Carlo Ludovico Ragghianti: dal Comitato Toscano di Liberazione Nazionale alla Repubblica

Critico, storico e teorico dell’arte, Carlo Ludovico Ragghianti (1910-1987), forse come pochi altri intellettuali della propria generazione seppe unire un’attività culturale, vasta e profonda, a una passione politica altrettanto intensa.

Nato a Lucca da Francesco, geometra di orientamento socialista, e Maria Cesari, Carlo Ludovico Ragghianti poco più che quattordicenne dovette subire, al pari del padre, i soprusi e le prevaricazioni del fascismo locale, venendo coinvolto nel 1924 e nel 1927 in due episodi di bastonatura che ne provocarono l’allontanamento dalla città. L’irrompere della violenza fascista segnò l’avvio del suo impegno politico nel solco di un antifascismo che, sia negli anni di formazione liceale a Firenze (dove conobbe Eugenio Montale) che in quelli universitari presso la Scuola Normale Superiore di Pisa (dove, sotto la direzione di Giovanni Gentile, avviò i propri studi critici nel solco della tradizione storicistica crociana), non conobbe mai ripensamenti né fu mai condizionato dal dominio culturale e ideologico del fascismo asceso al potere. Dal regime, per via della sua crescente opposizione, vide sbarrarsi l’accesso alla carriera accademica, subendo poi da parte delle autorità di pubblica sicurezza una crescente e continua sorveglianza man mano che andava stringendo, nei suoi frequenti viaggi di studio compiuti in Italia e all’estero, contatti con personalità eminenti della cultura antifascista italiana. Impegnato dalla metà degli anni Trenta in un’intensa attività cospirativa, Ragghianti si preoccupa di mettere in contatto le diverse anime dell’antifascismo liberale, democratico e socialista, in particolare favorendo l’incontro tra il gruppo liberal-socialista di Aldo Capitini e Guido Calogero e il movimento di Giustizia e Libertà (al quale egli stesso si richiama) attorno a un programma concreto e alieno da forzature ideologiche e dogmatismi che egli individua nel nascente Partito d’Azione, alla cui fondazione contribuisce nel dicembre 1941 redigendone assieme ad altri il primo documento programmatico (i Sette punti). Arrestato per la sua attività di opposizione una prima volta a Modena nel marzo del 1942 e tradotto alle Murate di Firenze (dove in soli dieci giorni scrive il Profilo della critica d’arte in Italia), Ragghianti è di nuovo incarcerato nel 1943 a Bologna, per essere definitivamente liberato all’indomani del 25 luglio.

Stabilitosi a Firenze, Ragghianti si rende protagonista dell’azione resistenziale in seno al Partito d’Azione fiorentino e poi entro il Comitato di Liberazione Nazionale (CTLN), di cui diverrà Presidente. Dopo l’8 settembre 1943, assieme a Tristano Codignola, Enzo Enriques Agnoletti e Carlo Furno, Ragghianti cura per il Partito d’Azione la stampa del giornale clandestino La Libertà, entrando inoltre a far parte con Athos Albertoni, Carlo De Cugis e Carlo Campolmi della commissione militare del partito, la quale organizza in città circa 150-200 unità e, con l’obiettivo di costituire gruppi di partito (le future Brigate Rosselli), si occupa di allacciare i primi contatti con le bande che operano sui rilievi del fiorentino e del pistoiese. Sin dai primi di febbraio del 1944, Ragghianti organizza alcuni incontri tra i rappresentanti dei vari partiti antifascisti fiorentini allo scopo di ricostituire il comando militare unico del CTLN, falcidiato a seguito degli arresti compiuti nel novembre precedente dai tedeschi, dovendo però scontare le obiezioni dei rappresentanti comunisti, i quali non acconsentiranno a entrarvi non prima di giugno, quando si uniformeranno cioè alle direttive unitarie stabilite a livello nazionale con la costituzione del Corpo Volontari della Libertà. Sempre Ragghianti, dopo la tragica cattura il 7 giugno a opera dei tedeschi dei componenti il gruppo Co.Ra (il servizio informazioni radio clandestino del partito) si fa carico con altri della riattivazione del servizio di radiocomunicazione che, ripristinato, permetterà di ristabilire contatti logistici con gli Alleati in vista della liberazione. Ancora ai primi di giugno del 1944, Ragghianti redige assieme ad Agnoletti il manifesto, poi reso pubblico alla cittadinanza il 15 del mese, col quale il CTLN annuncia ai fiorentini la mobilitazione generale contro l’occupante nazifascista e rivendica per sé l’assunzione dei poteri di governo provvisorio nel periodo dell’emergenza. Entrato finalmente in funzione, con l’ingresso dei comunisti, il Comando Militare Interpartitico del CTLN (Comando “Marte”), Ragghianti consegna il piano d’attacco per l’insurrezione, alla cui realizzazione aveva collaborato, al nuovo comandante in carica, Nello Niccoli, mantenendo comunque sotto la sua diretta dipendenza, in qualità di commissario di guerra, i servizi radio e di controspionaggio. A consegne avvenute, il 17 giugno, Ragghianti può fare formalmente ingresso nel CTLN in rappresentanza del Partito d’Azione. Ai primi di agosto, dopo che i tedeschi hanno fatto saltare i ponti sull’Arno, Ragghianti assieme a Nello Niccoli ed Enrico Fisher riesce fortunosamente ad attraversare Ponte Vecchio servendosi del corridoio vasariano e a prendere contatto con le avanguardie alleate attestate da alcuni giorni in Oltrarno. Accreditatosi presso di esse in rappresentanza del CTLN, Ragghianti ne assumerà ufficialmente la presidenza la mattina dell’11 agosto, giorno dell’insurrezione, quando il comitato si insedia stabilmente presso Palazzo Medici Riccardi per coordinare sino ai primi di settembre il prosieguo della battaglia per la liberazione di Firenze e indi per dirigere da posizione di forza il lento e accidentato cammino di ricostruzione democratica.

30 agosto 1944 c-compressed

C.L. Ragghianti, “Guerra per la Liberazione Lavoro per la Ricostruzione”, in “La Nazione del Popolo”, 30 agosto 1944

In un suo intervento dal titolo Guerra per la Liberazione, Lavoro per la ricostruzione ospitato sul numero del 30 agosto de La Nazione del Popolo (organo del CTLN) Ragghianti dichiara infatti che il comitato toscano, «come organo rappresentativo del popolo dal quale ha ricevuto il suo mandato», avrebbe continuato a operare sino alla convocazione della Costituente in collaborazione con il governo militare alleato (Amg) e a vantaggio della «convergenza di tutte le forze» interessate alla «ricostruzione morale, politica, civile ed economica della nazione». In tal senso, Ragghianti si poneva in continuità con il disegno politico che sin dalla clandestinità aveva caratterizzato la riflessione e l’attività del CTLN e in particolare del gruppo dirigente azionista che ne esprimeva il vertice politico. Quest’ultimo, infatti, più degli altri partiti antifascisti, aveva sempre attribuito al CTLN la funzione di organo politico rappresentativo della volontà popolare, premendo affinché le autorità alleate ne riconoscessero a liberazione avvenuta tutte le disposizioni prese a favore della riorganizzazione democratica della vita civile (e dunque, in primo luogo, le nomine da esso rese effettive in tutti i principali settori amministrativi locali) e individuassero nel CTLN, piuttosto che nel Prefetto, l’organo abilitato a tenere in periferia i rapporti con l’autorità centrale. A queste prerogative di autogoverno, il gruppo azionista dirigente in seno al CTLN aveva legato altresì l’aspirazione a che il CTLN, dopo la liberazione e fino alla convocazione della Costituente, esercitasse anche funzioni di controllo sul governo dell’Italia libera in tema di assetto politico da dare al paese e a che, in generale, l’esperienza unitaria dei comitati di liberazione potesse costituire l’occasione per un radicale rinnovamento delle strutture tradizionali dello Stato in senso autonomistico e regionalistico.

Ragghianti, dopo la liberazione, si fece appunto interprete di simili istanze, promuovendo in tal senso alcune importanti iniziative. Nell’ottobre del 1944, ad esempio, egli redasse assieme al democristiano Piccioni il testo di un memoriale che una delegazione del CTLN (Ragghianti compreso) avrebbe in seguito portato a Roma per discutere col governo Bonomi e con il Comitato Centrale di Liberazione Nazionale e nel quale erano formulate le seguenti richieste: 1) istituzione di una Consulta Nazionale con funzione di indirizzo politico sul governo formata da una rappresentanza di ciascun partito componente i CLN; 2) trasferimento dei poteri dei Prefetti ai CLN provinciali o in subordine partecipazione di questi ultimi alla nomina dei primi; 3) affidamento ai CLN di funzioni proprie di organi regionali nell’ottica di decentramento. Per quanto ciascuna di queste istanze finì per scontrarsi con le tendenze conservatrici di governo e Alleati, per dissolversi poi col ripristino del tradizionale assetto centralistico dello Stato italiano, il caso toscano e fiorentino, non di meno, nonostante gli iniziali attriti di competenza tra Prefetto e CTLN, sanzionò per la prima volta il riconoscimento politico da parte dell’Amg del ruolo di rappresentanza popolare svolto nel quadro dell’emergenza dalle forze antifasciste del CTLN.

Oltre a questo traguardo, sicuramente ricco di implicazioni positive, l’interesse di Ragghianti (al pari di altri) puntava però a obiettivi più ambiziosi e dal valore di più netta rottura rispetto alla precedente articolazione storico-istituzionale nazionale, focalizzandosi in particolare sul terzo punto indicato nel memoriale presentato alle autorità romane. In effetti, Ragghianti accarezzava l’ipotesi che nel nuovo quadro istituzionale dell’Italia uscita dalla guerra il CTLN potesse essere costituzionalizzato alla stregua di un autogoverno politico e amministrativo della regione, individuando preliminarmente nella difficile missione di ricostruzione materiale, sociale e politica postbellica del paese il campo nel quale il comitato (o i vari CLN regionali) avrebbe potuto sperimentare questa sua nuova funzione. L’esempio positivo e concreto del caso fiorentino, in particolare, dove il CTLN aveva lavorato in autonomia ad approntare i piani operativi necessari al ripristino dei servizi e alla ricostruzione del tessuto locale (come era avvenuto ad esempio nel caso del salvataggio e della efficiente riattivazione degli impianti cittadini di erogazione del gas metano della Italgas, successo conseguito grazie a un piano esecutivo promosso da Ragghianti stesso entro il CTLN e oggetto, dopo resistenze iniziali, dell’approvazione e del plauso del governo militare alleato) costituiva per Ragghianti la prova che i CLN erano in grado di esercitare la direzione dell’attività di ricostruzione postbellica, su scala provinciale o meglio regionale, in collaborazione con (se non in totale autonomia da) gli organismi centrali.

In tal senso, per stimolare e coordinare questo compito, Ragghianti già dal novembre del 1944 si era fatto promotore della convocazione di un convegno regionale dei CLN toscani (poi autorizzato a tenersi solo nel maggio 1945 e indi seguito da altri due nel luglio e nel settembre) mentre sin dal 12 di agosto del 1944 aveva delineato su La Libertà il progetto dell’istituzione di un Ente Regionale per la Ricostruzione traendo spunto dal modello dell’Ente per la ricostruzione delle tre Venezie. Quest’ultimo, creato su iniziativa di Silvo Trentin all’indomani della guerra 1915-1918 per provvedere alla ricostruzione delle terre liberate, aveva funzionato nel senso di un ente di autogoverno regionale dotato di funzioni esecutive autonome dal governo centrale. A tale scopo, Ragghianti, sin dal suo primo viaggio compiuto a Roma nel settembre 1944 per prendere contatti col governo, era riuscito a ottenere l’interessamento e l’appoggio del Ministro dei Lavori Pubblici Meuccio Ruini. Tuttavia, la prolungata opposizione delle autorità militari alleate procrastinò di molto l’attuazione del progetto, rendendo possibile infine non la costituzione di un Ente esecutivo autonomo, ma di un semplice Comitato per la ricostruzione, per di più provinciale. In ogni caso, costituito con decreto prefettizio del 24 aprile 1945 n. 293 e articolato in una giunta esecutiva (presieduta da Ragghianti) e in dodici commissioni per settore di intervento (Ragghianti fece parte come membro della commissione Cultura e arte), a questo Comitato provinciale fu affidato dal CTLN il compito di formulare un piano generale per la ricostruzione della provincia di Firenze.

