch. 1.01., Misc. Pratese 25; AA.VV., Aula IV. Tutti i processi del Tribunale Speciale fascista, Roma, ANPPIA, 1961; R. Daghini, Il cammino per la libertà. Podestà, Commissari, Resistenza. Liberazione e CLN nei comuni della provincia di Pistoia (1926-1946), Pistoia, Tipografia GF Press, 2013; M. Di Sabato, Dalla diffida alla pena di morte, Prato, Pentalinea, 2003; M. Di Sabato, Prato dalla guerra alla ricostruzione, Prato, Pentalinea, 2006; C. Ferri, La Valle rossa, Prato, Viridiana, 1975; A. Menicacci, Pagine della Resistenza nel Pratese, Prato, Viridiana, 1970; G. Tagliaferri, Comunista non professionale, Milano, La Pietra, 1977; F. Venuti, Ricordo di un combattente: Dino Alajeff Meoni, Prato, Pentalinea, 2017; G. Verni, La Brigata Bozzi, Milano, La Pietra, 1975; G. Verni, Pericolosi all’ordine nazionale dello Stato, Milano, La Pietra, 1980.




Mazzino “Aldo” Fedi

Stando a quelli schedati nel Casellario Politico Centrale, furono 23 gli antifascisti pistoiesi che si recarono in Spagna per combattere la Guerra civile. Il numero sale a 36 dalle stime riportate nel progetto Volontari antifascisti toscani tra guerra di Spagna, Francia dei campi, Resistenze, promosso e realizzato dall’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea. Dalla seconda metà del 1936, ortolani, braccianti, artisti teatrali, tappezzieri, minatori, verniciatori, operai, muratori, decoratori, manovali, calzolai e terrazzieri si mossero da più parti della provincia per raggiungere la penisola iberica, valicando a piedi i Pirenei dalla frontiera di Port Bou o raggiungendo Barcellona dal porto di Marsiglia. Un’operazione rischiosa e svolta in totale clandestinità, animata – riprendendo le parole di Leo Valiani, recuperate da Ilaria Cansella – dalle «loro idee di libertà, di democrazia, di socialismo nella forma più pura ed universale»[1].

Alla fine dell’ottobre 1936, di questo scenario entrò a far parte anche Mazzino “Aldo” Fedi. Nato a Pistoia il 19 aprile 1912 da Ferruccio e Isola Nesi, a soli vent’anni finì sotto la lente della Polizia politica. Il suo fascicolo venne infatti aperto nel 1932, pochi giorni dopo la denuncia che lo aveva raggiunto dalla questura di Firenze per essersi iscritto alla sezione del Partito comunista d’Italia segretamente ricostituitasi a Prato. Quel giovane minuto e dai capelli ondulati, finallora privo di qualsivoglia ruolo attivo in campo politico, era stato descritto – secondo la tipica retorica utilizzata dai fascisti nei confronti degli oppositori – come un ragazzo dal «carattere impetuoso, ozioso, di comune intelligenza» e di «limitata cultura, avendo frequentato solo la scuola elementare». Eppure la sua scaltrezza gli aveva permesso di ottenere subito credito come «fiduciario di zona dei giovani comunisti», aspetto ancor più rimarchevole se considerata la natura manifatturiera di un’area come quella di Prato. Nella città del tessile si era recato nel 1927 in cerca di lavoro, trovandolo come manovale e lanino: a Pistoia aveva lasciato la sorella Fulvia e il cognato Alfredo Boni, entrambi definiti di «buona condotta morale e politica»[2].

Braccato e denunciato al Tribunale speciale – il 30 giugno 1932 – per «organizzazione comunista», Fedi fu quindi costretto alla fuga. Iscritto alla Rubrica di frontiera, al Bollettino delle ricerche e in possesso di documenti falsi per eludere il mandato di cattura (emanato il 23 luglio), diede inizio ad un lavoro di depistaggio che lo accompagnò per tutto l’arco della sua lunga latitanza. Per uscire dall’Italia utilizzò la falsa identità di Aldo Ferri, munito di un passaporto spagnolo «rilasciato dal Gobernador Civil di Oviedo il 16 gennaio 1932 e intestato a don Pedro Antonos, nato a Bilbao il 14 febbraio 1904»: l’uomo risultava arrivato da Bardonecchia il 19 aprile 1932 e ripartito da Livorno il 23 seguente, diretto a Marsiglia dopo una tappa nella città corsa di Bastia. Una traiettoria estremamente battuta all’interno della rete clandestina antifascista. La vera identità di “Ferri” fu scoperta solo alla fine dell’agosto 1932: Fedi – indicava il prefetto di Firenze, Luigi Maggioni – aveva «effettivamente fatto ritorno a Prato il 20 aprile [1932], da dove si era allontanato qualche mese prima, ed […] essendo per ragioni politiche ricercato, riuscì a fuggire come ha scritto ai familiari, espatriando proprio dal porto di Livorno il 23 aprile stesso e riparando in Corsica».

Nel frattempo la sua attività aveva già conosciuto ulteriori evoluzioni, procedendo anche in Francia la militanza nelle file comuniste. Non passò comunque molto perché la sorveglianza fascista ottenesse un primo risultato: Fedi scoprì infatti che a segnalarlo alla polizia fiorentina era stato Giuliano Giovannelli, zio di Nella Giovannelli, maestra elementare di San Giusto con cui aveva avuto una relazione. Decise pertanto di scrivere all’indirizzo del suo detrattore una lettera durissima, accompagnandola con alcuni espliciti ritagli de “l’Unità” ed un opuscoletto relativo al XV° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre:

Oggi stesso sono venuto ad avere un colloquio con un compagno che sono pochi mesi che è giunto dall’Italia, dove io [h]o voluto che esso mi facesse una relazione sul mio conto. E mi è stato riferito che il colpevole della mia causa sei stato tutto te. Non credevo mai…Sì, sei te il traditore del proletariato del nostro paese? Vigliacco: vergognati, un artigiano rovinato come sei tu mettersi al servizio della société del mondo attuale. Quando vedi un proletario ogni giorno che lotta per le tue rivendicazioni e te vai a denunziarlo che esso lotta per un miglioramento di vita per tutta la classe lavoratrice, e per i contadini che dona tutta la sua vita per coloro che non hanno ancora compreso cosa è il Fascismo e tu vai a fare la spia? Vergognati. Sfido io se fossi un uomo che avresti un po’ di umanità dovresti fare il tuo volto pieno di rossore quando passi di fronte a un lavoratore. Perché sei un suo traditore, un disgregatore delle file rivoluzionarie del proletariato dove i meglio combattenti portano una lotta senza quartiere per un benessere di tutta l’umanità sofferente, e te vile uomo dal cuore di marmo vai per le sedi della questura a denunciare il suo ideale, il suo pensiero che essi vogliono sferrare gli anelli delle sue catene fasciste. Dimmi uomo senza cuore cosa [h]ai raggrumolato durante (11 anni) di dominio fascista? Parla su questo punto perché è molto importante. Nulla, non è vero? Altro che miserie e torture e sacrifici e fame, giorno-giorno. Questo non lo puoi negare, lo so meglio io che te da che andavi a farti prestare 10 lire per mangiare in quel giorno. Uomo venduto, uomo senza cuore sei stato a venderti al Fascismo per un tozzo di pane, cioè forse per la gloria, ti contentavi soltanto che venisse a pronunciare un linguaggio che dicesse: bravo Giovannelli, tu sei un vero e proprio italiano, un vero fascista. Non è vero? Uomo che sa cosa è il Fascismo, un uomo che è stato come da…ti sei ridotto a fare la spia? Vergognati mascalzone. Traditore della classe sfruttata. Forse lo facevi per via venissero a metterti alla [g]reppia? 1°) Ti ricordi quando ero latitante il giorno 21 aprile che [venisti] a trovarmi nella capanna, che mi dicesti questa sera verrai a dormire in un posto che te lo procuro io. Volevi farmi arrestare, non è vero? Furbo il gatto, ma furbo il topo. 2°) Ti ricordi quando alla tua nipote gli mandasti quella lettera che gli spiegavi che faceva all’amore con un comunista, con l’uomo più pericoloso del paese, e gli dicevi che era il prete del paese che l’aveva inviato? Per via che essa venisse a intimorirsi che il nostro amore venisse a troncare. Ma tutto il contrario. Fu forte e potente. Perché facevi tutto questo? Sfido che l’indovino, ascolta: perché siete molto amanti del denaro, siete gente che vivete per un soldo soltanto. Vi piace di vedere le gemme d’oro tanta ricchezza. Avete molto la mentalità borghese. Siamo noi proletari ad ammirarsi che si trova, che siamo gli sfruttati, che noi non ha nessun mezzo di sussistenza, che noi lottiamo efficacemente per mandare in un fondo precipizio la società attuale per un benessere della classe proletaria come hanno fatto i nostri fratelli russi che loro hanno saputo liberarsi dalla schiavitù zarista. Quindi molti vorrebbero impedirla questa lotta, e una tra i quali sei te uomo malvagio. Quello che mi denunciavi lo avevi indovinato. Sì lo ero e non mi vergogno a ripeterlo, e sempre lo sarò, sono molto orgoglioso di essere un giovane comunista, un vero e proprio rivoluzionario che tutti i giorni porta una lotta che non ha fine. Guarda, prendi questo esempio: tu sei stato alla guerra, hai lasciato tutto sul fronte per difendere la borghesia dove molti e molti dei lavoratori hanno lasciato tutti la sua vita, molti sono restati mutilati, molti bimbi sono restati senza babbo, senza una gioia, senza felicità. E te, voi, a tradire il proletariato. Mascalzone, ricordati che presto tornerò che nulla mi sono dimenticato di quello che [h]ai fatto. Sono giovane e tutto sono bono ad affrontarti. Non credere che io venga dicendoti così che io soffro perché sono lontano dal mio paese. Non è soffrire trovandosi lontano dalla gente che amo e quello che [h]o sempre amato, ma soffrono coloro che della vita fanno mercato come uno tra i quali sei te che vai mettendo la tua vita all’asta e la vendi. Cesso di mandarti tante di queste parole ma ne avrei ancora da farti un lungo romanzo perché ritrovandomi all’estero mi sono ancora più istruito.[3]

Nell’inviare l’epistola, Fedi dovette necessariamente indicare un suo pur generico riferimento: Bar Restaurant Gino, 288 Avenue D’Arles, Marsiglia. Consapevole di essere stato individuato, cercò così di sviare ancora una volta la polizia annunciando la sua immediata partenza per Nizza.

Nell’aprile del 1933 risultava in realtà ancora residente nel capoluogo provenzale, dove – comunicava il console reggente Valeriani – figurava «abbastanza» attivo «nella locale sezione del Partito comunista, che ha sede presso il Club International des Marins». Sicuramente si spostò invece nel giugno 1933, inviato a Tolone dall’Organizzazione centrale comunista di Parigi; all’incarico nel dipartimento del Varo ne seguì poi un altro «per propaganda» nel vicino comune di La Seyne-sur-Mer. Qui – sotto i falsi nomi di Feoli, “Masaniello”, “Alfredo” e “Fieno” – partecipò all’organizzazione del Congresso dei comitati del Fronte unico antifascista ed entrò in contatto con Giorgio Salvi, celebre antifascista di Poggibonsi che proprio in quel momento stava per completare un lungo giro della Francia in cui si era impegnato a propagandarne la causa[4]. Fedi stesso sarebbe stato tra gli oratori della prima adunanza del Fronte a Marsiglia (24 e 25 dicembre 1933), appuntamento a cui presero parte anche il dottor Giuseppe Berti, Giacinto Bruno Serrati, Bruno Monciatti, Angelo Lucchi, Giuseppe Steddatu, Pasquale Donno, Alighiero Bonciani, Amedeo Frosine, Celestino Vittone, Alessandro Bandoni, Gino Bagni, Attilio Millin, Ettore “Trinca” Privilegi, Ovidio “Lupo” Pessi e Silvano Picchi.

