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Da rastrellato a partigiano

Se un trekker allenato in stile Carnovalini decidesse oggi di raggiungere a piedi Ravenna partendo da Lucca, in poco più di dieci giorni di cammino potrebbe godere dei panorami della Valle del Serchio, la wilderness dei passi appenninici, i profondi silenzi della Valle del Reno, fino alla magica lucentezza della Pialassa Baiona. Mio padre e mio zio, costretti ai ritmi delle marce forzate imposti dai loro carcerieri, passano trentasei giorni arrampicandosi sui monti con sulle spalle due rotoli di filo spinato e due spranghe di ferro, tirando il freno delle carrette trainate dai cavalli, con la febbre addosso sotto la pioggia battente, con i morsi della fame e le bastonate dei loro aguzzini, con la strada battuta dalle artiglierie alleate, dormendo su un letto di foglie di castagno ammucchiate sotto gli alberi.

Nozzano in quei giorni dell’agosto 1944 non è più un tranquillo borgo di campagna, dove contadini e muratori si adoperano per vivere e far vivere dignitosamente le proprie famiglie. Molti uomini hanno abbandonato il paese per rifugiarsi a Chiatri e sulle colline vicine. I campi sono abbandonati e non li lavora più nessuno. Con gli ultimi giorni di luglio si è insediata a Nozzano una delle più spietate divisioni dell’esercito tedesco: la XVI Panzergrenadier division “Reichführer – SS” agli ordini del generale Max Simon. Colonne di soldati, di camion, auto e blindati della Wehrmacht e delle SS alzano continui nugoli di polvere percorrendo minacciosi le strade sterrate del paese. La scuola elementare che sorge proprio nel centro della piazza viene requisita. La maestra che abita il piano superiore viene cacciata. Quell’edificio da luogo di crescita e formazione, è trasformato in luogo di distruzione, segregazione e morte. Alle voci e ai canti cinguettanti dei bambini si sono sostituite le urla strazianti dei torturati. La gestione del carcere è affidata alla Feldgendarmerie del tenente Gehrard Walter che sguinzaglia i suoi uomini alla cattura di cittadini inermi su cui scaricare la propria ferocia e rabbia per una guerra di occupazione ormai prossima alla disfatta.

Le direttive del comandante supremo dell’esercito tedesco in Italia, feldmaresciallo Kesselring, dettano la linea a cui si deve conformare l’azione degli ufficiali operanti sul campo: “Contro le bande si agirà con azioni pianificate. Durante la marcia, nelle zone in cui vi sia pericolo di partigiani, tutte le armi dovranno essere costantemente tenute pronte a sparare. In caso di attacco aprire immediatamente il fuoco, senza curarsi di eventuali passanti. […] Il primo comandamento è l’azione vigorosa, decisa e rapida. I comandanti deboli e indecisi verranno da me convocati per renderne conto perché mettono in pericolo la sicurezza delle truppe loro affidate e il prestigio della Wehrmacht tedesca. Data la situazione attuale, un intervento troppo deciso non sarà mai causa di punizione”.

Chi non si attiene a queste direttive viene severamente punito, fino alla condanna a morte, come accade allo sventurato soldato tedesco fucilato dai propri commilitoni nel piazzale della chiesa. Così scrive il parroco Don Giovanni Galli. “… La medesima squadra demolitrice si trasforma in vero assetto di guerra: depone il piccone e si pone in testa l’elmetto, si cinge i fianchi di bombe a mano e imbraccia il moschetto. Di lì a poco salgono velocemente il Castello alcune macchine tedesche. Le osservo, non visto, dalle persiane; conducono anche degli ufficiali. Nei dintorni della torre sta curiosando qualche bambino e qualche vecchio. Viene allontanato con la scusa che si faranno brillare delle mine ed infatti si ode una fortissima detonazione. Un sergente maggiore tedesco era stato fucilato. Pozze di sangue miste a materia cerebrale sono rimaste per vari giorni a testimoniare il fatto”.  Il militare è quel Fritz, “tedesco dei Sudeti”, di cui parlano nell’immediato dopoguerra i cittadini di Filettole? Fucilato perché tenta di opporsi alle stragi di civili e perché, prima ancora, avverte la popolazione dell’arrivo delle SS? Fucilato e poi scaraventato nella fossa comune al Ponte di Ripafratta? Il dato certo è che la tomba con i resti del “buon soldato Fritz” è sicuramente esistita ed è rimasta nel cimitero di Filettole fino al 1996. Una tomba su cui i parenti delle vittime della ferocia nazista spesso depongono un fiore, soprattutto per persuadere e persuadersi che quella malvagità, per quanto grande, non è riuscita a soffocare del tutto i sentimenti dell’umana pietà.

Nozzano porta già nel nome la sua vocazione ed il suo destino (Noxa, cioè Pena). Così un paesano, Giuseppe Vecci, testimone diretto, affida la memoria di quei giorni a monsignor Francesco Baroni: “Il periodo che intercorse fra l’arrivo degli Alleati all’Arno (30 luglio 1944) e l’8 settembre, giorno della liberazione di Nozzano, è quello in cui maggiormente i tedeschi infierirono sulla popolazione inerme, e benché questa rimanesse calma e serena in attesa degli eventi, l’attività tedesca di brigantaggio non ebbe più limiti. Il sistema di rappresaglie e di terrore ebbe inizio col bruciamento di 12 capanne, ove era ricoverato grano ecc., sul mattino del 29 luglio 1944…Veniva razziato tutto il bestiame ed a ciò era incaricato un soldato tedesco delle S.S. rimasto celebre in tutta la zona. Lo chiamavano Leo ed era un vero delinquente, specializzato per tale bisogna. Interi campi di patate, fagioli erano depredati sotto gli occhi di coloro che avevano lavorato e sudato. Gli uomini e perfino i ragazzi erano rastrellati e portati a lavorare”.

Tra quei ragazzi ci sono anche mio padre Franco, diciotto anni, e mio zio Nello, di sei anni più grande. Per prudenza e per timore di essere catturati, da alcune notti non dormono nella casa paterna che si affaccia proprio sulla piazza.

Nello, in particolare, dopo l’8 settembre ha lasciato la Caserma di Genova dove prestava servizio militare e può incappare nelle disposizioni del “Bando Graziani”, decreto del 18 febbraio 1944 che prevede che “gli iscritti di leva arruolati e i militari in congedo che durante lo stato di guerra senza giustificato motivo non si presenteranno alle armi nei tre giorni successivi a quello prefisso, saranno considerati disertori di fronte al nemico e puniti con la pena di morte mediante fucilazione nel petto”.

Gli spioni fascisti però conoscono le mosse e gli spostamenti di tutti e non è difficile per i soldati della wehrmacht individuare il luogo dove si nascondono. Così, all’alba del 20 agosto 1944, un soldato tedesco in divisa sahariana ed il cappello alla norvegese entra nella loro camera: “Aufstehen!”. Sotto la minaccia del fucile puntato alla schiena, li conduce in piazza. Vengono fatti salire su un camion per essere scaricati “come sacchi” alla Pia Casa di Lucca, centro di reclutamento della forza lavoro. Su quel camion, tra i rastrellati, c’è anche un fascista di Nozzano. Urla e sbraita perché non vuole essere confuso con quella marmaglia di italiani traditori. Lui è sempre stato fedele al regime e anche ora vuole stare dalla “parte giusta”. Per questo chiede al militare tedesco di fermare il camion e di farlo scendere. Le sue proteste non producono alcun risultato. Inflessibile il guardiano lo respinge e lo rimanda a sedere sul pianale del camion. Franco, che lo conosce bene, gli si avvicina e lo invita alla calma. Non lo vedi? Per loro noi siamo tutti uguali. Siamo tutti Scheiße. In tutta risposta il paesano gli rifila un cazzotto in bocca che lo fa barcollare. A guerra finita Franco andrà volutamente a cercare il paesano e lo troverà ad occupare in Comune un ruolo di direzione nei progetti di ricostruzione post-bellica. Uno dei tanti beneficiati della mancata epurazione e della inefficacia della Legge Bonomi sulle Sanzioni contro il Fascismo, prima ancora dell’entrata in vigore del Decreto “tombale” del 22 giugno 1946 proposto dal Guardasigilli Togliatti.

Inefficacia che suscita sgomento e sfiducia tra la popolazione e le nuove istituzioni democratiche a tal punto da far approvare al Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale di Lucca nella seduta del 13 marzo 1945 il seguente ordine del giorno: “Il CpLN di Lucca, constatata l’inefficacia della vigente legge per l’epurazione, che si presta a troppo facili evasioni, constata l’ingiustificata libertà che esponenti e gregari del fascismo repubblichino ancora godono, costituendo una perenne minaccia alla rinascita democratica del paese, chiede: 1) una sostanziale modifica della legge, tendente ad ottenere una definitiva purificazione della vita politica, economica e sociale del paese; 2) al Governo e alle Autorità competenti l’invio nei campi di concentramento di tutti indistintamente coloro che hanno aderito o prestato attività collaborazionistica col fascismo repubblichino; 3) l’invio nei campi di concentramento di tutti coloro che per il loro passato politico e per avere approfittato di situazioni politiche o per aver avallato con il loro sostegno o con la loro opera la politica di oppressione del passato regime  costituiscono un motivo di perturbazione o un ostacolo alla vita normale del paese; 4) l’immediato allontanamento dagli impieghi statali e parastatali e di quelli rivestenti carattere di utilità pubblica di coloro che rientrano nelle due categorie sopra segnate; 5) che la legge di epurazione sia estesa in modo da colpire anche gli appartenenti al Commercio, all’Industria, all’Agricoltura”.

Una epurazione che paradossalmente colpirà gli antifascisti ed in particolare i comunisti al punto che Franco sarà costretto a trasferirsi a Pisa per poter ottenere un impiego come manovale delle Ferrovie dello Stato. (Colonna sonora: Sergio Endrigo “La ballata dell’ex”).

 Il 20 agosto, insieme ai miei familiari, a Nozzano viene arrestato anche Dante Braconi, già inviato al confino su segnalazione del paesano della Brigata Nera “Mussolini”, Vittorio Marlia. A guerra finita, il Braconi rilascerà ai Carabinieri di Nozzano la seguente dichiarazione: “Aggiungo di aver veduto Marlia Vittorio in compagnia di Giuseppe Cortopassi, Paolino Bertolozzi e molti altri, presentarsi ad un tribunale di guerra dell’esercito tedesco che si trovava nei mesi di luglio e agosto nei pressi di casa mia vestiti da brigatisti neri, vestirsi da tedeschi, poi partire con gli automezzi e ritornare al mattino con giovani e uomini anche anziani, caricati su camion e consegnati ai tedeschi, riuscendo poi dal locale (della scuola) vestiti da brigatisti neri”. (Processo Brigata Nera di Lucca “Atti generici” 16/01/1946 in Archivio di Stato Lucca). Parole di un perseguitato politico antifascista, al quale nessuno ha poi pensato di riconoscere un risarcimento, seppure morale.