Sotto la presidenza di Ragghianti, il comitato per la ricostruzione lavorò senza sosta dai primi di maggio alla fine di luglio 1945, quando le conclusioni vennero presentate agli organi centrali superiori. Al contempo Ragghianti, nominato nel giugno 1945 Sottosegretario alla Pubblica Istruzione del governo Ferruccio Parri con delega alle Belle Arti e allo Spettacolo, sfruttando la contemporaneità delle cariche cercò di creare una sinergia tra i ministeri romani e gli sforzi di ricostruzione urbanistica fiorentini affidati al comitato. Forte era, in ogni caso, la volontà di Ragghianti (al pari di altri) di dar prova politica di come il CTLN, tramite il lavoro del comitato provinciale, intendesse accreditarsi come organo dirigente autonomo dell’attività di ricostruzione. Questo, come si è detto, era un aspetto particolarmente caro a Ragghianti, il quale, d’altro canto, già all’interno della “commissione macerie” istituita dagli Alleati tra l’agosto e il dicembre del 1944 aveva cercato di far sì che il team di esperti chiamato con lui a farvi parte (Giovanni Michelucci, Edoardo Detti, Giovanni Poggi, Ugo Procacci e Carlo Maggiora) predisponesse i primi interventi di risanamento edilizio al di fuori o in autonomia dalle ingerenze degli entri governativi. Anche per questo, dopo la nascita del Comitato provinciale, Ragghianti non rinunciò al progetto originario di istituire un Ente regionale con funzioni esecutive autonome, la cui costituzione, tuttavia, sfumò definitivamente in seguito alla caduta del governo Parri.

Oltre dai conflitti di competenza con le autorità alleate e prefettizie sulle funzioni di ricostruzione post-bellica, l’attività di Ragghianti alla guida del CTLN fu investita altresì da una accesa polemica interna alla sezione fiorentina del Partito d’Azione dalla quale provennero chiari segnali di delegittimazione politica e di sanzione nei riguardi del suo operato. Già nell’ottobre del 1944, Ragghianti aveva presentato una prima volta le proprie dimissioni in seguito al voto di biasimo sollevato dall’esecutivo della sezione azionista per aver acconsentito a ricevere a Firenze in visita ufficiale il Luogotenente Umberto II di Savoia. Nel corso di una successiva riunione straordinaria del comitato del partito era stata avanzata su iniziativa di Tristano Codignola l’accusa di irregolarità sulla nomina del critico d’arte alla presidenza del CTLN, carica che – argomentava Codignola – era stata affidata in realtà fin dal luglio 1944 a Enriques Agnoletti e che Ragghianti si era però arrogato quando si era fatto accreditare come tale presso gli Alleati, costringendo indi Agnoletti a compiere un passo indietro onde evitare una crisi politica in seno al CTLN. A Ragghianti, che aveva replicato al Codignola d’esser stato regolarmente indicato alla Presidenza dal partito sin dal giugno 1944 (cfr. Materiale dalle Fonti,), in quella circostanza fu comunque rinnovata la fiducia.

13 giugno 45 a-compressed

La “Nazione del Popolo” del 13 giugno 1945 annuncia il passaggio di consegne alla Presidenza del CTLN tra C.L. Ragghianti e Luigi Boniforti e pubblica la lettera di congedo di Ragghianti.

Tuttavia, una nuova crisi emerse in dicembre nel momento in cui l’avallo dato da Ragghianti alla decisione prefettizia di rimuovere dalla Sezione Provinciale per l’Alimentazione i due commissari nominati in precedenza dal CTLN in rappresentanza dei Partiti comunista e socialista, non trovò sanzione da parte della dirigenza azionista. La scollatura tra Ragghianti e il Partito d’Azione fiorentino si rifletté successivamente in occasione delle elezioni per il rinnovo della direzione di partito che si tennero a partire dal febbraio 1945 e che sancirono l’esclusione di Ragghianti dal comitato esecutivo. Delegittimato, il 3 aprile Ragghianti decise perciò di presentare le dimissioni dalla Presidenza del CTLN, benché l’esecutivo del Partito d’Azione decidesse di congelarle in attesa del completamento della Liberazione del paese (cfr. Materiale dalle Fonti). Le dimissioni infatti vennero ufficialmente accettate dal CTLN solo il 2 giugno successivo. Il 9, Ragghianti passò così le consegne a Luigi Boniforti, congedandosi su La Nazione del Popolo con una lettera carica di riconoscenza per tutti coloro che avevano reso possibile entro il CTLN «lo spirito di unità, di fraterna comprensione, di superamento del necessario dibattito politico in proposte e risoluzioni che hanno avuto per oggetto costante l’interesse generale del popolo».

Gli attriti emersi con l’esecutivo della sezione azionista fiorentina, anziché legati esclusivamente a dissonanze caratteriali con alcune personalità dirigenti (Codignola anzitutto), erano in realtà gli effetti di un progressivo allontanamento politico che Ragghianti aveva compiuto proprio nel corso della lotta di liberazione dalle posizioni liberal-socialiste, maggioritarie nel gruppo azionista fiorentino, per avvicinarsi a quelle di democrazia repubblicana proprie di Max Bauer, Ugo La Malfa e Ferruccio Parri. Questo processo di differenziazione – che in Ragghianti implicava il rifiuto delle derive impresse al partito dalle tesi di Emilio Lussu e dall’interpretazione propria di Codignola del Partito d’Azione come di una forza socialista di nuovo tipo –  in occasione del congresso nazionale del Partito svoltosi a Roma nel febbraio 1946, portò il critico d’arte, assieme ai fiorentini Boniforti, Passigli, Niccoli e Giannattasio, a seguire gli scissionisti del gruppo di Parri e La Malfa entro il Movimento per la Democrazia repubblicana, nelle cui file Ragghianti si candiderà peraltro – ma senza successo –  alle elezioni per la Costituente del 2 giugno 1946.

La mancata costituzionalizzazione delle funzioni di autogoverno regionale sperimentate dal CLN, la caduta improvvisa del governo della Resistenza di Ferruccio Parri, la fine dell’esperienza unitaria del Partito d’Azione – realtà alle quali Ragghianti aveva legato la propria aspettativa di una radicale rigenerazione del paese nel senso di una “rivoluzione democratica” – produssero in lui un crescente disincanto, acuito dal carattere conservatore del nuovo costrutto politico, sociale, economico e culturale sancito dalla nascita dell’Italia repubblicana, incapace, a suo giudizio, di segnare una reale discontinuità col passato regime e di condurre a compiutezza la democrazia nata dalla Resistenza. Lasciata la propria militanza politica per dedicarsi all’insegnamento e a un’appassionata attività di studio e di organizzazione culturale, Ragghianti avrebbe in seguito fornito amare riflessioni sulla compiutezza democratica dell’Italia repubblicana e sulla mancanza di un partito della Sinistra democratica (o meglio di una Terza Forza intesa nel solco della tradizione di Carlo Rosselli come veramente liberale e socialista) in grado di contrastare il progressivo polarizzarsi della vita politica nei due blocchi conservatori e “autoritari” del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana. Se in un suo libro di riflessioni politiche licenziato alla fine degli anni Settanta Ragghianti sentenziò con estrema amarezza il fallimento delle aspettative resistenziali, arrivando persino a qualificare i «trent’anni di regime repubblicano» come «più o meno eguali ai vent’anni fascisti», non mancò però di sottolineare comunque l’alto valore politico e morale che, nella speranza pur incompiuta di una radicale ristrutturazione democratica del paese, dopo tutto aveva significato l’esperienza autonomista del CTLN:

Firenze, nell’agosto 1944 – scriveva Ragghianti – dimostrò che il Cln, in quanto rappresentante legittimo e riconosciuto della popolazione, poteva imporre ordinamenti che non erano previsti dall’Amg, ordinamenti di autonomia e di poteri molto più ampi e capillari. E furono riconosciuti, sia pure con aspra lotta. (C.L. Ragghianti, Traversata di un trentennio. testimonianza di un innocente, Editoriale Nuova, Milano 1978, p. 16)

Bibliografia di riferimento:

P. Bagnoli, Carlo Ludovico Ragghianti. Il dovere della politica, I e II, in «Nuova Antologia» n. 2254, aprile-giugno 2010 e n. 2255, luglio-settembre 2010.

A. Becherucci, Carlo Ludovico Ragghianti dalla presidenza del CTLN al Movimento per la Democrazia repubblicana, in «Rassegna storica toscana» a. 54, n. 1, gennaio-giugno 2008.

C. Francovich, La Resistenza a Firenze, La Nuova Italia, Firenze 1975.

E. Panato, Il Contributo di Carlo L. Ragghianti nella Ricostruzione postbellica, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca 2013.

C.L. Ragghianti, Disegno della Lberazione Italiana, Vallecchi, Firenze 1975.

Id., Una lotta nel suo corso. Lettere e documenti politici e militari della resistenza e della Liberazione, Neri Pozza, Venezia 1954.

Id., Traversata di un trentennio. Testimonianza di un innocente, Editoriale Nuova, Milano 1978.

S. Rogari, Carlo Ludovico Ragghianti, in P.L. Ballini (a cura di), Fiorentini del Novecento, 3, Polistampa, Firenze 2004, pp. 149-159

E. Rotelli (a cura di), La ricostruzione in Toscana dal Cln ai partiti, vol. I, Il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale, Il Mulino, Bologna 1980.

Articolo pubblicato nel marzo del 2018.




Don Milani: ieri, oggi, domani

Sono passati cinquanta anni dalla scomparsa di don Lorenzo Milani, perciò è naturale che siano molte le iniziative, celebrative, pubblicistiche e di ricerca, che, nel corso del 2017, si sono proposte di ricordarne la figura e l’opera e di tracciare un bilancio della sua presenza nella storia recente della Chiesa e della società italiana in un’ottica, finalmente, meno condizionata da quei contrasti ideologici che hanno a lungo caratterizzato l’interpretazione della sua personalità e della sua azione pastorale ed educativa. Grazie ad un  approccio più “storico” alla sua vicenda spirituale, umana e culturale oggi possiamo quindi rileggere con più serenità ed oggettività il ruolo che egli ha svolto nell’arco di quei due decenni del ‘900 (gli anni sessanta e settanta) particolarmente densi di trasformazioni sociali e culturali e complessi dal punto di vista del consolidamento della nostra giovane democrazia.

Il mio ricordo di don Milani, tuttavia, seguirà necessariamente una logica diversa, non storica ma molto soggettiva,  in ragione del legame, emotivo e personale, che sento ancora vivo con la figura di questo prete e con la sua esperienza, perchè esse hanno pesato molto nella mia vita, nelle mie scelte professionali, religiose e politiche.

Documento81-e1427904177742-1024x386

Don ALfredo Nesi con i ragazzi della scuola di Corea (Archivio Fondazione Nesi)

Ho conosciuto don Milani nel 1965. In quell’anno era tornato sulle pagine dei giornali a causa del processo per l’obiezione di coscienza e della famosa “Lettera ai giudici”. Io  insegnavo nella scuola elementare e facevo volontariato nel doposcuola del quartiere Corea di Livorno, dove operava un prete fiorentino, don Alfredo Nesi, amico di don Milani e suo ex–compagno di studi in seminario. Anche lui col pallino della scuola come “strumento di emancipazione sociale per le classi deboli”. Frequentavo anche Pedagogia a Firenze nell’allora Magistero e molto sentivo parlare e discutere  in questi ambienti di Barbiana, di questa scuola diversa da tutte le altre. Perciò, spinta dalla curiosità, chiesi a don Nesi di portarmi con lui in una di quelle  visite periodiche che faceva a Barbiana, insieme a gli studenti della sua “casa” e a qualche collaboratore.