Nel luglio del 1932, peraltro, aveva intrattenuto un breve carteggio anche con l’anarchico Errico Malatesta (indirizzando le lettere alla moglie Elena Melli), già gravemente malato e destinato a morire pochi giorni dopo (il 22 luglio) l’ultima lettera di Fedi (datata 15 luglio). Al centro dello scambio era finita la volontà di alcuni antifascisti italiani di chiudere la pubblicazione di “Lotta”, periodico comunista spesso vicino ad alcune delle posizioni espresse dall’Unione anarchica italiana: una scelta con la quale il nativo di Pistoia si era mostrato in sostanziale disaccordo, evidenziando indirettamente le distanze che ormai persistevano tra la base del Pcd’I e il movimento anarchico italiano[5]. Tra il 1933 e il 1934 furono invece frequenti i suoi contatti con Mazzino Chiesa, membro della Federazione italiana dei lavoratori del mare che – sotto le direttive del comitato centrale del Pcd’I di Marsiglia – aveva ricevuto l’incarico di organizzare i marittimi delle «navi mercantili italiane che tocca[va]no quel porto» e di avvicinarli «distribuendo loro stampa del partito e tessere»[6]. Era stato proprio Chiesa – stando alla ricostruzione del capo della divisione Polizia politica Di Stefano – a chiedere a Fedi un aiuto nella divulgazione del materiale propagandistico, almeno fino a quando il pistoiese non si imbatté erroneamente nel console:

Per il mattino alle ore 9 del 15 aprile 1934 la S.S. Italia (O.N.D.) aveva organizzato una corsa ciclistica che ha ottenuto un brillantissimo successo. Durante le operazioni preparatorie della partenza, due individui modestamente vestiti ed assai giovani di età incominciarono ad aggirarsi fra i corridori distribuendo manifestini. Essi si avvicinarono anche a me e me ne diedero. Constatato – come supponevo – che si trattava di manifestanti antifascisti, strappai quelli che avevo in mano e rivolgendomi a colui che me li aveva dati, feci il gesto di strappargli di mano il poco che teneva ancora. Ne seguì una discussione assai vivace, nel corso della quale, avendo io detto che non eravamo in sede adatta per fare della politica e che volevo sapere che cosa volessero da noi, uno dei due si tolse la giacca e propose una “partita di pugni”. Risposi tranquillamente e semplicemente volgendo le spalle; l’individuo (che nel frattempo avevo riconosciuto per il Fedi Mazzino, ben noto a codesto R. Ufficio) disse allora “sapremo ritrovarti”; rivoltomi allora verso di lui gli dissi: “Ti aspetto e perché tu non abbia a sbagliare ti dico che sono il Console”. Il Fedi, seguito dall’altro che si era sempre tenuto tranquillo, si allontanò quasi immediatamente, ma continuò a distribuire gli stampati. Persona che si trovò poi vicina a lui nello stesso tram che li riconduceva a Tolone, lo ha udito dichiarare che “se avesse saputo che parlava con il Console non avrebbe fatto così” ed ha constatato che il Fedi era leggermente preoccupato delle conseguenze del suo gesto. Tale preoccupazione non gli ha però impedito – a quanto pare – di ricominciare nel pomeriggio al Velodromo di La Seyne. In una riunione ivi organizzata dai francesi, i corridori vincitori della mattina dovevano fare un “giro d’onore”. Erano quindi presenti alcuni dei dirigenti della S.S. Italia ed uno di questi (Germinale Cantone, organizzatore della Squadra Ciclistica) fu preso a mal partito; incidenti seri sarebbero stati evitati unicamente grazie all’intervento del padrone del Velodromo (M. Philip) che fece intervenire un agente che espulse uno dei figuri che peraltro non pare fosse il Fedi (che però era presente).

L’episodio portò Fedi (sotto l’ennesima falsa identità di Rolando Caccioni) all’arresto, avvenuto a Tolone nei primi mesi del maggio 1934.

[1] Cfr. I. Cansella, Volontari in guerra, in http://gestionale.isgrec.it/sito_spagna/ita/percorsi_volontari_ita.htm (ultima consultazione: 3 giugno 2021).

[2] Fedi aveva anche un’altra sorella, Olga, coniugata con Federico Marchi.

[3] Come anticipato, alla lettera – qui riportata per intero – seguivano anche alcuni ritagli de “l’Unità” e un opuscolo. I primi – del 17 e del 25 novembre 1932, anno IX – recavano due articoli indicativi: Le promesse e i fatti del Decennale nei discorsi del fascismo e Le contraddizioni del fascismo, firmato Ercoli (Palmiro Togliatti). Sul bordo della testata, Fedi aveva inoltre appuntato: «Fedi Aldo, russo, nato a Mosca, Lenin». Il volantino invece era titolato 7 novembre 1917 – 7 novembre 1932. Difendiamo la nostra patria socialista! Lottiamo per fare come in Russia, riferendosi ovviamente al XV° anniversario della Rivoluzione russa.

[4] Dopo lo scioglimento della Concentrazione antifascista, alla quale il Partito comunista d’Italia non aveva aderito, sorsero alcuni organismi unitari che ebbero però breve durata. Tra questi vi fu anche il Fronte unico antifascista, destinato a precedere la linea dei Fronti popolari della seconda metà degli anni Trenta. Quanto a Giorgio Salvi (1896-1979), dal 1928 era entrato a far parte – assieme ad Angelica Balabanoff – del Comitato esecutivo del Bureau International des Partis Socialistes come rappresentante del Psi, carica che ricoprì fino al 1933. Dal 1933 al 1936 proseguì invece il suo impegno nel Comitato centrale del Comitato mondiale per la lotta contro il fascismo, noto appunto come Fronte Unico Amsterdam-Pleyel. Cfr. https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/siusa/pagina.pl?TipoPag=prodpersona&Chiave=49707.

[5] La morte di Malatesta venne fatta passare sottotraccia dalla stampa italiana. Uscì un solo trafiletto su “l’Unità”, dove l’anarchico veniva comunque definito «politicamente morto» da diverso tempo.

[6] Cfr. S. Gallo, Mazzino Chiesa, un uomo in mare, in https://www.toscananovecento.it/custom_type/mazzino-chiesa-un-uomo-in-mare/ (ultima consultazione: 3 giugno 2021).

Articolo pubblicato nel giugno del 2021.




Gualtiero Vittori: un militante della base comunista

Gualtiero Vittori nasce a Livorno da una famiglia di piccoli commercianti nel 1926.[1] Il fascismo è da poco tempo al potere ma l’educazione che riceve dal padre, antifascista, e dagli stessi nonni, lo conducono sin da ragazzino a immedesimarsi con gli oppositori al regime. Del resto l’ambiente di bottega, un bar vicino ad alcune zone operaie della città, come quella del Cantiere e quella del porto, fanno sì che i suoi contatti siano sempre contrassegnati dalla cifra indiscussa dei “sovversivi”, anarchici, socialisti, comunisti e ancora qualche repubblicano. Una indiscussa congerie politica che connotava la città labronica già da diversi decenni e dove i comunisti, gli ultimi arrivati, si faranno strada a poco a poco soprattutto grazie ad alcune figure carismatiche che li rappresentano, come Ilio Barontini, Vasco Iacoponi, ma anche Emilio Valesini, Otello Frangioni, Garibaldo Benifei e decine di altri che nella sua memoria, conservata all’Istoreco, Gualtiero ricorda con affetto e sollecitudine.

La stesura della memoria di Vittori si colloca nel periodo successivo alla Bolognina quando il Partito comunista si è trasformato in altro da sé e per questo vecchio militante che si autodefinisce “un soldato” di quell’ideale, probabilmente molte cose cominciano a scricchiolare. Ma non possiamo addentrarci in ipotesi poiché il testo non ne fa cenno, è la malizia del lettore che intravede questa lettura come possibile.

Russardo Capocchi

Russardo Capocchi

La memoria fu portata all’Istoreco dal nipote, Vittorio Vittori, già molti anni or sono e purtroppo non c’è stata fino a questo momento possibilità di valorizzarla. In occasione del centenario del Pci, mi è parso opportuno tirarla fuori dal cassetto e non potendo ancora stamparla in qualche modo, perlomeno proporne qualche considerazione sul sito Toscananovecento.it. Il testo è diviso in tre parti, la prima comincia subito dopo la liberazione di Livorno quando Vittori viene assunto nella base degli americani come facchino, autista e per altri lavoretti, e si conclude verso la fine degli anni Cinquanta, periodo durissimo per la sua famiglia presa di mira dalla polizia di Scelba che gli stava sempre addosso in modo vessatorio. La famiglia che era già stata segnata dalla morte del padre durante la guerra, poi sarà colpita anche dalla invalidità del fratello che per fortuna verrà in seguito assunto in Comune come invalido e quella assunzione permise una schiarita nella loro condizione generale.

La seconda parte va a ritroso e come scrive Gualtiero, “è un diario alla rovescia”.[2] Sicuramente è la parte più interessante perché è quella dove si dispiegano meglio le ragioni del suo “essere comunista”. Comincia con il coinvolgimento nella pedagogia del padre che, quando, bambino, lo porta al cimitero a visitare i defunti della famiglia, non dimentica mai di portarlo davanti alla tomba di Russardo Capocchi, grande figura del socialismo e del sindacalismo livornese[3]. Abitudine questa così tanto acquisita che ancora in tarda età, Gualtiero si ritrova a compiere lo stesso rito.

Ma influiscono molto nella sua preparazione e nelle sue inclinazioni anche alcuni suoi compagni di giochi e quelli un po’ più adulti del fratello, come Alfio Pensabene, lavoratore del porto, arrestato dai repubblichini e morto poi a Mauthausen.[4]

Aver assistito più di una volta per la ricorrenza del 1 maggio alle aggressioni gratuite, allorquando qualche avventore si presentava al bar con una cravatta che aveva qualcosa di rosso e il fascistello di turno andava a tagliargliela, sicuro di rimanere impunito, Gualtiero era rimasto disgustato per quelle esibizioni di tracotanza. Umiliazioni fini a sé stesse, ma umiliazioni ingiustificate e prevaricatrici che rimasero impresse in un adolescente abituato a veder suo padre ritingere i muri del suo locale ogni qualvolta vi comparivano scritte tipo: W il fascio, W il Duce.

Emergono anche altri nomi di importanti oppositori scomparsi nella smemoratezza della storia come Dino Rebuzzi, frequentatore del suo bar, antifascista di tempra, combattente nelle Brigate Garibaldi in Spagna, ferito e successivamente condannato al confino a Ventotene. Il padre avvertito da un questurino si recò con la moglie, il figlio ed un amico, alla stazione dove avrebbe transitato e riuscì a porgergli: “dopo aver chiesto il permesso ai carabinieri di scorta, una bottiglia di ponci e assieme al Manzani altri piccoli aiuti vedi pure oggetti di vestiario.”[5] Ed insieme a lui decine di altri, sconosciuti ai più e raramente passati anche attraverso il filtro della storia ufficiale.

