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Note di Memoria: il pianoforte di Maria Einstein

Il suono del pianoforte Blüthner è la colonna sonora armoniosa della casa colonica di Quinto, borgo alle porte di Firenze sulla strada di Sesto fiorentino, dove vivono i coniugi Paul e Maria Winteler, sorella di Albert Einstein. Proprio il noto scienziato le ha fatto dono del prezioso strumento musicale nel 1931, conoscendone bene l’intesa passione per la musica che, peraltro, condivide. Nonostante la lontananza fisica i due Einstein (lui in Germania, lei in Italia) sono infatti profondamente legati ed Albert non esita a sostenere ed aiutare la sorella nella vita semplice scelta per amore del suo Paul, avvocato svizzero, “ritirandosi” nella campagna fiorentina. Arte e cultura riempiono le giornate dei coniugi, lui dedito alla pittura lei alla musica, che allietano così i loro ospiti a partire da Albert nelle sue visite e soprattutto Hans-Joachim Staude giovane pittore tedesco.

 Nei turbolenti anni Trenta, segnati dal crescente rimbombare di  inni e rumori di guerra, in un’Italia in camicia nera, inquadrata dal regime fascista, l’abitazione pare una “bolla”, impermeabile all’esterno, definita non a caso da Maja “Samos”, quasi fosse una’incantata isola greca sottratta al tempo e allo spazio reale.

Ma anche le bolle prima o poi esplodono. La prospettiva bellicista e la svolta razzista del razzismo rendono sempre difficile astrarsi dalle preoccupazioni del presente e, infine, impossibile la loro stessa permanenza. A seguito dell’entrata in vigore della legislazione razzista contro gli ebrei varata dal governo fascista nell’autunno del ‘38, gli ebrei stranieri che non abbiano contratto matrimonio con cittadini italiani devono lasciare il Regno entro il 12 marzo 1939. Per Maria non ci sono alternative. Per la sola colpa di essere ebrea deve lasciare il proprio “paradiso terrestre”. Sollecitata dal fratello Albert che, fortemente preoccupato dall’evoluzione della politica tedesca dopo l’avvento al potere di Hitler e del nazismo, già nel 1933 era rimasto negli Stati Uniti al termine di un soggiorno di studi, non tornando più in Germania, anche Maria si decide a raggiungerlo. Ma prima di partire si preoccupa di mettere in salvo il suo pianoforte. Lo strumento, assai prezioso, non può correre i rischi di un viaggio, né può essere lasciato all’incuria di una casa abbandonata. Decide così è di affidarne la custodia a Staude, l’amico più caro, che lo conserva presso il proprio studio-abitazione nel cuore di Firenze. Poi Maja deve abbandonare la sua isola e congedarsi anche dal marito che intende prima tornare in Svizzera, iniziando così un viaggio che non avrà ritorno.

Ma la scelta si rivela, anche inconsapevolmente, perfetta. Infatti, negli anni successivi, quando divampa la seconda guerra mondiale – e lo stesso Staude deve arruolarsi per combattere per il Reich suo malgrado -, e, dopo l’8 settembre 1943 – armistizio italiano – i nazisti occupano la penisola,  l’essere nell’appartamento di un cittadino “ariano” salva il prezioso strumento sia dalle mire di questi che da quelle dei fascisti che, sotto l’autorità della repubblica sociale italiana, si scatenano in una feroce caccia agli ebrei e ai loro beni.  Proprio i pianoforti, così come ogni strumento musicale, sono peraltro fra i beni più ambiti dai nazisti che hanno costituito un vero e proprio comitato di esperti per valutarli e spedirli nelle destinazioni più opportune, a partire da uffici ed abitazioni dei vertici del partito, dello Stato e degli stessi campi di concentramento. A Firenze in particolare gli uomini del maggiore Carità e un fitto reticolato di apparati di sicurezza e di “gente comune” si specializza delle denunce e nei saccheggi delle abitazioni di ebrei, catturati e condotti sui vagoni destinati ad Auschwitz. Li fronteggia la rete di protezione voluta dal cardinale Elia Dalla Costa e da esponenti della Comunità ebraica e delle forze antifasciste: una vera e propria resistenza civile che, con consapevolezza diversa da parte dei suoi protagonisti riafferma, nell’ora più buia, il valore universale della fraternità umana. Nell’ora dell’indicibile e delle scelte supreme che interpellano la coscienza di ciascuno, tace il pianoforte di Maja, non è il tempo dell’armonia, ma del dolore, delle grida e del pianto.

Ma il pianoforte si salva: supera il pericolo di furti e saccheggi e rimasto illeso anche dal drammatico passaggio del fronte che investe Firenze nell’estate del 1944, con la decisione dei nazisti di minare i ponti e parte del centro storico per fare della città una trincea sulla quale rallentare l’avanzata nemica. E nel dopoguerra, dal ritorno dalla prigionia britannica, Saude può così ritrovarlo e sedervisi per ascoltarne le armonie, anche se ormai da solo.

Oggi il suono del pianoforte di Maja, deceduta a Princeton presso il fratello nel 1951, risuonano ancora sulla collina di Arcetri, presso l’Osservatorio astrofisico, grazie auna scelta illuminata della famiglia Staude, restituendo anche a noi le sue note di incantevole armonia, messaggere di memorie tragiche, di vite spezzate, di grandi passioni e ideali civili, monito per il presente e il futuro.

Il libro di Valentina Alberici  Il pianoforte di Einstein guarda le stelle non solo svela i dettagli di questo esito sorprendente della vicenda del pianoforte, ma soprattutto, con agilità e delicatezza, ripercorre, attraverso la storia dello strumento, qui richiamata, le tragiche esperienze degli Einstein segnati dalle persecuzioni e dalle terribili violenze perpetrate negli anni del conflitto. Accanto a Maria, si delinea quindi la tragica storia di suo cugino Robert, con il quale erano frequenti i contatti, risiedendo con la famiglia prima a Firenze poi presso la Villa del Focardo dove ha il suo drammatico epilogo. Attenta a richiamare con puntualità e correttezza il contesto storico, l’autrice sa restituire con efficacia l’atmosfera della casa dei coniugi Winteler, evidenziando così tutto il valore e la forza universale dell’arte, superiore ad ogni prova, sia pur pagando prezzi altissimi. Una lezione e un monito validi per l’oggi, che rendono opportuna oltre che piacevole e interessante la lettura di questo piccolo racconto.




Luigi Bertelli – Vamba

Luigi Bertelli, che diverrà famoso con lo pseudonimo di Vamba, nasce a Firenze il 19 marzo 1860, pochi giorni dopo il plebiscito che decretò con il suffragio universale maschile l’annessione della Toscana al Regno di Sardegna. Cresce in una famiglia censita come benestante impregnato dalle aspirazioni e dalle idee del Risorgimento nazionale. Abbraccia gli ideali mazziniani e la fede repubblicana che lo porteranno, dopo una breve esperienza impiegatizia alle Ferrovie adriatiche del finanziere toscano Piero Bastogi, a intraprendere la strada di giornalista politico, osservatore attento e critico della vita nella capitale romana dove si era trasferito. La politica italiana, nel frattempo, era passata in mano ai governi della sinistra dopo che la destra storica di Minghetti era andata in crisi nella seconda metà degli anni ’70 proprio sul controllo statale delle Ferrovie e per l’abbandono  di alcuni suoi deputati tra i quali Ubaldino Peruzzi.  Agostino Depretis, mazziniano e anticlericale,  fu il principale interprete della sinistra fino a tutti gli anni ’80: quattro volte Presidente del Consiglio, insieme all’eliminazione dell’odiata tassa sul macinato e a importanti riforme sociali, per dar maggiore forza al governo, diede inizio alla politica del ‘trasformismo’ che accettava l’appoggio degli avversari. Bertelli, in questi accordi tra gli opposti schieramenti politici, vedeva gli interessi velati, l’arrivismo personale, la moltiplicazione delle spese dello stato e si diede a evidenziarli con l’ironia, con il disegno caricaturale, cercando sempre una relazione con la realtà dei fatti.
Il nostro scrittore scelse dunque di essere un’anima critica esterna al potere, sempre pronto a evidenziarne le debolezze con ironia e sagacia come un antico giullare. Assunse perciò il nome di Vamba clonandolo dal Wamba, giullare della corte di Cedric, deus ex machina di Ivanhoe  romanzo di Walter Scott. Produsse scritti satirici, disegni e caricature che trovarono accoglienza in «Capitan Fracassa», 1884-1887, «Barbabianca», 1887, «Don Chisciotte», 1887-1899, «Il pupazzetto», 1886-1890 del quale scrisse e disegnò interi numeri.  Rientrò a Firenze per dirigere il «Corriere italiano» nel 1889 ma non riuscì ad ottenere l’autonomia e indipendenza  desiderata. Fondò e diresse «L’O di Giotto» un settimanale spigliato, di facile lettura, aperto al teatro e alle arti che fustigava ironicamente negli scritti e nei disegni i vizi civili dei personaggi politici, le spese militari eccessive, l’adesione alla Triplice alleanza, il pareggio di bilancio elevato a idolo supremo dell’azione governativa .

Il fervore delle idee radicali repubblicane non abbandona Bertelli che inizia a provare anche nuove vie. Molti aderenti al movimento risorgimentale che non avevano visto concretizzarsi gran parte delle loro aspirazioni ideali nella nuova nazione, si erano dedicati all’educazione del popolo: il fiorentino Pietro Dazzi, accademico della Crusca, diede vita alle Scuole del popolo; Carlo Lorenzini,  il famoso Collodi, fondatore e direttore di uno dei maggiori giornali umoristici della metà dell’Ottocento «Il lampione», volontario combattente nelle guerre d’Indipendenza,  si dedicò all’educazione dei giovani con Giannettino, Minuzzolo e le Avventure di un burattino che fecero assurgere Pinocchio a emblema della presa di coscienza di sé nel processo di crescita. Il torinese Edmondo De Amicis pubblicò Cuore nel 1886 che divenne la summa etico morale degli ideali risorgimentali laici. Senza dimenticare Ida Baccini con il grandissimo successo del suo Memorie di un pulcino, 1875, che utilizza l’antromoporfismo per affascinare i giovani lettori. Bertelli pubblica nel 1896 il suo primo libro di lettura per ‘giovanetti’: Ciondolino, storia di una ragazzo insofferente alle regole che aspira alla libertà del mondo animale e in particolar modo delle formiche, ma viene trasformato in una formichina e scopre le regole, il lavoro, l’organizzazione del formicaio e della sua ‘società’. Un processo di apprendimento fondamentale per la crescita e per la partecipazione cosciente alla vita.  L’autore non si limita al solo messaggio etico ma coglie l’occasione per iniziare una vera e propria divulgazione scientifica entomologica.

Il polemista ironico Bertelli-Vamba, sempre più disilluso dalla politica praticata nelle istituzioni e dal qualunquismo degli adulti, concentra ora le sue capacità nel messaggio educativo verso il mondo giovanile ideando, nel 1906 con l’editore Bemporad, un nuovo settimanale, «Il giornalino della domenica». Leggero, illustrato con disegni di qualità e foto, ricco di rubriche con interventi di scrittori affermati e di giovani intellettuali dal carattere spigliato, si propone di creare una comunità giovanile con organi associativi, tematici e decisionali per preparare alla vita adulta. I giovani vengono invitati a diventare attori della propria esistenza e a produrre un notiziario, «Il passerotto», per provare a esprimere opinioni e idee.  «Il giornalino della domenica» ha una confezione elegante a colori e un costo elevato (25 centesimi contro i 10 del «Corriere dei ragazzi») e si rivolge alle famiglie del ceto medio coinvolgendole non solo nell’acquisto della pubblicazione, ma nel messaggio pedagogico che si vuol trasmettere contro le ‘finzioni’ del mondo adulto.  In questo ambito Bertelli-Vamba viene a conoscenza di un racconto americano A Bad Boy’s Diary pubblicato dalla scrittrice progressista Metta Victoria Fuller sotto lo pseudonimo di Walter T. Gray e tradotto da Ester Modigliani con il titolo Memorie di un ragazzaccio. Bertelli-Vamba ne riprende la forma di diario e nasce Giannino Stoppani: dà una continuità temporale agli episodi che vedono questo ragazzino protagonista nel dissacrare l’ordine fasullo e formale degli adulti e affermare, scherzando, irriverenti verità non sempre accettabili. È un successo, Il giornalino di  Gian Burrasca esce a puntate su «Il giornalino della domenica» e poi in volume sempre da Bemporad nel 1912, la prima di centinaia di edizioni. Mentre il governo elimina gli ultimi ostacoli, di censo e istruzione, al voto universale maschile e nazionalizza le ferrovie aprendo a riforme sociali, Bertelli-Vamba fonda la sua repubblica tra i lettori de «Il giornalino della domenica» per liberare le energie della gioventù avvalendosi di numerosi intellettuali che condividono il suo intento. Tra questi ricordiamo: I. Baccini, P. Calamandrei, L. Capuana, E. De Amicis, G. Deledda, R. Fucini, D. Garoglio, P. Mantegazza,  U. Ojetti, G. Pascoli, D. Provenzal. Aveva parlato a tutti i giovani italiani, anche a quelli delle terre ancora nell’Impero austriaco, creando un legame personale e una immedesimazione nell’irredentismo.  Se il successo culturale del «Il giornalino della domenica» è indubbio, le vendite non sono sufficienti a sostenerlo e nel 1911 è costretto a chiudere. Bertelli continua l’attività scrivendo un libro scolastico per le scuole elementari, Il giardino, e articoli polemici anti-imperiali e di rivendicazione antiaustriaci nel clima sempre più aspro dell’interventismo e della prima guerra mondiale.

Nel dopoguerra è affascinato dall’esperienza fiumana di D’Annunzio e dalla costituenda Repubblica del Carnaro che mescola patriottismo, eroismo, volontarismo e aspirazioni sociali e di democrazia. Vi trascorre alcuni mesi alla fine del 1919. L’Italia usciva dalla guerra fortemente indebitata e Bertelli-Vamba volle impegnarsi per il successo del Prestito nazionale, il primo per la ricostruzione e la vita, dopo i tanti investimenti governativi per la guerra e la morte. Girando il paese per propagandare il Prestito, nel 1920 contrasse l’influenza spagnola, l’epidemia  che proprio cent’anni fa stava falcidiando le popolazioni di tutto il mondo, e morì a 60 anni a Firenze il 27 novembre 1920.