Eravamo all’inizio dell’estate, ma la scuola di don Milani non andava mai in vacanza; trovammo lui ed otto ragazzi fuori, sotto il pergolato, intorno al tavolone. Come sempre accadeva per i nuovi arrivati non c’erano particolari cerimonie: la misura dell’accoglienza corrispondeva alla disponibilità a stare dentro il “programma” che la scuola di Barbiana prevedeva per quel giorno. Ricordo di quella calda giornata di luglio un dom Milani, già malato ed affaticato, intellettualmente spigoloso ed affatto compiacente, imprevedibile nelle argomentazioni, duro e rigoroso nel metodo con cui affrontava ogni problema, ogni spiegazione, ma anche orgoglioso come una chioccia dei suoi ragazzi e di  come lavoravano.

Ricordo quei ragazzi così diversi da quelli “di città” che io conoscevo : diversi nelle domande che facevano, nel modo di lavorare con il libri, di discutere di grammatica e di sintassi, di storia o di astronomia. Così a loro agio in quella “scuola” spartana, lontana dai “programmi” e lontana dal mondo, ma non fuori dal mondo.

Ricordo la scritta “I care”, di cui i ragazzi stessi mi spiegarono la storia ed il significato.

Ricordo di aver cominciato a capire quel giorno che per me “fare scuola” non poteva essere  un mestiere come un altro; era piuttosto una sfida ed un dovere e che sul “come fare scuola” avevo ancora tantissimo da imparare perché le cose che avevo  visto ed ascoltato quel giorno avevano messo in crisi molte delle certezze pedagogiche e didattiche che pensavo di possedere.

don-nesi-I-care

Don Alfredo Nesi a Barbiana (Archivio Fondazione Nesi)

Altre cose le ho capite leggendo, due anni dopo, “Lettere ad una professoressa”; altre ancora le ho capite insegnando per più di trent’anni nel Villaggio scolastico di Corea, le cui scuole hanno sempre cercato di mantenere un legame ideale con Barbiana e l’esperienza milaniana, pur con scelte di contesto diverse (scuola pubblica, insegnanti e programmi “normali”, ecc.).

Sono tornata a Barbiana nel ’70, tre anni dopo la morte del priore, e a maggio 2002 con tanti amici provenienti da ogni parte d’Italia in quella iniziativa, che da allora si ripete ogni anno, che non solo vuole ricordare la figura straordinaria di questo “educatore atipico”, ma vuole soprattutto dire, con la forza che viene dai simboli, che la scuola italiana di oggi e di domani, la scuola di un paese democratico ha lì una delle sue radici più vitali, da lì deve ancora trarre molto della propria identità.

Infatti ancora oggi la domanda è: cosa  resta di quella esperienza? cosa di quella idea di “scuola” è bene tenere vivo per l’oggi e per il domani? (visto che alcuni di questo prete dissero: “don Milani è più per domani che per oggi” e che lui stesso diceva di sé di essere “appassionatamente attento al presente ed ancor più al futuro” ).

Certo non il modello organizzativo; quella di Barbiana era una scuola non riproducibile ed anche un po’ assurda: 12 ore al giorno per 365 giorni; tutto in comune letture, pensieri, incontri… con un rapporto tra insegnante ed allievo del tutto particolare e nessuna distrazione rispetto a quello che era l’obiettivo fondamentale e totalizzante: imparare per essere liberi, passando attraverso una disciplina severa, uno studio ininterrotto. E tutto questo non evitava le bocciature perché quando andavano a fare gli esami nelle scuole “normali” spesso i ragazzi di Barbiana facevano fiasco. Hanno saputo scrivere collettivamente “Lettera ad una professoressa” ma di fronte al titolo “Davanti ad un’edicola” non riuscivano a scrivere uno straccio di “tema”…

Sicuramente, invece, vanno tenute vive le sfide culturali, piuttosto che pedagogiche su cui  quella scuola aveva scelto di cimentarsi. Prima fra tutte, ed anche  la più chiara e provocatoria, quella di essere strumento per liberare le coscienze. Siamo abituati a intrattenerci con molte definizioni di educazione, di formazione, di scuola che aggiorniamo via via, in cui però i termini “libertà” e “coscienza” sono elusi o minimizzati. “La buona scuola è quella che rende tutti uguali…”- diceva don Milani – ma dove sta  la misura dell’uguaglianza se non nella liberazione per ciascuno dai condizionamenti  sociali, economici,culturali, religiosi, consumistici, ecc. in modo che la coscienza personale possa esprimere fino in fondo il suo primato e ciascuno sia e si senta cittadino a pieno titolo di questo paese?”

Sta scritto anche nella nostra Costituzione che questa è la funzione della scuola, ma a distanza di 70 anni dalla sua proclamazione e a 50 dalla morte del priore, vedo ancora tanto bisogno di affermarlo e, quasi, di gridarlo.

don Milani

Don Milani a Barbiana

Un’altra sfida che il priore ci consegna è quella delle periferie. Il suo modo di essere uomo e  credente lo hanno portato inesorabilmente verso le “periferie” della società del suo tempo: periferie fisiche (S. Donato, Barbiana), e soprattutto periferie sociali e culturali (i lavoratori, contadini, gli analfabeti, i senza parola). La scoperta della scuola, della potenza della scuola avviene per lui in questi contesti così come lì matura la convinzione che il “sapere” è l’unico viatico con cui trarsi fuori dalla condizione di marginalità, di subalternità: uscirne insieme, perché questo è la politica.

Quali sono oggi le nostre periferie in cui  stanno i senza parola? Alcune sono facili da vedere (una per tutte: gli stranieri) altre sono più difficili da individuare, in un tempo in cui sembrano prevalere apparenti omologazioni, tutti sembrano uguali eppure mai come oggi sono forti le diversità, sono nuove e terribili le ingiustizie.

Una terza sfida è quella della parola. L’attenzione alla parola, ai linguaggi, alla comunicazione è stata centrale in tutta la pedagogia milaniana. Era quasi maniacale l’insistenza con cui sezionava quasi ogni parola, nella sua etimologia, nelle trasformazioni, nei significati, nelle sfumature, trasmettendo ai suoi ragazzi la consapevolezza che la parola è tutto ed esserne padroni è la chiave che apre ogni porta. Questo aspetto dimostra la grande modernità culturale di don Milani, che già negli anni ’60 aveva compreso il ruolo e l’importanza della comunicazione nella nostra società e come essa sarebbe potuta diventare, anche  in modo subdolo, la nuova padrona delle coscienze individuali.

Che ne è oggi della parola, nella nostra scuola e nella nostra società dove il numero degli “analfabeti di ritorno” si conta a milioni, nonostante che ormai quasi tutti abbiano frequentato la cosiddetta “scuola dell’obbligo” ed anche oltre ?

Fosse solo per questi tre elementi, la lezione di don Milani  conserva una grande attualità e non può che essere motivo di seria riflessione sia per chi fa scuola che per chi fa politica.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2017.




Piero Calamandrei: “la Costituzione che cammina”

Resistenza e dall’esperienza costituente.

20171031_115850-min

Il numero monografico de “Il Ponte” dell’aprile-maggio 1955 dedicato alla Liberazione

ordinamento costituzionale democratico e repubblicano che, spezzando ogni continuità col decaduto regime monarchico-fascista, Calamandrei vide in parte già prefigurato nella funzione di governo rivoluzionaria dei CLN e sancito per la prima volta minimum di benessere economico, senza il quale – era convinto Calamandrei – i cittadini non avrebbero potuto effettivamente esplicare la propria individualità morale né partecipare attivamente al regime di libertà promesso loro dai tradizionali diritti di libertà politica. Oltre a questi ultimi, dovevano perciò essere garantiti anche diritti di libertà economica (quali il diritto alla casa, allo studio, al lavoro, alla salute, in una parola la libertà dalla miseria) che come conquiste del nuovo ordinamento uscito dalla guerra Calamandrei voleva iscritti nel programma della futura costituzione repubblicana «come affermazioni di diritti insopprimibili al pari di quelli scritti nelle Costituzioni sorte dalla Rivoluzione francese» (P. Calamandrei, Libertà e legalità, 1944).

, operò in sede di Assemblea Costituente affinché le norme programmatiche in discussione, se non proprio dar subito adito a riforme strutturali economiche e sociali, quanto meno fossero in grado di indicare in modo nitido e con lungimiranza la via con la quale conseguire “di fatto” nell’immediato avvenire le agognate libertà individuali politiche e sociali, dovette però scontrarsi come noto col compromesso, «molto aderente alle contingenze politiche dell’oggi e del prossimo domani, e quindi poco lungimirante», raggiunto tra la DC e i partiti social-comunisti attorno alla necessità di rimandare il varo delle riforme strutturali e l’attuazione delle norme programmatiche a uno scenario non prossimo, passibile di divenire (Id., Chiarezza nella Costituzione, 4 marzo 1947).

Occorre procedere a quella trasformazione economica della società che renda possibile la soddisfazione dei diritti sociali. Questo si può fare a caldo, con una rivoluzione violenta, come avvenne in Russia. Ma questo si può fare [anche] a freddo, con una lenta trasformazione democratica. La nostra costituzione ha scelto la seconda via (democrazia parlamentare, pluralità dei partiti, alternanza al potere). Ma scegliere la seconda via, che vuol dire andar piano, ma andare, non vuol dire star fermi. Vuol dire che bisogna fare leggi (che non poté fare la Costituente) ispirate a questo programma di rinnovamento sociale contenuto nella Costituzione. [Una] Costituzione rivoluzionaria nel fine, ma democratica nei metodi […] (ISRT, Archivio P. Calamandrei, 11.3.3).

volontà di mera dominazione, come ben esemplificavano il fenomeno dell’ostruzionismo parlamentare di maggioranza e il varo della legge elettorale del 1953, o “legge truffa”, che modificava sostanzialmente il principio di rappresentanza proporzionale sancito nella Costituzione. Se il cospicuo premio di maggioranza previsto dalla nuova legge elettorale, prova per Calamandrei di scorrettezza costituzionale, alle elezioni del 7 giugno di quell’anno non scattò, fu anche grazie all’apporto in fase di campagna elettorale assicurato dall’esiguo ma battagliero gruppo di Unità Popolare, di cui il professore fiorentino era stato uno dei fondatori. Contro la strumentale polarizzazione politica di quelle consultazioni giocate tra comunismo e anticomunismo e il ricatto elettorale incentrato dalla DC sulla minaccia del «doppio terrore» “rosso” e “nero” (ma in realtà superato nella pratica dalle preoccupanti aperture di credito elettorale concesse in chiave anticomunista dalla DC alla Destra e persino a figure del vecchio fascismo) Calamandrei vide nel fallimento di quell’esperimento di ingegneria elettorale un segno di speranza per la ripresa dell’originario slancio riformatore dei partiti antifascisti, nello spirito che era stato proprio della Resistenza (Id., 20171031_122242-min

Il resoconto della manifestazione organizzata al teatro Brancaccio apparso su “L’Unità” del 24 dicembre 1954 con al centro la foto di Calamandrei

Contro il progetto di “democrazia protetta” tentato nei primi anni Cinquanta dai governi centristi per “blindare” la Repubblica e restringere con norme ad hoc improntate a una sorta di “maccartismo italiano” la legittimità delle forze comuniste (come nel caso delle misure varate nel dicembre del 1954 dal DC Mario Scelba), Calamandrei insorge, condannando la limitazione dei diritti civili e politici per categorie di cittadini disposte discrezionalmente sulla base dei loro orientamenti politici e contrarie perciò ai principi di eguaglianza sanciti dalla Costituzione. Il 19 dicembre del 1954, Calamandrei interviene così a una manifestazione organizzata da Unità Popolare a Roma al teatro Brancaccio stigmatizzando le norme “anticomuniste” scelbiane e paventando il timore che esse potessero degenerare in vere e proprie liste di proscrizione su base politica.

