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Leggere i manifesti di Oriano Niccolai

La Federazione del Partito comunista di Livorno aveva un grande grafico. Anzi un grandissimo grafico, Oriano Niccolai. L’Istoreco di Livorno gli ha dedicato, nel 2013 e poi di nuovo nel 2014, una bellissima Mostra con un altrettanto significativo Catalogo, dal titolo Rosso creativo.[1]  Le intenzioni dell’autrice di questo brano sono di cominciare, con questo intervento in rete, una sequenza di approfondimenti per raccontare come una visione politica si possa rappresentare graficamente e come si possa proporre una lettura della storia politica dell’Italia a partire dai colori, come suggerisce Maurizio Ridolfi [2], dalle scelte grafiche, dal testo che le accompagna. Perché i manifesti politici utilizzano una modalità polisemica per veicolare il loro messaggio. Parlano attraverso il colore, l’impaginazione, la grafica, le parole, la loro stessa dimensione e la tecnica di realizzazione.

Sez.2_18_0345Per favorire la comprensione di questa affermazione utilizzerò alcune esemplificazioni concrete, collocabili in un tempo ed uno spazio preciso, a partire dal manifesto del 1961 in occasione della vittoria di Castro a Cuba. Il manifesto è firmato lateralmente con un rinvio al committente, che è il Pci ma in particolare la Federazione giovanile comunista di Livorno. E noi sappiamo che per i manifesti della Fgci Oriano, come tutti gli altri grafici comunisti, aveva più libertà d’azione rispetto invece alle direttive che si ricevevano dalla direzione del Partito per quelli, in qualche modo, più ufficiali. Il colore che domina è il bianco dello sfondo. Secondo la lettura più ortodossa in cima al manifesto trionfa una scritta dove si ricorda che ha vinto non il leader, ma il “popolo” di Cuba che si è liberato del dittatore Fulgencio Battista. Poi il manifesto prosegue richiamando Castro e subito dopo ancora la rivoluzione cubana, ma aggiungendo a chiusura un richiamo alla pace. Qual è l’aspetto più significativo di questa comunicazione, della sua realizzazione grafica? Sicuramente festeggiare l’avvenuta presa del potere da parte di Castro. Quale l’intenzione che ci sta dietro? Allacciarsi al tema dell’internazionalismo in una cornice nella quale questo tema appassionava ancora milioni di uomini e di donne. Aver utilizzato l’immagine della bandiera cubana spezzata a cosa rinvia? Spezzata perché i cubani si sono liberati di un dittatore? Può darsi. Ma a mio parere ancora di più perché la bandiera cubana, ironia della sorte, è costruita con strisce blu su sfondo bianco e con una stella su sfondo rosso. Ricorda quasi in modo automatico la bandiera statunitense. Ed allora averla impaginata in questo modo, con le strisce “esplose” è un rinvio alla sconfitta degli Usa che in questa partita giocarono un ruolo decisivo ma pur sempre perdente. Non aver caricato il manifesto di “rosso” evita alla comunicazione di presentarsi come conforme ad una ortodossia comunista ancora molto forte agli inizi del decennio Sessanta, permette alla comunicazione di rimanere su un registro più “leggero”.