Fu sepolto al cimitero delle Porte Sante e il monumento funebre venne commissionato allo scultore Libero Andreotti.  I necrologi e i ricordi furono numerosi e retorici:  vogliamo citare tra i tanti un brano di Piero Calamandrei, già giovane autore del  «Giornalino della domenica», su un numero unico del Comitato delle città redente: “… L’insegnamento di Vamba si compendia in due concetti: Patria e Umanità. Il suo programma, schiettamente mazziniano, non si fermava alla Patria: come l’amor della famiglia fu per lui il punto di partenza per ascendere a un più ampio senso di solidarietà nazionale, così dall’idea di Patria egli trasse l’ispirazione per assurgere all’idea di una Umanità pacificata nella fratellanza di tutti i popoli liberi. …




ROSARIA BERTOLUCCI, romana di nascita versiliese d’adozione

Rosaria Ciampella nasce a Roma il 23 aprile 1927 da una famiglia borghese, riceve una formazione culturale essenzialmente umanistica dalla quale trae l’amore per la letteratura e la storia.

Di fronte alla drammaticità della guerra, al disastro italiano e allo shock del primo grande bombardamento di Roma, il 16 luglio 1943, che causò oltre tremila morti e undicimila feriti, la giovane Rosaria matura la propria scelta di vita, iscrivendosi al Partito socialista – anche se poi non militerà mai attivamente nell’organizzazione –[1]. All’ideale del socialismo è sempre rimasta fedele seppur negli anni della maturità si sia avvicinata anche alla cultura libertaria.

Nel novembre del 1944 supera, con un buon risultato, il concorso di ammissione alla Facoltà di Magistero di Roma per il corso in materie letterarie ma, la precarietà della situazione generale dovuta alla guerra che condiziona la vita della sua famiglia e il successivo precoce matrimonio, la costringeranno con rammarico ad abbandonare gli studi universitari.

Dunque, originaria di Roma ma ‒ come amava definirsi ‒ versiliese d’adozione, in questa terra approda nel 1946 quando si sposa con un giovane di Pietrasanta. Durante questi anni non abbandona la propria voglia di scrivere e di leggere; ne sono testimonianza alcune lettere a direttori di periodici e riviste a cui invia i propri lavori, tra questi lo scrittore Corrado Alvaro che esprime il proprio apprezzamento per la sua scrittura[2].

Nel 1969 approda a Carrara dove gestisce una libreria e dove inizia un’intensa attività culturale e giornalistica. In questi anni conosce e frequenta assiduamente molti esponenti della cultura e dell’arte di Carrara, della Versilia e non solo come il fotografo Ilario Bessi, lo scultore Carlo Sergio Signori, il pittore Mino Maccari, la pianista Pina Telara e lo scrittore Carlo Cassola[3].

Nel 1978 arriva il riconoscimento più importante, è il primo premio assoluto per la narrativa al Morganti di Viareggio per il suo lavoro su Enrico Pea[4], precedentemente il saggio era stato selezionato nella sezione saggistica opera prima al Premio Viareggio, all’epoca ancora diretto da Leonida Repaci[5].

Sibilla_Aleramo_006In pochi anni – dal 1978 al 1983 – pubblicherà cinque monografie di storia della letteratura, oltre a quella su Pea, un saggio su Tomasi di Lampedusa[6], un altro su Cardarelli[7], quello sullo pittore/scrittore viareggino Lorenzo Viani che riceverà poi il premio Montecatini (VII edizione)[8] e, infine, uno studio su Sibilla Aleramo[9].

Di quest’ultima opera si evidenzia, in una recensione pubblicata dalla redazione viareggina de «La Nazione», che la scrittrice “versiliese” ha voluto scegliere «una particolare angolazione» per analizzare l’opera della Aleramo indagando non solo l’aspetto intellettuale ma anche la «donna» e con uno stile asciutto e semplice ha stilato «un profilo squisitamente femminile, al tempo stesso immerso nei problemi contemporanei»[10]. Il testo è aperto da una  presentazione di Carlo Cassola che aveva letto e apprezzato il lavoro in bozze nella primavera/estate del 1980.

Questi saggi rappresentano il principale corpus di critica letteraria di Rosaria Bertolucci, scritti con una lingua ricca e fluida, alimentata da una tensione interna sì che molte sono le pagine in cui la prosa si rivela, a volte, autentica poesia, corredati da un’accurata documentazione, testimonianza tangibile dell’attenzione alla narrativa contemporanea.

In particolare il saggio dedicato a Viani scrittore riesce a ricostruire e reintegrare da un punto di vista storico tutto l’arco dell’esperienza umana del pittore viareggino, narratore e poeta di personaggi della cultura sotterranea e dei senza volto della Versilia.

Il libro verrà presentato alla biblioteca comunale Lorenzo Quartieri di Forte dei Marmi il 17 maggio 1980. Nell’occasione interverrà Vittorio Vettori, poeta, scrittore, critico letterario e dantista[11], che avrà parole di elogio, sottolineando come l’opera critica sullo scrittore Viani della Bertolucci è

un omaggio intelligente e affettuoso alla terra versiliese e all’estroso ed energico genius loci da cui essa è abitata. Chi infatti è più vicino di Viani a tale estro e a tale energia? E anzi si potrebbe dire che il vero genius loci della Versilia sia lui, Lorenzo Viani in persona, così come ci viene incontro dal mirabile monumento viareggino di Arturo Martini, così come – sopra tutto – possiamo sempre ritrovarlo e riscoprirlo nella drammatica galleria delle sue incisioni e delle sue tele non meno che nelle appassionate e appassionanti testimonianze della sua geniale presenza di singolarissimo outsider del Novecento letterario italiano. Rosaria Bertolucci si è accostata appunto al Viani scrittore, rinvenendone fin dal principio il tratto distintivo fondamentale: il colorismo espressionistico e quindi non descrittivo, ma tragico della «parola».
«Parola come colore», la formula critica adoperata dalla Bertolucci nel sottotitolo del suo libro, risulta felicemente indicativa e calzante, se la si intende, com’è ovvio, in rapporto alla speciale figuratività dell’arte di Viani pittore e incisore, in rapporto alla luce cruda e tagliente che si raggruma e si fa colorata espressione (o espressivo colore) in quell’arte[12].

Ma torniamo a Pea: il libro che esce a maggio del 1978[13], è forse quello più amato dalla Bertolucci non solo perché è il primo ma perché le permette di introdursi in punta di piedi nei salotti culturali versiliesi. È presumibile che l’idea del libro sullo scrittore versiliese sia nata qualche anno prima, grazie all’incontro con l’insegnante Emilio Paoli, un testimone attento dell’ultimo periodo di vita di Pea, suo estimatore e critico, autore di un prezioso volume sulla sua poetica[14].

Il volume viene presentato il 15 luglio a Forte dei Marmi, proprio al Quarto platano al caffè Roma di Piazza Garibaldi, luogo simbolo, cenacolo di artisti e scrittori della prima metà del Novecento[15]. Alla presentazione partecipano i figli di Pea, lo scrittore Rodolfo Doni[16], il professore Giovanni Scarabelli, Roberto Monciatti – presidente dell’ACREL di Viareggio – e i titolari della Libreria Internazionale che sono fra gli organizzatori[17].

Pea_Enrico_004L’interesse e gli studi su Pea fanno sì che la Bertolucci incontri l’editore Marco Carpena di Sarzana[18]. Quest’ultimo è stato fondatore tra il 1952 e il 1954, insieme con Renato Righetti e Giovanni Petronilli del premio Lerici, dedicato alla poesia inedita, ai quali si aggiunge poco dopo anche Enrico Pea. Nel 1958, alla morte dello scrittore versiliese e in suo ricordo, l’appuntamento letterario diventerà premio Lerici-Pea.

Dall’incontro con Carpena nascono due progetti editoriali nei quali la Bertolucci è coinvolta pienamente.

Il primo è un instant-book che prende vita proprio sull’onda dell’anniversario della scomparsa dello scrittore versiliese, Pea vent’anni dopo[19], che esce per i tipi di Carpena nel settembre del 1978 e che contiene ben sei interventi della Bertolucci che cura senza firmarla anche la bibliografia finale del volume[20].

Il secondo è collegato alle giornate di studio che si terranno a Viareggio nel mese di aprile del 1980[21]. Nell’occasione si svolge un’importante tavola rotonda cui partecipano oltre alla Bertolucci, i docenti dell’Università di Pisa, Carlo Quiriconi e Anna Barsotti, insieme a Silvio Guarnieri, autorevole critico letterario e titolare sempre presso l’ateneo pisano della cattedra di Storia della Letteratura italiana. Gli atti di quella tavola rotonda verranno editi da Carpena e ancora oggi sono un utile riferimento bibliografico per la conoscenza dello scrittore versiliese[22].

Nel 1979 esce Il principe dimenticato recensito positivamente dallo studioso Emilio Paoli nelle pagine del «La Nazione». L’opera della Bertolucci è considerata «uno studio serio e sereno su tutta l’opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa» e propone «una rilettura» a tutto tondo dello scrittore siciliano rompendo il silenzio della critica a vent’anni dalla prima edizione del Gattopardo[23].

Anche lo studio su Vincenzo Cardarelli, che riceverà il 1° premio Casentino per la saggistica[24], è dedicato ad un aspetto poco conosciuto del poeta quello di pubblicista, soprattutto legato alla sua collaborazione giovanile al quotidiano socialista l’«Avanti!» dove inizia la propria attività come correttore di bozze. In queste cronache, studiate dalla Bertolucci e, allora, poco analizzate dalla critica, Cardarelli mostrava di essere un acuto osservatore del costume e dell’ambiente romano in un momento cruciale e delicato della storia del Paese e attraversato da mille inquietudini, quello che precedette il primo conflitto mondiale[25].

Parallelamente a queste attività dal 1977 la Bertolucci inizia a collaborare stabilmente con la stampa quotidiana locale, suoi scritti si ritrovano sia nella cronaca versiliese che in quella di Carrara de «La Nazione». La collaborazione a questo quotidiano, che si protrarrà per dodici anni consecutivi, verte essenzialmente su due ambiti: quello sociologico e quello storico/culturale cui dedica una produzione attenta di tipo divulgativo.

Per la Bertolucci capire la storia significava comprendere i rapporti causa-effetto che legavano il presente al passato. Per cogliere i frutti della storia, quindi, era necessario che questa fosse conosciuta il più approfonditamente e dal maggior numero di persone possibili. E per raggiungere questo obiettivo era fondamentale che la storia, oltre ad essere insegnata bene nelle scuole, venisse anche divulgata. È dunque soprattutto in questo senso che va letto il suo lavoro che mira alla divulgazione della storia politica, sociale e culturale del territorio attraverso un fiume prorompente di articoli e saggi sparsi su quotidiani, riviste e pamphlet. La scrittrice opera un’intelligente e originale sintesi dei diversi aspetti che connotano il profilo di una comunità, ricostruendo gli eventi in maniera rigorosa, ma non accademico, utilizzando lo stile, piano e ordinato, accattivante e fluido tipico dei divulgatori.

Negli oltre novecento articoli e scritti vari di quegli anni, ne spiccano un centinaio che – direttamente o indirettamente – trattano della storia sociale, economica, politica e culturale nella città del marmo e del territorio apuo-versiliese, ora in parte raccolti in un volume appena uscito[26]. Non sono banali articoli di cronaca, ma veri e propri saggi di ambito storico che il lettore di allora de «La Nazione» poteva leggere come capitoli di un libro in divenire.

L’azione svolta dalla Bertolucci tramite le pagine del giornale non passò inosservata tanto che due “anziani” militanti dell’anarchismo, come Ugo Mazzucchelli e Umberto Marzocchi, la vollero conoscere e coinvolgere nelle loro attività.

La Bertolucci aveva già iniziato da tempo un approfondito studio sulla storia di Carrara e del suo territorio. Ne sono testimonianza diversi articoli che escono nel 1978, sempre sulle pagine de «La Nazione», dedicati a figure locali e/o nazionali la cui storia si è intersecata con quella della città del marmo come Cesare Vico Lodovici, Giovanni Fantoni, Domenico Cucchiari, Gabriele D’Annunzio, Antonio Stoppani, Lorenzo Viani, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi e Pellegrino Rossi.

Va ricordato che in questi anni la Bertolucci è un’assidua frequentatrice dell’Archivio di Stato di Massa e dei principali centri culturali del territorio come le Biblioteche civiche di Carrara e di Massa, l’archivio e la biblioteca dell’Accademia di Belle Arti, quella della Camera di Commercio di Carrara. Conosce e frequenta le raccolte private di alcune famiglie, come quella di Paolo Micheli Pellegrini[27] e di Cesare Vico Lodovici, di cui conosce e frequenta il fratello Renato o quella di esponenti politici come il comunista Antonio Bernieri che, proprio nel 1977, insieme a Lorenzo Gestri aveva fondato l’Istituto di Ricerche e Studi Storici Apuo-Lunense. Infine, conosce e studia materiali preziosi per la storia novecentesca della città, come il diario dattiloscritto, dal 21 giugno 1944 al 22 maggio 1945, di Augusto Ciaranfi, direttore della Banca Commerciale, succursale di Apuania, all’epoca ancora inedito[28].

Una prima prova delle capacità che la Bertolucci ha acquisito nella lettura integrata dei fenomeni sociali, culturali e politici si ha in occasione della pubblicazione di un’inchiesta storica sulla nascita e lo sviluppo della stampa periodica nella provincia che esce a puntate tra l’aprile e il giugno del 1979 nelle pagine di cronaca locale della «Nazione»[29].

Dunque, quando la Bertolucci incontra Mazzucchelli e Marzocchi, i due sanno benissimo chi hanno di fronte e capiscono che un accordo tra i tre è potenzialmente foriero di buone iniziative. Gli anziani militanti, ormai prossimi agli ottant’anni, hanno l’urgente bisogno di trasmettere alle future generazioni non solo la propria storia ma anche quella della loro generazione. Si mettono subito al tavolo di lavoro e l’intesa è ben presto trovata. È presumibile che la prima idea sia proprio quella di un progetto che riguarda un momento essenziale delle memorie dei due militanti: l’esperienza spagnola per Marzocchi e quella resistenziale per Mazzucchelli. Non sarà un caso, come vedremo, l’uscita nel 1988 della biografia di Ugo Mazzucchelli[30] mentre per quella di Marzocchi il progetto, a causa della malattia e poi della morte del protagonista nel giugno del 1986, non vedrà la luce.

Novantaquattro_003La creatività e lo spirito d’iniziativa la portano a travalicare l’accordo e a progettare, una storia romanzata del moti del ’94. Durante tutto il 1980 la Bertolucci lavora intensamente e nell’autunno consegna la bozza ai due militanti, che l’approvano senza esitazione, e nel febbraio del 1981 vede la luce Milleottocentonovantaquattro[31].