La libertà della cultura nel decennale della Liberazione, 1955).

20171030_165911-min

L’articolo di Calamandrei “La disgrazia di essere innocenti” con cui propone un’assicurazione obbligatoria per la riparazione degli errori giudiziari (“Il Mondo” 29 settembre 1953)

assicurazione obbligatoria contro gli errori giudiziari, anche qui in ottemperanza all’articolo 24 della Costituzione che aveva demandato al legislatore il compito di stabilire modi e mezzi con i quali procedere alla riparazione.

di quei residui della legislazione fascista che, come la legge di polizia, minacciavano il pieno godimento dei diritti fondamentali garantiti dalla Repubblica. Tre mesi dopo, esultando per la prima sentenza della Corte con cui veniva cancellato il famigerato art. 113 del testo di polizia fascista, Calamandrei, dopo anni di immobilismo costituzionale, per la prima volta poté ammettere: «la Costituzione si è mossa» (Id. La Costituzione si è mossa, 1956).

democrazia autentica e sempre operante.

Articolo pubblicato nel novembre del 2017.




Idalberto Targioni

Nato nel 1868 e morto nel 1930, Targioni fu contadino, poeta autodidatta, attivista sindacale, militante politico, sindaco, scrittore e studioso, uomo controverso e discusso, spesso al centro di polemiche, sempre in contatto e talvolta in contrasto con altri protagonisti del suo tempo, come il gran maestro del Grande Oriente d’Italia Domizio Torrigiani o come, per vie indirette, Benito Mussolini. Targioni svolse un ruolo rilevante non solo a Lamporecchio, il suo luogo di adozione, nei pressi di Pistoia, ma in tutta l’area del Montalbano e in parte della Toscana e anche altrove, animando la società  e i movimenti contadini prima come socialista e, all’indomani della Grande guerra, come fascista.

Targioni era nato a Firenze il 19 ottobre 1868 (forse «dall’unione clandestina di un principe con una governante della Casa Reale», avrebbe scritto nel 1912) e fu lasciato da ignoti all’Ospedale degli Innocenti di Piazza Santissima Annunziata. Aveva quattro anni quando venne adottato dai coniugi Domenico e Giuditta Capecchi, contadini senza figli residenti nella frazione rurale di San Baronto, a Lamporecchio. Qui, pur costretto alle fatiche dei campi, riuscì ad imparare a leggere grazie alle lezioni offertegli da un prete del luogo. Da autodidatta imparò anche a scrivere e tra gli otto e i dieci anni cominciò persino a improvvisare e abbozzare i primi versi. Coltivò la vena poetica tanto da divenire uno dei più apprezzati e abili stornellatori estemporanei del Pistoiese. Fu operaio ferroviere, poi militare per tre anni prima di tornare al lavoro contadino quando, nel 1895, aderì al partito socialista e avviò un’intensa attività  militante tra i territori di Pistoia, Empoli e la Valdelsa, mostrando una spiccata sensibilità  per le cause di mezzadri e pigionali. I suoi testi poetici intriganti, spesso anticlericali e piccanti lo fecero soprannominare «Diavolo rosso». A seguito dei disordini del 1898, conobbe anche il carcere.

Rimatore in ottava, fu consigliere socialista a Lamporecchio dal 1901 dove operò fianco a fianco col massone democratico Domizio Torrigiani (che nel 1919 avrebbe assunto la carica di Gran maestro del GOI). Eletto segretario della Camera del Lavoro di Pistoia nel 1903, proseguì l’attività poetica (nel 1912 aveva già pubblicato una ventina di opere), iniziò a dedicarsi al giornalismo politico (scrisse per «La Martinella» di Colle Valdelsa, «L’Avvenire» di Pistoia, «Via Nuova» di Empoli e nel 1908 fondò «Il Risveglio del Montalbano») e tenne numerose conferenze e accademie in versi in Toscana, in altre regioni e persino in Svizzera e Francia. Nel 1914 fu eletto sindaco di Lamporecchio, unica amministrazione socialista del circondario di Pistoia.

Lo scoppio della Grande Guerra travolse la vita di Targioni, come quella di milioni di altri uomini, e spezzò in due tronconi la sua vita. Dopo una iniziale fase di opposizione all’intervento nel conflitto, che nel maggio 1915 lo portò all’arresto per l’accusa di aver incitato le manifestazioni antibelliciste  nell’Empolese, dopo l’intervento italiano in guerra di spostò su posizioni interventiste, seguendo la strada percorsa dal suo amico Torrigiani e di molti quadri e dirigenti socialisti come il più celebre Mussolini, fino a giungere a un sostegno esplicito per la guerra, in contrapposizione col neutralismo mantenuto dai socialisti italiani e in stringente contrasto con i suoi scritti e la sua attività  prebellica: una contraddizione che fu segnata anche da interessanti elementi di continuità, mai risolti pienamente come testimoniano i suoi ricchi e generosi scritti pubblici e privati.

Dopo la dopoguerra aderì al fascismo, che in Toscana era particolarmente dinamico e irriducibilmente violento; nel 1921 fondò e divenne segretario del Fascio di Lamporecchio. Trasferì le sue competenze e capacità sulla stampa fascista (scrisse per «Giovinezza», «La Riscossa», «L’Azione fascista», «Battaglia fascista»; fondò «L’Alleanza» e «L’Ordine»); nel 1923 fu nominato segretario dei sindacati fascisti dell’agricoltura della Provincia di Firenze e nel 1924 fu eletto consigliere provinciale fascista. Abbandonata ormai del tutto l’attività  poetica e ritiratosi quasi completamente a vita privata, Targioni morì a Lamporecchio il 25 maggio 1930, lasciando un vuoto che da allora non è mai stato colmato da nessun biografo e depositando una eredità  intellettuale e umana che è in attesa di essere compresa, interrogata, valorizzata.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2017.




Albano Milani Comparetti: un notabile tra guerra e Liberazione

Viver qui è un purgatorio; ma è molto utile ch’io ci sia. Se no non ci resterebbe nessuno e tutto andrebbe perduto.

Il 12 luglio del 1944, Albano Milani Comparetti (1885-1947), padre del futuro don Lorenzo Milani, con queste parole risolute ma al contempo cariche d’inquietudine si rivolgeva in lettera alla moglie Alice Weiss (1895-1978). Si era allora a poche settimane dall’arrivo su Firenze del fronte di guerra, attestato in quei giorni a nord di Siena, e Albano dirigeva le sue parole alla consorte scrivendole da Gigliola, l’amata fattoria che i Milani possedevano dal 1914 nel comune di Montespertoli, pochi chilometri a sud-ovest del capoluogo regionale toscano.

Gigliola cartolina

La fattoria di Gigliola dei Milani Comparetti, nel comune di Montespertoli (gentile concessione di Valeria Milani Comparetti)

 Luogo prediletto dalla famiglia e cornice cara all’infanzia e alla gioventù dei tre figli di Albano (Adriano, Lorenzo ed Elena), agli inizi degli anni Quaranta Gigliola era divenuta per necessità rifugio appartato dei Milani i quali, nel tentativo di sottrarsi alla minaccia dei bombardamenti e nella speranza di poter meglio proteggere Alice dai pericoli cui andava incontro in quanto appartenente a famiglia ebrea, lì si erano stabilmente trasferiti nel 1942. Nel loro buon ritiro immerso nella campagna fiorentina, i Milani avevano così cercato di blandire i disagi e ridurre i rischi di un conflitto allora lontano che però dopo l’8 settembre del 1943 e l’inizio dell’occupazione tedesca si era fatto sempre più presente. In particolare, a seguito della liberazione di Roma il 4 giugno del 1944 e della rapida avanzata del fronte di guerra in Toscana, la situazione era andata rapidamente mutando. Anche il comune di Montespertoli aveva assistito allintensificarsi della presenza tedesca e Gigliola era divenuta base di diversi reparti intenti a fare la spola tra la prima linea e le retrovie e dediti per lo più al saccheggio. Ai primi di luglio, perciò,  preoccupato per la sorte dei propri cari, Albano aveva disposto il loro allontanamento dalla fattoria di famiglia, oramai ritenuta non più sicura e prossima a essere fagocitata dall’arrivo del fronte in rapida marcia su Firenze.

Il 3 luglio, infatti, la moglie Alice partì da Gigliola alla volta di Firenze, seguita subito dopo da Lorenzo, allora giovane seminarista. Quest’ultimo, che il 19 giugno precedente aveva raggiunto i genitori a Gigliola a seguito della chiusura del Seminario fiorentino del Cestello, protetto dal suo abito talare il 4 luglio partì infatti alla volta di Firenze assieme alla sorella Elena, raggiungendo la madre a Bellosguardo, sulle colline circostanti Firenze, dove i Milani avevano in affitto una villa nella quale abitava già il primogenito Adriano, giovane studente di medicina allora inserito nella rete clandestina del Partito d’Azione. Rimasto solo a Gigliola in compagnia del fratello Giorgio, Albano Milani avrebbe assistito da quella posizione al devastante passaggio del fronte, facendone un dettagliato resoconto in una serie di lettere-diario che tra il 4 luglio e il 6 agosto 1944 egli scrisse alla moglie Alice.

A lungo rimaste inedite, queste ultime sono adesso pubblicate in un recente libro di Valeria Milani Comparetti – nipote di don Lorenzo – che con documentazione inedita e passione filologica per la prima volta ha ricostruito il rapporto che legava il futuro priore di Barbiana a suo padre Albano (si veda la locandina della presentazione del libro in  “Materiali Correlati”). In precedenza trascurata dalla storiografia, la figura di Albano – come ci suggerisce il racconto della nipote – appare invece centrale nella formazione culturale di Lorenzo e persino per il suo cammino di conversione, considerato in tal senso l’interesse che Albano – nonostante il clima agnostico e “scientista” della famiglia – dimostrò per il tema religioso e che lo avvicinò persino allo studio di testi dogmatici e teologici. Personaggio sicuramente ricco di talenti, studioso eclettico di letteratura, poliglotta, nonché imprenditore e attento amministratore dei possessi familiari, Albano nelle sue lettere scritte alla moglie nell’estate del 1944 ci offre uno spaccato inedito sulla storia della famiglia Milani, presentandoci un affresco composito dal quale risaltano al contempo i fatti terribili della guerra, dell’occupazione tedesca e del passaggio del fronte, i legami d’affetto nonché soprattutto il ruolo di pater familias e di possidente illuminato che in quei tragici eventi porta Albano a farsi carico sia dell’incolumità dei propri cari che di quella del piccolo microcosmo contadino di Gigliola che su di lui faceva affidamento: Sento il dovere di star qui con i nostri dipendenti che guardano a me come al loro capo e al loro protettore nella grande burrasca, avrebbe scritto non per nulla alla moglie.

Gigliola e il fattore

Alice Weiss in calesse davanti alla villa di Gigliola, 7 aprile 1920 (gentile concessione di Valeria Milani Comparetti)

Composta allora da più di venti poderi per cica 200 ettari di cui 150 di seminativo, la tenuta di Gigliola era stata acquistata nel giugno del 1914 dal padre di Albano, Luigi Adriano Milani, archeologo e numismatico di fama, il quale, rimasto vedovo l’anno precedente della moglie Laura Comparetti, figlia del filologo Domenico e della pedagogista russa Elena Raffalovich, aveva assegnato in via successoria quella produttiva azienda ai quattro figli (Albano, Giorgio, Piero ed Elisa) affidandone però la gestione al maggiore Albano. Quest’ultimo, in effetti, con la morte del padre avvenuta nell’ottobre del 1914 era divenuto amministratore e curatore dell’intero patrimonio familiare che all’epoca comprendeva diverse proprietà immobiliari, sia cittadine che rurali. Proprio attorno alla tenuta di Gigliola si sarebbero però concentrate le attenzioni di Albano.