Il teatro Avvalorati a Livorno (Archivio Istoreco)

Il teatro Avvalorati a Livorno (Archivio Istoreco)

Il nostro autore è un militante di base si potrebbe dire, di quelli che sicuramente non hanno neppure mai aspirato a salire nella gerarchia interna, sicuramente un militante appassionato e fedele. Uno tra le tante migliaia e migliaia di iscritti a quel partito, partito che riuscì a stringere a sé, e non solo con la speranza, che sicuramente c’era, di un mondo migliore e più giusto, ma anche con l’esempio dei propri dirigenti. Alla componente popolare della sua base i responsabili della federazione, quelli a capo di settori importanti della vita amministrativa, economica e politica, si presentavano in quegli anni, a quegli uomini e a quelle donne del popolo, come: “compagni di strada”, portatori di una moralità anche rigida ma irreprensibile e di una coerenza di comportamento indiscutibile. La memoria dà conto di diverse testimonianze in questo senso. La più cocente e la più intensa è sicuramente quella legata a Dosolino Bendinelli, comunista e perseguitato politico. Si reca al bar da Gualtiero che rievoca: “chiede di Dino Frangioni, le dico che non si è ancora visto, mi consegna del denaro pregandomi di darlo a Dino per pagare la tessera dell’ANPPIA[6] dovendole riferire che era pari, prese la sua consumazione, mi salutò e non lo rividi più perché all’indomani si sparò una rivolverata (sic!). Gualtiero scrive ancora: “Può anche sembrare banale questo appunto, ma… pensateci un momentino su come erano fatte certe persone”[7].

E non è il solo episodio che vada in questa direzione. Quello che aveva sempre colpito la sensibilità di Gualtiero era sicuramente non tanto la profondità politica delle analisi, o la ricchezza culturale dei dirigenti, l’aveva impressionato soprattutto la loro onestà, la loro coerenza di uomini prima ancora che di dirigenti. Il milieu sociale nel quale era cresciuto si prestava ad una emancipazione politica contrassegnata da queste cifre. Nato in una famiglia composta da un nonno di fede repubblicana e da un padre socialista che aderì al Pci sin dalla scissione del 1921, si trovò collocato naturalmente dentro una tradizione laica e sovversiva, considerate anche le peculiarità politiche della storia della città[8]. Oltre alla passione politica il padre trasmise ai due figli, Gualtiero e Pietro, la passione per la lirica, anche questa passione assai radicata nella città di Mascagni. Uno dei bar da loro gestiti si chiamava, non a caso, Il lirico. Pietro, il fratello più grande e più riflessivo fu indirizzato allo studio della musica e del violino mentre Gualtiero più insofferente alla disciplina fu indirizzato alla scherma. Due passioni queste: la lirica e la scherma tipicamente labroniche.

I diversi esercizi commerciali (Bar del Teatro, Bar Vittori, Bar Moderno) che la famiglia gestì nel tempo, furono tutti collocati nelle zone del centro. Luogo deputato delle manifestazioni di protesta dove spesso, soprattutto nel dopoguerra, Gualtiero venne coinvolto. Il bar era ed è un luogo di ritrovo, dove si faceva colazione la mattina prima di andare a lavoro, dove si passava dopo la fine del turno e dove ci si recava per giocare a carte e discutere con gli amici. Assidui frequentatori erano i portuali, gli avventizi del porto, i dirigenti della Compagnia Portuale ma anche gli uomini più esposti durante il ventennio dell’antifascismo locale, come Barontini[9] o Vasco Jacoponi[10] e altri come Sergio Manetti[11], futuro segretario della locale Camera del Lavoro, Garibaldo Benifei[12] antifascista di lungo corso, Danilo Conti segretario della Fiom e tantissimi altri ancora che sono ancora oggi vivi nella memoria democratica della città.

Il giovane Gualtiero li ascoltava ragionare, coglieva le mezze parole che si dicevano a bassa voce a causa delle lunghe orecchie della polizia di regime prima e poi della polizia politica dell’era di Scelba. Durante l’ultimo periodo della guerra, quando con la famiglia per colpa dei bombardamenti che colpirono la città[13], si rifugiarono tutti a Montenero, si mise ad ascoltare radio Londra e a portare di nascosto qualche arma ai rappresentanti del comando tappa del distaccamento Oberdan Chiesa.[14]

Azioni adatte alla sua giovane età (aveva tra i 16 e i 17 anni), sicuramente pericolose ma svolte con piglio guascone, sicuro e sfottente nei confronti delle autorità repubblichine. Con la fine della guerra però non ci fu un vero e proprio ingresso nella libertà democratica. Dopo la caduta del primo governo De Gasperi si entra a tutti gli effetti nel clima duro della guerra fredda. Sia Gualtiero che i suoi sono tenuti d’occhio. Troppi comunisti frequentano il loro bar ed allora a parte i continui cambiamenti di lavoro per tirare a campare, quando Gualtiero entra in pianta stabile nella gestione dell’esercizio commerciale, spesso si trova costretto a rispondere a vere e proprie vessazioni da parte delle forze dell’ordine, fino all’episodio più grave quando trascorrerà in prigione diversi giorni in carcere. Durante la lotta del Cantiere, nei primi anni Cinquanta, si vede sequestrare un radiogrammofono con l’accusa che si trattava di una radiotrasmittente e  alla punizione di 20 giorni di chiusura![15] Scrive amareggiato:

Eravamo rientrati in quella sorveglianza asfissiante che non ci dava modo di lavorare con sufficiente tranquillità, quando le guardie non entravano si mettevano di faccia a osservare. Arrivammo così alla famosa legge truffa…la sera dopo una comitiva di compagni dopo essere stati a festeggiare passò sotto i portici di Via Grande dall’altra parte della strada rispetto a dove era il Bar. Era circa la mezzanotte e cantavano tutti assieme “Malafemmina” – neanche un motivo politico – entrano in bottega le guardie e, ti pareva, mi intimano di farli smettere. Faccio presente che non sono nel mio negozio e tantomeno vicino e che non stava a me intervenire per farli tacere. Bene: invito a presentarsi al Commissariato di Forte San Pietro all’indomani mattina e là ci fu comunicato la chiusura immediata a tempo indeterminato…[16]

Il Caffè Bettinetti a Livorno (Archivio Istoreco)

Il Caffè Bettinetti a Livorno (Archivio Istoreco)

Nel 1955, alla televisione danno la famosa trasmissione: Lascia o raddoppia? che si poteva vedere anche nella sala Tv nel bar dei Vittori che furono tra i primi esercizi ad avere l’apparecchio. Avevano collocato un’insegna luminosa per segnalarlo e avevano svolto le pratiche obbligate al Comune e si ritenevano a posto. Ma “una mattina arriva un poliziotto che mi conosceva bene e malgrado questo quando all’una di notte chiudevo il bar per andare a casa mi chiedeva i documenti”[17]. Poiché il poliziotto aveva un’ordinanza del Commissariato che intimava di togliere immediatamente l’insegna, il nostro autore perde il controllo e spacca alcuni mobili dell’arredo del bar, per l’esasperazione alla quale era arrivato. Si giunge in questo clima al 1958 quando in città viene organizzata una manifestazione per la Pace in Libano. Gualtiero aveva un appuntamento ma non riesce ad arrivare sul luogo a causa della presenza della celere. Prova e rientrare al bar ma “niente sull’angolo arriva un’altra mandata di poliziotti, scendono dal camion e cominciano a spintonare tutti coloro che si trovavano là, io mi fermo ma arrivano anche a me, spintoni, io non ci stò (sic!) e reagisco e giù manganellate io non sto neanche a queste, mi rompono gli occhiali da sole sul viso con taglio al sopracciglio, smanaccio un po’; poi uno di essi disse: ‘portatelo via!’, mi presero per le braccia, mi liberai dicendo: ‘Ci vengo da me’, mi caricarono sul camion (c’erano altri) e da lì in questura”[18]. Da lì ai Domenicani, all’epoca il carcere di Livorno. Dopo alcuni cambi di cella lo mettono con altri due, dei quali uno giovanissimo che verrà presto rilasciato, ed un altro, Mario Corucci. Alcuni giorni dopo arriva un pacco da Piombino e poi da Eddo Paolini[19] della Federazione di Livorno e dai portuali arrivano anche dei soldi. In sostanza si era attivato un “Soccorso rosso” che era riuscito a realizzare 5.000 £, una cifra non indifferente per l’epoca.[20] Il nostro autore commenta:

“le cifre non contano è importante sapere che qualcuno ti ricorda”[21].

Ma la solidarietà si espresse anche con la maggiore frequentazione più assidua del bar da parte dei clienti abituali. Interessante ricordare che dalla biblioteca del carcere si fa portare due libri già letti, I Miserabili di Victor Hugo e Martin Eden di London, due classici della biblioteca del buon comunista a partire dagli anni Trenta e Quaranta e come evidenzia questa memoria ancora centrali alla fine degli anni Cinquanta.

Ogni volta che lui, come altri, si trovano al cospetto del potere poliziesco, si rivolgono alla deputata eletta nella circoscrizione di Livorno, sorella del primo sindaco della città: Laura Diaz[22]. É una figura fondamentale che sta accanto a lui e a tutti quelli che si trovano nelle stesse situazioni. Con lei si sentono a casa. Alla fine al processo tutti gli imputati vengono condannati a 8 mesi, oltre al mese già trascorso agli arresti ma poiché anche un poliziotto testimonia a loro favore, la pena fu sospesa per cinque anni e il nostro venne scarcerato. Soltanto il suo compagno di cella, Corucci e una donna Giuseppina Santini,[23] rimasero in galera perché recidivi.

Subito dopo la liberazione gli viene notificata dalla Questura la diffida della durata di due anni e poiché capitava che la sera alla chiusura ci fossero discussioni con qualche cliente che aveva alzato il gomito e che Gualtiero non era proprio il tipo da contenersi, per non peggiorare la sua situazione, decide con la moglie e la madre, di vendere il bar. Comprano un negozio di alimentari e si procura una giardinetta per le consegne ma poi scopre che la diffida gli rende impossibile guidare l’auto e così se ne deve disfare. Intanto siamo arrivati al 1960 e ci sono i famosi fatti dei parà[24]. Prima la città è invasa dai militari e poi dalla polizia. Il nostro viene fermato e portato di nuovo in Questura. Il testo prosegue con i ricordi delle prepotenze subite e del calore della solidarietà ricevuta.

Immagine Barontini da diap

Ilio Barontini

Al termine, a giudicare dalla narrazione, si può pensare ad un vero e proprio pezzo aggiunto, nella cosiddetta III Parte, Vittori racconta episodi scollegati ma ai quali evidentemente teneva molto: la morte di Ilio Barontini, il XX° Congresso del Pcus e alcuni ricordi privati di serate passate con Sergio Manetti, con Fantolini e Paolini a cantare e a suonare la chitarra. L’immagine più forte e più bella di questa parte è quella riservata al funerale di Barontini e di Frangioni e Leonardi morti nello stesso incidente stradale, quando Vittori scrive:

La notizia della morte di Barontini, Frangioni e Leonardi ci giunse nel Bar (all’epoca in Piazza Mazzini), dapprima non chiara, si parlava di feriti, poi la verità dilagò come un’esplosione, non si parlava d’altro e posso dire che la totalità dei livornesi ne fù (sic) coinvolta compreso gli avversari politici. In migliaia ci recammo ad incontrare le salme, pioveva, era sera, e questa moltitudine si ritrovò a Stagno per darle il primo saluto, poi i funerali a Porta S. Marco.[25]

Credo che l’espressione “la verità dilagò come un’esplosione” sia la dimostrazione più forte della adesione a quel lutto e a quella storia che il nostro ci abbia lasciato.

Livorno, 12 maggio 2021

[1] Purtroppo in mancanza di familiari viventi non possiamo indicare la data della scomparsa.

[2] Gualtiero Vittori, Memorie, testo dattiloscritto e non datato, p. 22, conservato presso l’archivio Istoreco.