Sarebbero comunque bastati pochi giorni, una settimana appena dopo il loro rastrellamento e la storia dei miei familiari avrebbe potuto prendere un altro verso. Il 28 agosto infatti le truppe alleate varcano l’Arno per dirigersi verso la lucchesia. Il giorno dopo le SS, dopo aver fatto saltare in aria la scuola di Nozzano, lasciano il paese per trasferirsi a Nocchi di Camaiore. In un mese esatto di permanenza a Nozzano le truppe del generale Simon, del tenente Walter e del sergente Florin, con la attiva partecipazione dei fascisti di Nozzano e dell’Oltreserchio, si macchiano di orrendi ed efferati delitti: dalla strage della Romagna a quella di Bardine S. Terenzo, dalle fucilazioni di Laiano di Filettole alle esecuzioni sommarie di S. Maria a Colle, fino all’irruzione e alle fucilazioni di monaci e civili nella Certosa di Farneta e alla partecipazione alla strage di Sant’Anna di Stazzema.

I lavori di ricerca storica per l’elaborazione di un Atlante delle stragi dicono che nella primavera-estate del 1944 nella sola Toscana si registrano oltre 200 episodi per un numero complessivo di 3.650 civili uccisi.

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Fascisti della Brigata Nera di Nozzano.Il quarto da sinistra è Vittorio Marlia (Foto archivio Orsi)

Nella sventura però c’è anche una dose di fortuna: la giovane età di Nello e Franco fa si che i tedeschi decidano di inserirli nel gruppo di “abili al lavoro”, lavoratori utili al Reich nazista. Se avessero deciso di “marcare visita” o dichiararsi “non abili al lavoro” sarebbero sicuramente stati fucilati, come è successo ad altri sventurati catturati con loro. Dalla Pia Casa quindi inizia la loro marcia forzata verso il nord. Sono impiegati come lavoratori coatti per costruire reticolati e trincee della Linea Gotica sotto il controllo della Organizzazione Todt, allo scopo di rallentare l’avanzata incalzante delle truppe alleate. Una “ritirata combattiva” quella decisa dal Feldmaresciallo Kesselring che si trasforma durante il suo cammino in una vera e propria guerra ai civili. Le truppe tedesche si muovono sui territori che attraversano come belve braccate, con la consapevolezza che la fine è ormai prossima. Ad incitarli e guidarli negli ultimi colpi di coda in lucchesia sono ancora i fascisti della XXXVI Brigata Nera capitanati dal paesano di Corte Frasconi, Vittorio Marlia, sotto la direzione di Idreno Utimpergher, originario di Empoli, guida provinciale del fascismo lucchese in quei mesi tragici.

Sempre Dante Braconi testimonierà, nel corso del processo alla Brigata Nera di Lucca “Dai primi di luglio mi trovavo nascosto in una capanna in prossimità della via che conduce a Nozzano Castello e più volte intorno alla metà di agosto 1944 ho veduto arrivare con un automezzo l’allora capitano della brigata nera di Lucca Marlia Vittorio con i militari della stessa brigata per requisire damigiane di vino, prodotti agricoli, viveri ed altro, nonché bestiame, e spesse volte ho notato il Marlia e Cortopassi Giuseppe passare nella strada in compagnia degli ufficiali delle SS tedesche gendarmeria di Nozzano”. (Processo Brigata Nera di Lucca “Atti generici” 20/11/1946 in Archivio di Stato Lucca)

La fatica, le sofferenze, la paura, le umiliazioni provate durante la marcia forzata affiorano in ogni riga del Diario. Nonostante questa condizione i fratelli Orsi e i loro compagni, il pisano di nome Angiolo e il livornese Mario, non perdono mai la speranza di poter organizzare la fuga per riconquistare la libertà. Almeno due tentativi vanno a vuoto finché con l’arrivo a Madonna del Bosco e la conoscenza di Maria, staffetta partigiana, la speranza diventa realtà. Dopo vari incontri, la notte del 29 ottobre la giovane donna li attende fuori dal campo di prigionia per condurli all’appuntamento con un barcaiolo, là dove “il fiume Senio si unisce al Reno”.

Maria fa parte di una brigata partigiana che da alcuni mesi sta organizzando la resistenza nel ravennate, ma Nello, Franco, Angiolo e Mario non vengono subito inseriti in una Compagnia. Prudenza vuole che prima di essere sicuri che non sono spie infiltrate dai fascisti vengano sottoposti ad interrogatorio e osservati e controllati nei loro comportamenti e azioni quotidiane. A vigilare su di loro è il comandante Canzio di cui Nello in particolare è attratto dal carisma e dal fascino delle narrazioni.

Canzio è un antifascista ferrarese, perseguitato politico, sfuggito nella notte del 14 settembre 1944 ad una caccia all’uomo organizzata dai fascisti di Lagosanto per catturarlo. Entrato in clandestinità, forma il Gruppo di Azione Partigiani “Tre Motte Lagosanto”: è Canzio Guietti che a guerra finita sarà il primo presidente del C.L.N. di Lagosanto.

Con Canzio si passano giorni da poter definire addirittura sereni, con tanto di festa di accoglienza con canti e balli. Sono i giorni della calma che precede la tempesta. Momenti di vero riposo. Si prende la barca e si va a colpi di paradel fra canali e canaletti alla pesca delle anguille. L’aria è fresca ma il sole è ancora caldo e in barca di giorno si può anche fare un pisolino. Non fosse per il pensiero che va alla madre, al padre, alla famiglia rimasta a Nozzano della quale da tre mesi non si hanno più notizie. La guerra è passata di là sicuramente. Gli alleati che avevano passato l’Arno hanno bombardato il paese. Si sono sentite le cannonate quando la colonna dei coatti marciava da Bagni di Lucca. In famiglia sono tutti salvi oppure qualcuno è rimasto ferito o magari ucciso sotto le bombe? Pensieri angoscianti che non trovano risposte ma non possono però bloccare l’azione.

Così, terminato il periodo di “purgatorio” e ottenuta la piena fiducia dei propri compagni, il 10 novembre i quattro fuggiaschi vengono condotti sull’Isola degli Spinaroni, al centro della Pialassa della Baiona. Qui sono rifugiati i partigiani del Distaccamento “Terzo Lori” della 28ma Brigata Garibaldi “Mario Gordini”, guidata da Arrigo Boldrini, nome di battaglia Bulow. Dopo pochi giorni dal loro arrivo formano insieme a volontari provenienti da varie zone la Quinta Compagnia “Mario Montanari”. Le compagnie sono composte da 30-35 uomini e alcune donne, la cui azione risulterà determinante per la vittoria finale. La caratteristica del “Terzo Lori” è quella di essere un “reparto di stanza” nella cui sede ogni componente può vivere in permanenza. Un distaccamento che Sergio Zavoli addirittura definirà alla fine degli anni ’60 “l’armata più singolare che guerra abbia mai conosciuto”.

Contravvenendo a quelle che sono state sinora le tattiche della guerriglia partigiana che privilegia le zone di montagna per organizzare piccoli gruppi d’assalto, colpire i tedeschi e poi ritirarsi, con la costituzione del “Terzo Lori” Bulow punta alla “pianurizzazione” della Resistenza. In concomitanza con l’avanzata degli alleati da sud si costruisce un accerchiamento delle truppe tedesche schierando le squadre partigiane nelle valli palustri a nord della città. E’ l’Operazione Teodora, obiettivo: liberare Ravenna. I compagni, già presenti sull’isola dal 29 settembre, raccontano di brevi e fulminei scontri con le truppe tedesche. Addirittura una notte con un’azione a sorpresa riescono a portar via un cannone anticarro calibro 47/32. Il campo è organizzato come un vero e proprio accampamento militare, con camminamenti e trincee, alloggi e cucina da campo e una infermeria bene dotata, con i rifornimenti che arrivano da Cervia, da poco liberata, oppure con aviolanci da parte degli alleati.

La vita nel campo ha i suoi ritmi da rispettare:

Ore 8 – Sveglia

Dalle 8 alle 9:30 – Pulizia personale, alle tende e all’accampamento

Dalle 9:30 alle ore 11:00 – Istruzione e pulizia armi

Alle ore 11:30 – Primo rancio

Dalle ore 11:30 – Consumazione primo rancio e riposo fino alle 14:30

Dalle ore 14:30 alle 15:00 – Pulizia personale

Dalle ore 15:00 alle ore 16:30 – Collettivo

Ore 17:00 – Secondo rancio

Primo turno di guardia

Franco imbraccia il fucile per la prima volta. Gli istruttori lo addestrano ogni giorno all’uso delle armi e alla loro manutenzione, mentre il commissario politico della Compagnia tiene discorsi sulle ragioni ideali e gli obiettivi della guerra di liberazione contro il nazifascismo. E’ in questi momenti che Franco matura la sua idea e la sua passione per una società comunista che non abbandonerà mai più fino al suo ultimo giorno di vita.

All’alba del 23 novembre Bulow accompagna al campo degli Spinaroni un capitano dell’VIII armata canadese: l’ufficiale Dennis Healy. Una sera il capitano riunisce tutti e parla chiaro. E’ giunta l’ora di agire, basta con i colpi di mano, sabotaggi o imboscate. E’ arrivato il momento di uscire a combattere in campo aperto, faccia a faccia con il nemico.

Così la sera del 3 dicembre inizia quella che passerà alla storia come la Battaglia delle Valli. Per sette giorni e sette notti sono scontri a fuoco con il nemico. Avanzate e ritirate. Soldati tedeschi uccisi e fatti prigionieri. Ma anche compagni feriti e caduti. Nello, che ha ripreso il suo ruolo di infermiere, interviene in più occasioni per soccorrere i compagni colpiti.

All’alba del 5 dicembre una staffetta avverte la V compagnia che le truppe tedesche della Wehrmacht, in ritirata da Porto Corsini, stanno marciando verso Sant’Alberto. Portano con loro un gruppo di uomini rastrellati tra Casal Borsetti e Mandriole. Per impedire il loro passaggio due squadre della Compagnia, circa quaranta uomini, si piazzano in prossimità di Ponte Zanzi. Una squadra si ferma in Casa dei fratelli Biancoli, l’altra in casa Zanzi. Dopo una lunga attesa compare la prima pattuglia di soldati tedeschi. Pensando di poter proseguire nella loro azione di rastrellamento, uno di loro si avvicina alla Casa Zanzi bussando con forza alla porta. Per tutta risposta gli arriva una bomba a mano che lo fa fuggire ferito e barcollante. I suoi commilitoni scatenano per oltre un’ora un inferno di fuoco contro la casa, con scariche di mitra e bombe a mano.