Possidente del tipo paternalista, benché bonario, convinto dell’efficienza del sistema di fattoria e della bontà sociale della mezzadria – che non per nulla avrebbe difeso in un suo pamphlet del 1946 – a cavallo delle due guerre Albano si impegnò energicamente nell’ammodernamento della tenuta, sperimentando nuove varietà di colture e dedicandosi soprattutto alla viticoltura e alla produzione enologica, alla quale avrebbe applicato le conoscenze scientifiche che aveva acquisito nei suoi studi universitari di chimica,  dedicandovi poi saggi e pubblicazioni.

Podere Ulivello

Podere Ulivello. Albano Milani Comparetti al centro. Alla destra il fattore di Gigliola, Mattolini. 15 aprile 1922 (gentile concessione di Valeria Milani Comparetti)

La sua, in effetti, fu una gestione moderna dell’azienda che se pur guardava ancora con convinzione all’utilità dell’agricoltura mezzadrile, era però attenta al contempo alle nuove culture aziendali che si stavano affermando in Italia tra le due guerre, con particolare attenzione ai sistemi di organizzazione scientifica del lavoro di cui Albano diverrà peraltro sostenitore e promotore quando nel 1932 si trasferirà con la famiglia a Milano per impiegarsi nella Società Italiana Bedaux, un’azienda fondata nel 1927 da industriali del calibro di Agnelli e Pirelli allo scopo di diffondere l’omonimo metodo di organizzazione del lavoro.

D’altra parte, anche in quegli anni è sempre alla conduzione del possesso di Gigliola, caro alle gioie e agli affetti di tutta la famiglia, che Albano rimane particolarmente legato. Così, quando nella prima metà degli anni Trenta un’improvvisa crisi economica che colpisce i fratelli Milani e in modo particolare il secondogenito Giorgio sembrò mettere in dubbio la tenuta del patrimonio familiare e la conservazione della fattoria di Montespertoli, Albano si impegnò a preservarne l’integrità assumendosi il debito del fratello e facendo subentrare nella proprietà di Gigliola anche la moglie Alice Weiss. Arginato lo scompenso finanziario della famiglia, le quote proprietarie assunte da Alice sarebbero state poi recuperate da Albano nel 1939, quando cioè, a seguito della proclamazione delle leggi razziali, la situazione della consorte si fece molto delicata. Già in precedenza, i due coniugi, sposatisi nel 1919 con rito civile, avevano fatto di tutto per nascondere le origini ebraiche di Alice e salvaguardare la prole da possibili discriminazioni. Per prima cosa, nel 1934, proprio durante un soggiorno a Gigliola, avevano fatto battezzare i figli Adriano, Lorenzo ed Elena (nati rispettivamente nel 1920, 1923 e 1928) da don Viviani, pievano di S. Piero in Mercato e amico di famiglia, che ne aveva retrodatato i certificati al giorno della loro nascita. Nel 1938, poi, Alice, oltre a far domanda di recessione dalla Comunità Israelitica di Trieste, sua città natale, si era fatta battezzare in aprile dallo stesso don Viviani e il 30 novembre successivo aveva potuto celebrare con rito cattolico il matrimonio con Albano nella chiesa di S. Maria del Suffragio, a Milano. Proprio per sfuggire ai primi segnali di vessazioni antisemite, nel 1942 i coniugi Milani avevano lasciato il capoluogo lombardo, rifugiandosi a Gigliola.

Albano nei campi

Albano assieme a un contadino tra le spighe di grano. 13 giugno 1928 (gentile concessione di Valeria Milani Comparetti)

Anche qui, però, la minaccia di una possibile persecuzione si era presto ripresentata, lambendo la stessa rete familiare dei Milani. Il 30 dicembre del 1943, infatti, le autorità repubblichine di Montespertoli procedettero al sequestro dei beni della villa e fattoria di Trecento, di proprietà dell’ebreo triestino Giorgio Manni e di sua moglie Bianca Weiss sorella di Alice, che i due avevano acquistato nel 1933 proprio da Albano. Fortunatamente, l’arresto dei coniugi Manni fu scongiurato grazie a un anonimo benefattore che li preavvisò in tempo della minaccia, permettendo loro di mettersi al riparo. La tenuta di Gigliola non fu invece raggiunta da analogo provvedimento, perché a quella data Albano era già rientrato in possesso delle quote proprietarie di Alice che quindi non figurava più intestataria del bene. Quest’ultima poté così continuare a rimanere a Gigliola relativamente al sicuro, almeno sino a quando tra giugno e luglio del 1944 con l’avvicinarsi del fronte di guerra la presenza e il controllo dei reparti tedeschi aumentarono di numero e intensità. Fu allora, appunto, che fu deciso l’allontanamento di Alice e dei figli alla volta di Firenze.

Autunno 1928. La famiglia Milani di fronte ai locali di fattoria. A destra Alice con il piccolo Lorenzo sulle ginocchia. Alle loro spalle la finestra della stanza dove Albano e Giorgio vennero trattenuti dai tedeschi fra il 17 e il 23 luglio 1944

Autunno 1928. La famiglia Milani di fronte ai locali di fattoria. A destra Alice con il piccolo Lorenzo sulle ginocchia. Alle loro spalle la finestra della stanza dove Albano e Giorgio vennero trattenuti dai tedeschi fra il 17 e il 23 luglio 1944 (gentile concessione di Valeria Milani Comparetti)

Rimasto a Gigliola, Albano, nelle settimane in cui si compì il passaggio del fronte nella zona, si dette anima e corpo a cercare di mediare i difficili rapporti tra forze occupanti e popolazione locale, puntando sulla sua autorità sociale e soprattutto sfruttando la sua ottima conoscenza del tedesco, che in alcuni casi gli consenti in effetti di stemperare l’aggressività degli occupanti: Oggi alle 15 sotto il solleone – scrive il 13 luglio alla moglie – sono dovuto andare una volta e mezzo a Sazzipoli per intervenire presso militari tedeschi che volevano portar via i tre buoi rimasti, dopoché un paio di settimane fa, come sai ne avevano portato via uno. Siamo riusciti a far desistere. Uno dei due soldati era un berlinese, un bravo ragazzo che si è commosso a sentirmi parlare così bene tedesco e di Berlino.

Tuttavia, man mano che la prima linea avanza e i combattimenti si fanno più intensi, i tedeschi inaspriscono il proprio atteggiamento e anche Albano è costretto a subirne in prima persona le conseguenze. Il 17 luglio infatti un nuovo reparto prende possesso della villa di Gigliola e rinchiude Albano e il fratello Giorgio nei locali di fattoria, nei quali di fatto i due rimangono segregati per alcuni giorni. La notizia del fermo giunge sino a Firenze, da dove Lorenzo il 18 luglio decide di partire in soccorso del padre, intraprendendo un rischioso e coraggioso viaggio in solitaria sino a Gigliola. Non ci è noto il momento esatto in cui Lorenzo giunge a Gigliola, solo sappiamo che poco dopo il  rilascio di Albano e del fratello, avvenuto il 23 luglio, egli è presente e li coadiuva nel porre a riparo quel poco che si è salvato nei locali della villa, ripetutamente saccheggiata dagli occupanti. Oramai il fronte è a pochi chilometri e Gigliola è presa di mira dal fuoco incrociato dei due eserciti in lotta.

Il 24 luglio, un proiettile alleato centra il tetto della cameretta di Lorenzo, dove il seminarista era salito poco prima a mettere un po’ d’ordine: Se veniva un momento prima Lorenzo sarebbe morto, scrive Albano ad Alice lo stesso giorno. Nella notte tra il 25 e il 26 luglio, le ultime retroguardie tedesche si ritirano da Gigliola ma gli scontri con i reparti britannici e le truppe coloniali dell’VIII Divisione Indiana proseguono durissimi fino al 27, giorno in cui il capoluogo del comune viene liberato. Albano e Lorenzo, che hanno passato gli ultimi momenti al sicuro nelle cantine della fattoria, nei giorni seguenti la liberazione si danno un gran da fare per assistere la popolazione locale. Ad entrambi, che parlando inglese riescono perfettamente a farsi intendere dalle nuove autorità alleate, viene concessa una certa libertà nonché uno speciale lasciapassare che permette loro di muoversi in sicurezza. Lorenzo in particolare, nei giorni seguenti si recherà più volte ad assistere l’anziano don Viviani alla Pieve di S. Piero in Mercato che nei giorni del fronte ha accolto un gran numero di sfollati. Qui già il 27 luglio padre e figlio intervengono in appoggio a un gruppo di donne, impaurite dall’atteggiamento insubordinato di alcuni reparti indiani che avevano cercato di razziarle e usar loro violenza: abbiamo cercato di aiutare le profughe accompagnandole coi loro mezzi dal rifugio alla porta della Pieve e Lorenzo ed io abbiamo anche aiutato a trasportare le loro materasse fin fuori dove le donne si sentono più sicure, informava Albano il 28 luglio scrivendo ad Alice.

Montespertoli 44

Montespertoli, 27 luglio 1944. Fanti inglesi del 5° Royal West Kent ispezionano le macerie del paese appena liberato (Library and Archives, Canada)

Nel frattempo, mentre il fronte prosegue il suo cammino in direzione di Firenze, a Montespertoli la macchina burocratica alleata si attiva per ripristinare un governo locale provvisorio. Come loro consuetudine, gli ufficiali alleati preposti agli affari civili si rivolgono ai maggiorenti del comune. Uno dei primi a essere interpellato è proprio Albano che per il suo alto profilo e la sua conoscenza dell’inglese viene preso subito in considerazione per un posto di responsabilità, che per la verità lo lascia alquanto dubbioso: Qui vorrebbero farmi sindaco – comunica ancora alla moglie il 31 luglio – cosa che mi seccherebbe molto in questo momento, perché ci sono elementi pericolosi e la baraonda è grande ed io mi intendo troppo poco di queste cose. In effetti, il clima che si respira in quei giorni non è dei più distesi. La formazione della prima giunta della Liberazione, infatti, registra un duro braccio di ferro tra il governatore alleato e i partiti antifascisti del locale Comitato di Liberazione Nazionale che contro il parere dei militari vogliono imporre all’esecutivo il principio di rappresentanza partitica. L’accordo si raggiunge solo il 4 agosto con la formazione di una giunta formalmente apolitica, ma presieduta dal bracciante comunista Angelo Verdiani. Albano per il momento non ne entra a far parte, benché per la verità a quella data gli siano già stati affidati alcuni incarichi. Il 1° agosto, infatti, è stato convocato dal governatore alleato il quale lo ha affiancato all’ufficiale responsabile della polizia militare, il capitano Robertson.