Nel volume emerge con forza la vene letteraria dell’autrice che, in una lettera di accompagnamento alla pubblicazione, nel rivendicare che i moti «sono un fenomeno carrarese e non genericamente della Lunigiana», avverte «di non aver scritto un testo di storia né tanto meno un saggio rivolto agli addetti ai lavori», ma di aver voluto semplicemente raccontare in forma prosastica ai più giovani quanto era avvenuto alla fine dell’Ottocento. L’aver scelto la «forma del racconto» non vuole minimamente sminuire il significato e la portata politica, sociale e storica di quei fatti ma tentare di «farli rivivere, intatti ed attuali», come un «frammento di storia locale umanamente vissuto sullo sfondo di un più vasto contesto» nazionale e internazionale[32].

Il libro viene presentato a Carrara il 6 aprile 1981 nella sala comunale con la partecipazione di storici come Lorenzo Gestri[33] e Nunzio Dell’Erba.

Contemporaneamente la Bertolucci ha avviato una ricerca riguardante la storia della ferrovia marmifera che, nonostante ormai fosse chiusa da quasi due decenni, continuava a far discutere la politica locale a causa della pratica di liquidazione dei suoi debiti pregressi, insomma, come in anni più tardi scriverà la scrittrice, tutta la storia di questa impresa rappresentava, con i suoi protagonisti e con le sue vittime, una tipica vicenda all’italiana.

Il saggio è il primo lavoro in assoluto che ricostruisce complessivamente tutta la storia di questa ardita arteria ferroviaria, inaugurata nella seconda metà dell’Ottocento, che collegava i bacini marmiferi con la stazione ferroviaria di Avenza e il porto marittimo di Marina di Carrara. Il lavoro venne pubblicato a puntate sulla rivista «Carrara marmi» del Centro studi del marmo del Comune, tra il 1980 e il 1982[34], poi successivamente è stato ripubblicato dal quotidiano «le Città», anche se in forma ridotta, e poi utilizzato per alcune lezioni tenute dalla Bertolucci  all’Università della Terza Età nel secondo biennio di attività dei corsi, tra il 1989 e l’inizio del 1990.

Dunque, la Bertolucci, è un’attenta e curiosa studiosa di storia locale e non manca di partecipare a ogni evento di ambito storiografico che si svolge in città. Nell’aprile del 1980 assiste al convegno organizzato dall’Istituto di Ricerche e Studi Storici Apuo-Lunense sulla resistenza in Apuania che vede la partecipazione di esponenti di rilievo nazionale tra i quali il senatore Leo Valiani, Leonetto Amadei, presidente della Corte costituzionale, lo storico Franco Catalano e Franco Francocivh, presidente dell’Istituto storico regionale della Resistenza. L’incontro, di cui la Bertolucci darà un puntuale resoconto dalle pagine de «La Nazione»[35], è un ulteriore stimolo allo studio della guerra civile che ha insanguinato il nostro paese prima nel biennio nero del 1921-’22 e poi tra il 1943-’45, e che aveva profondamente segnato la storia della provincia di Massa e Carrara.

L’argomento verrà trattato dalla Bertolucci in più di un’occasione e poi, come detto, troverà una sintesi nella biografia del partigiano anarchico Ugo Mazzucchelli.

In quello stesso anno il regista Luigi Faccini presenta il film Nella città perduta di Sarzana che viene poi proiettato nella sezione Controcampo alla Biennale di Venezia. Il film racconta un episodio drammatico della guerra civile, accaduto a Sarzana il 21 luglio 1921, tra fascisti e antifascisti dove i primi ebbero la peggio. Il film è strutturato sulla dettatura del rapporto da parte del prefetto Vincenzo Trani, incaricato dall’allora Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi, di riportare la pace e l’ordine nella cittadina. Il film, che nell’estate dell’anno successivo verrà trasmesso in due serata anche dalla RAI, fu proiettato in diverse città italiane, tra cui Carrara, suscitando dibattiti e prese di posizione.

Anche la Bertolucci intervenne con un articolo pubblicato dalla «Nazione» in due parti ai primi di settembre. Lo scritto si soffermava in particolare sul ruolo del ras Renato Ricci, ricostruendone anche in parte la biografia. Ad analizzare l’articolo si comprende come la scrittrice tentasse di capire come fosse nata, anche in una città di provincia come Carrara, quella frattura nella società italiana, causata dalla guerra civile proclamata dal fascismo, che avrebbe avuto un seguito non solo nel 1943-’45 ma anche nefaste influenze nella storia repubblicana.

Successivamente si impegna nello studio della Resistenza a Carrara di cui un primo abbozzo viene pubblicato a puntate nella primavera del 1984 in sette puntate da «La Nazione» tra l’aprile e il maggio 1984. La ricerca, costruita sulla documentazione dell’archivio del CLN conservato a Firenze presso l’Istituto Storico Regionale della Resistenza, e su testimonianze dirette di alcuni protagonisti come lo stesso Mazzucchelli, Antonio Bernieri e altri.

Nell’autunno del 1988 esce l’ultima monografia della Bertolucci, quella dedicata proprio a Ugo Mazzucchelli, con la quale si completa il ciclo di studi avviato dieci anni prima sulla genesi dell’antifascismo locale e sull’esperienza resistenziale.

Il libro viene presentato sabato 19 novembre 1988 al Centro culturale Amendola di Avenza, con la partecipazione accanto all’autrice e a Ugo Mazzucchelli, degli storici Enzo Santarelli e Pier Carlo Masini. Per il primo il libro non vuole essere un saggio e nemmeno una semplice biografia e ha la sua ragion d’essere nell’«aria» di Carrara e nella figura particolare di Mazzucchelli, un anarchico ragionante. Mentre, per Masini il libro rappresenta bene lo spirito di questa terra «incline al radicalismo», come altri territori dell’Italia centrale, Umbria, Marche, Romagna e parte dell’Emilia, dove la «spinta verso forme politiche tese alla libertà e alla democrazia» è stata la principale risposta a lunghi anni di governi reazionari e repressivi.

Un’ampia recensione del libro viene pubblicata dal quotidiano «le Città» nel quale si sottolinea forse il pregio maggiore del libro che è quello di essere volutamente «divulgativo, scritto non per storici o per specialisti di storia locale, ma per far conoscere questa figura di uomo a tutti», al di là degli schieramenti precostituiti. Uno strumento utile per comprendere non solo la vita di Mazzucchelli, che l’editorialista definisce «costruttore di storia», ma anche le peculiarità di un movimento, come quello libertario, che ha avuto una storia così complessa e articolata nel territorio apuano. Un libro «dichiaratamente di parte» dove, inevitabilmente, la «Bertolucci subisce il fascino del personaggio» ma con uno stile giornalistico sa renderlo nella sua più piena dimensione umana e politica[36].

L’approccio biografico scelto dalla Bertolucci, per raccontare una pagina importante della storia novecentesca dell’anarchismo a Carrara, si inserisce bene sul piano storiografico in quegli anni nei quali il genere biografico si va affermando nella ricerca storica. Un approccio innovativo che mette al centro delle attenzioni del lettore l’individuo come entità al quale ricongiungere la ricostruzione storiografica. Una narrazione nella quale vengono coniugati oltre agli aspetti prettamente storico-politici anche quelli di natura sociologica, culturale, antropologica e psicologica, un approccio che troverà nei decenni successivi ampia fortuna nella storiografia dedicata al genere biografico. Una questione, quella dell’affermazione del genere della biografia nella storiografia contemporanea, che solleciterà Alceo Riosa, nei primi anni Ottanta, a interrogarsi sulla relazione tra la «crisi dello storicismo» e l’ingresso della biografia nel tempio di Clio:

La perdita della dimensione teologica della storia ha favorito una più larga attenzione verso gli agenti storici, gli uomini, le motivazioni delle loro scelte, non più riportabili allo Spirito del Mondo né più unicamente riferibili alle leggi della struttura economica. L’uomo nella storia certo, ma con una sua autonomia e relativa libertà di scelta[37].

Nel febbraio 1988 la Bertolucci è tra le promotrici dell’Università della Terza età organizzata dalla Comunità montana e dalla Circoscrizione 4 del Comune di Carrara. È titolare del corso di storia locale e, nell’estate del 1988 e in quella successiva, anche di un corso di latino per le prime classi dei licei e dei ginnasi sempre su incarico dell’amministrazione comunale.

Le forze iniziano a mancare: nella primavera del 1989, gli effetti della malattia si fanno più palesi e deve ridurre le sue attività, alla fine dell’anno chiude l’agenzia libraria e sospende le sue collaborazioni alle diverse testate giornalistiche. Ha ancora la forza per portare a termine le lezioni del secondo ciclo dell’Università della Terza Età e completare il suo ultimo libro, quello dedicato al fotografo Ilario Bessi, scomparso tre anni prima, testo che cura, come già accennato, con due dei colleghi giornalisti, Romano Bavastro e Vittorio Prayer, con cui ha condiviso dodici anni di professione e lavoro comune[38].

Una stagione unica e irripetibile crediamo, quella vissuta dalla scrittrice, nella quale la cultura locale trovò una persona sensibile, leale e generosa che ha fatto conoscere ad un ampio pubblico la storia sociale e politica del territorio apuo-versiliese e della città del marmo, una città – e con essa molti dei suoi cittadini –  che la scrittrice ha tanto amato e che l’ha resa felice. Per questo le siamo infinitamente grati e riconoscenti.

Rosaria Ciampella Bertolucci muore all’ospedale civile di Camaiore il 28 ottobre 1990.

Note

[1] Nell’archivio personale della Bertolucci è conservata la tessera n. 261300, anno 1945, della Sezione del rione Trevi di Roma. Nelle carte è conservato anche un biglietto/invito, con data 15 maggio 1945, della sezione ANPI III zona Monte Sacro indirizzato alla “partigiana Rosaria Ciampella” per una conferenza pubblica il 20 maggio del partigiano Riccardo Antonelli, in occasione dell’inaugurazione della Sezione partigiani del Circolo socialista. Quest’ultimo è stato il comandante della III zona, arrestato dai nazi-fascista il 16 maggio 1944 è torturato in via Tasso senza cedere ai suoi aguzzini. Durante gli anni dell’occupazione nazi-fascista di Roma è probabile che Rosaria abbia stretto vincoli sodali di collaborazione, soprattutto in ambito socialista, nella lotta antifascista e questo biglietto ne è una prova ma, per la sua giovane età e per la mancanza di ulteriore documentazione non possiamo stabilire una sua partecipazione diretta alla Resistenza.
[2] Archivio BFS, Carte R. Bertolucci, Corrispondenza, Lettera di C. Alvaro a R. Bertolucci, Roma, 28 agosto 1946.
[3] Carlo Cassola (1917-1987), antifascista, partigiano scrittore e saggista di fama internazionale, quando conosce la Bertolucci è particolarmente impegnato con il progetto della Lega per il disarmo unilaterale e nell’ambito di queste attività conosce e frequenta gli anarchici, in particolare Ugo Mazzucchelli e Umberto Marzocchi.
[4] Premio 1978 «A. Morganti». Resi noti i vincitori, «Il Tirreno» (cronaca di Viareggio), 12 lug. 1978.
[5] Viareggio, seconda rosa, «La Nazione», 2 giu. 1978; I concorrenti al «Viareggio» per l’opera prima, «Il Tempo», 2 giu. 1978.
[6] R. Bertolucci, Il principe dimenticato, Sarzana, Carpena, 1979.
[7] R. Bertolucci, Cardarelli sconosciuto, Firenze, La Ginestra, 1980.
[8] Lorenzo Viani scrittore e Cardarelli pubblicista. Due nuovi libri di Rosaria Bertolucci, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 2 aprile 1980. Cfr. A Rosaria Bertolucci il premio Montecatini, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 28 novembre 1981.
[9] R. Bertolucci, Sibilla Aleramo, una vita, prefazione di Carlo Cassola, Viareggio-Avenza, Centro studi di letteratura contemporanea-Centro studi sociali e Sea, 1983.
[10] Fr. A., Saggio su Sibilla di Rosaria Bertolucci, «La Nazione» (cronaca di Viareggio), 25 set. 1983.
[11] Vittorio Vettori (1920-2004) originario del casentino ha vissuto tutta la sua vita a Firenze, è stato presidente dell’Accademia Pisana dell’Arte-sodalizio dell’Ussero, segretario generale dell’Associazione «Amici della Rassegna di Cultura e vita scolastica», Membre d’honneur della Société libre de poésie di Parigi e fondatore nonché direttore della «Lectura Dantis Internazionale» di Pisa.
[12] Il testo del suo intervento si può leggere in V. Vettori, Figuratività e scrittura di Lorenzo Viani, «Messaggero Veneto», 18 mag. 1980.
[13] Esce «Pea uomo di Versilia» nel ventennale della morte, «Il Tirreno» (Cronaca della Versilia), 23 mag.1978; Un libro su Pea «uomo di Versilia», «Il Tirreno» (Cronaca della Versilia), 24 mag. 1978.
[14] Cfr. E. Paoli, Pea: la poesia della malizia, Sarzana, Carpena, 1973.
[15] Cfr. R. Pellegrino, Vent’anni fa moriva Pea, oggi solenne commemorazione, «Il Tirreno» (cronaca regionale), 11 agosto 1978.
[16] Rodolfo Doni, nom de plume di Rodolfo Turco (1919-2011), è stato uno scrittore e banchiere considerato uno dei più rappresentativi intellettuali d’ispirazione cattolica del ’900.
[17] Ricordato Enrico Pea nel ventennale della morte, «La Nazione» (cronache della Versilia), 20 lug. 1978. In ricordo di Enrico Pea, «La Nazione» (cronache della Versilia), 14 lug. 1978; Commemorato E. Pea, «Il Tirreno» (Cronaca di Viareggio), 18 lug. 1978; Presentato al Forte il libro «Pea uomo di Versilia», «La Nazione» (cronache della Versilia), 21 lug. 1978. M.B., Incontro su «Pea uomo di Versilia», «L’Ariete», set. 1978, p. 19.
[18] Marco Carpena (1914-1985) è un noto animatore culturale soprattutto nei decenni Cinquanta-Settanta non solo nell’ambito editoriale.
[19] Pea vent’anni dopo, Sarzana, Carpena, 1978. Contiene interventi oltre che della Bertolucci di Emilio Paoli, Marco Carpena, Alfredo Catarsini, Danilo Orlandi, Eugenio Pardini, Giovanni Petronilli e Renato Santini. Si v. a proposito la recensione di A. Caggiano, Pea vent’anni dopo, «Giustizia nuova», 15 dic. 1978.
[20] Si tratta dei saggi: Nella libreria di Franceschi; L’amicizia con Ungheretti; Primo ritorno in patria; La capanna della Bohème; Confidenze in libreria, pp. 27-37; Sintesi biografica, pp. 69-71. La bibliografia delle opere di Pea, l’elenco dei racconti ed articoli per quotidiani e riviste e la rassegna hanno scritto su Enrico Pea, pp. 72-83.
[21] La settimana di studio su Enrico Pea si svolge a Viareggio dal 14 al 20 aprile 1980 con una mostra bio-bibliografica alla Biblioteca comunale, la tavola rotonda il 19 aprile e una rappresentazione del Maggio in Passeggiata di fronte a Piazza Mazzini. Cfr. Viareggio ricorda il «suo» Enrico Pea, «Il Popolo», 13 mag. 1980.
[22] Dedicato a Enrico Pea: settimana di studio, 14-20 aprile 1980, Biblioteca Comunale “Guglielmo Marconi”, Viareggio, curatori: O. De Ambris, M. Simoncini, A. Vannucci; tavola rotonda: A. Barsotti, R. Bertolucci, S. Guarnieri, A. Quiriconi, Sarzana, Carpena, 1980.
[23] E. Paoli, Scrittrice versiliese ripropone Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il Principe dimenticato, «La Nazione» (cronaca della Versilia), 15 apr. 1979.
[24] A Rosaria Bertolucci il premio «Casentino» di saggistica, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 9 ago. 1979.
[25] Rosaria Bertolucci: due preziosi saggi, «La Nazione» (cronaca di Viareggio), 9 apr. 1980.
[26] R. Bertolucci, La città perduta. Storie e ritratti di Carrara e del territorio apuano-versiliese tra ’800 e ’900, Pisa, BFS edizioni, 2020.
[27] Paolo Micheli Pellegrini (1924-2007), discendente di una famiglia aristocratica. persona di grande erudizione, nonché formidabile collezionista di documenti storici è stato nel 1994 tra i fondatori dell’Accademia Aruntica.
[28] Cfr. A. Ciaranfi, Diario della Banca commerciale italiana succursale di Apuania Carrara dal 21 giugno 1944 al 22 maggio 1945, Carrara, Edizione per il comune di Carrara a cura di Acrobat Media ed., 2005.
[29] L’inchiesta venne pubblicata su «La Nazione» (cronaca di Carrara) in cinque puntate.
[30] Cfr. R. Bertolucci, A come anarchia o come Apua: un anarchico a Carrara, Ugo Mazzucchelli, introduzione di P. C. Masini, Carrara, FIAP, 1988, ristampato poi con il titolo Ugo Mazzucchelli un anarchico e Carrara, Carrara, Società editrice apuana, 2005.
[31] R. Bertolucci, Milleottocentonovantaquattro storia di una rivolta, Carrara, Gruppo anarchici riuniti (G.A.R.), 1981.
[32] Cfr. Storia di una rivolta. Edito dai Gar è uscito un interessante saggio di Rosaria Bertolucci sui «moti» del 1894, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 11 mar. 1981.
[33] Lorenzo Gestri (1943-2002), docente di storia contemporanea presso l’Università di Pisa è stato un fine e profondo conoscitore della storia sociale e del movimento operaio carrarese e in generale della Toscana Nord-Occidentale.
[34] R. Bertolucci, La Ferrovia marmifera forse una storia (1a parte), «Carrara marmi», mar. 1980, pp. 16-21. 2a parte, mar. 1981, pp. 21-24; 3a parte, mar. 1982, pp. 17-24; 4a parte, giu. 1982, pp. 13-18; 5a parte, set. 1982, pp. 21-23.
[35] R. Bertolucci, Al convegno di studi storici. La Resistenza cominciò nel ’21, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 3 aprile 1980.
[36] Ugo Mazzucchelli costruttore di storia. È uscito il libro edito dalla SEA, «le Città», 3 nov. 1988.
[37] Cfr. Biografia e storiografia, a cura di A. Riosa, Milano, F. Angeli, 1983, p. 13.
[38] «Luci di marmo». Omaggio al maestro e alla sua città, «La Nazione» (cronaca di Carrara), 10 dic. 1989.