I fratelli Orsi, con il loro gruppo, sono asserragliati in casa Biancoli, anche loro sotto attacco della seconda pattuglia tedesca. Il mitragliere, Sesto Senni di Mandriole, tiene impegnati i soldati della Wehrmacht, ma una scarica colpisce in piena fronte, uccidendolo, proprio il padrone di casa, il partigiano Vincenzo Biancoli. Dopo poco anche il fratello Alceo, uscito di casa nel tentativo di porre in salvo la famiglia, viene ucciso dai tedeschi.

Lo scontro prosegue cruento ancora per un’ora, poi i tedeschi decidono di ritirarsi e passano su Sant’Alberto. I due gruppi di partigiani escono dalle case e si riuniscono. Nello, infermiere della Compagnia, soccorre l’unico compagno ferito, con la mandibola spezzata ed un occhio colpito: gli presta le prime cure sul campo, prima di farlo trasportare in barella all’accampamento centrale.

“Un altro episodio degno di menzione, scriverà Guido Nozzoli in “Quelli di Bulow”, è quello dei mitraglieri della 5a Compagnia SAP rimasti poco fuori di Mandriole per proteggere col fuoco delle loro armi il ripiegamento. Questi pochi uomini riuscirono a fermare i tedeschi per alcune ore. Quanto bastò per risparmiare ai patrioti altre dure perdite e per predisporre al Fossatone l’ultima linea difensiva dalla quale non avrebbero più indietreggiato a qualunque costo perché dal Fossatone si dischiudeva ai tedeschi la via del ritorno a Ravenna con le conseguenze che ben s’immaginano. Nella notte anche i mitraglieri poterono rientrare alla linea dove il grosso era attestato. A Ponte Zanzi si era stabilita la sede del comando e quella notte venne strenuamente difeso da una quarantina di volontari comandati da Franco”.

C’è un racconto di mio padre che ricorreva nelle sere d’estate quando ai Mortellini ci riunivamo con i vicini sotto la lampada d’angolo della casa cantoniera sull’Aurelia. Non amava molto raccontare la sua esperienza di partigiano, salvo prendere in giro Nello perché, non sapendo nuotare – diceva lui – aveva rischiato di annegare nella pialassa della Baiona. Quando lo faceva però ricordava sempre un suo compagno, uscito in perlustrazione con una squadra. Intercettato un gruppo di soldati tedeschi li disarmano e li prendono prigionieri. Mentre li conducono al campo il compagno tiene il mitra troppo vicino alla schiena di un tedesco che, voltatosi di scatto lo disarma, gli scarica addosso una raffica, lo uccide e fugge insieme agli altri. Una disattenzione costata la vita, frutto della inesperienza e del carattere mite del partigiano, sottolineava mio padre con gli occhi lucidi.

Quanti ragazzi si sono dovuti improvvisare soldati per una guerra che ha stravolto la loro vita, li ha strappati ai loro affetti, li ha costretti a patire il freddo, la fame e la paura, tanta paura di morire giovane, ancora con tutta la vita davanti. Sofferenze, paure, la morte che arriva e ghermisce chi ti sta a fianco: un cammino lungo e tormentato quello dei fratelli Orsi che porta però, finalmente, ad un risultato glorioso quanto inaspettato: il 10 dicembre la loro Compagnia riesce ad entrare in Ravenna, liberata da pochi giorni e può ricongiungersi con la propria Brigata. C’è gioia e orgoglio nello sfilare tra ali di cittadini festanti, anche se il bilancio di quella battaglia è di 22 caduti tra i propri compagni.

La sera e la notte passano veloci: finalmente si può consumare un pasto, sia pure frugale, attorno ad un tavolo e dormire in un vero letto. Ma il pensiero ora più che mai rimane alla famiglia rimasta a Nozzano. Non si può indugiare sereni in quel clima di festa senza sapere cosa è successo a casa.

 Così, dopo aver parlato con i propri superiori, i quattro toscani riescono ad ottenere il permesso di poter rientrare dalle proprie famiglie. Un viaggio di ritorno carico di ansia tanto è che, alle prime case di Nozzano, Nello ha un mancamento: la paura di non trovare vivo qualcuno dei suoi cari lo attanaglia, ma la conferma che “sono tutti vivi!” gli ridà la forza di entrare in casa e buttarsi nelle braccia di mamma Veriade.

Dopo una lunga notte passata a raccontare, a fare domande, a dare risposte, un buon pasto caldo e un lungo sonno che riesce a scaricare solo in parte la mole di adrenalina accumulata, si torna a girare per le strade di Nozzano, ormai liberata dai nazisti (ma non ancora dai fascisti che nel frattempo sono rientrati dal nord) per riabbracciare gli amici rimasti o ritornati, per far vedere che si è ancora vivi, per bere un bicchiere “da Brunino” e passare una serata di musica e ballo al Ragno d’Oro.

Il tragico scenario che presenta il paese va però aldilà di ogni immaginazione: la scuola elementare al centro della piazza è ridotta ad un cumulo di macerie, sventrata dalle mine tedesche. Le truppe della Wehrmacht hanno depredato stalle e campi, incendiato capanne e fatto saltare in aria anche le case attorno alla rocca. La torre campanaria del castello è crollata, colpita dai ripetuti cannoneggiamenti delle truppe alleate. Anche la chiesa è stata danneggiata.

Poi i racconti sui rastrellamenti in paese, le grida che uscivano dalle finestre della scuola per le sevizie e le torture. Le complicità dei fascisti: si racconta del povero Braconi, mandato al confino per volontà del Marlia, che ha pure fatto arrestare e uccidere dai tedeschi il direttore del manicomio. I morti impiccati con il filo spinato, fucilati, uccisi con un colpo di pistola alla nuca, nei boschi di Castiglioncello, Balbano, Casanova, Le Villine, a Filettole. Tra i morti c’è anche una bambina di nove anni, Stella, sfollata con la famiglia da Livorno, colpita a morte nelle vicinanze della stazione ferroviaria dalle schegge di una cannonata delle truppe alleate sparata di là d’Arno.

La vita piano piano riprende. Al nord la guerra di liberazione è ancora attiva. Ravenna è liberata, ma le truppe tedesche ancora non lasciano il fronte del Reno. Alfonsine è sotto attacco. Dal gennaio all’aprile del ‘45 si conteranno solo in quella zona più di trecento morti, con oltre tre quarti della cittadina ridotti a cumuli di macerie. Ma qua in paese si può tornare a pensare al futuro. Il forno di Beppe di Ballona ha ripreso a fare il pane e una ragazzina ogni mattina scende dalla Ruga per prendere un filoncino che dovrà bastare per sé, la madre, le due sorelle e i tre fratelli.

Il padre Ferruccio, muratore, è morto di broncopolmonite tre anni prima, lasciando mia nonna Pia a crescere da sola sei figli. Pochi soldi in famiglia e una lunga lista di conti da pagare sul libretto della bottega di Gioele. La ragazzina sgambetta veloce e chiede a Veriade, che abita proprio di fronte al forno, se le consente di dare una mano in casa per poter guadagnare qualcosa. Veriade la fa entrare e le raccomanda: fai la brava, se lavori bene ti faccio sposare il mì Franco. Quella ragazzina è mia madre Franca, oggi novantenne.

Il matrimonio poi ci sarà davvero quattro anni più tardi, ma Veriade non c’era. E’ il pomeriggio del 28 febbraio del ’45. Sono passati solo due mesi dal ritorno al paese dei fratelli Orsi: una colonna di carri alleati transita per Nozzano. Veriade, 61 anni e 5 figli, esce di casa con in braccio un nipotino. Vuole salutare i soldati amici che hanno portato libertà e pace anche tra le sue genti, quando le vibrazioni di un carrarmato fanno tremare e poi cadere una colonna della recinzione attorno casa. Il pesante cancello in ferro ondeggia e crolla di schianto. Veriade viene colpita a morte mentre il suo corpo protegge il bambino che uscirà incolume. A niente valgono i soccorsi.

La famiglia Orsi si trova così ad affrontare la sua ricostruzione, tra nuovi lutti e sventure, accomunata nella sorte a quelle famiglie, tutte uguali perché tutte hanno vissuto e vivono del proprio lavoro, che dopo il ventennio fascista, i drammi e le sofferenze del passaggio del fronte di guerra, hanno sperato in una società più giusta e più libera. Una società in cui le vittime dei crimini fascisti avrebbero trovato finalmente giustizia e i loro aguzzini realmente epurati dai posti di comando e di direzione, a partire dalle pubbliche amministrazioni.

Così non è stato. L’opportunismo di molti, la malafede di pochi ma potenti, hanno invece riproposto nel corso del tempo una restaurazione dei classici sistemi di comando e controllo, compatibili con una democrazia moderna, ma escludenti la grande maggioranza dei cittadini dai processi di formazione delle decisioni nonché dalla partecipazione al governo della res publica. Non appaia strano quindi che, a settanta anni dalla nascita di una comunità libera e rinnovata, si stia ancora discutendo sulle regole della rappresentatività e della rappresentanza democratica.

Per questo, ancora oggi, per mantenere viva la memoria di chi si è battuto per la nostra liberazione, pretendere la completa attuazione e la non modifica della Costituzione e continuare a sperare in una società migliore, non ci resta che unirci al grido di quel bravo magistrato: Resistere, Resistere, Resistere!

Bibliografia essenziale:

Mons. Francesco Baroni, Memorie di guerra in lucchesia (1940-1945). Note e ricordi, Tip. Artigianelli

Gianluca Fulvetti, Una comunità in guerra, L’Ancora del mediterraneo

Carla Forti, Dopoguerra in Provincia, Microstorie pisane e lucchesi 1944-1948, Franco Angeli Storia

ANPI Le stragi nazifasciste del 1943-1945, Memoria, responsabilità e riparazione, Carocci editore

ANPI Provinciale di Ravenna, Isola degli Spinaroni una base partigiana tra natura e storia, Danilo Montanari Editore

Arrigo Boldrini, Diario di Bulow, Vangelista

Guido Nozzoli, Quelli di Bulow. Cronache della 28ma Brigata Garibaldi, Editori Riuniti

AA.VV. La guerriglia in pianura: dalle prime squadre operaie alla “Colonna Wladimiro” in Alfonsine 11-12 aprile 1974, Convegno di studi sulla Resistenza.