Nel settembre del 1944, però, a seguito di una crisi municipale innescata da un ulteriore attrito sorto tra il CLN e il nuovo governatore alleato, si assiste a un rimpasto della giunta che porta all’ingresso di Albano nell’esecutivo e che permette un certo appeasement tra Alleati e componenti politiche antifasciste. Nella nuova giunta del Verdiani – riconfermato alla carica di sindaco –  Albano si interessa prevalentemente dell’istruzione scolastica del comune, compito questo che poi gli viene formalmente attribuito il 5 novembre. Il 13 ottobre 1944, inoltre, egli è nominato assieme alla moglie Alice Weiss membro della commissione comunale per la vigilanza e la tutela della pubblica istruzione, mentre nel febbraio del 1945 viene eletto anche presidente del consiglio di amministrazione del patronato scolastico. In questi mesi, nella sua veste di assessore alla pubblica istruzione, Albano si dedica soprattutto alla ricostituzione della Scuola secondaria di avviamento professionale di tipo agrario, un istituto comunale che aveva aperto a Montespertoli nell’anno scolastico 1942-43. Agli occhi di Albano per un municipio rurale quale quello di Montespertoli l’esistenza di una scuola che dopo le elementari consentisse ai figli del popolo un avviamento allo studio dell’agraria appariva un elemento di indubbia importanza per il miglioramento delle condizioni di vita locali. Non per nulla, l’esecutivo decise di porre l’affare nella propria agenda. A favore di questa realizzazione fu però Albano che più di tutti si diede da fare, intervenendo più volte nelle adunanze della giunta per sollecitare lo sblocco di quei fondi che sarebbero serviti all’impianto della scuola, nonché impegnandosi personalmente per dotarla di un corpo docenti idoneo e qualificato. Alla direzione dell’istituto, peraltro, fu insediata una cara amica di famiglia dei Milani, Clara Francese Foà, insegnante di matematica e laureata in Fisica all’Università di Firenze, che sarebbe rimasta alla guida dell’istituto sino alla fine del 1945. Nonostante le evidenti difficoltà finanziarie riscontrate dall’amministrazione comunale, grazie all’impegno di Albano e della moglie, la scuola di avviamento, nell’anno didattico 1944-1945 poté riscuotere un certo successo, registrando l’iscrizione di 57 tra alunni e alunne, ottenendo il riconoscimento del Ministero della Pubblica Istruzione e licenziando a fine anno 16 su 18 iscritti dell’ultima classe.

La Riforma Agraria

Lo studio che Albano Milani Comparetti dedica nel 1946 alla mezzadria e nel quale ne difende la conservazione (Tip. Giuntina, Firenze 1946)

L’esperienza di Albano Milani Comparetti nella giunta della liberazione di Montespertoli si sarebbe protratta sino alla fine del 1945, nonostante in questo lasso di tempo egli dovette subire una serie di accuse politiche che gli furono rivolte dal locale CLN. Quest’ultimo infatti, già nel dicembre del 1944 rese nota la precedente esperienza che Albano aveva avuto tra il 1924 e il 1927 nella giunta comunale fascista di Montespertoli e ne chiese per questo le dimissioni. Albano, in effetti, nel giugno del 1924 era stato eletto come assessore supplente nell’esecutivo di Montespertoli, anche se non vi aveva mai partecipato assiduamente. Il prefetto di Firenze, informato della cosa, il 6 marzo 1945 fece sapere d’aver già disposto per la sostituzione del Dr. Albano Milani in seno alla Giunta comunale di Montespertoli, a patto però che la notizia del suo incarico nell’amministrazione fascista venisse comprovata. Albano, in sua difesa redasse un breve memoriale, nel quale chiarì che allora la sua partecipazione alla giunta comunale non aveva avuto carattere politico, dato che vi era entrato come rappresentante degli interessi degli agricoltori, e che per di più nel 1924 non esisteva ancora la legge fascista Provinciale e Comunale ed il regime non era ancora intervenuto sul piano amministrativo. Inoltre, faceva notare Albano,  la sua iscrizione formale al PNF era avvenuta solamente nel 1933, ed egli non aveva neppure mai aderito al Partito Fascista Repubblicano, rifiutandosi per di più di far parte dell’esercito della RSI e respingendo ogni offerta di collaborazione che gli era stata offerta durante l’occupazione. Considerati i legami che la famiglia Milani aveva intessuto da tempo con il milieu antifascista fiorentino e con gli ambienti azionisti soprattutto, nelle cui file militava peraltro il figlio primogenito Adriano, Albano parlava sicuramente in buona fede quando qualificava la sua adesione al potere locale fascista come una mera questione di adattamento. Egli era stato un agrario, forse un poco paternalista, in fin dei conti un conservatore, eppur convinto della necessità di trovare una via che portasse al miglioramento economico e sociale delle classi subalterne e al conseguimento del massimo beneficio alla collettività; obiettivi che egli nel dopoguerra, come iscritto al partito liberale, andava ancora ricercando nell’idea liberale e nei potenziali benefici che il progresso tecnico e la razionalizzazione economica avrebbero potuto apportare alla società. Alla fine, comunque, il procedimento di accertamento politico non gli comportò alcuna conseguenza ed egli continuò indisturbato a espletare le sue funzioni di assessore, intervenendo alle adunanze della giunta di Montespertoli sino a quella del 22 settembre 1945. Una settimana più tardi, il 29, mentre si trovava a Gigliola, Albano fu colto da una grave crisi cardiaca che ne segnò irrimediabilmente la salute. Egli riuscì a intervenire un’ultima volta all’adunanza della giunta municipale del 21 novembre, dopo la quale, tuttavia cessò ogni funzione nell’amministrazione comunale di Montespertoli. Ritiratosi in famiglia, Albano si sarebbe spento a Firenze il 2 marzo del 1947.

L’articolo ripropone una sintesi del saggio di F. Fusi, “Albano Milani Comparetti: un notabile a Montespertoli tra guerra e Liberazione” contenuto nel libro di Valeria Milani Comparetti “Don Milani e suo padre. Carezzarsi con le parole. Testimonianze inedite dagli archivi di famiglia” Edizioni Conoscenza, Roma 2017. Si ringrazia Valeria Milani Comparetti per averne consentito la pubblicazione su ToscanaNovecento.

Articolo pubblicato nel marzo del 2017.




Tristano Codignola: un azionista fiorentino all’Assemblea Costituente

Uomo di grande carattere e di elevato profilo morale, Tristano Codignola rappresenta una figura di estremo interesse e di indubbia levatura all’interno della complessa vicenda della sinistra italiana novecentesca, non foss’altro che per la tenacia e l’assoluta coerenza con le quali, pur in contesti e momenti diversi della storia politica nazionale, operò sempre a favore di un rinnovamento del socialismo italiano e di una sua affermazione come forza riformista e di governo capace di suscitare nell’Italia postbellica un’alternativa democratica e indirizzare il paese verso il conseguimento di una profonda e concreta trasformazione politica e sociale.

Un intendimento questo mai rimosso, che anzi accompagna con continuità tutta la vicenda politica di Codignola, muovendo dall’antifascismo delle origini e attraverso la successiva stagione azionista, per progredire poi nell’Italia repubblicana con la ricerca di un socialismo autonomista inteso come una “terza forza” realmente alternativa e libera da qualsiasi condizionamento. Un intento questo al quale egli cercherà sempre di mantenersi fedele, prima puntando, dopo la scissione del 1947 del Partito d’Azione, ad unificare entro formazioni minori le sparute frange socialiste liberali esterne al PSI e poi portando nel 1957 questa minoranza “eretica” entro lo stesso Partito Socialista, storico soggetto politico riformatore della società al quale Codignola rimarrà legato sino al 1981, anno della sua morte.

In questo articolato percorso, risaltano e non si perdono mai in Codignola alcuni tratti fondanti del suo pensiero politico, quali tra tutti il tema della libertà, della giustizia sociale, di una concezione laica della vita, che certo gli provengono da varie e composite frequentazioni culturali ma soprattutto dall’influsso del socialismo liberale volontaristico e aclassista dei fratelli Rosselli, che non per nulla caratterizza il gruppo azionista fiorentino di cui Codignola, nella transizione dal fascismo alla Repubblica, diventa l’indiscusso leader politico. È Firenze non per nulla il luogo, spaziale e al contempo ideologico, nel quale affondano le fondamenta del pensiero e della lunga militanza politica di Codignola, benché per la verità di natali non toscani.

Nato ad Assisi il 23 ottobre 1913 e figlio del grande pedagogista Ernesto, Tristano Abelardo Codignola (“Pippo” per gli amici e per i compagni di lotta) cresce però in Toscana, prima a Pisa e poi a Firenze, città nelle quali la famiglia si trasferisce a seguito degli incarichi di insegnamento del padre Ernesto. È nel capoluogo toscano che quest’ultimo, allievo e collaboratore di Giovanni Gentile, ottiene nel 1923 la cattedra di pedagogia alla facoltà di Magistero e vi dirige poi a partire dal 1930 la casa editrice La Nuova Italia. Ed è sempre a Firenze che Tristano completa i suoi studi, prima diplomandosi al Liceo Michelangelo e poi laureandosi in giurisprudenza nel 1935 con una tesi in Storia del Diritto Italiano (relatore Francesco Calasso), cattedra della quale Codignola sino al 1942 sarà peraltro assistente. Dopo la laurea, Tristano comincia a lavorare nella casa editrice del padre, impresa di cui poi sarà a capo per circa quarant’anni, dalla Liberazione sino alla sua morte. Già di sentimenti antifascisti, nel 1936 Tristano aderisce al movimento clandestino liberalsocialista di Calogero e Capitini, attività per la quale è segnalato agli organi di polizia e più tardi arrestato nella propria abitazione fiorentina il 27 gennaio 1942. Dopo alcuni mesi difficili di confino scontati a Lanciano, Tristano torna sul finire dell’anno a Firenze, dove riprende subito l’attività clandestina, divenendo nei mesi dell’occupazione tedesca protagonista indiscusso della Resistenza cittadina nelle file del Partito d’Azione. Della sezione fiorentina Codignola è infatti eletto segretario nel 1945, mantenendo a partire dallo stesso anno e sino al 1947 anche il ruolo di direttore dell’organo politico del partito, il settimanale Non mollare! che riprende il nome della testata fondata a Firenze nel 1925 dal gruppo antifascista di Italia Libera.

È appunto al Partito d’Azione che, nella sua coeva riflessione politica, Codignola riconosce nel quadro dell’Italia postbellica il ruolo di forza socialista di tipo nuovo, a cui spetta attuare una rivoluzione democratica e un rinnovamento di tutti gli istituti fondamentali della vita italiana. Una missione questa per la quale Codignola cerca di lavorare spingendo il partito, dopo la caduta del governo Parri e la fine della stagione ciellenista, verso un’impostazione di sinistra di tipo rivoluzionario che è quella propria dell’interpretazione fiorentina dell’azionismo, legata cioè ancora una volta al socialismo liberale dei Rosselli: “per noi toscani il partito non può avere che un senso rivoluzionario, perché vuole cambiare tutta l’organizzazione statale italiana” afferma Codignola parlando al I Congresso nazionale del PdA che si tiene a Roma nel febbraio del 1946 e che sancisce appunto la vittoria della sua mozione sull’indirizzo politico del partito.

"Non Mollare!", Firenze, 6 febbraio 1946

“Non Mollare!”, Firenze, 6 febbraio 1946

A muovere Codignola su questa strada è anche la preoccupazione di ricondurre ad unità ideologica e politica il partito a fronte dei vari dissidi interni e di dotarlo così di una posizione autonoma e di equilibrio rispetto alle tentazioni trasformiste che nel nuovo quadro politico che anticipa il doppio voto del 2 giugno 1946 animano anche il campo delle sinistre. Già in previsione di questo passaggio fondamentale, discutendo dei possibili e futuri schieramenti interni all’Assemblea Costituente, Codignola, mentre riconosce nel PdA la “punta avanzata della democrazia progressista” e il solo “partito intimamente ed essenzialmente democratico”, gli attribuisce al contempo il compito di “creare il terreno di equilibrio fra socialisti e comunisti, impedire ai primi una politica di trasformismo, impedire ai secondi una prevalenza di motivi classisti (creatori di privilegi) su motivi democratici” imponendo al contempo “il chiarimento delle posizioni conservatrici della democrazia cristiana” (T. Codignola, Al di là della Costituente, «Non Mollare!» 18 aprile 1946).