Ersilio Ambrogi: antifascista o informatore dell’OVRA?

Un quadro: i termini della questione

«Non rischiamo di essere smentiti affermando che il Pnf ha ricevuto l’apporto di gruppi compatti da tutti i partiti politici, eccetto che dal partito comunista»[1]. Nell’aprile 1928, in una serrata difensiva sulle pagine di «Stato operaio», Secondino Tranquilli tentava di scagionare così il presunto cedimento di alcuni militanti comunisti di fronte alle pressioni della polizia fascista. Pur cariche di impegno politico, tuttavia, le parole dell’intellettuale marsicano – poi conosciuto con lo pseudonimo di Ignazio Silone – poggiavano su fondamenta decisamente instabili. Ad oggi, infatti, il graduale accesso alle fonti archivistiche ha mostrato quanto e come – in realtà – le cellule comuniste si fossero rivelate uno dei terreni d’infiltrazione più fertili per il regime[2].

D’altronde, fin dal 1923, il modo in cui il partito si era attrezzato ad una situazione di semilegalità ne aveva fatto il principale obiettivo della Polizia politica guidata da Arturo Bocchini. Già nel 1925 una prima retata aveva assestato forti danni a molte federazioni, permettendo all’Ovra di acquisire preziose informazioni su militanti di base, segretari e dirigenti; operazioni destinate a moltiplicarsi tra il 1926 e il 1927, quando i fascisti riuscirono ad intercettare anche uomini e indicazioni orbitanti attorno al Centro estero del Pcd’I[3]. Come ciò avvenne non è difficile da immaginare: l’ampiezza e la profondità organica della rete clandestina comunista – studiate con accuratezza dalla macchina poliziesca – avevano reso relativamente semplice l’inserimento di agenti segreti, spie e osservatori in borghese, nonché la creazione di canali diretti con alcuni dissidenti dalla linea adottata dall’Internazionale. Se l’individuazione degli emissari del Centro costituiva una priorità assoluta, inoltre, quella disposta nei confronti dei simpatizzanti restava una morsa flebile, avvolta dalla consapevolezza che prima o poi sarebbero serviti da esche per intercettare i militanti più significativi. Una volta arrestati, interrogati e incarcerati, i funzionari si rendevano così conto del labirinto di delazioni entro il quale si erano inconsapevolmente mossi, finendo spesso per subire il peso e le pressioni delle torture e degli interrogatori: non stupisce pertanto che alla fine dell’estate 1927 i comunisti arrestati risultassero «almeno duemila […] e che, in quasi tutti i casi, la loro cattura [fosse] stata assicurata da spie, informatori o agenti provocatori premiati con notevoli somme di denaro dalle varie polizie che [concorrevano] alla caccia al comunista»[4].

Ciò detto, è comunque importante isolare l’arco temporale in cui il fenomeno si consolidò: quello tra il 1927 e il 1932. Di fatto, nel gennaio 1927 l’istituzione del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato aveva aperto una fase di crescenti tensioni che, pochi mesi dopo, sarebbero sfociate nel cosiddetto «processone» contro i comunisti e nelle conseguenti condanne a dirigenti del calibro di Gramsci, Terracini, Scoccimarro e Roveda. A queste si aggiunsero le difficoltà scaturite dalla rovinosa crisi economica del 1929 e – soprattutto – dalle crescenti tensioni legate all’esistenza di linee antitetiche all’interno del partito, crepe in cui la polizia fascista fu capace di penetrare con efficacia. In questo quadro, la paura, le minacce e le perquisizioni – al pari delle generose offerte di denaro, degli adescamenti e dei presunti favoritismi avanzati dalle forze fasciste – generarono un progressivo stravolgimento degli itinerari esistenziali e dei percorsi ideologici di numerosi militanti: un meccanismo del quale peraltro cadde vittima lo stesso Silone, probabilmente ricattato dopo l’arresto del fratello Romolo e protagonista di una vicenda segnata da risvolti familiari, politici e psicologici mai completamente chiariti[5].

Proprio la vicenda Tranquilli, ad ogni modo, risulta utile per introdurre la figura al centro di questo breve contributo: quella di Ersilio Paolo Giuseppe Ambrogi. In particolare, assieme ad essa sembra configurare un osservatorio privilegiato allo scopo di analizzare in che misura le lotte di fazione finirono con il contraddistinguere lo spionaggio comunista.

La vicenda Ersilio Ambrogi: antifascista o collaborazionista?

SovCome già evidenziato, le divergenze interne all’Internazionale erano ben note alla polizia fascista. Da un lato, ciò consentì all’Ovra di insinuarvisi per accentuarne le contrapposizioni; dall’altro – recuperando le parole di Mimmo Franzinelli – gli scontri toccarono punte talmente accese da «indurre esponenti del partito a denunziare identità e recapiti degli avversari interni, con la giustificazione machiavellica di favorire, insieme alla prevalenza della propria corrente, l’interesse generale del movimento comunista»[6]. Non è certo se furono queste motivazioni, assieme a quelle familiari, a spingere Silone – uscito profondamente amareggiato dalla sua esperienza come delegato al VII Plenum dell’Internazionale, dove aveva assistito all’espulsione di Grigorij Zinov’ev – ad intrecciare la sua fitta corrispondenza con l’ispettor Bellone; è forse più sicuro che lo furono nel caso di Ersilio Ambrogi, nonostante un percorso biografico segnato da ombre (tra cui quella di essere stato, viceversa, una spia stalinista) che attendono ancora di essere chiarite.

Nato a Castagneto Carducci (LI) il 16 marzo 1883, figlio di Antonio e Corinna Belli, Ambrogi crebbe in un ambiente di estrazione borghese. Il padre, medico condotto, gli aveva impartito un’educazione vicina alle posizioni del cattolicesimo liberale. Un’impostazione dalla quale si allontanò molto presto, attratto piuttosto dalle idee anarchiche che Pietro Gori aveva contribuito a diffondere lungo la costa toscana[7]. Recatosi a Pisa per studiare legge, dopo essersi iscritto al Psi prese parte – nel 1904 – ad in gruppo rivoluzionario internazionalista e antimilitarista in cui conobbe future figure di spicco dell’Alleanza Internazionale Antimilitarista quali Alfredo Polledro, Ugo Nanni, Domenico Zavattero e Cesare Maragoni. Sempre nello stesso anno, incaricato di cercare proseliti, si trovò coinvolto nella sparatoria che la polizia di Sestri Levante aprì sulla folla durante un  comizio del socialista Giovanni Pertini. Ne seguì un durissimo sciopero generale indetto dalle organizzazioni sindacali alla cui testa si pose lo stesso Ambrogi, il quale finì arrestato e condannato ad undici mesi di reclusione. Uscito dal carcere, iniziò così una fitta serie di viaggi che lo portarono a maturare contatti con soggetti libertari tra Svizzera, Francia (dove nel 1906 prese parte alle manifestazione indette dalla Confédération générale du travail) e Germania, prima di rientrare al paese natale (1911) e di contribuire – assieme ai braccianti Cesare Morganti e Giacinto Bongini – alla nascita del gruppo anarchico castagnetano “P. Gori”. L’anno successivo, dopo essersi laureato in legge all’Università di Bologna, aprì uno studio di consulenza legale a Milano: allo scoppio del primo conflitto mondiale venne richiamato alle armi, ma, come riportano le informazioni presenti nel suo fascicolo del Casellario Politico Centrale (aperto nel 1905 e chiuso nel 1942), finì più volte incarcerato per propaganda antimilitarista e disfattista. Ormai sempre più distante dall’anarchismo, nel 1919 scelse di rientrare nel Psi. Eletto deputato, esponente di spicco della corrente massimalista del partito, emerse ben presto come una delle personalità più incisive del socialismo tirrenico: una popolarità che, nel 1920, gli valse contemporaneamente l’elezione a sindaco di Cecina (rimasta fino al 1925 sotto la provincia di Pisa) e a presidente dell’Amministrazione provinciale di Pisa.

Tuttavia, fu la scissione di Livorno a segnare definitivamente il suo percorso politico: nel 1921 aderì infatti al Pcd’I, trovandosi da subito protagonista di violenti scontri contro le milizie fasciste. Destituito dall’incarico di primo cittadino per aver «levato dagli uffici del Municipio di Cecina  i ritratti dei Sovrani e la targa della Vittoria»[8], venne arrestato per «omicidio» e «tentato omicidio» nei confronti di alcuni squadristi. Grazie all’elezione come deputato comunista per la circoscrizione Livorno-Pisa-Lucca-Massa riuscì comunque ad eludere la condanna a 21 anni e ad uscire di carcere già nel maggio 1921 (la complessità della vicenda giudiziaria meriterebbe adeguati approfondimenti). In un clima di crescente violenza, ad ogni modo, decise di lasciare l’Italia e di iniziare in Germania un’attività di stretta collaborazione con il Kommunistische Partei Deutschlands. Non solo: nel 1922-1923, assieme ad Antonio Gramsci, venne eletto delegato a Mosca nel Komintern e successivamente nominato emissario dell’Internazionale comunista nell’Europa Occidentale. Fu in questo periodo che, pur in stretti rapporti epistolari con Terracini, Grieco e Togliatti, iniziò ad avvicinarsi sempre più alle posizioni di Amadeo Bordiga; e fu sempre in questa fase, in seguito ai durissimi contrasti emersi in seno al VI Plenum del 1926, che maturò un graduale adesione alle teorie di Lev Trockij. Dopo aver paventato – fallendo – la possibilità di creare anche in Russia un piccolo nucleo in contatto con il Centro estero del Pcd’I (di stanza in Francia e Belgio), si trovò così marginalizzato dal partito, finendo con l’esserne espulso nel 1929[9].