Giulia Belletti, L’armata della pianura: la 28ma Brigata Gap “Mario Gordini”. Tesi di Laurea

Antonio Pagani, E’ café d’Cai. Le avventure di un giovane alfonsinese durante il fascismo.

Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Settembre 1943 – Maggio 1945, Feltrinelli

AA.VV. Storie della Resistenza, Sellerio Editore, a cura di Domenico Gallo e Italo Poma




“…all’infuori di un immenso amore”: per un profilo intellettuale di don Aldo Mei a 75 anni dalla morte

L’autore ringrazia la Chiesa parrocchiale di Fiano per l’accoglienza e la disponibilità dimostrate durate la redazione del presente articolo.

Si trova ai piedi delle mura di Lucca, venendo da Porta Elisa, a pochi passi dal baluardo San Salvatore, in uno scenario idealmente coronato dai rami degli alberi della verde passeggiata pedonale voluta da Maria Luisa di Borbone che si snoda lungo tutto il perimetro del monumento-simbolo della città: un’alta pietra squadrata – decorata unicamente da una croce bianca e da un’epigrafe – fatta erigere dalla Misericordia di Lucca per onorare la memoria di don Aldo Mei, “indegno parroco di Fiano” (così si firma nella sua ultima lettera-testamento), fucilato in quello stesso luogo dai tedeschi la sera del 4 agosto 1944 dopo esser stato costretto a scavare la propria fossa, oggi delimitata da un filare di pietre e ricoperta da bianca ghiaia. Da allora non è passato anno senza che la comunità locale non si sia riunita per ricordare la figura del giovane parroco – trentaduenne al momento della condanna a morte, essendo nato a Ruota (Capannori) il 5 marzo 1912 – a cominciare da quel 5 agosto 1945 quando, dopo una solenne e partecipata messa, l’arcivescovo Antonio Torrini (dalle cui mani dieci anni prima Aldo aveva ricevuto l’ordinazione presbiterale) benedice il cippo in memoria del parroco.

Una vicenda, ha scritto don Marcello Brunini, che “inizia nel silenzio e nell’umiltà […], si nutre di Vangelo […], si completa nell’offerta totale della vita, nel martirio non cercato, ma accettato come dono”: una vita breve (ma del resto don Aldo sa bene che essa è solo una preparazione alla “vera patria”, alla presenza di Dio), che una malattia scheletrica segnerà profondamente costringendo Aldo a indossare un busto di ferro, vissuta all’impronta di una fortissima fede, come emerge dagli scritti pubblicati nell’antologia Testimone sempre, editi da Maria Pacini Fazzi nell’ormai lontano 1987. Fede e amore: quell’amore che solo può essere accettato come “totalitario”, come il parroco scrive nel suo diario nel dicembre 1942, quando la guerra e i suoi effetti sulla popolazione fianese cominciano a incidere sempre più sulla comunità, con la partenza per il fronte di numerosi giovani; quella guerra definita come “la più atroce che ci ricorda la storia”, dove “si contano i carri armati, gli aereoplani, gli ordigni di guerra, ma gli uomini morti o feriti o dispersi, non si contano, affatto!”. E in questa guerra dove “funeste ideologie […] peggio delle antiche ideologie pagane”, scrive ancora don Aldo nel gennaio 1943, spingono gli uomini nelle braccia dei nuovi Moloch (lo Stato, il partito, il duce), non ci si può sottrarre ad una scelta, e “l’indegno parroco” non si tira indietro: la sua è una scelta dettata dalla carità verso le vittime. Amare e ad aiutare dunque le vittime, “i poveri, i reietti, i rifiuti della società” (i partigiani cui somministra i sacramenti, i renitenti e i perseguitati che nasconde) non meno che gli avversari: quanto a questi ultimi“amarli sempre”, in completa aderenza al dettato evangelico, “soprattutto quando insultano, quando avviliscono, quando perseguitano, quando crocifiggono”. Amare fino in fondo, come quella sera del 4 agosto sotto gli spalti delle mura, quando don Mei muore benedicendo i propri carnefici, e una pallottola trafigge la mano alzata a benedire.

Negli anni la figura del giovane parroco fianese è divenuta un simbolo di quella rete di resistenza civile e disarmata che proprio nella provincia di Lucca ebbe il suo fulcro nella Chiesa, vedendo la partecipazione di numerosi protagonisti – da Arturo Paoli a Sirio Niccolai fino a Guido Staderini, senza dimenticare i monaci certosini di Farneta (trucidati e deportati ai primi del mese di settembre 1944 per aver nascosto una ventina di persone di religione ebraica): fin dal primo anniversario della morte gli scritti di don Aldo – in particolare il testamento – vengono stampati e diffusi, seguiti da una biografia redatta da Mansueto Lotti i cui proventi servono a coprire le spese del monumento eretto a Fiano. A far conoscere su scala nazionale Aldo sarà però la raccolta Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (1952), più volte ristampata nel corso degli anni da Einaudi; un anno dopo viene citato nella Storia della Resistenza Italiana di Roberto Battaglia. In tutti questi anni e in quelli successivi non si interrompono inoltre i pellegrinaggi alla tomba (che dal 1987 si trova nella chiesa di Fiano), .le commemorazioni e i cortei, come quello imponente che nel 1964, ventesimo anniversario della morte, attraversa la città partendo dalla Pia Casa – dove Aldo era stato imprigionato dopo l’arresto – e si conclude sul luogo del martirio, alla presenza dei fratelli e della madre del parroco (itinerario più volte riproposto e che negli ultimi anni ha visto la partecipazione dell’attore lucchese Marco Brinzi nei panni ideali di Aldo); infine le numerose pubblicazioni, come il Martirologio del clero italiano edito dall’Azione Cattolica sempre nel ’64 (in concomitanza con l’avvio del processo di beatificazione e canonizzazione), la già citata antologia di scritti editi da Maria Pacini Fazzi e i numerosi contributi dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Lucca, che hanno ulteriormente approfondito tanto la figura di Aldo Mei quanto il ruolo dei religiosi nella Resistenza e ai quali recentemente sono andati ad aggiungersi, in occasione del settantacinquesimo anniversario, mostre fotografiche (L’amore non muore. Don Aldo Mei martire della carità,curata da Emmanuel Pesi) film-documentari (Questa terra impastata di sangue, per la regia di Stefano Ceccarelli e la sceneggiatura di Marco Brinzi e Luciano Luciani) e persino fumetti (Come into my house. Nove storie di Fuga e Resistenza, scritto e disegnato da Emmanuel Pesi e Luca Lenci).

Non ha mai smesso di affascinare don Aldo, con la sua figura esile, l’aria mite, i grandi occhiali sfoggiati nelle fotografie d’epoca, resistente disarmato che sacrifica la propria vita nel nome del Vangelo (“Mio Dio”, scrive il 13 novembre 1942, “datemi di guardare con sereno coraggio all’Eroismo Evangelico”) e dell’amore – “muoio travolto dalla tenebrosa bufera dell’odio”, recita quello che è forse il più celebre passo tratto da una delle sue ultime lettere, quella indirizzata ai genitori, “io che non ho voluto vivere che per l’amore!”. Questa in ultima analisi l’eredità di Aldo Mei, che altro non ha avuto da lasciare che il proprio esempio, impossibile da rinchiudere entro i confini dell’agiografia, trasversale fino all’universalità, che parla a credenti e non credenti:”nulla da lasciare”, come recitano le righe tracciate a lapis sul breviario poco prima dell’esecuzione, “all’infuori di un immenso amore”.

Gli abiti indossati al momento della fucilazione, conservati presso la chiesa parrocchiale di Fiano (foto di S. Lazzari)




Dal Serchio al Piva: i lucchesi della “Garibaldi”

Dal settembre 1943 al marzo 1945 nei Balcani migliaia di soldati italiani provenienti dal disciolto Regio esercito combattono contro i tedeschi nelle file di quegli stessi movimenti di resistenza sino ad allora ferocemente cacciati e repressi: brigate partigiane interamente composte da italiani si formano in tutti i paesi precedentemente occupati dalle nostre truppe e soprattutto in Jugoslavia, dove il fenomeno assume una particolare consistenza e si registra la presenza di numerosi combattenti toscani. Come il fiorentino Brunetto Parri, militante comunista e disertore in Croazia al fianco dei partigiani di Tito, nome di battaglia “Spartaco” (in memoria dell’omonimo ferroviere Lavagnini, ucciso dagli squadristi nel 1921); o il carabiniere massese Mazzino Ricci, il “Ridji” protagonista di una canzone popolare montenegrina che ne canta l’abilità con la mitragliatrice Breda.

È proprio in Montenegro che ci imbattiamo in numerosi soldati originari della provincia di Lucca, appartenenti ai reparti della divisione di fanteria da montagna “Venezia”: inviata nel paese nel luglio 1941 allo scopo di reprimere l’insurrezione che minaccia di compromettere il controllo italiano sulla regione, dopo l’otto settembre – con i suoi oltre 12mila effettivi – costituirà assieme ai reparti alpini della “Taurinense” il nucleo principale della divisione italiana partigiana “Garibaldi”, costituita ufficialmente il 2 dicembre 1943. Di alcuni di questi soldati perdiamo ogni traccia prima dell’armistizio: come i massarosesi Attilio Lipparelli di Quiesa (classe 1921) e Idilio Albiani di Pieve a Elici (1912), le cui ultime notizie risalgono rispettivamente al mese di agosto e al 3 settembre 1943 (sebbene per Albiani si parli di una sua presenza non confermata a Belgrado nel 1944). Più fortunati saranno i loro concittadini Francesco Coppedè e Angelo Cosci, rientrati in Italia nel giugno 1945 il primo e in aprile il secondo: quello di Cosci è un caso più unico che raro, essendo egli approdato alla “Garibaldi” dopo aver servito nel LXXXVI battaglione delle camice nere, rimaste alleate dei tedeschi. Restano ignoti i motivi dietro la sua scelta.

Al momento dell’armistizio la “Venezia” presidia l’area orientale del paese ai confini con il Kosovo, dove le truppe tedesche ancora non sono giunte: il comandante della divisione, generale Oxilia, si pronuncia fin da subito per la resistenza, ma è incerto rispetto alla condotta da adottare nei confronti dei partigiani così come dei reparti collaborazionisti cetnici, ferocemente anticomunisti. Mentre l’azione del generale è paralizzata dalla questione delle alleanze, i tedeschi cominciano a muoversi: uno dei primi tentativi di infiltrazione delle linee di difesa italiane è sventato dalla XI compagnia del capitano Paolo Bardini di Seravezza, che fa aprire il fuoco su una colonna di autocarri tedeschi che si erano messi in movimento col favore della notte.