[3] C. Sonetti, Una morte irriverente. La Società di Cremazione e l’anticlericalismo a Livorno, Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 160-163, il cui funerale fu una vera e propria manifestazione di antifascismo insieme a quella di Mario Camici. Cfr. a questo proposito anche Massimo Sanacore, Il percorso interrotto. Il pluralismo etnico, religioso e politico nel sistema industriale livornese. La storia e le immagini (1865-1940), Annuario Sibel, Livorno, Sibel, 2003. La notizia comparve anche su «l’Unità» del 22 aprile 1933.

[4] G. Vittori, Memorie, cit., pag. 11. Può darsi che il nome fosse Angelo e non Alfio perché con quel cognome si trova inserito nel sito, ademol-org/progetto-ocr/deportati-mauthausen. Cfr, Vincenzo Pappalettera, Tu passerai per il camino, Mursia, Milano, 1965.

[5] Ibidem, p. 13.

[6] Associazione nazionale perseguitati politici.

[7] Ibidem, p. 9.

[8] Cfr. gli ormai classici: Nicola Badaloni, Democratici socialisti e livornesi nell’Ottocento, La Nuova Fortezza, Livorno, 1987, Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1926, Editori Riuniti, Roma, 1977 e di Franca Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile 1892-1922, Mazzotta, Milano, 1974 e Nota sul primo antifascismo livornese, Olschki, Firenze, 1971.

[9] Cfr. Era Barontini, Vittorio Marchi, Dario. Ilio Barontini, Editrice Nuova Fortezza, Livorno, 1988, Fabio Baldassari, Ilio Barontini. Fuoriuscito, internazionalista e partigiano, Robin, Roma, 2013, e Mario Tredici, Gli altri e Ilio Barontini. Comunisti in Unione Sovietica, Ets, Pisa, 2017.

[10] Natale Vasco Jacoponi (1901-1963), eletto deputato nella I-II-III legislatura. Console dei Portuali nel secondo dopoguerra; storia.camera.it/archivio storico e wikipedia.it.

[11] Cfr. scheda su: consiglio.regione.toscana.it/consiglieri, e «Il Tirreno» del 27 gennaio 1999.

[12] Cfr. Garibaldo Benifei, Per la libertà: trent’anni di memoria fra antifascismo, Resistenza, cooperazione (1920-1950), Debatte, Livorno, 1996, Margherita Paoletti, Garibaldo Benifei. 100 anni di un antifascista tra Resistenza e bella politica, Comune di Livorno, 2012, anppia.it/antifacsiti/benifei-garibaldo.

[13] Laura Fedi, Bombardamenti a Livorno, in Aa.Vv. 28.05.1943. “Era di maggio.” Notte e giorno le sirene annunciavano i bombardamenti, Comune di Livorno, Livorno, 2013. Scrive Vittori a pagina 16: erano da poco passate le undici e si alza il lugubre ululato delle sirene, gli operai del Cantiere lasciano il posto di lavoro e si precipitano fuori dello stabilimento, io inforco la bicicletta e corro come un dannato verso la bottega, sul ponte nuovo tra gli schianti della contraerea cominciano a piovere le prime bombe, mi fermo in un portone ed un pescatore napoletano puntando una mano verso il cielo mi grida: eccoli accà, seguo l’indicazione e vedo questi apparecchi che sembrano giocattoli tanto era la loro distanza, al tempo stesso un aereo italiano vola a bassissima quota e si dirige forse verso il vicino aeroporto di Pisa, una torpediniera in bacino spara con le mitragliere accennando un inutile (data la distanza) fuoco di sbarramento; le bombe cadono a grappoli… ricordo in Piazza Roma un cavallo sventrato: la fila delle persone che abbandonavano la città era enorme..

[14] Bruno Bernini, Livorno dall’antifascismo alla Resistenza: il 10. Distaccamento partigiano e la liberazione della città, Comune di Livorno, 2001.

[15] G. Vittori, Memorie, cit., p.2.

[16] Ivi p.4.

[17] Ivi. p. 5.

[18] Ivi.

[19] Eddo Paolini è stato un importante quadro del Partito comunista, autore anche di un volume, E fu subito festa, Tipografia Benvenuti & Cavaciocchi, Livorno,1984.

[20] Ibidem, p. 6.

[21] Ivi.

[22] Cfr. Tiziana Noce, La città degli uomini: donne e pratica della politica a Livorno fra guerra e ricostruzione, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004 e storia.camera.it/archivio storico e wikipedia.it.

[23] Purtroppo non possiamo scrivere nulla di questi due personaggi.

[24] Cesare Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943-1976), Odradek, Roma, 1999.

[25] G. Vittori, Memorie, cit., p.22.




Cantini e Ferrari: comunisti internazionalisti livornesi.

Quarta parte della rassegna di profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

CANTINI  Astarotte (Bruno Baroni)

(Livorno 30.5.1903 – URSS settembre 1938?)

Cantini (1)Nato a Livorno nel 1903, da Milziade e Natalina Parenti, di professione è operaio-manovale. Il fratello Alessandro, classe 1907, è militante comunista. Già nell’immediato primo dopoguerra inizia la sua attività politica come militante rivoluzionario nelle fila del movimento anarchico e nel 1921, in qualità di anarchico convinto e di azione, come recitano i rapporti di polizia entra negli Arditi del Popolo partecipando a scontri di piazza contro i fascisti livornesi tra il 1921 e il 1922. Viene arrestato una prima volta, insieme ad altri tre anarchici livornesi (Virgilio Fabbrucci, Bruno Guerri e Ilio Scali, i cosiddetti bombardieri di via degli Avvalorati) nel giugno del 1922 per fabbricazione e detenzione di materiale esplosivo, da usare contro le squadre fasciste livornesi comandate dal tenente Marcello Vaccari e per questo condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Dopo aver scontato 13 mesi esce per amnistia nel 1923 e viene sottoposto a stretta vigilanza di polizia sino al settembre del 1924; successivamente svolge il servizio militare nella Regia Marina. Nel luglio 1926 è sottoscrittore del giornale anarchico Fede! e sempre in quel periodo emigra in Francia probabilmente sotto il falso nome di Bruno Baroni. Nel settembre 1926 fa parte di una delegazione operaia che visita l’Unione Sovietica, dove soggiorna per tre mesi, per poi rientrare in Francia. L’anno successivo si trasferisce a Esch-sur-Alzette, in Lussemburgo, dove continua la sua attività politica, redigendo e diffondendo giornali e altri stampati anarchici. Scrive più volte ai militanti anarchici Bruno Guerri e Athos Ricci per avere notizie delle situazione economica e politica di Livorno, da pubblicare eventualmente nella stampa anarchica. Nel 1928 viene espulso dal Lussemburgo insieme ad altri anarchici pericolosissimi (Adone Franchi, Luigi Sofrà e Giuseppe Morini) e si trasferisce in Belgio ma pochi mesi dopo ritorna in Francia, a Pavillons-sous-Bois e a Livry Gargan. Qui nel 1929 viene avvicinato da Natale Vasco Jacoponi, anch’egli livornese, militante del P.C.d’I. e passa dalla militanza  anarchica a quella comunista. In questa fase della sua vita politica, il Cantini diffonde a Marsiglia materiale del Komintern e tra le altre attività nel 1929 invia a Livorno, tramite posta clandestina, una copia del giornale Fronte Antifascista a Menotti Gasparri, suo amico sin dall’infanzia, nonché militante comunista livornese (che cadrà  in Spagna nel 1936), insieme a quattro talloncini in cui si invitano i lavoratori livornesi a lottare per l’aumento salariale del 20%  (nel 1929 il salario medio operaio  era diminuito drasticamente a causa della politica economica del regime fascista).  Costantemente vigilato dall’OVRA che lo classifica ancora come dirigente antifascista e come anarchico-attentatore, il Cantini nel 1931 o 1933 si trasferisce in Unione Sovietica, probabilmente utilizzando ancora lo pseudonimo di Bruno Baroni, grazie al quale riesce a trarre in inganno l’OVRA e a far perdere le sue tracce per qualche anno. Nel giugno 1933 infatti invia alla madre una falsa lettera proveniente da Le Havre, nella Francia settentrionale, nella quale le annuncia che dovrà lasciare  la Francia “per ragioni di lavoro”, nel tentativo riuscito di depistare l’OVRA che solo nel l’aprile 1935 sarà certa della sua presenza in Unione Sovietica. In Urss viene inviato dal Partito Comunista, ormai stalinizzato nel suo corpo dirigente, a studiare a Mosca alla MLS, la Scuola leninista. Terminati gli studi presso la scuola di partito, viene ulteriormente inviato come istruttore del Club Internazionale dei Marinai a Tuaspe, nel Kraj (territorio) di Krasnodar, nella Russia meridionale e successivamente a Voroscilovgrad, attuale Lugansk (Luhans’k), nell’Ucraina orientale, dove probabilmente lavora in una fabbrica di dirigibili, almeno fino al 1935 e dove nel 1937 ha dalla moglie Zina (detta Lina), cittadina sovietica, un figlio di nome Gino. Nell’aprile 1936, in una lettera alla madre, menziona un altro comunista italiano transfuga in Urss, Decio Tamberi, il quale deluso dal regime staliniano, gli confessa che vorrebbe rimpatriare in Italia perché non riesce ad adattarsi alla vita sovietica.  Negli ultimi anni della sua vita il Cantini rimane a Voroscilovgrad  (Ucraina), da dove esprime, nel giugno 1937, il proprio dispiacere per la morte in combattimento, sul fronte di Madrid, dell’amico Menotti Gasparri, comunista livornese già esule in Unione Sovietica e da dove scrive alla madre: “…quanto a me, mia moglie e Gino, siamo in ottima salute e speriamo che Gino cresca bene, così un bel giorno lo potrai vedere ed abbracciare. Mia moglie si trova in ferie per ancora due mesi dopo il parto con paga completa, e più 95 rubli per la nascita di Gino. La nostra vita è buona in tutto e per tutto, non si pensa al domani… ”. Già inviso alla dirigenza e ai quadri staliniani del Pci a partire dal 1935 a causa di alcune critiche che il Cantini aveva espresso in passato nei confronti della politica di Togliatti e di Stalin, per essere ideologicamente anarchico, non abbastanza disciplinato (secondo quanto conservato nella documentazione sovietica) e per aver frequentato elementi ritenuti vicino al trotskismo, tra il maggio e il giugno 1938 viene arrestato nella città di Voroscilovgrad con la falsa accusa di spionaggio e il 25 settembre dello stesso è condannato ad una pena imprecisata da una trojka del NKVD. Non vi è certezza sulla sua sorte, tuttavia possiamo affermare che il Cantini è stato probabilmente fucilato nell’immediato e sepolto in una fossa comune, insieme a centinaia di trotskisti. Riabilitato nel luglio 1956, nella cosiddetta fase di destalinizzazione, avviata dal segretario generale del PCUS Nikita Chruscev, il suo nome tuttavia resta dimenticato dal P.C. livornese, a causa della sua morte da antistalinista.

FONTI ARCHIVISTICHE E DOCUMENTARIE

Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile; Biblioteca Franco Serantini, collezioni digitali, dizionario biografico degli anarchici italiani, ad nomen; Memorial, Italiani in Urss, schede biografiche, ad nomen; Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (Anppia), Antifascisti nel casellario politico centrale, Quaderni i-xix, Anppia, Roma 1988-1995, ad nomen.