Ciononostante, i suoi rapporti con il Komintern proseguirono. Tornato a Berlino e guardato a vista da quella Gpu di cui aveva fatto parte, vi rimase dal 1930 al 1932. Fu proprio nella capitale tedesca che la polizia fascista, ormai perfettamente a conoscenza – dopo aver decapitato le sfere dirigenziali – di «tutto il meccanismo dell’organizzazione comunista»[10], iniziò a seguirlo più da vicino. Alcuni mesi prima, dettagliate informazioni su di lui erano state rilasciate al ministero dell’Interno dal prefetto di Livorno, Guido Farello, il quale aveva scorto nella linea politica intrapresa da Ambrogi una concreta possibilità di avvicinamento:

L’Ambrogi è uno dei capi del gruppo di sinistra tra gli emigrati politici. In una delle ultime riunioni del gruppo egli ebbe a manifestare la sua contrarietà che i componenti di esso non sanno discutere, accettando ogni relazione ed ogni risoluzione con una disciplina che non ha nulla di intelligente. Ciò non può dare nessuna utilità pratica e se non vi fosse il gruppo sinistro che discute e solleva obiezioni che illustrano e chiarificano le idee e i concetti manifestati da taluni oratori si avrebbero delle riunioni notevoli soltanto per l’apatia generale. Finì testualmente così: “i fatti dimostrano il mio dire, anche in questa riunione il compagno Garlandi ha parlato a lungo e contro la destra. Voi non dite nulla e fate blocco con essa contro di noi, questo dimostra che il gruppo non solo non ha capacità ma neanche serietà”. [11]

Le lettere inviate al padre, intercettate dall’Ovra, avevano rivelato al regime anche un’altra potenziale carta di adescamento: Ambrogi versava in drammatiche condizioni economiche. Nonostante tutto, la polizia scelse comunque di adottare nei suoi confronti la tipica tattica dispiegata nei confronti dei gruppi della «sinistra comunista»: fu infatti lasciato libero di operare tranquillamente, controllato e addirittura agevolato nei suoi spostamenti al fine di trarre profitto dalla opera disgregatrice procrastinata all’interno del partito. Dopo essersi trasferito in Belgio, egli aveva quindi fatto ritorno in Unione Sovietica senza incontrare alcun tipo di ostacolo: tuttavia, i suoi rapporti con Stalin e il temporaneo rientro nel partito bolscevico conobbero una brusca interruzione nel 1935, quando – passato nuovamente all’opposizione e ancora attivo nell’ala vicina a Bordiga – sfuggì alle «purghe» solo grazie all’intervento dall’ambasciata italiana a Mosca. Ripartito nuovamente alla volta di Bruxelles, fu qui che i fascisti tentarono definitivamente l’aggancio.

Il 31 luglio 1936, la Regia ambasciata d’Italia a Bruxelles inviò un telegramma riservatissimo e urgente a Roma. L’oggetto riportava la dicitura di «Ambrogi avv. Ersilio» e il contenuto una chiara sintesi della sua manifestazione d’intenti:

Ho l’onore di informare V. E. che ho potuto avvicinare l’Ambrogi allo scopo di conoscere i di lui intendimenti. Da tale colloqui è risultato che trattasi, come V. E. conosce, di un comunista dissidente, divenuto tale non per aver abbandonato le sue opinioni comuniste, ma per aver avuto campo di osservare da vicino il Governo sovietico all’opera. Egli (sono parole dell’Ambrogi), d’accordo con le diverse opposizioni, ritiene che la propria posizione politica sia insufficiente senza una lotta efficace contro la influenza della III° Internazionale. Ma, in considerazione del fatto che la III° Internazionale si appoggia sopra uno Stato potentissimo, ed avvantaggia la sua influenza dalle varie coalizioni di questo Stato con altri Stati, creando e sfruttando movimenti diretti a favorire e a rafforzare tali coalizioni nello esclusivo interesse del nazionalismo russo (che non sempre coincide con le esigenze del movimento rivoluzionario di cui essa si dice banditrice), ogni movimento di opposizione, ha continuato l’avvocato Ambrogi, limitato ai gruppi proletari dissidenti è a priori votato all’insuccesso ed è quindi necessaria la coordinazione di altre forze di opposizione coincidenti. Inoltre (sono ancora parole dell’Ambrogi) si può constatare la esigenza di tutti i punti di coincidenza anche fra lo Stato fascista e la opposizione comunista nella questione della lotta contro la influenza della III° Internazionale. L’Ambrogi intende in questa lotta mettere a profitto tutta la propria esperienza ove sia possibile un accordo diretto alla coordinazione di forze contro la influenza moscovita. Ma tale accordo sarebbe possibile (anche per ragioni tattiche) solo se non si escludesse a propri quella attività politica che spinge il Sig. Ambrogi alla lotta contro la III° Internazionale. In altri termini, l’Ambrogi teme che le varie frazioni di comunisti attualmente in opposizione con la III° Internazionale siano, a causa della loro debolezza, assorbite nuovamente dal Governo dell’Urss o dalle sue emanazioni; ad evitare ciò l’Ambrogi domanda un’intesa col Governo Fascista e l’appoggio di essa. Circa i termini concreti di tale accordo e delle attività dell’Ambrogi, questi ritiene che non potrebbe altrimenti discutersi che in colloqui che un incaricato del Governo Fascista dovrebbe avere col sig. Ambrogi, probabilmente in un tempo molto prossimo. [12]

Furono questi contatti e la percezione che i comunisti maturarono di essi a spingere Dante Corneli, nel suo ricordo del 1979, a dipingere Ersilio Ambrogi come un «agente staliniano e spia fascista che aveva fornito alla polizia italiana importanti notizie sull’attività clandestina che il partito svolgeva in Italia»[13]. Certo, le due parti in causa cercarono in quei contatti – frequenti tra il 1936 e il 1937 – favori vicendevoli: la polizia mussoliniana indicazioni finalizzate ad intercettare i movimenti dei principali esponenti attivi nella rete clandestina comunista; Ambrogi un appoggio alla sua causa politica, aspetto che il fascismo cercò di promuovere anche attraverso l’offerta di vantaggiose concessioni quali la promessa di una radiazione dal Casellario politico centrale o la cancellazione del suo nome dall’elenco dei «sovversivi attentatori o capaci di atti terroristici»[14]. Eppure, nonostante i contatti, Ambrogi conservò sempre una scaltrezza che – in realtà – gli consentì di non cadere nella trappola dell’Ovra, evitando di trasmutarsi come altri suoi compagni in un fiduciario dei servizi segreti.

Constatata l’impossibilità di incidere sulla linea intrapresa dal Pcd’I e ormai sempre più emarginato, egli decise così di interrompere ogni forma di relazione con la polizia politica. A confermarlo un telegramma rigido e nervoso inviato da Guido Leto, capo della Polizia politica, alla Divisione affari generali e riservati il 15 ottobre 1940:

Si comunica che l’arresto dei connazionali Ambrogi Ersilio e Carrà Renzo è stato provocato – come quello di vari altri sovversivi – da questo Ministero allo scopo di eliminarli dal loro campo di azione all’estero, cosa più che opportuna specie nell’attuale momento. Per quanto riflette il contenuto del rapporto della Gerenza degli Affari Consolari a Bruxelles e, più specificatamente, l’accenno che vien fatto, in tale rapporto, ai contatti avuti dall’Ambrogi Ersilio con la R. Ambasciata a Bruxelles, codesto stesso Ministero sa come ebbero origine e come si risolsero, invero in ben poca cosa, i contatti stessi. È noto che l’Ambrogi, il quale nel 1924 fu condannato dalla Corte di Assise di Livorno in contumacia ad anni 21, mesi 10 e giorni 18 di reclusione per essersi reso moralmente e materialmente responsabile del grave eccidio di Cecina del 1921, nei primi del 1922 riuscì a raggiungere il “paradiso sovietico” ove, accolto con tutti gli “onori”, si mise a servizio della Gpu, dirigendone la sezione italiana. Egli lasciò poi la Russia soltanto per circostanze e contrasti ideologici, ma, come ricorderà codesto Ministero, egli dichiarò esplicitamente, quando noi tentammo approcci e contatti con lui, che “era comunista e rimaneva tale”, rifiutandosi recisamente di relazionarci su cose, uomini e metodi della Gpu. Ragioni di opportunità consigliarono, sul momento, di mantenere ugualmente i contatti con lui per poter trarre almeno qualche profitto della campagna giornalistica che egli si proponeva di svolgere in dipendenza dai contrasti ideologici che gli avevano fatto abbandonare la Russia. Ma, anche da questo lato, l’Ambrogi servì ben poco tanto che fummo costretti a troncare i rapporti iniziati con lui. L’Ambrogi è sempre stato un elemento pericoloso e resta tale, pertanto, non vi sono motivi di sorta che possano consigliare di avere per lui qualsiasi considerazione e di dispensarlo dal rendere, come gli altri, i dovuti “conti” sull’attività sovversiva da lui svolta all’estero. [15]

Allontanato dai compagni e messo al bando dal fascismo, nel 1940 Ambrogi venne arrestato dopo l’invasione del Belgio, rilasciato dai tedeschi e poi nuovamente catturato ed estradato in Italia. Assegnato al confino politico per un anno, dopo l’armistizio di Cassibile fu deportato in Germania.

La sua esperienza politica sarebbe rimasta ai margini anche al termine della guerra, quando si ritirò a Livorno per riprendere l’attività di avvocato. Il Pci lo tenne infatti sempre a debita distanza, condizionato dalle voci sul suo conto e da un ruolo mai definitivamente chiarito. Ottenne la riammissione solo nel 1957, sette anni prima di morire – l’11 aprile 1964 – a Venturina. A favorirne il rientro, arrivato dopo molteplici tentativi di riammissione, furono probabilmente l’età ormai avanzata e l’allentamento delle norme di accesso al partito che seguirono alle conseguenze dei fatti di Budapest e alla dura requisitoria con cui Kruscev aveva condannato i crimini di Stalin nel corso del XX Congresso del Pcus (1956). La sua storia, oltretutto, non venne neppure accennata da Paolo Spriano nei sui volumi sulla Storia del Partito comunista (nominato solo due volte, ma nei volumi antecedenti a quelli relativi al secondo dopoguerra) [16], specchio di un insabbiamento politico che difficilmente poteva trovare la sua ragion d’essere nella mancanza di informazioni al riguardo.

Il resoconto dei rapporti di Ambrogi con i fascisti, tuttavia, non ci consegna il profilo di un informatore. Piuttosto, emerge il quadro di un militante tanto avverso alla causa fascista, quanto apparentemente ostile alla direzione imboccata dall’Urss di Stalin e dalla maggioranza dei comunisti italiani. Una vicenda qui solo scalfita ed in attesa di scavi più accurati, eppure ugualmente utile per problematizzare più a fondo la complessa cornice degli anni della clandestinità e del collaborazionismo.

[1] S. Tranquilli, Borghesia, piccola borghesia e fascismo, in «Stato operaio», aprile 1928.

[2] Cfr. M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia fascista, Bollati Boringhieri3, Torino 2020, pp. 311-312; M. Canali,  Le spie del regime, Il Mulino, Bologna 2004.

[3] Cfr. C. Pinzani, Il partito nella clandestinità: problemi di organizzazione (1926-1932), in M. Ilardi – A. Accornero (a cura di), Il Partito comunista italiano. Struttura e storia dell’organizzazione (1921-1979), Feltrinelli, Milano 1982, pp. 975-1005.

[4] P. Spriano, Storia del Partito comunista. Gli anni della clandestinità, II, Einaudi, Torino 1969, p. 110.

[5] Romolo Tranquilli era stato fermato a Como con l’accusa – mai confermata – di aver preso parte all’attentato che il 12 aprile 1928 aveva provocato 20 morti e 23 feriti alla fiera di Milano, arrestato e tradotto nel carcere di Marassi, a Genova. La vicenda colpì profondamente Silone, il quale, forse nell’invana speranza di una sua scarcerazione, intrecciò fino al 1930 un intreccio di informazioni con l’ispettore Guido Bellone sotto il falso nome di «Silvestri»: cfr. M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., pp. 335-342. Cfr. anche: M. Canali – D. Biocca, L’informatore: Silone, i comunisti e la polizia, Luni, Milano 2000.

[6] Cfr. M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., p. 320.

[7] Cfr. A. Mettewie Morelli (a cura di), Lettres et documents d’Ersilio Ambrogi (1922-1936), in «Annali della Fondazione Giacomo Feltrinelli», 1977, pp. 173-291.

[8] Cfr. «Il Messaggero Toscano» 4 febbraio 1921.

[9] Per un breve quadro biografico di Ersilio Ambrogi, si veda: F. Andreucci – T. Detti (a cura di), Il Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, I, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 58-60; F. Bertolucci, Ambrogi, Ersilio, in http://www.bfscollezionidigitali.org/entita/12902-ambrogi-ersilio/ (ultima consultazione: 21 settembre 2020); M. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., pp. 334-335.

[10] P. Spriano, Storia del Partito comunista. II, cit., p. 353.

[11] Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale della Pubblica Sicurezza, Casellario Politico Centrale, b. 92, fasc. 747, Ambrogi, Ersilio Paolo Giuseppe, Telegramma del prefetto di Livorno al ministero dell’Interno, 7 giugno 1929. Nel comunicato, il nome di Garlandi è sottolineato.

[12] In ibidem, Telegramma della Regia ambasciata d’Italia a Bruxelles al ministero dell’Interno con oggetto Ambrogi avv. Ersilio, 31luglio 1936

[13] D. Corneli, Lo stalinismo in Italia e nell’emigrazione antifascista, III,  Ripoli, Tivoli 1979, p. 32.

[14] Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale della Pubblica Sicurezza, Casellario Politico Centrale, b. 92, fasc. 747, Ambrogi, Ersilio Paolo Giuseppe, Comunicato del capo della Polizia politica alla Divisione affari generali e riservati del ministero dell’Interno, 15 ottobre 1940. Il telegramma, datato 29 novembre 1937 e firmato dal prefetto di Livorno, Emanuele Zannelli, recitava in chiusa che «in questi ultimi tempi [Ambrogi] si è dichiarato favorevole ai troschisti e desideroso di combattere di più il comunismo che il fascismo italiano. Richiami al riguardo la ministeriale n° 14064747 dell’11 Marzo 1936».

[15] In ibidem.

[16] Nei primi due volumi, il nome di Ambrogi compare solo saltuariamente: cfr. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci, I, Einaudi, Torino 1967, pp. 90; 100; 130; 163; 175; 217-220; 228n; 296n.; Id., Storia del Partito comunista italiano, II,  cit., p. 9.




Il Prefetto della Liberazione

Il patrimonio bibliografico della Biblioteca Franco Serantini si è appena arricchito di alcune importanti acquisizioni, tra queste il «Bollettino Ufficiale della Regia Prefettura di Pisa», periodico “amministrativo” pubblicato dal 1871 al 1972. Il bollettino rileva le più importanti e significative comunicazioni del Prefetto ai Sindaci della Provincia, al Questore, al Rettore dell’Università, ai vari Ordini professionali (medici, farmacisti…), all’Ufficio delle Imposte e ad altre istituzioni del territorio. Si tratta di comunicazioni di varia natura che richiamano l’attenzione dei destinatari sull’applicazione di norme e circolari che intervengono su molteplici tematiche.

Il ruolo che traspare in modo evidente dalla lettura del «Bollettino della Prefettura», riguarda la competenza dell’istituto in oggetto rispetto ai rapporti tra lo Stato e quelle che oggi chiamiamo le autonomie locali, istituzioni delle quali la prefettura deve assicurare il regolare funzionamento.