Nel mese di novembre la “Venezia” è ormai convertita alla guerra partigiana, dopo gli accordi di Kolasin fra il capitano Mario Riva e il comandante partigiano Peko Dapcevich stipulati alla fine di settembre (e ratificati in ottobre dai comandi italiani). Non è una facile convivenza per soldati nati e cresciuti sotto il fascismo, nutriti da anni di propaganda anticomunista: come scriverà il reduce Enrico Bedini, di Gombitelli, “la parola comunista mi dava un senso di terrore. Avevo sentito parlare di loro come degli orchi delle fiabe e il mio animo era impressionabile come quello di un fanciulletto”. Numerosi soldati cadono in combattimento in quelle settimane: l’ufficiale Lando Mannucci, allora a capo del I battaglione che difende Kremna dall’assedio di reparti tedeschi e bulgari, ricorda la presenza di tre lucchesi fra i caduti (Guido Mencacci, Bruno Munari e Giovanni Salvietti, decorati alla memoria). Il 30 novembre, pochi giorni prima della fondazione della “Garibaldi”, cade invece durante l’assalto ad un caposaldo tedesco, colpito da una bomba nemica, Ottavio Cavalzani (nato a San Gennaro di Lucca nel 1914).

La neo-costituita divisione vive subito un duro battesimo del fuoco: il 5 dicembre i tedeschi scatenano quella che nella storiografia jugoslava viene ricordata come la “VI offensiva”, giunta tanto più inaspettata in quanto avviata alle soglie di quello che si preannuncia come un inverno particolarmente rigido; è probabilmente nelle primissime fasi di questa operazione che viene fatto prigioniero Luigi Gemignani – classe 1921, di Massarosa – per il quale si apre la dura stagione dell’internamento (dapprima per mano dei tedeschi, che lo deportano forse in Bielorussia, quindi nuovamente quando i sovietici liberano il campo dove era stato internato, reclamando gli italiani come prigionieri di guerra, prima di tornare in Italia nel novembre 1945).

Nelle settimane successive all’attacco tedesco le brigate sono divise, e devono combattere duramente contro il clima, la fame e i ripetuti agguati nemici: a tutto questo si aggiunge, nel gennaio 1944, un’epidemia di tifo. I comandi partigiani, a fronte della situazione sempre più drammatica, decidono in febbraio di inviare parte delle forze italiane in Bosnia, anche alla luce della carestia che ha colpito il Montenegro, la cui popolazione non può più sostentare i combattenti: è probabilmente durante una di queste marce interminabili attraverso il territorio bosniaco – vera e propria epopea del dolore che segna indelebilmente la memoria della “Garibaldi” – che il fante Giovanni Paladini, nato a Mutigliano nel 1921, subisce il congelamento di entrambe le gambe, fortunatamente non grave al punto da richiederne l’amputazione, ma che gli lascerà problemi di circolazione che lo tormenteranno tutta la vita. Sono mesi durissimi, durante i quali, ricorderà ancora Paladini in uno dei rari racconti che farà alla famiglia degli anni di guerra, il cibo scarseggia al punto che i soldati debbono nutrirsi di bucce di patate: la drammaticità di quei frangenti non incrina però l’affetto di Paladini per la popolazione locale, che raramente nega la propria solidarietà e assistenza agli italiani. Nello stesso anno sempre in Bosnia nel mese di maggio cade, dopo una strenua resistenza allo scopo di favorire l’arretramento dei propri uomini su posizioni più facilmente difendibili, Giovanni Giuliani, nato a Barga nel 1921, già caporale di reggimento nella “Venezia”. Solo poche settimane prima la Bosnia è stata il teatro della tragedia del capitano Pietro Marchisio, ucciso dal tifo e dalle marce estenuanti per riportare nel più sicuro Montenegro i propri uomini: è un lucchese, il sergente maggiore Emilio Boy, ad aiutare Marchisio ad attraversare la pericolante e malridotta passerella di assi e corda sul fiume Piva, trasportando il capitano e molti altri soldati ammalati sulle sue spalle.

Spostandoci dalla Bosnia alla Serbia troviamo Amadeo Paolettoni, lucchese, classe 1921, già della “Venezia” e poi attivo nella brigata “Italia” (l’altra grande formazione partigiana interamente italiana attiva in Jugoslavia), caduto a Belgrado nell’ottobre 1944 durante una missione di rifornimento munizioni. Poco più di due mesi dopo, il 1° gennaio 1945, il Montenegro è completamente liberato, e verso la metà di febbraio i reparti garibaldini – reduci dalla battaglia per la liberazione di Mostar in Erzegovina combattuta quello stesso mese – ricevono l’ordine di concentrarsi a Dubrovnik in vista del rimpatrio, che avviene a partire dall’otto marzo: non tutti i soldati però rientrano immediatamente. Numerosi sono i dispersi che per quasi un anno continueranno ad affluire alla base italiana di Dubrovnik, così come non mancano i casi nei quali gli stessi jugoslavi, ancora in guerra, trattengono gli italiani – soprattutto il personale sanitario – presso le proprie brigate: è quello che accade all’ufficiale medico Giuseppe Marchetti, nativo di Pescaglia, rimasto in servizio in qualità di direttore chirurgico dell’ospedale militare della XXIX divisione d’assalto Erzegovina fino al 24 maggio 1945.




Armando Angelini ed «il perdono dei forti»

Armando Angelini nacque nel 1891 nel comune di Seravezza, in una famiglia relativamente agiata; si laureò in legge presso l’Università di Pisa ed esercitò per il resto della sua vita la professione di avvocato. Nel 1921 il giovane Armando, già consigliere provinciale, partecipò alle elezioni politiche, divenendo deputato per il Partito Popolare Italiano (PPI), carica che avrebbe mantenuto fino al 1924. Il PPI era stato fondato due anni prima da don Luigi Sturzo e presentava un programma politico ispirato ai valori cattolici e basato su un forte impegno sociale, sul sostegno dato ai piccoli contadini e sul decentramento amministrativo.

Il giovane Armando ai tempi del suo primo incarico parlamentare.

Il giovane Armando ai tempi del suo primo incarico parlamentare, durante la XXVI Legislatura del Regno d’Italia. (Archivio fotografico Camera dei Deputati)

L’avvocato Angelini abbracciava in pieno la filosofia del PPI e dedicava non poche attenzioni al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori della Versilia, sua terra natale. Nel primo dopoguerra, quell’area versava in uno stato di grave crisi economica, causato dal ristagno del commercio del marmo, che, a sua volta, era conseguenza del deterioramento dei rapporti internazionali provocato dalla Grande Guerra. Il risultato fu un aumento della disoccupazione: Armando si sentiva vicino a quelle genti in difficoltà e, in seguito, avrebbe ricordato «il baroccino trainato da un buon cavallo» con cui si recava nei più remoti borghi delle Alpi Apuane non solo per fare della propaganda politica, ma anche per difendere i cavatori rimasti vittima di incidenti sul lavoro.

Egli, inoltre, non mancava di prestare il proprio sostegno anche alle cause dei contadini, come nel marzo 1922, quando assistette tre coltivatori che, il 18 giugno 1920, avevano impedito con violenze e minacce il ritiro del grano appena raccolto da parte della commissione per la requisizione dei cereali. Oltre a tutto ciò, nel 1923 l’onorevole Angelini fu tra i promotori de «L’idea popolare», un periodico che divenne organo locale del PPI. Egli, in definitiva, era ritenuto da tutti «una persona equilibrata e corretta sì da godere la stima di ogni classe di cittadini».

Anni ’20: un affollato comizio popolare dell’onorevole Angelini.

Primi anni ’20: un affollato comizio popolare dell’onorevole Angelini. (Giannelli, La Versilia in camicia nera, p. 62)

L’impegno profuso per migliorare la qualità della vita in Versilia lo accompagnò anche nel suo primo mandato parlamentare, periodo che andò di pari passo con l’ascesa del fascismo. Subito dopo la marcia su Roma, pur tra le varie perplessità, il PPI entrò a far parte del nuovo governo, ma si indebolì progressivamente, in particolar modo a partire dal 1924, dopo il delitto Matteotti e la partecipazione del PPI all’Aventino. La posizione fragile del PPI era resa evidente anche dalla maggiore facilità con cui i fascisti rivolgevano contro di esso le loro iniziative più violente (in precedenza riservate soprattutto a comunisti, socialisti e anarchici). In particolare, i giorni che precedettero le elezioni del 1924 trascorsero in un clima di terrore, in cui le squadre fasciste impedirono ogni tipologia di propaganda non governativa: in quel contesto fu attaccato a Pietrasanta il circolo cattolico, dove Armando stava tenendo una conferenza elettorale per i popolari. Violentemente e pubblicamente percosso in piazza Carducci, Armando non venne rieletto e i fascisti riuscirono nel loro intento di impedirne il ritorno in parlamento.

Armando Angelini con il figlioletto Piero. Sulla destra, Giulio Paiotti con un prelato

Anni ’20: Armando con in braccio il figlioletto Piero, fotografato assieme ad un gruppo di amici. (Giannelli, La Versilia in camicia nera, p. 74)

Probabilmente tutto questo non servì a scoraggiare definitivamente il combattivo avvocato, poiché nel 1926 si verificò un nuovo episodio di violenza nei suoi confronti, vale a dire l’incendio di Villa Angelini, una dimora di sua proprietà situata sulle colline versiliesi. Dopo quell’ennesimo tentativo di intimidazione, Armando abbandonò la vita politica, si trasferì nella provincia di Massa-Carrara e si dedicò esclusivamente all’esercizio della sua professione. Ciò, tuttavia, non comportò un’adesione al regime, anzi, come in seguito avrebbe affermato, parlando di Armando, il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi

Tutto fu travolto, vennero gli anni oscuri ed egli si ritirò, come molti altri, dalla vita politica. Si chiuse nella sua attività professionale, ma non si piegò all’autoritarismo imperante. Ebbe campo di mostrare anche in quegli anni la bontà del suo animo perché egli pose la propria attività, la propria esperienza e anche le proprie non larghe finanze, nell’impiego di aiutare, difendere, di confortare, di sostenere coloro che erano perseguitati.