FERRARI  Fernando

(Livorno 19.7.1900- Livorno 28.5.1943)

Nato a Livorno nel 1900 da Girolamo ed Elisabetta Di Rosa, di professione è facchino portuale, successivamente venditore ambulante, in ultimo operaio al cantiere Odero-Terni-Orlando. Segnalato inizialmente come anarchico, agli inizi degli Anni Venti si evidenzia per la sua attività antifascista. Nel dicembre 1922 viene condannato dalla Corte d’Appello di Lucca a 3 anni 10 mesi e 20 giorni di reclusione per aver sparato ad un fascista ferendolo,  nel corso degli avvenimenti sanguinosi che in quegli anni videro contrapporre le squadracce e i “sovversivi” nella città di Livorno. Amnistiato nell’ottobre del 1923, emigra per un certo periodo in Francia, per poi rientrare in Italia. Si avvicina quindi al Pcd’I divenendo probabilmente militante in quegli anni. Nel marzo 1930 viene fermato e subisce una perquisizione domiciliare nel corso della quale viene rinvenuto un pugnale, che gli viene sequestrato e per ciò viene condannato, il 1 giugno di quell’anno, ad una ammenda di L. 100 per omessa denuncia.  Nel dicembre 1930 è invece arrestato insieme ad altri dirigenti del Partito Comunista livornese in una vasta operazione di polizia mirante a smantellare l’organizzazione territoriale clandestina del Pcd’I: il Ferrari è ritenuto essere capo della cellula del rione Borgo San Iacopo, dove risiede, nonché comandante della squadra d’azione (servizio di sicurezza) del settore di Piazza Mazzini. Dalle carte d’archivio si apprende che tra il 1929 e il 1930 si era effettivamente ricostituita a Livorno l’organizzazione comunista clandestina, che risultava divisa in due settori: Barriera Garibaldi (Livorno Nord) e Piazza Mazzini (Livorno Sud). Ogni settore a sua volta era diviso in diverse cellule che variavano di numero in base ai quartieri e ai luoghi di lavoro e ogni dirigente aveva dei compiti prestabiliti. Il settore Sud, quello di Piazza Mazzini, diretto da Arturo Silvano Scotto aveva tra fiduciari: Oreste Baldi, per la stampa e la diffusione nei quartieri e nei luoghi di lavoro; Rosolino Pelagatti per il Soccorso Rosso e Fernando Ferrari per il servizio sicurezza, chiamata squadra d’azione. Al momento dell’arresto gli viene sequestrata anche una somma pari a lire 230 a lui versata dagli altri capi cellula, frutto di una raccolta fondi, per l’acquisto di armi. In effetti Ferrari si sarebbe dovuto occupare dell’acquisto in quei giorni di una sessantina di rivoltelle ed altre armi, cosa che sfumò a causa dell’arresto. Deferito al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato il 24 dicembre 1930, viene condannato nel maggio successivo a quattro anni di reclusione, tre anni di vigilanza ed esclusione perpetua dai pubblici uffici per il reato di ricostituzione del Partito Comunista e per propaganda sovversiva, condanna che sconta nelle carceri di Roma e Civitavecchia. Scarcerato nel novembre 1932, in quanto beneficia dell’amnistia del “Decennale”, rientra a Livorno, dove viene costantemente vigilato. Fermato nel marzo 1933, insieme a moltissimi altri comunisti, in occasione dei funerali di Mario Camici e per l’esplosione notturna di due ordigni presso il Dopolavoro San Marco e la caserma della MVSN, viene rilasciato dopo pochi giorni. In un elenco del 1934 dove sono segnalati i nomi dei militanti del Partito comunista espulsi per attività controrivoluzionaria (elenco rinvenuto dalla Polizia politica fascista), risulta essere stato espulso dal Partito comunista non per aver inoltrato domanda di grazia, cosa che fece nel settembre 1931, ma per un non meglio precisato tradimento, forse perché probabilmente vicino alle posizione bordighiste o trotskiste. Dopo aver esercitato il mestiere di venditore ambulante, nel maggio 1937 viene assunto in qualità di operaio al cantiere navale Odero Terni Orlando, ma nell’ottobre dello stesso anno viene nuovamente arrestato per aver rifiutato di dare indicazioni sulla propria identità personale alle forze dell’ordine e condannato al pagamento di un’ammenda di L. 50. Nel gennaio 1938 viene scarcerato e riprende l’attività lavorativa presso il suddetto cantiere Orlando. Costantemente vigilato, in quanto ancora comunista, Ferrari muore a Livorno nel corso del bombardamento aereo alleato del 28 maggio 1943 che distrusse buona parte della città.

FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile.




Danilo Mannucci

All’interno della rassegna di alcuni profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921, presentiamo quello di Danilo Mannucci, arricchito in allegato da un ricordo commosso del figlio Giuseppe.

MANNUCCI Danilo (Livorno 28.8.1899 – Gardanne (Bocche del Rodano, Marsiglia, Francia) 21.3.1971)

Danilo Mannucci nasce a Livorno nel 1899 da Gastone ed Anna Peruzzi; il padre, soprannominato Libeccino, dal vento Libeccio che soffia a Livorno, è un repubblicano dirigente dell’associazionismo mazziniano e anticlericale. Di professione è rappresentante di commercio.

Il giovane Mannucci cresce in seno a un’umile famiglia proletaria nella quale, grazie all’influsso educativo paterno, ma anche a quello del nonno Giuseppe, si leggono giornali e libri, si studia e si discute di diritti sociali e civili e della difesa della libertà del proletariato.

A l’età di 16 anni, dopo aver appreso della morte di Amedeo Catanesi (1890-1915), segretario generale della Federazione Giovanile Socialista Italiana, avvenuta il 17 luglio 1915 nelle trincee d’Andraz sul Col di Lana, poi ribattezzato Col di Sangue aderisce alla detta Federazione.

Chiamato alle armi non ancora diciottenne nel maggio 1917, Danilo Mannucci fu un Ragazzo ’99, e viene inviato in zona di operazioni nell’estate del medesimo anno, dove partecipa ai rastrellamenti dei reparti dispersi e sbandati dopo la sconfitta di Caporetto (ottobre 1917). Nel gennaio 1918 viene inviato sul Monte Grappa dove prende parte alla battaglia del Solstizio (giugno 1918) e alla controffensiva di Vittorio Veneto (ottobre 1918), restando al fronte anche dopo l’armistizio del 4 novembre 1918, venendo nominato caporale nel gennaio 1919. Ha seguito col commando gruppo i differenti spostamenti dalla zona del fronte fino a Cittadella (Padova) dove è rimasto fino all’invio in congedo illimitato nel febbraio del 1920.

Immediatamente, partecipa attivamente al biennio rosso nelle file della Lega Proletaria dei Combattenti Livornesi, prima formazione di autodifesa armata operaia nella città portuale toscana.

Il 21 gennaio del 1921 è presente al Teatro San Marco di Livorno, (pur non essendo tra i 58 delegati della Frazione Astensionista) dove assiste alla nascita del Pcd’i, al quale aderisce immediatamente contribuendo a fondare il 29 gennaio 1921 la Federazione livornese della quale ricopre ruoli direttivi a partire dal marzo successivo.

Tra i fondatori degli Arditi del Popolo a Livorno, fa parte del suo Esecutivo Segreto, diventa comandante di una compagnia formata da comunisti e grazie alla sua esperienza al fronte viene nominato insieme ad Athos Freschi, comandante in seconda degli Arditi del Popolo livornesi, diretti dal socialista Dante Quaglierini, ex ufficiale di fanteria. Nel luglio del 1922 è costretto, con suo sommo dispiacere, a lasciare gli Arditi del Popolo dietro ordine esplicito della direzione del Pcd’I.

Attivo oppositore dello squadrismo, a causa delle sue idee comuniste e anche per aver diffuso il Manifesto della iii Internazionale Ai Lavoratori d’Italia, viene arrestato ed imprigionato più volte dalle forze dell’ordine oltre ad essere aggredito e bastonato in più di una occasione dalle camicie nere.

Mannucci CPC (1)Nel febbraio 1923 venne arrestato nel corso della famosa operazione di polizia, voluta dal primo governo Mussolini appena insidiatosi, che colpì la maggior parte dei dirigenti (a incominciare da Bordiga), quadri e militanti del Pcd’I, con l’accusa di Complotto contro la sicurezza dello Stato tuttavia nell’aprile 1923 viene rilasciato in seguito all’intervento dei dirigenti della Camera del Lavoro, tra i quali Augusto Consani.

Ricercato ancora dai fascisti per aver partecipato ai funerali di un anarchico, dove aveva presenziato insieme alla sua vecchia compagnia degli Arditi del Popolo, nel maggio 1923, grazie all’aiuto di alcuni compagni liguri, emigra clandestinamente in Francia, dove chiede l’asilo politico.

Stabilitosi a Marsiglia entra da subito nelle file del Pcf, venendo chiamato alla segreteria del partito per il cantone di Gardanne (nel circondario di Marsiglia); inoltre diventa il comandante di una formazione comunista, una compagnia della centuria proletaria Luigi Gadda.

Per più di 10 anni dirige il Sindacato Unitario dei Lavoratori del Sottosuolo nelle Miniere di Carbone di Provenza (Cgtu) di orientamento comunista. Come si può leggere nel verbale dell’interrogatorio di polizia a Livorno nel gennaio del 1936, svolge anche attività clandestina a Lione, Cannes, Beziers e in Alsazia.

Nel corso del 1935, in qualità di segretario regionale dirige gli scioperi delle miniere che coinvolgono circa ottomila lavoratori per circa 50 giorni, attività che gli frutta un’espulsione dalla Francia il 4 gennaio 1936.

Riconsegnato a Ventimiglia nelle mani della polizia fascista italiana, viene processato dal Tribunale Speciale e condannato a cinque anni di confino, con una prolunga di due anni alla scadenza, che sconta dapprima ad Amantea e Fuscaldo in Calabria, successivamente a Ponza e Ventotene, a Pisticci (Matera) e infine a Baronissi (Salerno). In quest’ultima località lavora alla stesura di manifesti di propaganda per il partito che i compagni Matteo Romano e Luigi Rarita si incaricano di portare a Salerno.

Dopo lo sbarco delle truppe americane a Salerno, in una situazione piuttosto caotica, da subito presta la sua opera per l’organizzazione del Fronte di Liberazione Nazionale, della CGdL e della Federazione Salernitana del PCd’I.

Il 21 dicembre 1943 è sancita la nascita della Camera del Lavoro affiliata alla  CGdL, di cui diventa il primo segretario nel dopoguerra, dimettendosi però nel settembre 1944 rifiutando l’adesione alla Cgil imposta dal tripartito, in seguito al patto di Roma firmato il 9 giugno 1944 da Giuseppe Di Vittorio per il PCI, Achille Grandi per la DC e da Emilio Canevari per la componente socialista.

Il 10 gennaio 1944 si svolge a Salerno il I Congresso della Federazione Salernitana del Pci, che lo vede tra i relatori e che elegge segretario l’avvocato Ippolito Ceriello, comunista legato ad Amadeo Bordiga. Questo congresso ancora oggi non è riconosciuto dagli stalinisti-togliattiani, i quali individuano come primo congresso solo quello del 27-28 agosto 1944.

La federazione salernitana del Pci inizia la pubblicazione del suo organo Il Soviet, senza l’autorizzazione del Psychological Warfare Branch e per questo sia Mannucci che Ceriello sono condannati ad un mese di carcere. Il Soviet proibito dalle autorità alleate su pressione della dirigenza nazionale del Pci, esce quindi come numero unico, poiché in esso sono contenute le linee politiche che Ceriello e Mannucci intendono portare avanti.