La figura del prefetto, nelle varie normative che hanno regolamentato l’istituto, si caratterizza infatti come rappresentante del potere esecutivo e supremo organo dell’amministrazione statale della provincia, assumendo ruolo di controllo delle attività delle amministrazioni locali: da un lato rappresenta l’accentramento politico e amministrativo, dall’altro il decentramento burocratico.

Attraverso le comunicazioni del Prefetto di Pisa, contenute nei bollettini relativi agli anni 1944 e 1945, proviamo ad inserire ulteriori elementi di riflessione per una lettura della condizione economica, sociale e politica della provincia pisana, nel periodo immediatamente successivo alla liberazione dall’occupazione nazi-fascista.

Prima di entrare nel merito delle comunicazioni contenute nel bollettino, è utile ricordare due aspetti che, negli anni precedenti e nel periodo in analisi, hanno caratterizzato la figura del prefetto.

Il primo aspetto da sottolineare, riguardante il periodo immediatamente precedente a quello preso in analisi, vede il ripetuto tentativo da parte del regime di permeare il corpo prefettizio con uomini del partito, con l’obiettivo di creare una nuova figura, quella del prefetto fascista.

La seconda questione riguarda invece il periodo immediatamente successivo alla liberazione del centro Italia, quando si assiste ad una sorta di braccio di ferro fra il Governo italiano e i C.L.N., convinti della necessità di epurare i prefetti provenienti dal partito fascista e di sostituirli con funzionari più vicini ai valori della lotta di liberazione. Questo ultimo aspetto ha fortemente marcato l’agenda politica del momento e ha contribuito a mettere seriamente in discussione, nel nuovo sistema democratico in fase di costruzione, la figura stessa del prefetto. Il 17 luglio 1944 il futuro Presidente della Repubblica Luigi Einaudi pubblica, con lo pseudonimo Junius, sul  supplemento della «Gazzetta Ticinese» dedicato all’Italia, un articolo intitolato Via il Prefetto! con il quale esprime senza mezzi termini la propria posizione: «Elezioni, libertà di scelta dei rappresentanti, camere, parlamenti, costituenti, ministri responsabili sono una lugubre farsa nei paesi a governo accentrato del tipo napoleonico». Il tema viene successivamente assunto nel dibattito della Costituente: il Partito d’Azione, per voce di Emilio Lussu, chiede espressamente la formale soppressione della figura del prefetto. In sede di Assemblea costituente non viene però adottata alcuna deliberazione precisa in merito, nonostante anche le discussioni della competente sottocommissione si erano orientate per l’abolizione dell’istituto prefettizio. Il tema viene più volte ripreso nel dopoguerra a partire dal convegno di Napoli, del 1950, dell’Associazione nazionale dei comuni italiani (A.N.C.I.). Negli anni successivi il dibattito sull’opportunità di mantenere questa figura prosegue, con le voci contrarie provenienti per lo più da parti politiche avverse al centralismo: movimenti e partiti sia autonomisti che di sinistra.

Un altro utile approfondimento, introduttivo alla lettura del «Bollettino», riguarda la storia della Prefettura di Pisa dalla data dell’Armistizio alla liberazione della città. Nel periodo che va dal 8 settembre 1943 alla liberazione della provincia di Pisa (stabilita nella data del 3 settembre) i prefetti che si susseguono sono Ferdinando Flores (12/08/1943–30/09/1943), poi Francesco Adami (1/10/1943–24/10/1943) ex Console della milizia e fondatore del Fascio Repubblicano locale. Ad Adami, che aveva caratterizzato il suo incarico con atti di violenza e arresti di antifascisti e badogliani, succede Mariano Pierotti (25/10/1943–1/07/1944) ex Segretario dei Sindacati dell’Agricoltura, anch’egli uno dei fondatori del Fascio Repubblicano di Pisa. Durante l’estate del 1944, quando il fronte si ferma sulle rive dell’Arno, con la città di Pisa occupata dalle forze nazi fasciste e, a sud del fiume gli alleati, il Prefetto Pierotti, dopo aver tentato improduttivi contatti con il CLN locale, si dà alla fuga dopo aver fatto scarcerare alcuni detenuti politici. Il successore di Pierotti è il pisano Enzo Leoni che rimane in città fino al 19 luglio, quando fugge al nord con altri fascisti locali portando con sé una cospicua somma di denaro sottratta alla Prefettura e abbandonando la città sotto il continuo cannoneggiamento delle forze alleate[1]. Il nome di Leoni non è riportato sulla pagina ufficiale della Prefettura di Pisa nella quale sono ricordati i prefetti che ivi hanno ricoperto l’incarico. Nel periodo che va dalla fuga di Leoni alla liberazione della città, avvenuta il 2 settembre, il commissario prefettizio è Mario Gattai, nominato dell’Arcivescovo Gabriele Vettori unica autorità rimasta in città[2].

Il 7 settembre del 1944 si insedia il Prefetto Vincenzo Peruzzo, persona che nella memoria collettiva rimane un prefetto democratico, ma che non ha buon rapporto con il CLN, con la sinistra pisana e soprattutto con Italo Bargagna, primo sindaco di Pisa liberata[3].

Appena insediatosi, il Prefetto Peruzzo si dedica celermente alla cura dei rapporti con il territorio: venti giorni dopo la sua nomina incontra i trentotto sindaci della Provincia ai quali comunica personalmente le direttive più significative sui problemi più urgenti che interessano i loro comuni[4]. Il Prefetto, nel suddetto incontro, tra le varie questioni trattate, pone l’accento sulla necessità di prevenire, con azione equilibrata, ogni turbamento dell’ordine pubblico e di favorire la ripresa immediata della civile convivenza, stroncando sul nascere eventuali velleità di ritorni reazionari.

Apriamo adesso il «Bollettino della Regia Prefettura». Dalla lettura degli atti e delle comunicazioni pubblicate si percepisce il quadro delle priorità istituzionali e amministrative del momento e il ruolo di controllo esercitato, attraverso l’istituto prefettizio, dal governo sul territorio.

Il nuovo Prefetto nel dicembre del ‘44 interviene su vari quesiti giunti da diversi comuni della provincia riguardo la questione dei sussidi, ricordando che il soccorso giornaliero militare spetta ai soldati che, dopo l’8 settembre non sono rientrati in famiglia (o comunque per il periodo in cui non siano rientrati) e per i partigiani, purché abbiano l’attestazione dei ministeri militari competenti o dei relativi Comandi partigiani. Il rilascio dei sussidi è, in questo periodo, competenza degli uffici di assistenza dei comuni. In un momento di povertà e di difficoltà molti degli interventi del Prefetto vertono principalmente proprio sulla questione dei sostegni economici, non solamente per chi ha combattuto, ma anche per chi è stato prigioniero, per i parenti bisognosi dei dispersi in guerra, per i confinati politici e comuni, per i profughi dell’ex Africa Italiana, per i connazionali rimpatriati, per gli infortunati civili e militari di guerra. Il governo italiano riconosce forme di assistenza e di sostegno anche ai cittadini dei paesi alleati internati nei campi di concentramento sul territorio italiano. La questione del sussidio per il caro pane rimane oggetto di comunicazione anche durante tutto il 1945 e la Carta annonaria – entrata in vigore con la Legge n. 577 del 1940 relativa al razionamento dei generi alimentari – la cui emissione è di competenza del comune di residenza, rimane, per tutti gli anni quaranta, lo strumento di accesso al sussidio.

I bollettini della Prefettura riportano anche varie comunicazioni riguardanti la questione della gestione dei medicinali forniti dagli alleati, con particolare attenzione al prezzo. Per evitare speculazioni su una popolazione allo stremo, il Prefetto, in una nota ai sindaci e all’Ordine dei farmacisti, precisa che il prezzo di vendita non può essere superiore a quello previsto dalla tabella con la quale gli stessi medicinali vengono distribuiti ai punti di smercio.

Altro aspetto di particolare attenzione riguarda la questione del cibo, il controllo sulle contraffazioni dei prodotti, il sollecito ad un’attenta e continua verifica da parte degli uffici comunali dei pesi e delle misure utilizzati nelle rivendite e, in ultimo, la revisione di tutte le licenze di commercio. In questo momento, per favorire la ripresa del paese, sono molte le forme di agevolazione tributaria, in particolare per le località danneggiate dal passaggio del fronte di guerra, una di queste riguarda l’esenzione del pagamento dell’imposta di consumo sui materiali utilizzati per la riparazione degli immobili danneggiati in seguito ad eventi bellici.

La questione sanitaria è un’altra materia insistentemente trattata nelle comunicazioni riportate dal bollettino: riguarda le modalità di macellazione e conservazione della carne,  l’obbligo della vendita su ricetta dei prodotti antibatterici, le modalità di distribuzione dell’insulina, le misure di difesa profilattica contro le malattie di importazione esotica in occasione del rimpatrio dei reduci, la profilassi della poliomielite e della febbre tifoide e il controllo della potabilità dell’acqua. Di rilievo sanitario in questo periodo è la lotta contro la scabbia che diventa una malattia con un elevato livello di diffusione, per la quale vengono istituiti, nei singoli comuni, i centri di bonifica dotati di docce, di sapone e di sali di medicazione. Una specifica circolare prefettizia è dedicata all’utilizzo della penicillina che, essendo un prodotto estremamente limitato nella disponibilità, viene assegnato solamente alle città capoluogo di regione dove viene costituito un comitato che decide a quali cittadini della regione dovrà essere somministrato il farmaco.

Una circolare prefettizia dei primi mesi del 1945 ci dà il senso dei bisogni presenti in questo primissimo dopoguerra e riguarda l’impiego lavorativo dei fanciulli bisognosi. In una nota ai sindaci il Prefetto ricorda le deroghe previste dalla Legge n. 653/1934 che interviene sulla tutela del lavoro delle donne e dei minori. Scrive il Prefetto che il Ministero dell’Industria, del Lavoro e del Commercio, resosi conto della necessità di sottrarre dall’ozio e da attività illecite o immorali i fanciulli abbandonati o appartenenti a famiglie in stato di povertà, ha deciso di avvalersi dell’ipotesi di deroga prevista dalla suddetta norma, riguardo ai limiti di età relativi all’impiego di manodopera minorile. Il Ministero, avvalendosi di suddetta deroga, apre così le porte del lavoro ai bambini con meno di dodici anni, un fenomeno sociale poi raccontato con maestria, in questi stessi anni, dal cinema neorealista italiano. La questione del lavoro e della sopravvivenza come sempre genera il fenomeno della migrazione, ma in un paese distrutto e appena liberato non vi sono città che fuggono alla miseria. Anche Milano è in ginocchio e i migranti che arrivano, non trovando lavoro, si presentano agli uffici di assistenza che già non riescono a garantire supporto ai residenti: nel luglio del 1945 il Prefetto di Pisa, su indicazione del Ministero dell’Interno, invita tutti i sindaci della provincia a fare opera di persuasione e ad adottare le misure che riterranno più opportune per bloccare il flusso migratorio verso Milano e le altre città del nord Italia.

Altro aspetto interessante, recuperabile dal Bollettino, riguarda il rastrellamento degli ordigni esplosivi; il Prefetto scrive a tutti i Sindaci dei comuni per assicurarsi se, per iniziativa privata o da parte dell’Amministrazione comunale, sia stato provveduto al rastrellamento di armi, munizioni e ordigni esplosivi eventualmente esistenti sul territorio e se sono stati costituiti depositi occasionali. La circolare prefettizia svela anche la preoccupazione del governo: si chiede se gli eventuali depositi sono sotto controllo e se sotto le dovute norme di sicurezza. Il Prefetto chiede ai Sindaci di fornire l’esatta ubicazione e la quantità del materiale contenuto negli eventuali centri di raccolta adibiti, in modo che il Comando Artiglieria di Firenze possa disporre sopralluoghi, interventi di competenze e procedere alla distruzione del materiale. È evidente che si tratta di un’azione volta al controllo dell’attività di occultamento delle armi praticato da alcuni gruppi che avevano partecipato alla Resistenza.

Ultimo aspetto, non per importanza, che andiamo a evidenziare dalla lettura del Bollettino della Regia Prefettura di Pisa, riguarda la toponomastica stradale, una nota del Prefetto ai sindaci, datata gennaio 1945, riporta la loro attenzione sul tema, ricordando che la necessità di cambiare il nome delle strade e delle piazze che inneggiano al fascismo e ai suoi personaggi non deve assolutamente coinvolgere anche le denominazioni riferite ad avvenimenti storici, personaggi o date  riguardanti il Risorgimento,  periodo storico che rimane un riferimento intoccabile per il futuro. Con la nota prefettizia del 9 agosto 1945 (N. 6576) ad oggetto: “Scritte murali fasciste. Toponomastica stradale”, il Prefetto ritorna sul tema e riprende la circolare del Ministero dell’Interno del 17 luglio: È stato rilevato che in molti comuni non si è ancora provveduto alla cancellazione delle scritte murali fasciste. Esse, come è ovvio, rappresentano una tipica sopravvivenza delle manifestazioni esteriori di megalomania di cui il cessato regime usava far pompa per accattivarsi l’ammirazione delle masse. Ora che l’Italia si è liberata […] si impone l’eliminazione, anche nelle apparenze esteriori, di ogni falso orpello che ha nell’animo degli italiani la triste risonanza di una amara e dolorosa esperienza. La circolare ministeriale invita i sindaci a procedere celermente ad una accurata revisione della nomenclatura stradale eliminando nomi e date che richiamano eventi del cessato regime o che comunque tendono a conservarne il ricordo. Analoga revisione deve essere fatta anche per quanto concerne monumenti, targhe o ricordi dedicati a persone o eventi del fascismo […] un regime che il paese ha ripudiato.

Due anni dopo la nomina, nel settembre del 1946 Peruzzo viene nominato Prefetto di Verona e conclude la sua esperienza pisana; nelle sue memorie ricorda così il suo saluto alla città:

Riporto volentieri le parole che il sindaco comunista di Pisa, Italo Bargagna, volle rivolgermi nel Palazzo Gambacorti, sede del Comune:

A Vincenzo Peruzzo, Prefetto della Liberazione, esprimo la riconoscenza di Pisa e la mia personale gratitudine per l’opera meritoria da lui svolta per la rinascita della città. […] Nella mente e nel cuore dei Pisani rimarrà sempre vivo il ricordo della sua bontà e della umana comprensione dimostrata nello svolgimento del suo alto ministero.[5]

 Note:

[1] Per una breve storia della Prefettura di Pisa nel periodo che va dal 8 settembre 1943 al 25 aprile del 1945 cfr. A. Cifelli, I Prefetti della Liberazione. Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno, Roma, 2008.
[2] Sul periodo relativo alla reggenza di Mario Gattai cfr. Pisa nella bufera: note dell’avvocato Mario Gattai commissario del Comune di Pisa. Giugno Settembre 1944, a cura di G. Bertini. Pisa, Circoscrizione 6, 2001.
[3]  C. Forti, Dopoguerra in provincia microstorie pisane e lucchesi 1944-1948, Milano, F. Angeli, 2007, p. 105.
[4]  Il contenuto della prima riunione con i sindaci della provincia è riportato in Vincenzo Peruzzo. Ricordi del primo Prefetto di Pisa dopo la Liberazione a cura di C. Forti. pp. 57-61. Pisa, Pacini, 2012. La pubblicazione raccoglie i ricordi della vita personale e professionale di Peruzzo.
[5]Vincenzo Peruzzo. Ricordi del primo Prefetto di Pisa dopo la Liberazione, cit., p. 79.