punto esclamativoPassiamo adesso ad un altro manifesto di quello stesso periodo, periodo contrassegnato anche dall’impegno militante di tutta la sinistra italiana a favore del popolo vietnamita in lotta contro gli Stati Uniti.  Nel manifesto di nuovo domina il bianco. Sembra impaginato con una disciplina grafica che risponde ad una direttiva artistica del “togliere” e non a quella dell’aggiungere. Il manifesto si può definire minimalista, quasi astratto. Un grosso punto esclamativo che produce un effetto “non centrato” rispetto al foglio, e che a causa di questa sua asimmetricità ha un impatto sul lettore ancora più efficace, produce un richiamo all’attenzione ma nello stesso tempo, e anzi ancora di più, rinvia alla traiettoria di una bomba che cade. La scrittura del testo che accompagna l’immagine, nelle realizzazioni di Niccolai sempre sintetica e mai aggiuntiva o sostitutiva, è collocata a sinistra e a destra della “bomba-punto esclamativo”.  Il messaggio invita ad un’azione di impegno contro la guerra, all’organizzazione di una Marcia della Pace dentro un quartiere periferico, a sud della città, una mobilitazione di quella che oggi potremmo chiamare la “società civile”. Un luogo decentrato nella città, nella sua periferia sud. Noi sappiamo che quel manifesto è uscito dalla Federazione del Partito comunista di Livorno e quindi ha una sua specifica e ben riconoscibile paternità politica, ma sappiamo anche l’originalità di questa composizione che rinvia senza mezzi termini alle avanguardie pittoriche più interessanti e alla migliore grafica italiana. Sappiamo che per Oriano fare il grafico era “l’arte del togliere”, e sappiamo che non l’aveva imparato da Calvino e dalla sua esigenza di leggerezza, ma dal suo maestro, Albe Steiner[3], il più grande e innovativo disegnatore/comunicatore del secondo dopoguerra italiano. E sappiamo[4] anche che quando sceglieva le parole per ogni manifesto, in testa gli giravano sia i racconti di Marcovaldo che le poesie del suo caro amico Gianni Rodari. Quel Rodari che si era ispirato a lui nella filastrocca “Giovannino perdigiorno”, che in primis doveva essere “Orianino perdigiorno[5]”. Perché? Perché Oriano aveva un aspetto minuto, quasi fanciullesco, con un’aria perennemente assorta e riflessiva, sembrava uno un po’ svagato che correva dietro alle nuvole immaginarie che si agitavano nella sua testa.  Chi lo ha frequentato lo ricorda così: concentrato sopra una pagina di giornale, taciturno, quasi assente, eppure Oriano era sempre assai presente, uno capace di ascoltare le richieste, farle proprie per poi trasformarle in un messaggio grafico e linguistico impeccabile, mai superfluo, mai retorico. Con le sue proposte, che difendeva con caparbietà e consapevolezza, riusciva ad interpretare i bisogni della Federazione, del Partito nel suo insieme, o delle singole parti di quella che era una macchina mastodontica, pesante, lenta. Ma nel farlo ogni volta si prendeva lo spazio di affermare la sua scelta grafica, libera e “leggera”, mai monumentale, mai ingombrante. Perché Niccolai metteva la sua capacità a disposizione del Partito non in modo mercenario o opportunista ma da appassionato militante quale si sentiva e voleva essere.

mollettaMolti anni dopo, ancora per un’altra occasione di mobilitazione per la ricerca di pace. Oriano Niccolai disegna un altro manifesto. Siamo nei primi anni Novanta. La guerra stavolta è quella del Golfo. I tempi sono cupi e Niccolai sceglie lo sfondo nero su cui troneggia la data dell’appuntamento politico e sotto, attaccata ad un filo, è sospesa una bomba tenuta ferma soltanto da una molletta per i panni, su un filo pesantemente curvato. La scritta successiva indica il cosa fare e come, rinvia all’appuntamento di una fiaccolata. La manifestazione quindi si fa in notturna e questo può anche aver ispirato Niccolai a fare lo sfondo nero. Ma lo sfondo è nero anche perché siamo entrati in un orizzonte più cupo, il mondo per un vecchio militante comunista non è più così chiaro, c’è già stata la caduta del muro di Berlino e il tentativo di golpe contro Gorbaciov, tutto si è fatto più incerto. Per chi osservava quel manifesto, quel nero e bianco della bomba erano molto più significativi delle tante immagini di orrore che già campeggiavano nella nostra percezione nonostante la volontà di anestetizzare quella guerra da parte dei suoi contendenti. La “bomba” di Oriano non è proprio la bomba “intelligente” della propaganda militarista. È una bomba sospesa che sta per cadere. Che sicuramente cadrà, così come è, appesa ad un filo. L’innocua molletta, oggetto umile, persino casalingo che la trattiene, non la può certo bloccare per molto ancora. Quindi il messaggio implicito ma non troppo è: partecipate numerosi, la pace è in pericolo e forse siamo già in ritardo. Pochi anni fa due giovani artisti livornesi, Valerio Michelucci e Stefano Pilato ispirandosi forse a questa bomba realizzarono una installazione in occasione del 70° bombardamento di Livorno, quello del 28 maggio del 1943, e ne fecero una finta, dipinta di color fucsia magenta, e la attaccarono sospesa ad un palazzo vicino al mercato di Piazza Cavallotti, luogo popolare, deputato a rappresentare la tradizione democratica e pacifista della città. Perché le proposte intelligenti e creative permettono anche questo, di essere riprese e aggiornate e, risultare, nonostante le loro radici nel passato, originali e intelligenti.[6]