Infatti in contrasto della Svolta di Salerno, voluta da Togliatti su ordine di Stalin, Mannucci e Ceriello si oppongono anche alla concezione togliattiana di Partito Nuovo, ragion per cui Mannucci, insieme a Mario Ferrante e Bernardina Sernaglia, viene espulso dal Pci dal Comitato di Riorganizzazione composto di stalinisti nelle prima decade di luglio 1944 per corruzione e indegnità. Mannucci ne vene a conoscenza solo il 14 luglio dal giornale locale Il Corriere. Mannucci reagisse immediatamente con una lettera pubblicata nel stesso giornale Il Corriere del 15 luglio, affermando che la sua espulsione arriva un poco in ritardo «poiché io ero già non solo spiritualmente, ma anche materialmente molto lontano dal partito, che mi sta sempre nel cuore, ma dalla cricca dei suoi dirigenti che con la loro azione hanno falsato e sovvertito tutto il suo programma.» Circa la motivazione dell’espulsione, Mannucci averte che si accinge «a dare querela a chi di dovere con la più ampia facoltà di prove.» La lettera è firmata «Danilo Mannucci, comunista della vecchia Guardia, ex confinato politico.» Ippolito Ceriello invece ne viene espulso per ‟acclamazione” al Congresso della Federazione di Salerno del 27-28 agosto successivo.

Nei mesi successivi Mannucci, Ceriello e insieme al liberatorio Ettore Bielli, costituiscono la Frazione della sinistra salernitana che in qualche modo si ricollega alla Frazione di sinistra dei comunisti e dei socialisti, già presente nel variopinto quadro alla sinistra del Pci togliattiano e riconducibile all’altrettanto variegata tradizione bordighista.

L’unico giornale della frazione salernitana che ottiene l’autorizzazione, il 3 maggio 1945, è il quindicinale L’Avanguardia, il cui direttore responsabile è proprio Ippolito Ceriello, tuttavia l’autorizzazione alla pubblicazione del giornale viene revocata poco dopo e anche in questo caso del giornale ne esce solo un numero.

In quei primi mesi del 1945 Mannucci stringe una feconda collaborazione politica con il vasto movimento anarchico meridionale, scrivendo una serie di articoli per il giornale anarchico Umanità Nova, con lo pseudonimo di Spiritus Asper e intrattenendo (secondo alcune fonti di polizia) rapporti politici con il vecchio anarchico siciliano Paolo Schicchi e il suo “gruppo insurrezionale”.

A Napoli il 29 luglio del 1945 la maggioranza della Frazione decide lo scioglimento e di confluire quindi nel Partito Comunista Internazionalista, per cui anche Ceriello e Mannucci aderiscono al Pc.int.

Anche in questo caso tuttavia i contrasti con la direzione del Partito sono così aspri da costringere il Mannucci ad uscire dallo stesso partito, soprattutto a causa sia dell’adesione di Mannucci, Bielli ed altri all’associazione vi Braccio, organizzazione malvista dal PC.int. perché considerata interclassista e apartitica, che della decisione di Ippolito Ceriello di candidarsi alle elezioni amministrative nel Comune di Laviano.

In seguito ciò Mannucci aderisce al Psiup negli anni 1947-1948, entrando in contatto con Lelio Basso e Alfonso Di Stasio e ricoprendo un doppio incarico, sia come funzionario di partito che come funzionario sindacale in zone difficili del Meridione, segnato dalle lotte contadine per l’occupazione delle terre in Calabria, Puglia e Basilicata.

Si stabilisce in Puglia per un anno e mezzo, dove partecipa e dirige le lotte dei braccianti del Tavoliere ed entra in contatto con Natino La Camera a Cosenza, tuttavia il nuovo percorso politico da lui intrapreso risulta assai illusorio, in quanto è costretto ad affrontare nuove e più forti difficoltà burocratiche spesso capziose per cui tutte le promesse che gli furono fatte si riveleranno assai vane.

Nel 1949 compiuti i 50 anni, dei quali più di trenta passati fra lotte politiche e sindacali e aver subito anche sette anni di confino, ora ha anche la responsabilità di una famiglia con moglie e tre figli piccoli, decide lasciare l’Italia e trasferirsi definitivamente in Francia, permettendo così ai suoi cari un’altra e migliore opportunità di vita.

Qui continua ad interessarsi di politica, legge Le Monde, La Marseillaise (giornale locale del Pcf) e L’Humanitè e spesso ogni domenica mattina si reca al mercato di Gardanne, per diffondere L’Humanitè-Dimanche.

Dei giornali italiani trova a Gardanne solo La Stampa, La Domenica del Corriere, e la Gazzetta dello Sport, tuttavia riceve dall’Italia anche altra stampa: Umanità nova, l’Avanti, l’Antifascista e forse altri. Una certa attenzione ai problemi e alla politica italiana e francese nel corso di quegli anni c’è stata, lo testimoniano la presenza alla Conferenza di Gardanne sul tema del sindacalismo e della storia italiana e due articoli scritti su Umanità Nova nel 1957, sempre con lo pseudonimo di Spiritus Asper.

Durante gli avvenimenti del 1968 prende posizione in favore degli studenti in sciopero e in particolare di Daniel Cohn-Bendit, Jacques Sauvageot e Alain Krivine.

Muore il 21 marzo 1971 a Gardanne, dove viene sepolto accompagnato dal canto dell’Internazionale durante funerali civili a cui partecipano esponenti del Pcf e della Cgt.

FONTI ARCHIVISTICHE E DOCUMENTARIE: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Archivio Fondazione Istituto Gramsci (Torino), Archivio Partito Comunista, Fondo Mosca; Archivio Giuseppe Mannucci (Banon, Francia); Archivio Nazionale Francese, Fascicolo Danilo Mannucci 8383; Battaglia Sindacale, 29 agosto 1944; Libertà, a. ii, n. 2, 6 gennaio 1944; Libertà, a. ii, n. 3, 13 gennaio 1944. Il nome di Mannucci, come quello di Ceriello, Bielli e Vincenzo Nastri, appare in una lettera della Regia Questura di Roma del 14/4/1945, con la menzione attività insurrezionale attribuita a Paolo Schicchi.




Bonsignori e Becocci: comunisti internazionalisti livornesi

Seconda parte della rassegna di profili biografici di militanti comunisti internazionalisti di Livorno e provincia, i quali contribuirono alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, sezione della IIIª Internazionale, avvenuta a Livorno nel gennaio 1921.

BECOCCI  Ettore Augusto

(Livorno 17.07.1902 – Livorno 07.01.1972)

Nato a Livorno il 17 luglio 1902 da Eugenio e Vittoria Ciucci. Di professione è fuochista navale, successivamente pescatore, bracciante e nel secondo dopoguerra spazzino comunale. Possiede la licenza elementare.

Nel corso del primo conflitto mondiale si iscrive alla Federazione Giovanile Socialista, e partecipa al Biennio Rosso (1919-1920).

Appena diciottenne partecipa al XVII Congresso del Partito Socialista Italiano, tenutosi a Livorno nel gennaio del 1921, in quanto è segnalato tra i seguaci del futuro deputato comunista Francesco Misiano (uno dei 58 delegati al Congresso della Frazione Comunista), del quale è guardia del corpo proprio in occasione dei giorni infuocati del Congresso socialista stesso e nell’atto di fondazione del Partito Comunista d’Italia. Accompagna ancora Misiano quando nel febbraio 1921 questi si reca a Livorno per coordinare la locale sezione del Pcd’I con la direzione del partito stesso.

Militante del Pcd’I sin dalla sua fondazione, è tra i più attivi nella propaganda e nell’azione. Membro attivo degli Arditi del Popolo, inquadrato in una compagnia comunista, partecipa a tutti gli sconti con i fascisti ed in particolare si segnala nel maggio del 1921, quando colloca una bandiera rossa su una barca, presso gli Scali del Pontino, uno dei quartieri più proletari della città, al fine di provocare ed attirare i fascisti in quel quartiere, dove furono respinti. Successivamente si imbarca su vari piroscafi dove svolge le mansioni di fuochista navale. Inoltre è iscritto alla Federazione Gente di Mare (Federazione dei marittimi) diretta da Giuseppe Giulietti.

Costantemente vigilato dalle autorità di polizia sin dal 1921, nell’ottobre 1926 cerca di espatriare clandestinamente in Francia dove vive la sorella Guglielma, ma a Ventimiglia viene fermato e rimandato a Livorno, dove riceve dalle autorità una ammonizione per l’attività politica svolta in passato. Per la sua attività il suo nome è inserito nell’elenco delle presone da arrestare in particolari contingenze politiche.

Perso il lavoro di fuochista navale anche a causa di un infortunio che lo rende claudicante, nel giugno 1928 le autorità gli negano il nullaosta per l’imbarco a causa delle sue idee politiche, impedendogli così di espatriare perché ritenuto pericoloso per il regime anche all’estero. Negli anni seguenti scrive una lettera di abiura al Prefetto affinché le autorità potessero dargli una nuova occupazione.

Nel settembre 1931 viene arrestato e condannato per adulterio, in quanto da uomo sposato, intrattiene una relazione con una ragazza, Giuseppina Bua, che diverrà la sua nuova compagna. Una volta scarcerato, il 9 aprile 1932 gli viene restituito il passaporto e compie numerosi viaggi tra l’Italia e la Francia, in particolare Marsiglia (dove si stabilisce nuovamente presso la sorella) e la Corsica, per cui viene sospettato di mantenere i contatti e di fare da corriere tra gli antifascisti fuoriusciti e quelli livornesi.

Dopo pochi mesi è costretto a rientrare a Livorno per assistere la madre gravemente ammalata e nel settembre 1932 viene nuovamente arrestato e processato insieme alla sua compagna per furto, reato commesso a causa dell’impossibilità di trovare una occupazione, ma usufruisce di una amnistia e viene scarcerato.

Il 22 marzo 1933 viene fermato, insieme a molti altri sovversivi, a seguito dei funerali del comunista Mario Camici e per gli ordigni esplosi presso la sede del Comando della Milizia e quella del Dopolavoro di San Marco, quindi viene nuovamente ammonito dallo svolgere attività politica. Tuttavia gli viene concessa una pensione di invalidità di 150 lire erogate dall’Ente Comunale di Assistenza.

Nel 1933 viene cancellato dall’elenco delle persone da arrestare in determinate contingenze politiche.

Nel secondo dopoguerra si iscrive al PCI e viene assunto come netturbino dall’Azienda Municipalizzata Pubblici Servizi, diventando un membro attivo nella costituzione della cellula comunista di quell’azienda.

Nel 1956 esce dal PCI in forte polemica con la politica di Togliatti a causa dei fatti di Polonia e Ungheria e abbandona anche la CGIL per passare alla CISL, rimanendo tuttavia vicino agli ambienti della Sinistra Comunista antistalinista.

Muore a Livorno nel gennaio 1972.

 

FONTI ARCHIVISTICHE:  Archivio di Stato di Livorno, fondo Questura, serie A8, busta n. 1372; Comune di Livorno, Archivio di Stato Civile; Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen.

FONTI BIBLIOGRAFICHE: M. Rossi,  Livorno ribelle e sovversiva, BFS, Pisa, 2013; I. Tognarini (a cura di), Livorno nel XX secolo. Gli anni cruciali di una città tra fascismo, resistenza e ricostruzione, Edizioni Polistampa, Firenze, 2006.

 

BONSIGNORI Alfredo (Galliano, Gracco, Alfonso e Nanni)

(Cecina (Livorno) 28.1.1895 – Lione (Francia) 3.4.1976)

Nato a Cecina nel 1895 da Giuseppe ed Italia Silvestri. Ha frequentato i primi anni della scuola elementare e di professione è falegname ed ebanista. Si avvicina giovanissimo al socialismo grazie al suo compaesano Giuseppe Macchia, anch’egli falegname e si iscrive al Psi.