Maria Luigia Guaita

Presentando la prima edizione de La guerra finisce la guerra continua Ferruccio Parri, il capo-partigiano “Maurizio” poi, nel giugno 1945, Presidente del Consiglio dell’Italia liberata, ricorda Maria Luigia Guaita come «una delle staffette più brave, ardite, estrose e generose» che hanno partecipato alla lotta di Liberazione, una «donna della Resistenza» fidata, coraggiosa e capace.

Nata a Pisa l’11 agosto 1912 Maria Luigia Guaita trascorre l’infanzia a Torino per poi raggiungere Firenze nel 1926. Qui, grazie al fratello Giovanni, allora giovane studente, inizia a frequentare gli ambienti dell’antifascismo di estrazione liberalsocialista entrando in consuetudine con personaggi come Nello Traquandi, già tra gli animatori del periodico clandestino «Non mollare» e del Circolo di cultura politica di Borgo S. Apostoli, ed Enzo Enriques Agnoletti, uno dei principali esponenti dell’azionismo fiorentino durante la Resistenza.

Avvicinatasi al Partito d’Azione (PdA) la giovane Maria Luigia ne cura l’organizzazione dell’attività clandestina sfruttando, in un primo tempo, quel contatto giornaliero col pubblico – e, quindi, con altri antifascisti – consentitole dalle mansioni di impiegata di sportello presso una filiale fiorentina della Banca Nazionale del Lavoro. Durante la lotta di Liberazione, poi, opera come staffetta, contribuisce alla diffusione di stampa antifascista e all’organizzazione delle cellule clandestine legate al partito.
Agli ordini del Comando militare azionista si adopera, inoltre, per il collegamento tra il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), gli Alleati e le formazioni partigiane presenti nell’area compresa tra Viareggio, Massa Carrara, la Lunigiana e il Pistoiese garantendo un servizio – rileva Carlo Francovich – «particolarmente delicato e pericoloso», ma di fondamentale importanza ai fini dell’organizzazione tattico-strategica della lotta di resistenza e generalmente svolto «da giovani donne, la cui audacia era talvolta temeraria»: tra queste, oltre alla Guaita, si ricordano Orsola Biasutti, Anna Maria Enriques Agnoletti, Gilda Larocca, Adina Tenca, Andreina Morandi. Quest’ultima – sorella di Luigi Morandi, il radiotelegrafista del gruppo Co.Ra ferito a morte il 7 giugno 1944 durante l’irruzione dei tedeschi nell’appartamento in Piazza d’Azeglio, ultima sede della radio clandestina azionista –, nei mesi dell’occupazione germanica collabora con la Guaita e, anni dopo, ne ricorda mediante un curioso aneddoto la versatilità e l’instancabilità operativa: «[Maria Luigia Guaita] Non disdegnava nessun tipo di impegno; sapeva trasformarsi anche in vivandiera, come quando riuscì ad ottenere dal proprietario del famoso ristorante Sabatini due sporte piene di conigli, destinati (e purtroppo non arrivati per una serie di contrattempi) alla formazione di Lanciotto Ballerini, che operava dalle parti di Monte Morello» e, nel gennaio 1944, resterà ucciso nella battaglia di Valibona.
Nel quadro più ampio dell’impegno antifascista di Maria Luigia Guaita assume particolare rilievo l’attività di falsificazione di documenti, permessi e timbri in soccorso a partigiani e perseguitati politici alla quale viene iniziata da Tristano Codignola, uno dei più brillanti e capaci dirigenti azionisti: «Con Pippo [Codignola] – ricorda – sarebbe stato duro lavorare, pensavo, ma avrebbe capito e Pippo capì sempre la buona volontà di tutti noi. Ricercato dalla polizia, braccato dalle SS, riuscì a creare insieme a Rita [Fasolo] e a Nello [Traquandi] tutta l’organizzazione politica del partito. Attivo, infaticabile, riempiva le lacune, colmava i vuoti imprevedibili – e di giorno in giorno, d’ora in ora – sfuggiva alla cattura».
L’efficacia del servizio ricorre, altresì, nelle parole lette dallo stesso Codignola all’Assemblea regionale del PdA, tenutasi a Firenze nel febbraio 1945, con le quali rileva come, sotto la solerte guida di Traquandi, esso sia divenuto nel tempo «un magnifico strumento di resistenza, fornendo falsificazioni di ogni natura, tessere, fotografie, timbri, carte annonarie e via dicendo»: Maria Luigia, senza esitare nel mettere a disposizione la propria abitazione fiorentina di via Giovanni Caselli 4, coordina con perizia l’apprestamento e la distribuzione dei documenti falsi permettendo a tale attività di raggiungere un notevole grado di perfezione. Dopo la Liberazione, a riconoscimento dell’impegno resistenziale il Ministero della Guerra le riconosce la qualifica di partigiano afferente alla Divisione “Giustizia e Libertà”-Servizio Informazioni per il periodo compreso tra il 9 settembre 1943 e il 7 settembre 1944.

La primavera del 1945 segna l’avvio della rinascita democratica dell’Italia alla quale le donne, conquistato il diritto al voto, contribuiscono in prima persona. In Assemblea Costituente, ne sono elette 21: 9 democristiane, 9 comuniste, 2 socialiste – tra le quali la toscana Bianca Bianchi – e una proveniente dalle file dell’Uomo qualunque. In Toscana nessuna delle candidate nelle liste del PdA – Olga Monsani, Margherita Fasolo, Eleonora Turziani – ottiene i voti necessari per l’elezione. Maria Luigia Guaita è tra quanti, nei primi anni di vita della giovane Repubblica, confidano nel disegno politico azionista e nel progetto di rinnovamento palingenetico delle strutture dello Stato e della società italiani. Tali aspettative non trovano, però, concretezza e nelle parole da lei consegnate al proprio libro di memorie emergono con forza la delusione per la fine prematura del PdA e l’amara percezione del progressivo appannamento dei valori e delle speranze che hanno animato le donne e gli uomini della Resistenza: «Se devo necessariamente adoperare le parole che esprimono i concetti di libertà e di giustizia, – scrive – ho un attimo di esitazione, spesso ricorro a una perifrasi. “Giustizia e Libertà” mi ha cantato troppo nel cuore, per tutti gli anni della lotta clandestina. Allora mi sforzavo soltanto di essere disciplinata, ma sempre con un sottile struggimento di non fare abbastanza, anche per le perdite dolorose di tanti compagni, i migliori; e ognuno di loro si portava via una parte di me. Venne la liberazione; affascinata da questa parola sperai nell’affermarsi delle forze socialiste. Poi le giornate di Roma, il congresso al Teatro Italia. Ricordo Ragghianti, che tratteneva Parri per la giacchetta, il volto duro e caparbio di Carlo, quello tagliente e tirato di Pippo, la dialettica di La Malfa: il crollo del Partito d’Azione. Pensavo che il sacrificio di tanti compagni (e così di nuovo mi bruciava nel cuore il dolore per la loro morte) sarebbe stato sufficiente a disciplinare le forze, attutire gli screzi, frenare le ambizioni». Ciò, come noto, non avverrà e il PdA si scioglierà nel 1947.

All’assenza dalla vita politica partecipata corrisponde un intenso impegno della Guaita in attività di natura culturale e imprenditoriale. Donna emancipata da sempre legata al mondo intellettuale non solo fiorentino, ella contribuisce a fondare e animare le Edizioni “U” di Dino Gentili cui si devono, grazie all’opera editoriale di Enrico Vallecchi, la pubblicazione di numerosi volumi proibiti sotto la dittatura fascista. Maria Luigia Guaita collabora, inoltre, con «Il Mondo» di Mario Pannunzio, fa parte dell’Associazione Liberi Partigiani Italia Centrale (A.L.P.I.C.) e, nel 1957, dà alle stampe quel libro di memorie che Roberto Battaglia ha paragonato al Diario partigiano di Ada Gobetti definendolo «una spregiudicata narrazione delle vicende d’una staffetta partigiana che si muove o corre dalla città alla montagna e viceversa», nel quale l’autrice «insieme ai toni scanzonati del bozzetto, sa trovare, specie nelle ultime pagine del libro, quelli tragici ed ardui dell’epica partigiana, allorché descrive l’impiccagione di italiani e sovietici a Figline di Prato».
Degno di rilievo si rivela, infine, l’impegno della Guaita nel campo dell’imprenditoria tessile nella Prato della ricostruzione nonché, sul finire degli anni Cinquanta, la fondazione a Firenze della Stamperia d’arte «Il Bisonte», cui segue l’apertura sulle rive dell’Arno di una scuola per insegnare ai giovani le tecniche tradizionali dell’incisione. Nel 1981, a riconoscimento di questo importante impegno imprenditoriale, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini le conferisce il titolo di Commendatore.
Maria Luigia Guaita muore a Firenze il 26 dicembre 2007, all’età di 95 anni. Con lei, dirà il sindaco di Firenze Leonardo Domenici, «scompare una delle personalità più rappresentative della nostra città»: una donna della Resistenza e un’indiscussa protagonista della vita imprenditoriale in Toscana, in Italia e all’estero.

Mirco Bianchi, dottore in Storia contemporanea, è responsabile dell’Archivio dell’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.




Dover partire.

Come afferma Patrizia Gabrielli, quello biografico è un approccio a lungo rimasto a margine rispetto alla produzione storiografica sull’antifascismo che, solo fino a pochi anni fa, pareva prediligere una rimozione del retaggio delle storie personali, dei vissuti soggettivi quasi fossero soffocate dalle gesta dei molti eroi che contraddistinsero il periodo e segnarono la storia della nostra repubblica e della nostra libertà.

Nell’ambito della produzione memorialistica sull’antifascismo, il metodo biografico ha acquistato progressivamente uno spazio significativo, al punto che ormai, costituisce parte integrante della bibliografia sull’emigrazione con le sue memorie, autobiografie e carteggi, che hanno avuto il potere di mettere in luce angoli visuali inattesi.

Le ricche e interessanti storie soggettive e collettive contribuiscono così a rendere una visione d’insieme dell’esperienza dei fuoriusciti italiani attraverso plurimi punti di osservazione, non solo statistici o politici. La visione al tempo stesso vittimistica ed elogiativa dei migranti italiani all’estero, offre più profondi e interessanti spunti di riflessione sociologica e culturale. Infatti, ogni situazione contiene in se stessa una complessità che la rende unica. Questo articolo descrive la storia della migrazione da Marti a Valbonne durante l’affermazione del fascismo in Toscana raccontando, a titolo di esempio, la storia della famiglia Lanini una delle 28 famiglie immigrate in quel periodo da un paese che contava all’epoca 2000 anime, insieme ad altri toscani perseguitati dal fascismo[1]. In questa ondata migratoria una famiglia si caratterizzò dalle altre. In quanto strumento del regime, aveva un incarico ben preciso quello del controllo affermando le direttive del fascismo, fuori dal territorio nazionale, seppur interpretate secondo le necessità locali[2]. Il fascismo aveva provato a più riprese a incunearsi nelle società ospiti sebbene la forza del regime sia stata riconosciuta, soprattutto in Francia, con maggiore reticenza[3], sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero.

Primo Lanini arrivò a Valbonne (Francia) nell’estate del 1924 a piedi, dopo una lunga e disagiata marcia lunga 400 km durata 5 settimane. Aveva 37 anni.  Il suo è un viaggio esplorativo per verificare la situazione, trovare un alloggio, prendere accordi, stabilire contatti, comprendere le potenzialità da dove partire. Cosetta è l’ultima figlia nata in Italia e ancora vivente. Nasce il 5 dicembre 1924 al civico 18 di Borgo d’Arena, una borgata di Marti, al tempo frazione del comune di Palaia in provincia di Pisa un quartiere, molto attivo da un punto di vista di impegno politico dove risiedevano anarchici, socialisti e comunisti afferenti alla Lega mista contadini-operai formatesi con autentica partecipazione durante il biennio rosso ma anche l’associazione La fratellanza operaia legata al modello del mutuo soccorso e già attiva agli inizi del 1900.