[1] Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti (a cura di Margherita Paoletti), Debatte Editore, Livorno, 2013. I manifesti che risultano nel Catalogo corrispondono a quelli della Mostra che fu realizzata a Livorno dall’8 al 22 novembre 2013 presso Villa Henderson e replicata a Pisa l’anno successivo presso il Centro San Michele degli Scalzi. Sono oggi custoditi presso l’archivio dell’Istoreco di Livorno e formano tutti insieme un fondo di circa duemila pezzi.

[2] Maurizio Ridolfi, L’Italia a colori Storia delle passioni politiche dalla caduta del fascismo ad oggi, Le Monnier, Bologna, 2015.

[3] Rosso creativo, cit., p. 15.

[4] L’espressione “noi sappiamo” non è legata a nessuna astuzia retorico-linguistica ma è giustificata dalle decine di ore di interviste e colloqui che prima di fare la Mostra e il Catalogo abbiamo avuto il piacere di realizzare all’interno dell’Istituto. In particolare Margherita Paoletti, che curò tutta l’operazione, costruì con Oriano Niccolai una specie di carta d’identità di ogni manifesto utilizzato.

[5] Rosso creativo, cit., p. 15.

[6] Purtroppo la bomba finta non c’è più. Fu realizzata nel 2013 e mai presa in carico dal Comune di Livorno. Distrutto uno dei fermi che la sostenevano, è stata tolta e mai più reinstallata.




Per la cultura e per il bene comune

Professore di lettere comandato dal 1933 presso la Soprintendenza alle Gallerie per le province di Firenze Arezzo e Pistoia, Cesare Fasola è ricordato soprattutto per l’attività svolta durante l’ultima fase della Seconda guerra mondiale a tutela delle opere d’arte che erano state messe in salvo in ville e castelli di varie località toscane. Come testimoniano le sue lettere-diario alla moglie Giusta, presenti nel fondo a lui intitolato conservato presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana, nel momento del passaggio del fronte egli si adopera per sorvegliare e presidiare i depositi di opere d’arte dei musei nella zona della Val di Pesa, a Montagnana, Montegufoni, Poppiano e Uliveto, prima sotto l’occupazione tedesca e poi, dal 27 luglio, sotto gli Alleati. Per questa attività Fasola riceverà nel 1947 la medaglia di bronzo al valore civile.
Da ricordare è anche il suo ruolo di funzionario delle Gallerie incaricato dal soprintendente Giovanni Poggi della tutela artistica dei beni ebraici. In occasione delle requisizioni antisemite Fasola si occupa di valutare se fra gli oggetti portati via si trovino delle opere d’arte da sottrarre ai sequestri, destinandole alla Galleria dell’Accademia secondo quanto disposto dall’Ufficio affari ebraici della Prefettura. Dopo aver cercato di salvare il più possibile dalle razzie nazifasciste, nel dopoguerra collabora attivamente per la ricognizione ed il recupero dei beni requisiti, lavorando anche in contatto con Rodolfo Siviero.