In modo non dissimile, mentre egli riafferma a seguito dell’esito del voto del 2 giugno il valore della scelta repubblicana come “l’unica soluzione logicamente democratica”, ravvisa nuovamente la pericolosità della “tendenza di comunisti e socialisti a varare con la Democrazia Cristiana un accordo di condomino governativo” rivendicando invece per il PdA la scelta coerente di rimanere all’opposizione; un’opposizione tuttavia costruttiva che “come funzione essenziale della vita democratica e della dialettica parlamentare, si risolve in effettiva collaborazione da svolgersi attraverso il libero contrasto anziché attraverso la corresponsabilità di governo” (T. Codignola, Dalla monarchia alla repubblica, «Non Mollare!» 8 giugno 1946). Emergono già da queste posizioni il riconoscimento più tardo che Codignola avrà modo di fare del Parlamento come luogo preposto al libero e democratico confronto, nonché la sua peculiare natura di deputato e politico disposto a ricercare il compromesso nella concretezza dell’agire politico, senza mai però scendere a patti su questioni di principio.

Breve profilo biografico del candidato Codignola ("L'Italia Libera", Roma, 4 maggio 1946)

Breve profilo biografico del candidato Codignola (“L’Italia Libera”, Roma, 4 maggio 1946)

Alle elezioni del 2 giugno per l’Assemblea Costituente, Codignola si candida per il PdA nel XV Collegio elettorale di Firenze-Pistoia, nonché contemporaneamente nel XVI di Pisa-Livorno-Lucca-Apuania. Nella prima circoscrizione è presentato al quarto posto della lista azionista dopo Piero Calamandrei, capolista, Max Boris e Carlo Campolmi ed ottiene il terzo miglior piazzamento con 566 preferenze a fronte dei 1.941 voti del Calamandrei e dei 756 di Carlo Furno. Nella seconda circoscrizione Codignola appare invece in terza posizione dopo Guido Calogero e Amato Mati, piazzandosi al secondo posto con 588 voti di preferenza alle spalle di Calogero che ne ottiene 1.266. Il responso che il suo nome ottiene alle urne è quindi positivo, benché in realtà l’esiguo risultato elettorale riportato complessivamente dal PdA (334.784 voti, di cui 28.364 in Toscana) non consente al partito l’ottenimento di alcun quoziente pieno, di modo che i propri candidati potranno esser eletti solo tramite il Collegio Unico Nazionale. Tra i sette deputati azionisti eletti così nella lista nazionale all’Assemblea, Codignola risulta il settimo, alle spalle di Alberto Cianca, Riccardo Lombardi, Piero Calamandrei, Fernando Schiavetti, Leo Valiani e Vittorio Foa. Questi, entrati in Assemblea, costituiscono il gruppo parlamentare definitosi “autonomista” unendosi a Ferruccio Parri e a Ugo La Malfa, fuoriusciti dal PdA nel febbraio ed eletti nella lista di Concentrazione Democratica Repubblicana.

Nonostante Codignola sia tra i deputati più giovani, la sua attività all’Assemblea si distingue per la quantità e qualità degli interventi che vi svolge, nonché per l’evidente capacità dialettica e critica che contraddistingue il suo interloquire. Due sono soprattutto gli ambiti di discussione nei quali egli fa sentire con autorevolezza la propria voce. Da un lato vi è la questione dell’ordinamento autonomistico della Repubblica, tema non nuovo in Codignola che già della necessità di uno Stato a base autonomistica aveva parlato nelle Direttive programmatiche al PdA fiorentino del giugno 1944, quando aveva inteso l’autonomia come “autogoverno e autocontrollo del cittadino che ha il diritto e il dovere (…) di gestire direttamente la cosa pubblica insieme con gli altri consociati”. Più tardi, nell’ambito dei lavori della Costituente, Codignola auspica una riforma autonomistica ispirata alla necessità “di ravvicinare la rappresentanza alla base del Paese, e di affidare a questa rappresentanza i più ampi poteri di autogoverno e di legislazione locale nell’ambito della legislazione generale”. Colpisce in tal senso come in Codignola la difesa delle autonomie di cui si fa proponente sia però sempre intesa nel pieno rispetto dei principi generali dello Stato come pure a difesa della sua stessa unità: “una effettiva e radicale riforma autonomistica non è quella che indebolisce la unità dello Stato, ma quella che la rafforza” (T. Codignola, Chiarificazione sulle autonomie, «Italia Libera» 2 agosto 1946). Si capisce anche da questo passaggio, come egli, pur facendosi garante più volte della difesa delle autonomie regionali e in particolare della necessità di garantire costituzionalmente le minoranze etniche e linguistiche delle zone di confine, avesse però ritenuto discutibile il sistema col quale si stava dotando alcune regioni italiane di statuti speciali, che a suo giudizio si erano rivelati in alcuni casi incompatibili con il principio di unità dello Stato. Per questo, nel luglio del 1947 aveva proposto con un emendamento all’articolo 108 del Titolo V del Progetto di Costituzione della Repubblica (poi non approvato) la necessità di formulare una dichiarazione che, nel rispetto dell’ordinamento regionale, garantisse però al contempo il mantenimento delle libertà fondamentali garantite ai cittadini dalla Costituzione.

T. Codignola, "Chiarificazione sulle autonomie" ("Italia Libera" 2 agosto 1946)

T. Codignola, “Chiarificazione sulle autonomie” (“Italia Libera” 2 agosto 1946)

A fianco del problema delle autonomie, è però il tema della scuola che in sede di Costituente suscita più di altri la vis critica di Codignola e l’appassionata difesa dei suoi principi. Sicuramente, l’impegno di Codignola su questo aspetto è da ricondursi in buona parte al peso che la questione dell’insegnamento esercita su di lui per il tramite del padre e dei suoi interessi pedagogici, interessi che peraltro egli condivide e che nel prosieguo della sua carriera parlamentare lo spingeranno in fatto di istruzione a divenire uno dei principali riformatori dell’Italia repubblicana. La battaglia che nell’aprile del 1947 Codignola porta avanti entro l’Assemblea Costituente soprattutto sugli articoli 27 e 28 del progetto (poi divenuti gli articoli 33 e 34 della carta costituzionale) è anzitutto una battaglia combattuta per la formazione di coscienze libere all’interno di una società laica e democratica. La matrice libertaria della pedagogia del Codignola si scontra in questa sede con l’impostazione dogmatica delle forze cattoliche, sullo sfondo di una accesa battaglia per la difesa della scuola pubblica.

T. Codignola, "La scuola resta allo Stato" ("L'Italia Libera" 1 maggio 1947)

T. Codignola, “La scuola resta allo Stato” (“L’Italia Libera” 1 maggio 1947)

Secondo Codignola, anzitutto, il progetto di Costituzione avrebbe dovuto limitarsi a indicare qualche breve dichiarazione generale, lasciando alla legislazione ordinaria il compito di affrontare i problemi particolari dell’ordinamento scolastico. In tal senso, i principi generali da affermare entro la carta costituzionale sarebbero dovuti essere quelli della libertà di insegnamento, del diritto di controllo dello Stato sull’insegnamento, e del riconoscimento della gratuità dell’istruzione almeno fino al 14° anno di età. Sul primo dei tre, tuttavia, è in atto un pericoloso equivoco dietro al quale, rivela Codignola nel suo appassionato intervento in aula del 21 aprile 1947, si cela la contrapposizione tra il principio laico di “libertà nella scuola” e quello cattolico di “libertà della scuola”. I cattolici e le forze democristiane, con libertà di insegnamento intendono soprattutto affermare la “libertà della scuola”, cioè il dovere dello Stato di garantire a chiunque – ad istituti ed enti privati quindi – la piena libertà di organizzare ed esercitare la funzione educativa, dice Codignola, “fino alle estreme conseguenze che siano loro consentite”. Ciò significa però che la scelta dei contenuti, delle idee e dei comportamenti da trasmettere nell’insegnamento rischia di essere ispirata a principi di parte e diventare nel caso della scuola cattolica un’educazione autoritaria all’accettazione di una verità rivelata che è una Verità sola. La scuola della Repubblica deve invece educare al pensiero libero e critico, perché se suo scopo è quello di assicurare un’educazione democratica del cittadino l’unico modo è che si faccia portatrice di un principio di libertà di insegnamento che promuova la convivenza e il confronto di diverse posizioni culturali e ideologiche. Soltanto la scuola pubblica, come palestra di confronto tra verità diverse, può assicurare questo principio di libertà. C’è in questa convinzione la consapevolezza, che è propria di Codignola e che non a caso era stata pure alla base della pedagogia del padre, che un’educazione autoritaria rischi di trasmettere un’attitudine autoritaria, laddove invece un insegnamento veramente libero può divenire un propulsore dello sviluppo democratico del paese.

"L'Italia Libera", 22 aprile 1947

“L’Italia Libera”, 22 aprile 1947

Il laicismo di Codignola, sempre presente nella sua attività parlamentare (non a caso egli vota contro l’accettazione nella carta costituzionale del Concordato del 1929) è particolarmente evidente nella difesa che egli fa in aula della scuola pubblica contro gli assalti democristiani e nei riguardi soprattutto del Dc Guido Gonella, il “ministro dell’istruzione privata” come lo apostrofa Codignola, intento a preparare “una riforma clandestina della scuola”. Un argine a simili progetti viene posto soprattutto grazie alla battaglia combattuta dal PdA e dalle altre forze laiche attorno ad un emendamento al comma 1° dell’art. 27 del progetto, firmato assieme ad altri deputati dallo stesso Codignola. Ribaltando il senso di un precedente emendamento democristiano che proponeva la norma del sovvenzionamento da parte dello Stato delle scuole non statali, la controproposta firmata da Codignola – che poi si affermò nella votazione per appello nominale con uno scarto di circa quaranta voti – riconosceva che la piena libertà di istituzione di scuole da parte di enti e di privati fosse però senza oneri per lo Stato. Il tentativo democristiano di porre a carico dello Stato la “libertà della scuola”, nel senso dato dai cattolici, fu in questo modo respinto.

L’impegno profuso in sede di Costituente da Codignola per una scuola pubblica laica e democratica diverrà poi una costante della sua successiva attività politica e parlamentare, sia come responsabile dal 1958 della Commissione scuola del Psi, che come deputato socialista protagonista di numerose battaglie (come quella sostenuta contro il piano decennale per lo sviluppo della scuola presentato nel 1958 dal governo Fanfani)  nel farsi anche di importanti riforme quali l’istituzione della scuola media dell’obbligo (1962), della nuova scuola materna di Stato (1968), nonché della liberalizzazione agli accessi universitari e dei piani di studio sancita dalla legge n. 910 del 10 dicembre 1969, ricordata ancora oggi come “legge Codignola” dal nome del suo ideatore.

Un impegno coerente, quello di Codignola nei riguardi della scuola, che richiama la più generale coerenza con la quale egli portò avanti nella lotta politica i suoi principi fondamentali, spesi sempre a vantaggio dell’affermazione di una compiuta democrazia laica e socialista.

Articolo pubblicato nel maggio del 2016.




Leda Rafanelli, libertaria e musulmana, giornalista e scrittrice

Della lunga vita (Pistoia, 1880-Genova,1971) di Leda Rafanelli, dedita fin dalla prima giovinezza non solo alla militanza nel movimento anarchico, ma anche all’attività di pubblicista e scrittrice, è impossibile dare in poco spazio una sintesi sia pure estrema. Ci si limiterà, qui, a concentrare l’attenzione sul periodo della sua formazione giovanile, in cui già si incontrano realizzati esempi della sua vulcanica poliedricità.