Fu nel secondo dopoguerra che Armando poté riprendere liberamente e pienamente la sua attività politica. Membro dell’Assemblea Costituente, nel 1948 egli divenne deputato per la Democrazia Cristiana (DC), carica che mantenne per tutta la I e la II legislatura (quindi complessivamente fino al 1958). In quel periodo Armando ricoprì il ruolo di Presidente della commissione trasporti – comunicazioni – marina mercantile e fu promotore di diversi progetti di legge, dedicati sia al settore delle comunicazioni e dei trasporti (di una certa rilevanza fu la proposta, poi divenuta legge, recante provvedimenti a favore dell’industria delle costruzioni navali e dell’armamento), sia, come sempre, alla sua Versilia. Di grande interesse, in questo senso, è il disegno di legge relativo alla tassa sui marmi nei comuni di Pietrasanta, Seravezza e Stazzema: i tributi sul commercio del marmo costituivano un’importante fonte di introito per i territori interessati dall’escavazione e il progetto dell’onorevole Angelini prevedeva un adeguamento dell’importo da riscuotere, che andava ora a interessare anche i prodotti di scarto come le scaglie e la polvere. Un altro progetto con ricadute territoriali fu quello dedicato alla messa in atto di provvedimenti a favore dell’area portuale di Pisa e Livorno.
A partire dal 1958, Armando Angelini ricoprì la carica di senatore e, tra il 1955 ed il 1960, presiedé il Ministero dei Trasporti. Il senatore Angelini non abbandonò mai la sua morale cristiana, quella stessa che, nel 1965, in una sezione del suo libro E le cicale continueranno a cantare, dedicata alla vittime della Seconda Guerra Mondiale, lo avrebbe condotto ad affermare che

Il perdono dei forti, il perdono cristiano, questo gigantesco atto di grandezza umana che non cancella la colpa ma che, lungi dal sancire una sentenza, fallace come possono essere tutte le sentenze degli uomini, sublima la giustizia in un abbraccio d’amore, questo perdono che ci hanno suggerito le vittime stesse e che suona condanna ugualmente nei secoli, non deve significare oblio.

Armando Angelini si spense nel 1968.

Rachele Colasanti (Pietrasanta, 1992) si è laureata in Storia e Civiltà all’Università di Pisa nel luglio 2017, con una tesi sugli antifascisti della provincia di Lucca denunciati al Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Attualmente, sta frequentando un master di II livello in Comunicazione storica presso l’Università di Bologna.




Il racconto di un doppio disinganno: l’ultima lezione di Giuliano Foggi

Di Giuliano Foggi (1922-2010), ormai grande vecchio già oltre gli ottant’anni, colpivano la perenne passione educativa e la lucidità intellettuale con cui continuava a dipanare il filo di una memoria lontana: gli anni della guerra, l’8 settembre, la fine del fascismo, la Liberazione, i difficili anni della ricostruzione… E, per la ricchezza dei riferimenti storici e letterari, le sue parole andavano ben oltre il racconto di una storia personale, per farsi vicenda più larga, utile e interessante a far comprendere, soprattutto a quei giovani a cui Giuliano tanto amava riferirsi, il tormentato cammino della conquista della libertà, delle regole condivise, dei diritti.

Un itinerario che Giuliano ha saputo percorrere da protagonista per oltre mezzo secolo, impegnato in innumerevoli battaglie, piccole e grandi, per la democrazia, per l’accesso di tutti all’istruzione, per la diffusione della cultura, per la difesa della bellezza in particolare della sua città, Lucca, dove era nato nel 1922 da una famiglia operaia. Laureatosi a Pisa con una tesi sugli storici della Repubblica lucchese, Foggi ha insegnato sino alla fine degli anni ottanta nelle scuole superiori di Lucca, Viareggio, Barga, Montecatini, Volterra, Pisa formando generazioni e generazioni di studenti che ne ricordano ancora oggi, a tanti anni di distanza, con commozione e gratitudine le straordinarie doti professionali ed umane. Socialista e poi dirigente del Psiup, tra i fondatori del Potere operaio pisano e poi del Centro Karl Marx, Giuliano ha accompagnato gli impegni educativi e politici con un’incessante attività sindacale nella Cgil-Scuola locale e nazionale: incarichi svolti sempre con intelligenza, dedizione, attenzione alle novità che emergevano nella scuola e nella società, e grande capacità di trovare in ogni lotta il punto di equilibrio più avanzato insieme praticabile.

Più appartati e coltivati con una discrezione quasi assoluta i suoi interessi letterari, storici e filosofici. Ne fa fede un diario in prosa e in versi che si estende per oltre un sessantennio, dal 1942 al 2004, dal titolo Fedeltà-Giorno dopo giorno, a cui attinge il suo I miei giorni 1942-1945, libro pubblicato nel 2005 dalla casa editrice lucchese Maria Pacini Fazzi e prefato dall’allora presidente dell’Amministrazione provinciale Andrea Tagliasacchi, che così ebbe a scrivere: “Giuliano Foggi fa parte di quella leva di intellettuali che, senza chiedere nulla in cambio, ha svolto un ruolo importante nella storia del nostro Paese, sempre presente, operosa e combattiva in processi importanti e talora decisivi della storia d’Italia: la ricostruzione negli anni duri del centrismo, i formidabili anni sessanta, quelli dell’’assalto al cielo’. Giuliano Foggi vi appartiene di diritto e non solo per motivi anagrafici: piuttosto, perché è stato costantemente tra i primi a cogliere i segni dei tempi nuovi e ad impegnarsi con lucidità per trasformarli in programmi e progetti politici e sindacali sempre all’insegna di una generosa radicalità, di un’aspirazione a cambiare dal profondo i metodi, i contenuti e le finalità della politica”.

5 settembre 1944, Porta San Pietro: una delle prime immagini della Liberazione alleata della città di Lucca.

5 settembre 1944, Porta San Pietro: una delle prime immagini della Liberazione alleata della città di Lucca, operata dai soldati afroamericani della 92ª Divisione “Buffalo”.

Testo per molti versi sorprendente, I miei giorni 1942-1945 (di cui il lettore può trovare alcuni passaggi fra i “Documenti dalle fonti”) è il ‘diario dell’anima’ di un giovane che aveva vent’anni nei momenti più bui della nostra storia nazionale a cui, però, il 25 luglio e l’8 settembre, la spaccatura dell’Italia e la lotta antifascista, i giorni tormentati dell’immediato dopoguerra non fanno dimenticare la propria problematica vicenda privata, i rapporti con i coetanei e la famiglia, il difficile equilibrio fra ragione e sentimento, una complessa e contraddittoria ricerca di senso.

Libro antieroico, I miei giorni, scandisce “la storia di un doppio disinganno: quello proprio di ogni generazione che sempre a proprie spese apprende il difficile mestiere di vivere; il disincanto, poi, di quella leva di giovani, che nati e vissuti all’interno del regime e dei suoi miti, si affacciava alla vita civile in tempi indelebilmente sfregiati dalla funerea isteria della dichiarazione di guerra dal balcone di palazzo Venezia. E i modi letterari scelti più di sessant’anni or sono dall’autore di queste pagine sono quelli propri della ‘meglio gioventù’ di allora, l’ermetismo e l’esistenzialismo: le due chiavi con cui quei giovani cercavano faticosamente di aprirsi all’esercizio della libertà, oscillando, come ha scritto qualcuno, tra ‘equivoco e fronda’, tra un’adesione, sia pure critica, al fascismo, e un sempre più sicuro, netto e ribadito rifiuto del regime e delle sue scelte” (dalla Prefazione).

Per conoscere più nel dettaglio l’esperienza di Giuliano Foggi durante la Seconda Guerra Mondiale, s’invita il lettore a consultare l’interessante articolo di Emmanuel Pesi “L’odore delle mele o il sogno della maturità. Giuliano Foggi tra fascismo, guerra e liberazione”, rintracciabile fra gli allegati della sezione “Materiali correlati”.




Il salto del muro: don Sirio Politi, preteoperaio a Viareggio.

“Hanno affittato anche le barche”. Con questa constatazione inizia un articolo dello scrittore viareggino Silvio Micheli, pubblicato sulle pagine del quotidiano comunista l’Unità all’indomani del ferragosto del 1961. Viareggio è in quegli anni una delle mete preferite del neonato turismo di massa, frutto di una crescita economica che proprio in quell’anno raggiunge il suo apice, con un aumento del PIL dell’8,3%. Sono gli anni del cosiddetto “miracolo italiano”, quando la lira conquista nel 1960 il riconoscimento di moneta più salda fra quelle del mondo occidentale. Milioni di italiani possono permettersi l’acquisto del televisore e del frigorifero: tuttavia, diventa l’automobile il sogno di molti. La FIAT, che nel 1955 mette in produzione la 600, presenta due anni dopo la 500, al costo di 490.000 lire, pari a tredici stipendi di un operaio: nonostante il prezzo sia elevato, inizia proprio in quegli anni la motorizzazione di massa degli italiani. L’utilitaria, spesso acquistata dopo la firma di numerose cambiali, permette di raggiungere, soprattutto in estate, le località balneari. “Tutta Viareggio” scrive Micheli “ha dovuto far posto ai ferragostini, una volta completati alberghi e pensioni. Ma i ferragostini continuavano ad arrivare rigati di sudore dalle città e dalle campagne cotte dal sole”.

Un’immagine del Lungomare viareggino in pieno boom economico: sullo sfondo, i cantieri della Darsena.

Un’immagine del Lungomare viareggino in pieno boom economico: sullo sfondo, i cantieri della Darsena.

Ma se esiste una Viareggio che fa del turismo, di élite e di massa, la sua risorsa principale e cerca di sistemare i villeggianti come può, c’è un’altra Viareggio che vive una situazione ben diversa. Da quando inizia la costruzione del porto-canale nel 1819, la città versiliese si sviluppa nei decenni successivi prendendo due direzioni: da una parte, la città turistica e commerciale con i suoi alberghi e i ritrovi per gli artisti, dall’altra, la Darsena con i cantieri navali, regno dei maestri d’ascia e calafati prima e della carpenteria metallica poi. A dividere queste due realtà, il porto-canale.

Tuttavia, nella Darsena viareggina non si costruiscono solo navi di ogni genere. In quella parte della città è situata anche una delle fabbriche più importanti: la F.E.R.V.E.T., acronimo che significa Fabbricazione E Riparazione Vagoni E Tramway, con sede principale a Bergamo e succursali in altre città. Le cronache e le testimonianze dell’epoca ci raccontano di un lavoro particolarmente duro, svolto in un ambiente malsano e con attrezzi inadeguati per il tipo di produzione richiesto. Per questo motivo gli operai, all’epoca circa 270, sono tra i più combattivi e politicizzati della città. Quando nel 1955 la FIOM subisce una pesante sconfitta nelle elezioni della commissione interna alla FIAT, passando dal 65% al 36%, nello stesso anno alla F.E.R.V.E.T. la FIOM aumenta i consensi, raggiungendo il 73% dei voti operai. Per tutti gli anni ’50 la conflittualità operaia si manifesta con scioperi e occupazioni dello stabilimento, come in quella estate del 1961. Dalla metà del mese di luglio, gli operai occupano lo stabilimento, contro la smobilitazione paventata dall’azienda, trascinando i lavoratori viareggini in più scioperi di solidarietà. Tuttavia, quella lotta passerà alla storia cittadina per un gesto di solidarietà e di disobbedienza di un prete, anzi di un preteoperaio.