La scelta del luogo dove installarsi con la famiglia era riconducibile essenzialmente al passaparola con altre famiglie toscane emigrate a Valbonne[4] già a fine Ottocento per motivi legati al lavoro stagionale costituito principalmente dalla vendemmia dell’uva servan e dalla raccolta dei fiori come il gelsomino e la rosa centifoglia per le profumerie di Grasse, che attirava nella zona donne e uomini provenienti anche dalla provincia di Cuneo e dalle valli limitrofe[5] e dal fatto che la Francia, in quel momento, registrava un importante presenza di antifascisti (nel dipartimento Alpi Marittime e nella Regione PACA ce ne sono molte)[6]. Il Paese confinante era stato ritenuto da Primo l’alternativa più sicura e più accessibile considerato l’inasprimento dei rapporti internazionali e l’affermarsi del fascismo. La comunità martigiana proveniva da un paesaggio rurale caratterizzato dalle belle colline inferiori pisane, punteggiato da boschi e calanchi di creta argillosa. La gente allevava polli, vitelli e porci, intrecciava cesta, costruiva cerchi per le botti, lavorava il castagno, forgiava il ferro, coltivavano la terra, il mare non era nelle loro corde, né tantomeno il paesaggio urbano di Nizza, per questo la scelta di un paese simile, se non altro per clima e contesto, sembrò la più appropriata. Valbonne al tempo, era circondata da boschi si poteva tagliare la legna, venderla, trasformarla in carbone, costruire gabbie per gli uccelli, arrangiarsi, ingegnarsi, destreggiarsi, adattarsi ma lavorare finalmente in pace e vivere in attesa di tempi migliori. Le migrazioni cambiano e arricchiscono la storia di un Paese, trasformano la composizione sociale e politica di un luogo, incrementano l’economia locale ma la transizione non è così immediata, lineare e pacifica e, sicuramente nella fase iniziale, non è mai semplice inserirsi nel nuovo tessuto sociale. Così, spesso, gli eventi sfociavano in importanti divergenze culturali anche se, nel caso di Valbonne, non ci sono state mai vere e proprie discriminazioni da parte francese[7]. L’integrazione, anche solo lavorativa, non sembrava essere facile salvo sfruttare liberamente le risorse naturali del territorio: i boschi, rendendo vitale questo settore. I martigiani si specializzarono nel taglio del bosco e nella produzione del carbone, realizzavano fascine per venderle nei ristoranti, nei panifici o nei forni di cottura della celebre ceramica di Vallauris dove si installerà Picasso dal 1948 al 1955[8].

unnamedParisina Bottai con il primogenito Rigoletto, 10 anni,  Alfio, 5 anni e Cosetta, di soli sei mesi[9], arrivarono a Valbonne un anno più tardi, nell’estate del 1925, quando ormai in Italia erano state parzialmente approvate le leggi fascistissime trasformando, progressivamente, la monarchia parlamentare in una dittatura totalitaria. Arrivarono con il treno con un biglietto di terza classe fino a Ventimiglia dove Primo li raggiunse e li aiutò a passare la frontiera. Lanini era un socialista non interventista (aderente in un successivo momento al comunismo) che, suo malgrado, fu coscritto quattro anni nel corpo degli alpini e inviato sul fronte orientale in Trentino Alto Adige per combattere durante la Prima Guerra mondiale[10]. Tornato a casa, scioccato da quanto aveva visto e vissuto, demoralizzato e amareggiato per il trattamento riservato loro al rientro dalla guerra, cercava, come tutti i reduci, di reinserirsi nel tessuto sociale e riprendere stabilmente il suo lavoro di boscaiolo che gli consentisse di mantenere la famiglia. Così quando le camice nere andarono a cercarlo a casa per ingaggiarlo nelle loro spregiudicate imprese intimidatorie, Primo non ne volle sapere: era stanco della violenza e del dolore. Era un uomo giusto, dignitoso, le sue pretese erano semplici e lecite:  voleva solo ricominciare a lavorare e dimenticarsi dell’orrore della vita delle trincee e della disillusione delle promesse fatte. Lanini non condivideva l’ideologia fascista pertanto si rifiutò con fermezza di partecipare anche alla Marcia su Roma. Considerato un sovversivo, divenne vittima delle vessazioni delle cosiddette squadracce e a seguito di un’aggressione fisica grave decise di mettersi in salvo con la famiglia da un paese ingrato e illiberale.. Vi erano già state nel Comune di Palaia situazioni di tensione alcune delle quali trasformarsi in tragedia. Una sera durante una veglia clandestina, un gruppo di camicie nere provenienti da Pontedera fece irruzione nella casa dove si erano riuniti clandestinamente alcuni esponenti antifascisti e cominciarono a colpire all’impazzata con il manganello tutti i partecipanti alla riunione. Emilio Doni (1886-1954) attivo sindacalista e autorevole sindaco di Palaia già dal 1920 si mise miracolosamente in salvo saltando velocemente fuori dalla finestra e nascondendosi dentro il forno per il pane. Doni fu costretto a dimettersi dal ruolo di sindaco a causa dell’avanzamento dell’ondata nera guidata dai proprietari terrieri della zona tra tensioni e tumulti che sfociarono in feroci aggressioni e atti di sangue. Ma l’evento determinante che fece maturare definitivamente la scelta di Primo Lanini di trasferirsi in Francia fu l’aggressione e l’omicidio di un compaesano. Primo, che da qualche tempo aveva già preso in considerazione l’ipotesi della fuga all’estero, ne fu convinto soprattutto dopo l’assassinio di Alvaro Fantozzi[11]  segretario della Camera del lavoro di Palaia di soli 29 anni avvenuto sulla strada di Castel del Bosco al mattino del 2 aprile 1922 mentre si recava a un comizio a Marti per cercare di ripristinare la Lega mista contadini-operai. Lanini comprese che la situazione stava degenerando, accelerò dunque i tempi passando velocemente all’azione avvalendosi delle indicazioni di altri martigiani che anni prima avevano già tentato l’avventura in cerca di fortuna e che nel frattempo, grazie a scelte oculate, erano diventati abbienti. Infine, la realtà nella quale questo giovane toscano dovette, suo malgrado, vivere gli prospettò un avvenire tranquillo e agiato, così quando, al termine della Seconda Guerra Mondiale si paventò l’idea di ritornare a casa a Marti, la scelta fu quella di restare in Oltralpe, a Valbonne dove morirà nel 1973[12]. Nonostante un forte senso esistenziale lo legasse ancora alla Toscana, la sua vita era ormai orientata a Valbonne e la Francia gli aveva procurato protezione e benessere economico.

[1] Famiglie provenienti da Marti: Bottai, Balducci, Bagnoli, Bandini, Banti, Doni, Trinti, Monti, Catalini, Giglioli, Ciampini, Cenci, Corti, Costagli, Ceccarelli, Giannini, Marmeggi, Gorini, Lanini, Nardi, Pretini, Pitti, Telleschi, Ulivieri, Regoli, Pistolesi, Pupeschi, Vanni. Famiglie originarie di Ponte a Egola : Billeri, di Forcoli : Doveri, di Massa : Trietti, di Pontremoli : Biasini e Valenti. Infine, famiglie provenienti da Pistoia: Vivarelli e Bizzarri.
[2] Il fascismo aveva provato a più riprese a incunearsi nelle società ospiti sebbene le forza del regime sia stata riconosciuta, soprattutto in Francia, con maggiore reticenza, sebbene tutti gli studiosi abbiano sempre concordato sul fatto che solo una minoranza degli italiani avesse aderito alle organizzazioni antifasciste all’estero.
[3] La penetrazione del fascismo nelle comunità italiane all’estero è stata per lungo tempo sottovalutata dalla storiografia, tanto in Italia quanto nei paesi d’arrivo. La storia del fascismo all’estero si è arricchita, nel corso degli anni, di diversi contributi che hanno ricostruito la penetrazione del regime in svariati contesti nazionali e regionali. Nell’ambito della storiografia italiana, il contributo recente più interessante appare quello di Matteo Pretelli.
[4] Demografia di Valbonne village: 1891 = 1015 , 1896 = 1138, 1901 = 1067, 1911 = 1045, 1921 = 831, 1926 = 949, 1931 = 1063. Nel periodo di cui stiamo parlando Valbonne contava 949 abitanti. Ultimi dati aggiornati al 2017 = 13 325 abitanti.
[5] Il Comune di Valbonne si era già dimostrato accogliente nei confronti degli italiani che svolgevano lavori stagionali poiché aveva già ospitato altri migranti toscani, provenienti da Marti primo su tutti Amerigo Balducci giunto nel villaggio nel 1895 con la moglie Zaira Nardi, seguiti, in ordine sparso, da altre 6 famiglie di cui il nucleo di Armando Nardi e Ida Petrini arrivati a Valbonne nel 1904 che rappresentano un’importante testa di ponte per la successiva migrazione politica.
[6] Occorre ricordare, a titolo di esempio, la famiglia di Amleto Gorini martigiano installatosi a Draguignan e Danilo Gorini che fu a lungo sindacalista nella CGT e che partecipò alla Resistenza francese.
[7]  Le condizioni di vita erano piuttosto favorevoli e la comunità locale dimostrava quanto meno una certa tolleranza nei loro confronti. Nel censimento del 1936 si contano in Francia 720.000 italiani tra esuli antifascisti e comunità di lavoratori immigrati di cui 11.000 aderenti ai partiti politici antifascisti.
[8] Studi antropologici mostrano che la catena di immigrazione si organizzava per via familiare, così che le nuove comunità che si formavano erano omogenee per area di provenienza; la stabilità di tale flusso migratorio è confermata dall’esiguo numero di ritorni in Toscana.
[9] L’ultima figlia della famiglia Lanini, Angel, nascerà in Francia nel 1931.
[10] Primo Lanini fu insignito dal capo della Repubblica dell’Ordine di Vittorio Veneto dell’Onorificenza di cavaliere al valore militare (Numero d’ordine 315). L’onorificenza commemorativa fu istituita in Italia nel 1968 dall’allora presidente Giuseppe Saragat.
[11] Alvaro Fantozzi, Segretario della Camera del lavoro di Palaia e Assessore comunale a Pontedera, fu un infaticabile organizzatore di leghe bracciantili. Il giovane fu assassinato con armi da fuoco la mattina del 2 aprile 1922 da tre fascisti di San Miniato rimasti poi impuniti. Dopo l’omicidio Fantozzi, che scosse per la sua cruenza tutta la Valdera, i comunisti aggredirono due fascisti a cui seguì una pronta rappresaglia delle camicie nere che, in varie località della Provincia di Pisa, bastonarono gli avversari.
[12] Solo due famiglie dell’ondata migratoria tornarono a Marti dopo la fine della seconda guerra a causa di lutti e della necessità di fornire un aiuto materiale ai propri cari. Gli altri rimasero tutti in Francia dove nel frattempo avevano preso la nazionalità.




Silvano Fedi

Nato a Pistoia il 25 aprile 1920, Silvano Fedi è uno dei personaggi più importanti della Resistenza pistoiese. Coraggioso, carismatico, idealista, antifascista: questi sono i tratti caratteriali che più lo hanno rappresentato.

Di famiglia benestante, fin da giovane ha maturato ideali libertari, in parte grazie alla frequentazione negli anni ’30 del Liceo Classico Forteguerri di Pistoia. In quel periodo, fra i tanti, erano iscritti alla scuola Antonino Caponnetto (in seguito magistrato e guida del pool antimafia), Manrico Ducceschi (comandante dell’XI Zona partigiani, Bronze Star Medal al valor militare da parte degli Alleati), Pier Luigi Bellini delle Stelle (comandante partigiano del distaccamento Puecher della 52ª Brigata Garibaldi che catturò Benito Mussolini a Dongo nell’aprile 1945), Giovanni La Loggia (partigiano, medaglia di bronzo al valor militare), Carlo Giovannelli (antifascista, condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, partigiano). L’educazione ricevuta si dimostrò fondamentale nel creare un gruppo di giovani studenti che amava discutere di morale, religione e politica. Da qui nacque un primo nucleo antifascista, composto da una ventina di aderenti, con l’obiettivo di «scuotere dal torpore gli italiani, limitati nelle opinioni e nella libertà di pensiero», e fornire loro gli strumenti necessari per la costruzione di una nuova coscienza politica.

Nel 1938, anno della promulgazione delle leggi razziali, Silvano fu nominato fiduciario dal gruppo di studenti “Ad Maiora” (espressione latina, letteralmente «verso cose più grandi»), gruppo poi sciolto dai fascisti che vietavano ogni tipo di organizzazione al di fuori dei GUF (Gruppi universitari fascisti) e della GIL (Gioventù Italiana del Littorio). Nell’autunno 1939 concluse gli studi e ottenne il diploma senza poterlo ritirare personalmente perché a ottobre fu arrestato per la prima volta dalla polizia fascista. Fu condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, insieme ad altri tre compagni, a un anno di carcere, per aver costituito un’associazione antinazionale e aver svolto propaganda antinazionale. Liberato grazie a un condono nel febbraio 1940, nonostante la stretta sorveglianza, divenne un punto di riferimento dell’antifascismo clandestino pistoiese arrivando a sostenere ideali di libertà e di parità di diritti basandosi sui suoi modelli libertari e sulla sua preparazione politico-culturale, con frequenti letture che spaziavano da Mazzini a Marx e Bakunin.

Il 1941 e il 1942 sono anni di crescita, di preparazione e di consolidamento per le cellule antifasciste pistoiesi. Con il 25 luglio 1943, Silvano Fedi fu tra i promotori delle manifestazioni e degli scioperi che scoppiarono in città e nelle fabbriche, ponendolo in una posizione di chiaro scontro verso il regime. Venne arrestato una seconda volta, ma fu scarcerato nel giro di poche ore.

L’8 settembre 1943 fu una data spartiacque per la carriera di Silvano e la lotta armata divenne la logica conseguenza di un pensiero politico che si era formato fin dai tempi del liceo. Con alcuni fedelissimi organizzò una propria e autonoma formazione partigiana, poi definita “Squadre Franche Libertarie”, divenendone comandante. Nel dopoguerra furono riconosciuti 79 partigiani (di cui 9 caduti) e 14 patrioti appartenenti alla squadra, che agiva in città e nelle campagne circostanti fino al Montalbano.

Le azioni della formazione “Silvano Fedi” riguardarono la liberazione di detenuti e la raccolta di armi, munizioni, vestiario e viveri, contribuendo ai rifornimenti di altre formazioni partigiane pistoiesi e lucchesi; tuttavia, non mancarono importanti scontri con i fascisti e i tedeschi. Nella memoria collettiva rimangono celebri le consecutive incursioni alla Fortezza di Santa Barbara di Pistoia, presidiata dai fascisti e dai tedeschi, il 17, 18, 20 ottobre 1943, conclusesi favorevolmente con la sottrazione di materiali. Nell’aprile seguente Silvano fu colpito da tifo addominale, malattia che lo costrinse a un periodo di cure prima di riprendere l’attività con l’ennesimo assalto alla Fortezza il 1° giugno 1944. Il 26 dello stesso mese l’attenzione della squadra si spostò al carcere delle Ville Sbertoli e l’azione portò alla liberazione di 54 detenuti politici, tre donne e due ebrei.

Silvano non riuscì a partecipare l’8 settembre alla liberazione di Pistoia. Fu colpito e ucciso, in circostanze mai chiarite, dal fuoco nazifascista il 29 luglio 1944 nei pressi della collina di Vinacciano, quando le truppe alleate avevano ormai raggiunto la Toscana e si erano arrestate al di là del fiume Arno.

Nel dopoguerra, a Silvano Fedi è stata conferita la medaglia d’Argento al Valor Militare e gli sono stati intitolati un istituto scolastico, un’associazione sportivo-culturale, una piscina e un centrale Corso. Nel 2019 sono usciti un film (Pistoia 1944. Una storia partigiana, regia di Gaia Cappelli, sceneggiatura di Matteo Cerchiai) e uno spettacolo teatrale (Una vita per un’idea, La storia di Silvano Fedi a cura di Tommaso De Santis). Nel 2020 il consiglio comunale di Pistoia ha approvato la mozione sul riconoscimento di cittadino illustre a Silvano Fedi.

Matteo Grasso è direttore dell’Istituto Storico della Resistenza dal 2016. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: “Giovanni Fattori. Lettere di un montalese dal lager nazista” (2018) e “Tesori in guerra. L’arte a Pistoia tra salvezza e distruzione” (2017).