Nel 1915 partecipa alle proteste contro l’ingresso dell’Italia nel Primo Conflitto Mondiale, ma nel frattempo viene riformato dal servizio di leva perché ha una deformazione all’occhio destro. Sposato con Corinna Michelotti, nel gennaio1919 ha un figlio a cui dà il nome Lenin.

Nel 1919 oltre che militante del Psi è anche sottoscrittore del giornale socialista di Piombino L’Operaio, partecipando inoltre nello stesso anno alla formazione e all’organizzazione della Lega proletaria e contadina di Cecina. Nel novembre del 1920 viene eletto a Cecina consigliere comunale, elezioni che videro la formazione di una giunta rossa guidata dal sindaco Ersilio Ambrogi.

Nel gennaio 1921 aderisce al Pcd’i, ma il mese seguente subisce un arresto per correità nell’omicidio del fascista livornese Dino Leoni, il quale si era recato a Cecina insieme ad una squadraccia fascista per costringere l’amministrazione social-comunista ad affiggere nuovamente nel Palazzo Comunale la lapide col bollettino della vittoria e i nomi dei cecinesi caduti nella Prima Guerra mondiale, dato che la stessa lapide era stata tolta nel novembre 1920, all’indomani della vittoria elettorale dei socialisti.

Candidato allora alle elezioni politiche del maggio 1921, con il nome di Galliano, nel collegio di Arezzo-Siena-Grosseto, non riesce ad essere eletto e rimane quindi in carcere e nel 1922 è definitivamente condannato a dieci anni, tre mesi e dieci giorni di reclusione sempre per la morte del fascista Leoni.

Liberato il 14 agosto 1926 in seguito ad un’amnistia, ritorna a Cecina, ma i fascisti locali gli impongono di lasciare la città entro 24 ore. Anche a Roma, dove ripara, viene però malmenato perché indossa una cravatta nera alla Lavallière, simbolo anarchico.

Si trasferisce quindi a Milano con la famiglia ma, poco dopo, emigra clandestinamente in Francia, stabilendosi a Lione, dove riprende il suo lavoro di ebanista.

In quel periodo e per qualche tempo nella sua abitazione a Lione, ospita alcuni fuoriusciti anarchici: Oscar Scarselli detto lo Zoppo, di Certaldo, capo ed animatore insieme ai fratelli Tito ed Egisto della “Banda dello Zoppo”, (fondata durante la rivolta anarchica di Certaldo nel febbraio 1921, durante la quale muore il fratello Ferruccio, scoppiata all’indomani dell’uccisione del ferroviere comunista Spartaco Lavagnini per mano dei fascisti), Giuseppe Parenti, di Campiglia Marittima, arrestato per i fatti di Ulceratico e il ciclista, acrobata e lottatore livornese Giovanni Urbani, membro della “Banda di Stefano Doneda”, tutti evasi dal carcere di Volterra (Pisa) nell’ottobre del 1924.

Viene espulso dal Pcd’I probabilmente tra il 1927 e il 1928 per le sue tendenze bordighiste e nel 1928 aderisce ai Gruppi di Avanguardia Comunista (Gac), fondati l’anno precedente  dal comunista bordighiano Michelangelo Pappalardi (1895-1940), che pubblicano Le Réveil communiste.

Vicino alle tesi di Amadeo Bordiga (1889-1970), ma contestualmente interessato alle posizioni del KAPD (Partito Comunista Operaio di Germania) e dalla sinistra marxista tedesco-olandese personificata da Karl Korsch (1886-1961), Hermann Gorter (1864-1927) e Anton Pannekoek (1873-1960), nonché dalle posizioni della sinistra russa rappresentata dal Gruppo Operaio di Gavril Ilyich Myasnikov (1889-1945), già membro dell’Opposizione Operaia in Unione Sovietica, sostiene la successiva evoluzione “operaista” dell’organizzazione di Pappalardi, che nel 1929 approda alle posizioni del Kapd, costituendo i Gruppi Operai Comunisti (Goc), aventi come organo L’ouvrier communiste.

Agli inizi del 1928 viene colpito da un decreto di espulsione dal territorio francese, ma rimane clandestinamente a Lione senza rinunciare tuttavia all’attività politica, tanto da essere accusato nell’ottobre dello stesso anno, insieme ad altri comunisti ed anarchici, di aver assalito due italiani che ritornavano da una manifestazione fascista e patriottica.

In quegli anni sottoscrive più volte per il giornale bordighiano Prometeo e per il giornale comunista operaista L’ouvrier communiste e partecipa più volte, sempre in quegli anni, a raccolte fondi per la liberazione di Myasnikov, detenuto nelle carceri turche, dopo la fuga dall’Urss nel 1928.

Nel novembre 1929 sottoscrive ancora per il giornale bordighiano Prometeo, inviando una messaggio al giornale, nel quale inneggia a Michele della Maggiore, il comunista di Ponte Buggianese (Pistoia), condannato e fucilato nel 1928 dal regime mussoliniano, per aver ucciso due fascisti.

Nel giugno 1931 partecipa ad una riunione al circolo anarchico “Sacco e Vanzetti” di Lione, durante la quale i comunisti operaisti e gli  anarchici cercano di stabilire un lavoro politico comune. Nel dicembre del medesimo anno partecipa alla campagna internazionale in favore dell’anarchico Francesco Ghezzi (1893-1942), deportato dagli stalinisti in Siberia.

Quando il gruppo di Pappalardi si scioglie, nel corso del 1931, riprende i contatti con i vecchi compagni bordighisti, pubblicando, con lo pseudonimo di Gracco, due articoli sul quindicinale Prometeo stampato a Molenbeeck-Bruxelles.

Nel 1932 rompe però con il marxismo e passa, insieme a Lodovico Rossi e Quinzio Panni, al movimento anarchico, al quale rimarrà legato per tutta la vita.  È in questo periodo che il giornale degli stalinisti italiani La Nostra bandiera stampato a Parigi, inizia a pubblicare articoli ingiuriosi su di lui, con lo scopo evidente di farlo espellere definitivamente dalla Francia.

A questa campagna sia denigratoria che di delazione, egli replica sul giornale La Lanterna, periodico anarchico di Marsiglia, denunciando le responsabilità politiche del Komintern ormai stalinizzato nell’ascesa del nazismo in Germania, e attaccando al contempo la sua apologia del cosiddetto “paradiso sovietico”.

In quegli anni svolge attività per il circolo anarchico Sacco e Vanzetti di Lione, e nel 1935 partecipa al convegno anarchico di Satrouville come delegato di Lione insieme a Camillo Berneri, Leonida Mastrodicasa e Giulio Bacconi.

Nel luglio 1936 si reca in Spagna e si arruola nelle file della Sezione italiana della Colonna Ascaso della F.A.I.-C.N.T., detta anche Colonna Italiana o Colonna Rosselli, a maggioranza anarchica, partecipando ai combattimenti sul Monte Pelato e a Tardiena.

Nel novembre 1936 rientra in Francia e interviene alla conferenza politica che il comandante della Colonna internazionale Lenin del P.O.U.M., Enrico Russo, tiene a Lione e nel marzo del 1937 è segnalato a Barcellona, dove svolge propaganda in favore della F.A.I.-C.N.T. e forse del P.O.U.M.

Rientrato in Francia continua l’attività politica tra gli anarchici e viene costantemente sorvegliato dall’O.V.R.A., che ritiene che possa rientrare clandestinamente in Italia insieme ad altri elementi per compiere attentati terroristici contro personalità del regime fascista.  Dopo la sconfitta della Francia nel 1940 partecipa attivamente alla Resistenza nella regione del Rodano e a Lione.

Nel 1943, alla caduta del Fascismo cerca senza riuscirci di rientrare in Italia. Nel 1945 rientra a Cecina, dove dà vita insieme ad altri ai gruppi anarchici Alba dei liberi e Luce e libertà e partecipa al III Congresso della F.A.I. che si svolge a Livorno nell’aprile del 1949.

Negli anni seguenti rientra a Lione con la famiglia dove continua la sua attività politica e sostiene la stampa libertaria, restando in contatto con i compagni rientrati in Italia, siano essi anarchici come Umberto Marzocchi (1900-1986), che comunisti bordighisti come Carlo Mazzucchelli (1902-1957).

Muore a Lione nell’aprile del 1976.

 

FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; F. Bucci, S. Carolini, C. Gragori, G. Piermaria, Il Rosso, Il Lupo e Lillo. Gli antifascisti livornesi nella Guerra civile spagnola, La ginestra, Follonica, 2009; Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti di Spagna (Aicvas), La Spagna nel nostro cuore 1936-1939. Tre anni di storia da non dimenticare, Aicvas, Roma, 1996; Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (Anppia), Antifascisti nel casellario politico centrale, Quaderni i-xix, Anppia, Roma 1988-1995, ad nomen; Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, Pisa, Biblioteca F. Serantini Editrice, Pisa, 2003-2004, ad nomen; D. Erba, Prometeo ribelle e violento. Violenza individuale e violenza di masse nella lotta politica, All’insegna del gatto rosso, Milano, 2013; D. Erba, Ottobre 1917-Wall Street 1929. La sinistra comunista italiana tra bolscevismo e radicalismo: la tendenza di Michele Pappalardi, Quaderni di Pagine Marxiste-serie blu, III, Milano, 2010;  G. Pajetta (a cura di), Livornesi oltre i Pirenei. I volontari livornesi nella guerra antifascista di Spagna 1936-1939, Roma,  2012, www.aicvas.org.; Livornesi alla guerra di Spagna 1936-1939, pubblicazione a cura dell’Archivio di Stato di Livorno e del Centro Filippo Buonarroti Toscana, Livorno, 2020; www. radiomaremmarossa.it/biografie-resistenti/oscar-scarselli/.




Roberto Goldoni, comunista non pentito

L’articolo che vi presentiamo su Roberto Goldoni – collaboratore del deputato Luigi Salvatori, attivista antifascista e membro del Cln – è tratto dal volume Antifascisti Lucchesi nelle carte del casellario politico centrale, edito nel 2018 da Maria Pacini Fazzi con la curatela di Gianluca Fulvetti (docente di storia contemporanea presso il Dipartimento di civiltà e forme del sapere dell’università di Pisa) e Andrea Ventura (direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Lucca). L’opera rappresenta il frutto dell’impegno di due anni di quattordici studiose e studiosi, e raccoglie oltre un centinaio di schede biografiche realizzate a partire dalle carte del Casellario politico centrale, istituito nel 1894 e i cui fondi sono custoditi presso l’Archivio centrale dello Stato a Roma.

L’autore: Stefano Bucciarelli, attualmente presidente dell’ISRECLU, è stato docente di storia e filosofia e poi preside nei Licei, nonché docente a contratto presso le università di Pisa e Firenze alla Scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario. Ha pubblicato numerosi saggi e libri su protagonisti e vicende della storia politica e culturale della Toscana del Novecento.