Don Sirio Politi (1920-1988), preteoperaio

Nativo di Capezzano Pianore (Camaiore, Lu), don Sirio Politi (1920-1988), assieme al fiorentino don Bruno Borghi (1922-2006), fu il primo preteoperaio italiano.

Dall’estate del 1956 don Sirio Politi, nato nel 1920 e fino all’anno prima parroco di Bargecchia, una piccola frazione collinare del comune di Massarosa, si è stabilito nella Darsena, in un piccolo edificio trasformato in una chiesina che si affaccia sul Canale Burlamacca, e lavora come scaricatore di porto. Fino al 1959 ha lavorato in un cantiere navale, poi si è dovuto licenziare: le autorità ecclesiastiche romane hanno infatti posto fine all’esperienza dei pretioperai, nata in Francia nei primi anni ’40. Insieme a don Bruno Borghi di Firenze, Politi è il primo preteoperaio italiano.

Don Sirio chiede più volte alla direzione di poter effettuare la messa all’interno della fabbrica occupata, ma il permesso viene ripetutamente negato. Finché una domenica, dopo l’ennesimo rifiuto, prende una valigia e la riempie con gli arredi sacri. Porta con sé anche una scala, per permettergli di scavalcare il muro di cinta della fabbrica, e, con l’aiuto degli operai, riesce ad entrare. “Ho scavalcato questo abisso di divisione”, scriverà don Sirio, “e mi sono sentito come in terra libera, fra uomini liberi”. Gli operai gli fanno visitare la fabbrica: “Una attrezzatura primitiva, un macchinario antiquato di quarant’anni fa, un’organizzazione di lavoro assurda e un disordine inconcepibile”. Intanto viene preparato l’altare “con attrezzi di lavoro e lamiere”. Ricordando quella esperienza, scrive don Sirio: “Può darsi che molti non siano credenti. Forse alcuni hanno voluto questa Messa per interesse di pubblicità: ma a me non importava nulla dei motivi e delle intenzioni – e nel caso ero felice che almeno quella Messa servisse a dei poveri, a degli operai… l’importante era che Dio fosse lì tra i poveri, che Gesù Cristo consumasse lì, fra gli operai, il Suo Sacrificio di Redenzione… a dare senso, significato, valore infinito ed eterno a questa povera vicenda umana, a queste situazioni di ingiustizia, a questa sofferenza per i diritti fondamentali alla vita”.

Darsena viareggina: la "Chiesina del Porto" (o "Chiesina dei Pescatori") subito dopo la ristrutturazione del 1961, realizzata per mano dello stesso don Politi.

Darsena viareggina: la “Chiesina del Porto” (o “Chiesina dei Pescatori”) subito dopo la ristrutturazione del 1962, voluta e realizzata dallo stesso don Politi, che, poeta, uomo di lotta e di pace, era pure un abile artigiano.

La F.E.R.V.E.T. continuerà ancora per un trentennio l’attività, fino ad una ennesima occupazione e alla definitiva chiusura nel 1991. Don Sirio Politi proseguirà nel suo cammino, svolgendo l’attività di fabbro e continuando nelle battaglie nonviolente a difesa degli obiettori di coscienza, per la pace e contro l’opzione nucleare, attraverso una feconda attività editoriale. Morirà nel febbraio del 1988.




Leonetto Amadei, uno spirito gentile

Figura di primissimo piano del panorama giuridico italiano del secondo dopoguerra, l’avvocato versiliese Leonetto Amadei, in ogni frangente della sua vita intensa, seppe conciliare competenza professionale e sensibilità d’animo, ardente passione politica ed integerrima coerenza morale.

Nato a Seravezza (Lucca) il 7 agosto 1911, figlio di uno scultore e di una maestra elementare, il giovane Amadei rivelò fin da ragazzo una mente acuta e brillante negli studi, arricchita da un temperamento comprensivo e generoso. Diplomatosi al Liceo classico “Pellegrino Rossi” di Massa, si iscrisse quindi alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa: bruciando le tappe, nel 1931 risultò a soli venti anni il più giovane laureato d’Italia nella sua sessione accademica.

Mentre cominciava la propria carriera di penalista frequentando come tirocinante lo studio dell’avvocato seravezzino Luigi Salvatori (1881-1946), già deputato socialista per la Versilia negli anni 1919-1920 e figura di elevatissimo spessore morale, aveva inizio per Leonetto un altro importantissimo capitolo della vita: quello del servizio militare, che avrebbe contribuito in maniera decisiva alla formazione del suo carattere carismatico e coscienzioso, coraggioso e leale, tenendolo impegnato, alla fine, per quasi quindici anni.

Richiamato una prima volta nel 1931, come allievo ufficiale ed ufficiale di prima nomina dovette in seguito affrontare numerosi periodi lontano da casa, sperimentando in prima persona gli effetti della politica estera aggressiva che il regime fascista veniva sempre più affilando: fra una pausa e l’altra, Leonetto faceva ritorno in Versilia e tirava avanti la formazione giuridica. Proprio nei mesi in cui studiava per diventare procuratore, conobbe Nora Cancogni, cugina del celebre scrittore e giornalista Manlio (1916-2015): i due si sposarono nel 1938.

1931: Leonetto Amadei, fresco di laurea in giurisprudenza all'Università di Pisa, ritratto al tempo del servizio di leva.

1931: Leonetto Amadei,  secondo in piedi da sinistra, fresco di laurea in giurisprudenza all’Università di Pisa, ritratto al tempo del servizio di leva. (Leonetto Amadei. L’esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

Mentre sviluppava una crescente sensibilità professionale in difesa degli umili e degli oppressi, Amadei dovette partire per la guerra: in un primo tempo, come capitano di artiglieria, fu destinato al comando di alcune batterie costiere del distretto militare della Spezia, dapprima sull’isola Palmaria, quindi a Lerici. Nell’aprile 1943, tuttavia, fu trasferito a Lero, nell’Egeo meridionale.

Al sopraggiungere dell’8 settembre, assieme a tutti gli altri militari italiani presenti sull’isola greca, Leonetto scelse di rispondere armi in pugno alle pressioni dei nazisti che intimavano la resa: nonostante i volantini tedeschi minacciassero di scatenare contro i ribelli una seconda Cefalonia, pur scontando una gravissima inferiorità di mezzi e materiali, Lero resistette per più di due mesi, fino al 18 novembre 1943. Alla fine, tuttavia, giunse la capitolazione, e, assieme ad essa, per Leonetto come per le migliaia di suoi commilitoni, la prigionia: per il coraggio e lo spirito combattivo dimostrato in battaglia, il giovane seravezzino fu comunque decorato di Medaglia d’Argento e di Bronzo al Valor Militare sul campo e ricevette un encomio solenne.

Arrestato dai tedeschi, condotto sulla terra ferma, Amadei fu caricato su un carro-bestiame diretto verso nord, che, dopo un trasferimento lungo e sfibrante attraverso i Balcani, lo portò allo Stammlager 328 di Siedlce, in Polonia. Anche nei mesi della prigionia, Leonetto avrebbe mantenuto un comportamento esemplare, pronto ad animare i compagni e a sostenerli nelle difficoltà, in attesa di tempi migliori. Di fronte alle continue lusinghe dei carcerieri, poi, disposti a liberarlo in cambio della sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana, non esitò mai, confermando sempre con fierezza ed orgoglio il valore della propria scelta, compiuta nel nome della dignità umana e dell’onore nazionale. Ecco come avrebbe ricordato quei giorni, mettendo in relazione il sacrificio degli internati militari italiani e i contenuti della futura carta costituzionale democratica, nello scritto Internati e Costituzione del 1996:

«L’internamento ha infatti significato, traendo dalla miseria che lo accompagnava, la volontà di riscossa del nostro Paese, ricca di valori morali e politici, da ritrovarsi nel persistente rifiuto ad ogni collaborazione e nella tenacia nel sopportare ristrettezze di ogni genere, che si sarebbero fatte più opprimenti giorno per giorno. È così che la nostra Costituzione è una conquista di grande valore democratico, favorita dal coraggio degli italiani dei campi di concentra-mento.»

Dopo un altro, estenuante spostamento su treno, il 17 marzo 1944 Amadei fu tradotto nel campo di concentramento per ufficiali Oflag XB di Sandbostel, in Bassa Sassonia, dove ebbe modo d’incontrare personaggi eccellenti, oltre a numerosi compaesani. Nonostante il rigore della sorveglianza tedesca e le terribili condizioni ambientali in cui erano costretti a vivere, i prigionieri italiani non si dettero affatto per vinti, promuovendo numerose iniziative culturali clandestine. Adibita una baracca a cappella, infatti, dedicata a Maria Mater Captivorum (“Maria Madre dei Prigionieri”), vi tennero incontri e piccole esposizioni d’arte: addirittura, gli internati furono in grado di costruire una radio portatile e facilmente smontabile in caso di perquisizioni, la cosiddetta “Caterina”, con cui captare Radio Londra e sentirsi un po’ meno fuori dal mondo. Oltre a periodici incontri con ufficiali informati dei fatti per illustrare ai compagni la situazione politico-militare, come riferisce anche il giornalista ed umorista Giovannino Guerreschi (1908-1968), altro “prigioniero d’eccellenza” del lager, nel suo Diario clandestino, i deportati organizzarono la “Regia Università di Sandbostel”, in cui docenti di valore tenevano lezioni delle materie più diverse, per mantenere alto il morale dei compagni, superare lo sconforto e conservare un certo grado di dignità personale ed autostima: dietro la “Baracca Y”, l’onegliese Alessandro Natta (1918-2001) parlava di letteratura, mentre poco lontano il bresciano Guido Carli (1914-1993) disquisiva di economia e commercio. Incessante animatore della resistenza interiore contro i carcerieri, Leonetto intratteneva invece i compatrioti dietro la “Baracca X”, discutendo dei principi fondamentali della giurisprudenza e di diritto penale. Nel gennaio 1945, l’avvocato seravezzino dovette subire l’ennesimo trasferimento, stavolta nel vicino campo per ufficiali Oflag 83 di Wietzendorf, dove, nonostante gli espliciti divieti in tal senso della Convenzione di Ginevra, i prigionieri italiani furono obbligati a lavorare per conto del Reich: Leonetto, in particolare, fu spedito nei campi, sfruttato come manodopera gratuita presso alcune fattorie della zona.