Leda si stabilisce a Firenze nei primissimi anni del ‘900, secondo la ‘vulgata’ (trasmessa dalla maggioranza di suoi biografi e critici) dopo essere rientrata da un soggiorno in Egitto, dove si sarebbe convertita contemporaneamente all’anarchismo e alla fede musulmana. Peraltro non vi è certezza che tale soggiorno sia effettivamente avvenuto e tanto meno che ad Alessandria d’Egitto la giovane Leda abbia avuto contatti con l’ambiente anarchico de “La Baracca Rossa” fondata da Enrico Pea. Se Leda rimase sempre molto sul vago a proposito di quel viaggio, fu lo studioso Pier Carlo Masini, a lungo suo amico, ad accreditare tale narrativa (si vedano: Iréos e Djali, in Luigi Fabbri, Studi e documenti sull’anarchismo tra Otto e Novecento, Pisa, BFS edizioni, 2005 e l’introduzione a Una donna e Mussolini, Milano, Rizzoli, 1946). Lo stesso Masini riporta la descrizione fatta da Leda (nell’inedito Pensieri del 1897) del proprio incontro, che sarebbe avvenuto in questa circostanza, con Luigi Polli.

Quello che invece è certo è che Leda incontrerà (nuovamente o per la prima volta) Luigi Polli, che sposerà nel 1902, nell’ambiente della Camera del Lavoro di Firenze. In questo stesso contesto Leda incontra e stringe amicizia con gli “ultimi internazionalisti” (‘reduci’ della Prima Internazionale antiautoritaria) Giuseppe Scarlatti, Francesco Pezzi e la sua compagna Luisa Minguzzi, fondatrice della prima sezione femminile dell’Internazionale.

untitledA Firenze Leda, la cui scolarizzazione si era fermata alla seconda elementare, lavora come tipografa e pubblica il suo primo opuscolo “di propaganda”, Alle madri italiane (1901) con la Libreria editrice G. Nerbini. Qui Leda si riferisce ancora a se stessa come “socialista” e rivolge alle madri il messaggio di “noi socialisti”, propugnando l’idea seppure non del rifiuto totale della religione da parte delle madri credenti, di una religione spogliata dalle sovrastrutture ecclesiastiche.

Nel 1903 inizia la lunga e intensa collaborazione (che durerà fino al 1906) di Leda a «La Pace», il quindicinale antimilitarista di Genova diretto da Ezio Bartalini, giovane socialista dissidente. In quello stesso anno suoi versi e bozzetti in prosa che hanno per oggetto le ingiustizie della società e la persecuzione nei confronti degli anarchici, appaiono su «L’Agitazione», “periodico socialista anarchico” pubblicato a Roma. Dal 1904 in poi la sua firma è frequente su vari altri giornali: «Il Libertario» di La Spezia (dove molti degli articoli appaiono a firma del “Comitato pro-vittime politiche”, costituito nel 1904 insieme a Scarlatti e ai coniugi Pezzi), «La Voce della donna», «L’Allarme», «Il Grido della folla», «L’Aurora», «Energia»: periodico dei giovani socialisti, «La Donna socialista», «In Marcia», «La Protesta umana».

Lo stile giornalistico di Leda si distingue fin da ora per la sua versatilità: i temi che le stanno più a cuore, in particolare quelli dell’antimilitarismo e della lotta per la giustizia e la libertà, vengono affrontati non solo in articoli polemici, ma anche attraverso l’uso di versi e ‘bozzetti’.

Sempre degli anni fiorentini è l’incontro di Leda con importanti esponenti libertari: nel dicembre 1905, al convegno dei sindacalisti rivoluzionari di Bologna a cui partecipano Leda e Luigi Polli, sono presenti, tra gli altri, Luigi Fabbri, Oberdan Gigli, Armando Borghi e Pietro Gori. E del credito che Leda ormai godeva in campo libertario fa fede il fatto che proprio lei firma la prefazione allo scritto di Borghi del 1907, Il nostro e l’altrui individualismo.

È del 1906, poi, la fondazione da parte di Leda e di Luigi Polli (con la collaborazione di Scarlatti) del giornale «La Blouse», realizzato “da autentici lavoratori del braccio” per i “tipi Rafanelli-Polli”.

L’attività di collaborazione e fondazione di giornali non la porta a trascurare la scrittura di opuscoli di propaganda, come pure quella di racconti e romanzi: il 1907 è un anno di intensa produzione di pamphlet, stampati inizialmente dalla “Tipografia Ugo Polli” e poi dalla “Libreria editrice Rafanelli-Polli”. Di tale prolificità e varietà di generi dà conto il lungo elenco che si trova al fondo A l’Eva schiava di scritti precedenti “e che possono essere ordinati della stessa autrice”. Si tratta di: Un sogno d’amore; Le memorie di un prete; La caserma … scuola della nazione (dal diario di un soldato); Amando e combattendo; La bastarda del principe; Contro la scuola; Dal ‘Dio’ alla libertà; Società presente e società avvenire.

Nei pamphlet del 1907 è ormai chiaro il passaggio all’ideologia anarchica, dichiarata con orgoglio nell’enfatizzato “noi libertari”, insieme ad un accentuarsi dell’antimilitarismo e della critica della religione, con l’appello alle madri per richiamarle al loro dovere di educare i figli agli ideali di giustizia e libertà.

Il lungo e fecondo periodo fiorentino, insieme al matrimonio e sodalizio con Luigi Polli, si avviano a conclusione quando Leda incontra Giuseppe Monanni, un anarchico aretino che si era trasferito a Firenze nel 1907 e qui aveva fondato la rivista «Vir». A metà del 1908 la coppia si trasferisce a Milano dove inizia la collaborazione a «La Protesta umana» edita da Ettore Molinari e Nella Giacomelli.

A Milano inizia il successivo lunghissimo e sempre intensissimo capitolo della vita, militanza e attività di giornalista e scrittrice di Leda. E se dall’attività politica Leda si ritirerà progressivamente a partire dal 1919, quella di scrittrice prosegue invece fin quasi all’ultimo della sua lunga vita che si conclude a 91 anni, nel 1971, a Genova.

Articolo pubblicato nel marzo del 2016.




Oreste Ristori: una storia antifascista tra Toscana e Sudamerica

Oreste Ristori nasce il 12 agosto 1874 sulle colline del Pino, nei pressi di San Miniato. Suo padre fa il pastore, ma a causa della crisi agricola del 1878 la famiglia si deve trasferire a Empoli. Oreste cresce in un ambiente di grande povertà senza poter frequentare la scuola. La madre esegue lavori con la paglia e alleva animali che vengono poi venduti nei mercati di Empoli e San Miniato. Oreste accompagna spesso i genitori e ha occasione di conoscere vari giovani che “blasfemano contro la chiesa” e discutono di politica e anarchia. Inizia a frequentare il gruppo anarchico di Empoli, dove conosce Antonio Scardigli ed Enrico Petri. Con questo viene arrestato per la prima volta durante una manifestazione a San Miniato il 21 marzo del 1892. Nel maggio dello stesso anno muore il padre. Giudicato dalle autorità “anarchico esaltato, di pessimo carattere, contrario al lavoro capace di qualsiasi azione criminale”, negli anni successivi viene arrestato altre volte, e inviato in carcere o al domicilio coatto. Prima a Porto Ercole, da dove fugge assieme ad altri 6 compagni, ripreso finisce alle Tremiti. Qui le condizioni di vita provocano una rivolta, capeggiata dal gruppo degli anarchici, che viene repressa nel sangue e nella quale muore Argante Salucci, anarchico fiorentino del gruppo di Santa Croce sull’Arno. Ristori è processato per incitamento alla violenza e finisce a Pantelleria. Nel settembre ottiene la libertà e ritorna a Empoli, dove è sospettato di voler formare un gruppo per compiere attentati contro persone e cose. Entra in clandestinità ma viene rintracciato e mandato di nuovo al domicilio coatto, questa volta a Ventotene. Di nuovo liberato, ritorna a Empoli, dove fonda un gruppo e inizia a fare propaganda lungo la costa toscana tra Piombino e La Spezia. Siamo nel 1898 e, a seguito dei fatti di maggio a Milano, si succedono varie rivolte un po’ ovunque. Oreste passa clandestinamente a Marsiglia, dove si stabilisce nella folta colonia italiana con il nome di Gustavo Fulvi; identificato, a settembre è rimpatriato e poi inviato al domicilio coatto, a Favignana. Comincia a scrivere articoli per diversi giornali, nell’ottobre del 1899 viene trasferito a Ponza dove conosce Luigi Fabbri. Partecipa alla pubblicazione del numero unico «I Morti» e viene confinato nella fortezza di Gavi. Nel marzo del 1900 organizza una manifestazione in ricordo delle vittime della Comune di Parigi, ma è scoperto e trasferito a Ustica. Intanto, da giovane anarchico irrequieto e ribelle diventa, come segnala la polizia, un capace oratore, guadagnandosi il soprannome di Beccuto, propagandista e stimato giornalista: “Dal 1901 era già un noto corrispondente dei giornali anarchici «L’Agitazione» di Ancona, «Il Risveglio», di Ginevra, «Le Libertaire», di Parigi e «L’Avvenire», di Buenos Aires”. All’inizio del 1901, messo in libertà e rimandato a Empoli, comincia a maturare l’idea di emigrare in Argentina dove ci sono molti anarchici italiani coi quali è in corrispondenza. Dopo un primo vano tentativo riesce a salire come clandestino su una nave e raggiungere, nell’agosto del 1902, Buenos Aires.

Foto segnaletica di Oreste Ristori, anni Venti del '900

Foto segnaletica di Oreste Ristori, 1911

La sua vita in America Latina è degna di un romanzo. Costretto a spostarsi più volte tra Argentina, Uruguay e Brasile a causa delle persecuzioni poliziesche, nei primi trent’anni del nuovo secolo Ristori è un protagonista delle battaglie del movimento operaio. Per ben tre volte riesce a sfuggire, in modi sempre più rocamboleschi, ai rimpatrii forzati applicatigli dalle Autorità, durante l’ultima si frattura entrambe le gambe e ciò lo renderà zoppo per il resto della vita. Fonda due giornali di grande diffusione: «La Battaglia» a São Paulo e «El Burro» (L’Asino), a Buenos Aires. In Brasile, casa sua è frequentata da intellettuali come Oswald de Andrade, uno dei maggiori poeti brasiliani, e vi passa anche il giovane Jorge Amado, come racconta nel suo Anarchici grazie a dio Zelia Gattai, sua futura compagna e che all’epoca era una ragazzina la cui famiglia era amica di Ristori. Dagli anni Venti in poi è particolarmente importante il suo impegno unitario antifascista.

Nel giugno del 1936, a causa della sua attiva partecipazione alle agitazioni popolari che nei primi anni Trenta attraversano la città di São Paulo contro le formazioni paramilitari brasiliane che si ispirano al fascismo, le Autorità riescono infine rimpatriarlo. Pur essendo sorvegliato, poco più di un mese dopo essere arrivato in Italia, riesce a raggiungere la Spagna, ove collabora – vista l’età, probabilmente solo in veste di propagandista – con le forze antifasciste e tenta inutilmente di organizzare l’arrivo di Mecedes, l’amata compagna rimasta in Brasile; verso la fine della guerra raggiunge la Francia, sempre con l’obiettivo di riuscire a riunirsi con Mercedes. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il governo francese lo confina e, nel marzo del 1940, lo rimpatria. Le Autorità lo obbligano a risiedere a Empoli, ma Oreste è indomito, cerca gli antichi compagni e in novembre si fa due settimane di carcere per avere diffuso notizie “allarmistiche” sulle sorti della guerra e del regime. Intanto anche lo scambio di corrispondenza con Mercedes termina perché la guerra determina l’interruzione dei contatti tra Italia e Brasile. Nel 1943, è uno dei primi a scendere in strada per festeggiare la deposizione di Mussolini. Nuovamente arrestato, è rinchiuso alle Murate a Firenze. Nella notte del primo dicembre i partigiani uccidono il capo del Comando militare Gino Gobbi. Al mattino seguente Ristori, l’anarchico Gino Manetti e i tre militanti comunisti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi e Orlando Storai, vengono prelevati dalla milizia fascista, condotti al campo di tiro delle Cascine e fucilati per rappresaglia. Si dice che Ristori sia morto fumando la sua pipa e cantando l’Internazionale.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2015.