Nato a Perugia il 23 febbraio 1899, G. consegue nel dopoguerra l’impiego di fattorino telegrafico presso la sede postale di Viareggio. Qui partecipa attivamente alle agitazioni sociali di quegli anni, legandosi al deputato socialista Luigi Salvatori, con il quale aderisce alla scissione comunista. Con lui è la compagna Giuseppina Baldini, di Viareggio, la cui attività risulta ben documentata, al pari di quella di G., nella corrispondenza sequestrata a Bordiga in occasione del suo arresto. Nel 1921 G. partecipa al tentativo (fallito) di dar vita ad una formazione di Arditi del Popolo. Personalità comunque ben in vista, finisce tra gli imputati per la “sfida di piazza Grande”, scontro avvenuto il 16 maggio tra fascisti e simpatizzanti di sinistra, conclusosi con la morte di due esponenti di questo secondo schieramento: Pietro Nieri e Enrico Paolini. Il processo vede alla sbarra ventuno imputati delle due parti; tra essi però sono solo i dodici antifascisti ad essere accusati del duplice omicidio, secondo la teoria platealmente di parte che Nieri e Paolini sarebbero stati uccisi per errore, vittime di fuoco amico. G. è in particolare accusato di aver sparato sulla folla dall’ufficio telegrafico che si affaccia appunto sulla piazza. Per loro c’è l’assoluzione per insufficienza di prove […]. Sull’altra accusa, connessa alla partecipazione alla rissa, G. viene invece rinviato a giudizio, ma poi amnistiato. Dove non può il tribunale, interviene l’Amministrazione statale che, nel 1923, ne opera il trasferimento punitivo a Sassari. Il 24 ottobre G. parte da Viareggio verso la città isolana, insieme con Giuseppina […]. A Sassari, i due riprendono la loro attività politica, sì che un allarmato rapporto di prefettura denuncia come il «fervente comunista» svolga intensa propaganda; con frequenti ordinazioni di libri e di opuscoli sovversivi, che distribuisce tra i compagni, trasforma la casa sua e di Giuseppina in una vera biblioteca circolante. Ne viene informato il Ministero delle Comunicazioni e così G. perde il lavoro, licenziato con un provvedimento di “dispensa”, che la legislazione allora vigente nell’impiego pubblico rende possibile con la semplice motivazione che essa risultasse «necessaria nell’interesse del servizio». Fa così ritorno a Viareggio all’inizio del 1926 e la stretta di fine anno si abbatte anche sul suo capo: in novembre viene spedito al confino di polizia e assegnato, condividendo la destinazione di Salvatori, alla colonia di Favignana. L’iniziale condanna di quattro anni è ridotta a due. Fa in tempo ad essere trasferito, il 30 marzo 1927, ad Ustica, l’isola da cui Gramsci è stato appena allontanato, ma dove Bordiga ha consolidato una rete clandestina comunista […] e una vera e propria scuola di partito. G. ne diventa uno dei principali partecipanti ed è perciò arrestato e […] tradotto in carcere a Palermo a disposizione del Tsds. Il processo, che coinvolge per le medesime accuse altri ventidue compagni, in primo luogo lo stesso Bordiga, si conclude l’anno dopo, nel novembre 1928, con un non luogo a procedere. Nel frattempo G., provvisoriamente scarcerato nell’agosto 1928 e trasferito da Ustica a Ponza, ha qui terminato di scontare il periodo di confino. Rientrato a Viareggio, rimane attentamente vigilato. Entra a gestire l’esercizio commerciale di frutta e verdura avviato nel frattempo dalla moglie […]. Una richiesta di poter usufruire delle agevolazioni dell’abbonamento ferroviario per seguire le sue attività commerciali è respinta, per la preoccupazione politica che i suoi movimenti nascondano una attività di organizzazione e propaganda. La domanda viene più volte rinnovata, con toni che non divengono mai servili e non rinnegano mai il passato: G. rivendica anzi di aver «appartenuto al Partito Comunista dalla sua costituzione al suo scioglimento», di aver patito due anni di confino, e si appella al suo diritto di campare la vita col suo lavoro, al pari di quanti «se anche non sono fascisti sono degli onesti cittadini». Il permesso giunge nel 1935. Intanto sono peggiorate le sue condizioni familiari, per la grave malattia della moglie, che muore nel 1939. Nel 1941 G. passa a nuove nozze con Alfreda Cinquini. Rimasto in contatto con la struttura clandestina del Pcdi, durante la Resistenza è tra i primi a rimettersi in moto e fa attivamente parte del Cln. Nel dopoguerra continua la sua attività politica, risultando nel 1946 eletto nel Consiglio comunale di Viareggio, nel gruppo comunista che esprime il sindaco Alessandro Petri. G. muore a Viareggio l’11 febbraio 1973.




Ferdinando Targetti amministratore, antifascista, padre costituente

Nella serata di lunedì 22 marzo, con la collaborazione della Biblioteca Roncioniana di Prato e nell’ambito della Festa della Toscana, si è tenuto su piattaforma meet l’incontro “Ferdinando Targetti amministratore, antifascista e padre costituente“, dedicato al primo sindaco socialista di Prato (1912-1914). In quell’occasione Andrea Giaconi (vicepresidente del Coordinamento toscano dei Comitati per la promozione dei valori risorgimentali) ha intervistato Alessandro Affortunati (membro dell’omonimo Comitato pratese ed autore di vari contributi su Targetti, di cui ha redatto anche la voce relativa del Dizionario biografico degli italiani). L’intervista ha inteso ripercorrere i passi salienti della vita e dell’opera del politico socialista. Ne proponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento.

Targetti proviene da una famiglia dell’alto ceto industriale pratese. Però aderì giovanissimo al Partito socialista. È possibile spiegare questa scelta ed in che misura essa può essere considerata anche più coerente di tante altre?

Sì, suo padre, Lodovico, era un grosso industriale laniero, uno dei fratelli, Raimondo, sarà sindaco liberale di Prato all’epoca del regicidio e, fra il 1922 ed il 1923, presidente della Confindustria. Ferdinando, invece, mostrò subito di non condividere i valori tipici dell’alta borghesia e si iscrisse al Partito socialista nel 1899, a diciotto anni, subito dopo i fatti di Milano. È probabile che le cannonate di Bava Beccaris non fossero estranee alla sua maturazione politica, ma le ragioni precise della sua scelta non si conoscono.

Forse, come talora accade, giocarono un ruolo anche fattori psicologici (il sottoscritto, ad esempio, si è orientato precocemente a sinistra anche perché, da bambino, il nonno paterno gli aveva raccontato della “domenica di sangue” di San Pietroburgo, nel 1905, delle povera gente presa a fucilate dalla truppa).

Certo è che Targetti fu davvero coerente con la  decisione presa: ne è prova il fatto che cedette la sua quota in ditta al fratello Gino, vivendo solo con i proventi della  professione di avvocato.

Targetti fu il primo sindaco socialista di Prato nel 1912, in un clima che, a livello di storia amministrativa era fatto (ce lo insegna Guido Melis) di revisione dei conti degli enti locali, di storno dei contributi per le spese degli organi centrali, di accantonamento delle opere di beneficenza e di delega alle associazioni di volontariato. In tal contesto, quali furono i suoi principali provvedimenti?

Targetti seguì un principio molto chiaro: ciò che gli premeva – ebbe a dire – era difendere gli interessi delle classi più deboli, nella convinzione che ciò equivalesse a fare del socialismo. Alla luce di questo principio-guida, la sua giunta fornì un ottimo esempio di amministrazione rossa.

Fra i provvedimenti varati, sono da ricordare almeno l’apertura di uno spaccio comunale, dove si vendeva il pane a prezzo calmierato, l’istituzione di un ufficio che, tra l’altro, esercitava anche funzioni di sorveglianza sui prezzi dei generi di prima necessità e l’approvazione di un progetto per la costruzione di blocchi di case popolari.

L’amministrazione Targetti termina alle soglie della prima guerra mondiale. Nel 1919 Targetti è eletto alla Camera dei deputati e nel 1920 diviene assessore nel Comune di cui era stato sindaco. Sono però anni in cui la violenza politica di matrice fascista sconvolge la quotidianità della vita civile (basti ricordare che nella sola Toscana sono concentrati un quinto di tutti gli atti di brutalità squadrista prima della Marcia: l’omicidio Lavagnini, i fatti di Roccastrada, la spedizione su Prato e Vaiano) Come reagì Targetti a questi tristi eventi?

Targetti fu risolutamente antifascista e non si fece intimorire dalle minacce: basti pensare che nel 1922 rifiutò di dare le dimissioni dalla carica di assessore nella giunta socialista presieduta da Giocondo Papi.

I fascisti lo odiavano e nel 1925 scampò alla “notte di San Bartolomeo” fiorentina (3-4 ottobre 1925) solo perché fuori città: non avendolo trovato in casa, gli squadristi spararono ai suoi vestiti appesi nell’armadio, in segno di macabra rappresaglia.

Trasferitosi a Milano si impegnò nell’attività clandestina entrando a far parte del Gruppo Erba, che era in contatto col Centro socialista interno. Difese inoltre numerosi antifascisti e, nel processo contro gli assassini di Matteotti, rappresentò la famiglia come avvocato di parte civile.

Dopo l’8 settembre, dovette riparare in Svizzera, dove raccolse fondi a sostegno dell’opposizione in Italia, tenne conferenze e collaborò a varie testate antifasciste (la Libera stampa, del Partito socialista ticinese, e la Voce socialista, giornale clandestino dei socialisti italiani nella Confederazione).

Targetti appartenne ad un partito, quello socialista, che qualche storico ha definito “inquieto”, soggetto ad una dialettica aspra e profonda sino alle vicendevoli fratture. Lo stesso Targetti attraversò durante la sua carriera politica le esperienze del PSU e dello PSIUP. Esperienze che visse come conseguenza di momenti drammatici per il socialismo. La prima si colloca nel periodo della salita al potere del fascismo. Quale fu la sua posizione all’interno del PSU?

Targetti si schierò subito a fianco di Matteotti, sostenendo la necessità della più recisa opposizione al fascismo, mentre un gruppo che faceva capo ai leader confederali riteneva possibile una “costituzionalizzazione” del fascismo stesso ed era quindi disposto ad una qualche forma di collaborazione col regime. Targetti, invece, non si fece mai nessuna illusione al riguardo.

Prima di passare al ruolo svolto nello PSIUP, è bene ricordare che Targetti fu anche un membro importante dell’Assemblea costituente e, per lungo tempo, vicepresidente della Camera dei deputati. Quali furono i suoi interventi più importanti alla Costituente?

In estrema sintesi, si può dire che Targetti sostenne la necessità di una costituzione “breve” (che fissasse cioè solo alcuni principi generali da attuarsi poi con leggi ordinarie), fu a favore delle regioni (memore dei guasti prodotti dal centralismo in Italia) e di una larga indipendenza del potere giudiziario dagli altri poteri dello stato.

Voglio poi ricordare che nel 1953 si dimise clamorosamente dalla carica di vicepresidente della Camera in segno di protesta contro la “legge truffa”, che violava il principio costituzionale dell’uguaglianza del voto, attribuendo di fatto un “peso” maggiore ai voti degli elettori delle liste apparentate.

Infine, perché decise di entrare nello PSIUP? E qual è la sua eredità come socialista?

Negli anni della seconda guerra mondiale Targetti aveva maturato il convincimento che la borghesia era pronta a tutto pur di non rinunciare ai suoi privilegi e che l’unità proletaria, cioè la più stretta unità d’azione fra socialisti e comunisti, fosse la condizione indispensabile per la difesa della democrazia, degli interessi dei lavoratori e per la realizzazione di riforme di struttura che facessero avanzare il Paese verso il socialismo.

L’alleanza del PSI con la DC, che comportava ovviamente la divisione a sinistra, la rottura con i comunisti, gli parve quindi inaccettabile, gli sembrò un passo che avrebbe finito con lo snaturare il PSI, riducendolo al ruolo di caudatario della DC al pari degli altri partiti di centro. Le ragioni della sua opposizione all’ingresso dei socialisti in un governo di centrosinistra organico e, quindi, della sua adesione allo PSIUP nel 1964 furono queste.

Quanto all’ultima parte della tua domanda, direi che la risposta ce la fornisce la biografia di Targetti stesso, cioè la biografia di uomo che ha lottato contro la dittatura, difendendo sempre la democrazia e gli interessi dei lavoratori nel segno di un socialismo non edulcorato.