Fu proprio nei mesi della prigionia che Amadei decise che, a Liberazione avvenuta e guerra finita, sarebbe entrato in politica, anche se non aveva ancora ben chiaro in quale partito. E la Liberazione arrivò, il 16 aprile 1945, per mano del XXX Corpo britannico del generale Brian Horrocks: prima di rivedere casa, ad ogni modo, il giurista versiliese dovette attendere fino all’agosto successivo.

Rientrato in Italia, Leonetto cominciò subito a muoversi per contribuire attivamente alla costruzione dell’Italia nuova, che voleva repubblicana, libera e democratica, generosa e pacifista, rinsaldata nei valori umanitari della Resistenza per i quali aveva tanto combattuto e sofferto nei mesi della prigionia. Considerandosi a tutti gli effetti un membro del movimento di Liberazione nazionale, entrò nell’ANPI ed in altre associazioni reducistiche dello stesso genere, sostenendone con passione le attività fino al resto dei suoi giorni. Iscrittosi al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, forte di un’altissima reputazione popolare e di una notevole capacità oratoria, venne ripetutamente eletto consigliere comunale a Seravezza e Pietrasanta nelle prime amministrazioni postbelliche, divenendo perfino consigliere provinciale a Lucca.

L'avvocato seravezzino Leonetto Amadei (1911-1997), padre costituente, deputato socialista eletto nelle prime sei legislature ed infine giudice e Presidente della Corte Costituzionale. (Archivio fotografico Camera dei Deputati)

L’avvocato seravezzino Leonetto Amadei (1911-1997), padre costituente, deputato socialista eletto nelle prime sei legislature ed infine giudice e Presidente della Corte Costituzionale. (Archivio fotografico Camera dei Deputati)

L’onore più grande, tuttavia, giunse per Amadei con le elezioni del 2 giugno 1946, quando, contestualmente al referendum istituzionale, si tenne il voto per l’Assemblea Costituente: con sua immensa gioia, Leonetto venne infatti eletto deputato socialista per la circoscrizione di Pisa, che, all’epoca, riuniva le province di Pisa, Livorno, Lucca e Massa-Carrara. Giunto a Roma, per via della sua specifica preparazione giuridica fu chiamato a far parte della Commissione per la Costituzione, nota anche come “Commissione dei Settantacinque”, ovvero dell’organo che, all’interno della Costituente, aveva il particolare compito di redigere la nuova carta costituzionale: più nel dettaglio, Amadei partecipò attivamente ai lavori della Prima Sottocommissione, che, presieduta dall’avvocato democristiano Umberto Tupini (1889-1973), ebbe l’incarico di stendere la Parte prima del documento, riguardante i Diritti e Doveri dei cittadini. Per Leonetto, reduce dalla guerra e dalla prigionia, fu l’occasione per contribuire, con il proprio ingegno e le proprie energie, a condensare in articoli ampi ed autorevoli i principi che erano sempre stati alla guida della sua esistenza di avvocato, militare ed uomo civile, principi che da quel momento in avanti avrebbero dovuto ispirare ed innervare la quotidianità della comunità nazionale, valorizzandone le ricchezze fisiche e spirituali, armonizzandone le diversità e temperandone gli inevitabili conflitti: libertà personale, inviolabilità del domicilio e della corrispondenza, libertà di appartenenza religiosa e di manifestazione del pensiero, parità dei diritti nell’accesso alle cariche, libertà d’iniziativa economica, pur nel rispetto del bene comune, e carattere personale della responsabilità. Per Amadei, in altre parole, la Costituzione della Repubblica fu il risultato più alto di un’opera di ricostruzione morale del Paese, un’opera, con le sue parole, tratte ancora da Internati e Costituzione del 1996, di

«restituzione alla persona umana della dignità toltale dal nazifascismo: non dover essere un semplice numero, una cavia da esperimenti, ma l’uomo libero che opera, agisce con impegno di fedeltà alla coscienza della nostra gente che vuole non armi per avventure ma la serenità della pace.»

Cessato l’impegno alla Costituente, Leonetto, stimato per la cortesia personale e l’altissimo senso di responsabilità della propria funzione pubblica, circondato dall’affetto dei propri elettori, ebbe modo di proseguire la propria carriera politica entrando in Parlamento. Scelto come deputato socialista alle elezioni del 18 aprile 1948, già nel corso della prima legislatura (1948-1953) dette prova di una straordinaria sensibilità nel dar voce ai bisogni locali della propria circoscrizione, senza tuttavia dimenticare le proprie aspirazioni ad un’ampia ed equilibrata legislazione nazionale: spesso relatore di importanti richieste di autorizzazione a procedere e membro di numerose commissioni speciali, si batté per ottenere aiuti d’emergenza per alcuni comuni della Versilia e della Lunigiana devastati dalla guerra, si pronunciò sul disegno di legge sulla protezione della popolazione civile in caso di calamità ed intervenne di frequente sul tema dell’amministrazione della giustizia, presentando anche numerose mozioni su casi di denunciato arbitrio della polizia giudiziaria in indagini su gravi delitti.

Apprezzato anche dalle formazioni politiche avversarie per l’equilibrio e la fermezza morale con cui svolgeva il proprio dovere, Amadei venne riconfermato nel suo seggio alle elezioni del 1953: nel corso della seconda legislatura (1953-1958), intervenne spesso in materia di lavoro e svecchiamento del codice di procedura penale, al tempo ancora contenente larghe sezioni di eredità fascista. Rieletto nel 1958, durante la terza legislatura (1958-1963), oltre a proseguire il proprio impegno in campo giudiziario, operò soprattutto in merito alla riforma della circolazione stradale e alla revisione delle regole dei concorsi per l’accesso alle cariche pubbliche. Parallelamente, proseguiva la sua attività professionale, proteggendo i soggetti più deboli e difendendo la causa della Resistenza in occasione dei numerosi processi che furono intentati contro i partigiani in vari parti d’Italia a partire dai primi anni ’50.

Il deputato socialista Leonetto Amadei fotografato negli anni del sottosegretariato di Stato all'Interno dei primi tre governi Moro (1963-1968)  e del sottosegretariato alla Giustizia del primo governo Rumor (1968).

Il deputato socialista Amadei fotografato negli anni del sottosegretariato di Stato all’Interno dei primi tre governi Moro (1963-1968) e del sottosegretariato alla Giustizia del primo governo Rumor (1968). (Leonetto Amadei. L’esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

Nel corso della quarta legislatura (1963-1968), l’attività parlamentare di Leonetto fu caratterizzata dalla presenza nella Commissione Affari costituzionali, nella Commissione Interni e nella Commissione giustizia, di cui, per breve tempo, fu anche presidente: fatto di particolare rilevanza, Amadei venne nominato sottosegretario di Stato all’Interno nei primi tre governi di Aldo Moro. Caratterizzato da una grande presenza di spirito e da un’oratoria efficace e convincente, l’avvocato versiliese, europeista convinto, fu protagonista di una carriera politica straordinariamente lunga e feconda: eletto ancora una volta nel turbolento 1968, nel corso della quinta legislatura (1968-1972) fu dapprima sottosegretario alla Giustizia del governo Rumor, quindi ancora deputato socialista – prima per il gruppo unificato PSI-PSDI, poi, dopo la nuova scissione del luglio 1969, di nuovo per il PSI – autorevole ed attivissimo, soprattutto in merito all’ordinamento della giustizia.

Riconfermato deputato con moltissimi voti anche alle consultazioni politiche del 1972, a poche settimane dall’inizio delle attività della sesta legislatura (1972-1976), grazie al suo eccellente curriculum di giurista e rappresentante popolare di specchiata onestà, fu candidato dal Parlamento a giudice della Corte Costituzionale: accettata la candidatura, Leonetto venne eletto il 27 giugno 1972 a Camere riunite, con ben 733 voti su 833 votanti. Nei successivi nove anni di durata del mandato (1972-1981), Amadei avrebbe partecipato a tutte le attività del prestigioso organo dello Stato, dapprima come giudice, quindi come vicepresidente, infine, negli ultimi due anni della carica, come presidente (1979-1981) della Corte: per Leonetto, si trattò dell’incarico più autorevole della vita, del coronamento più alto cui potesse aspirare per concludere la propria carriera di uomo politico al servizio del diritto e dell’umanità. Fu estensore di molte sentenze di rilevanza storica, fra cui la n. 204 del 1974, con cui il potere di concedere la liberazione condizionale ai condannati fu sottratto al ministro della giustizia ed affidato alla magistratura, e la n. 290 dello stesso anno, che, annullando l’art. 503 del codice penale Rocco, dichiarava la legittimità anche dello sciopero politico, purché non diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale o ad ostacolare il libero esercizio dei poteri in cui si esprime la sovranità popolare.

1977: Leonetto ritratto assieme al nipotino Pietro sulla spiaggia della Versilia. (Leonetto Amadei. L'esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

1977: Leonetto ritratto assieme al nipotino Pietro sulla spiaggia della Versilia. (Leonetto Amadei. L’esemplare linearità, Mauro Baroni, 2000)

Raggiunti i limiti di legge, nel 1981 Amadei lasciò la Corte Costituzionale e si ritirò a vita privata nella sua amata Versilia, anche se continuò a partecipare alle attività delle associazioni di cui era membro e a tenere appassionati interventi pubblici, in cui spronava i giovani ad assolvere con onestà le proprie funzioni nella società e a credere fermamente nei valori sanciti e protetti dalla Costituzione democratica. Rattristato osservatore degli scandali di Tangentopoli, non smise di credere nelle grandi potenzialità della politica vera, conservando fino all’ultimo quell’ottimismo autorevole e composto che l’aveva sempre contraddistinto, fin dagli anni della vita militare e della prigionia. Mirabile esempio di trasparenza solidale e coerenza morale, dapprima resistente nei lager nazisti in nome della libertà, della giustizia sociale e della dignità umana che già ne avevano ispirato la vocazione di avvocato, quindi estensore di tali diritti in Assemblea Costituente e infine vigile custode di quelle stesse conquiste in Corte Costituzionale, Leonetto Amadei si spense a Marina di Pietrasanta (Lucca) il 10 novembre 1997.

A due anni dalla sua morte, i familiari vollero omaggiarne la memoria istituendo, di comune accordo con l’amministrazione comunale di Seravezza e l’Università di Pisa, la Fondazione “Leonetto Amadei”, ente culturale «che ha come scopo principale la promozione dello studio, della ricerca e della conoscenza del diritto costituzionale»: oltre a progettare ed organizzare mostre e convegni, la Fondazione assegna borse di studio e contribuisce al finanziamento di corsi di dottorato di ricerca in diritto costituzionale.