Tuttavia c’è un altro aspetto della sua vita che merita di essere raccontato, che va di pari passo con la sua attività culturale, nell’ambito di una concezione ampia di impegno civile e di servizio per il bene comune. Ci riferiamo ovviamente al suo impegno politico, che si realizza a partire dal 1942 con l’iscrizione al Partito d’azione (PdA), per poi proseguire come membro del Comitato di liberazione nazionale (CLN) di Fiesole prima e dopo la Liberazione, e come amministratore comunale dalla seconda metà degli anni ‘40 al 1960. Aspetto riguardo al quale non possiamo avvalerci di molte fonti; le carte del fondo Fasola e quelle del CLN di Fiesole, conservate presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana, integrano in misura piuttosto limitata i documenti della busta intitolata a Fasola e i resoconti delle sedute consiliari e della giunta conservati tra le carte dell’Archivio comunale postunitario di Fiesole.
Dal modulo di iscrizione alla Sezione fiorentina del Partito d’azione, datato 1° settembre 1944, risulta che Fasola – che ricordiamo essere stato sacerdote dalla giovane età fino ai primi anni ’30, sembra con scarsa convinzione – abbia “aderito” al Partito nazionale fascista dal 1927 al 1943, ma anche che sotto il fascismo sia stato “denunciato e sorvegliato”, senza subire provvedimenti di polizia.
Come abbiamo accennato, la sua attività politica vera e propria comincia nel 1942 con l’adesione, insieme alla moglie Giusta, al neonato Partito d’azione. Al suo interno Fasola fa parte del Comitato esecutivo della Sezione di Firenze. Inoltre durante la Resistenza rappresenta il PdA in seno al Comitato toscano di liberazione nazionale e milita nella Divisione Giustizia e libertà di Firenze, che riunisce le formazioni militari azioniste. Secondo un curriculum conservato nell’archivio del PdA fiorentino, presso l’ISRT, “durante il periodo clandestino nel suo recapito di città fece da centro di collegamento per gli emissari delle regioni dell’Italia liberata e occupata in rapporto con le attività antinazifasciste del Partito a Firenze… collaborò per la diffusione della stampa clandestina e alla raccolta di fondi”. Il suo ufficio presso le Gallerie di Firenze diventa un centro di ritrovo clandestino, con tutti i rischi che ne derivano: lo stesso curriculum riporta che Fasola viene denunciato alla famigerata banda Carità per mezzo di lettere anonime, fortunatamente intercettate.
Per l’attività svolta durante la Resistenza nella provincia di Firenze, nel 1950 la Commissione regionale toscana per il riconoscimento della qualifica di partigiano, istituita presso la Presidenza del consiglio dei ministri, dichiarerà Fasola “partigiano combattente” per il periodo che si estende dal 1° ottobre 1943 al 7 settembre 1944, ovvero da poco dopo l’inizio della Resistenza fino allo scioglimento delle formazioni partigiane ad opera degli Alleati. Inoltre sarà decorato della medaglia d’argento e riceverà la croce al merito di guerra.
Anche Giusta durante il periodo clandestino mette gravemente in pericolo la propria vita: nonostante sia stata segnalata e denunciata ai tedeschi, si occupa come il marito del collegamento di gruppi antifascisti, della trasmissione di informazioni e della distribuzione di stampa clandestina a Firenze e fuori città; inoltre è membro del Comitato consultivo del PdA di Firenze e del Comitato esecutivo di emergenza. Anche Giusta riceverà la qualifica di “partigiano combattente” e la croce al merito di guerra.
Venendo al contesto fiesolano, è proprio a casa dei coniugi Fasola che dal settembre 1943 si svolgono le prime riunioni del Comitato di liberazione locale, organismo pentapartitico nel quale i due intellettuali rappresentano il Partito d’azione. Il primo nucleo del CLN si riunisce infatti in via degli Angeli 4, in una casa della famiglia Micheli allora presa in affitto da Cesare e Giusta, dove ancor oggi possiamo vedere, scritte a matita su un lato del caminetto, le firme dei Fasola e di altri antifascisti: Giuseppe Roselli, Enrico Baroncini, Giovanni Ignesti, Aldo Gheri, Mino Labardi e Edoardo Salimbeni. Come gli analoghi CLN formatisi in Italia centro-settentrionale a partire dal settembre 1943, il Comitato fiesolano riveste un ruolo importante non solo nel periodo clandestino, durante il quale svolge principalmente propaganda antinazifascista e assiste le bande partigiane, ma anche dopo la liberazione di Fiesole, quando assume il governo del territorio e si adopera per la ripresa della vita politica, economica, associativa. Il Comitato si occupa del rifornimento di alloggi e di beni di prima necessità, coordina l’attività dei partiti, di cooperative di consumo, di associazioni, incoraggia iniziative di beneficenza e di assistenza, gestisce l’epurazione e tratta problemi inerenti la disoccupazione, il mercato nero, i trasporti.
I documenti dell’archivio del CLN fiesolano attestano l’attiva partecipazione di Fasola e di sua moglie, sempre presenti alle sedute del Comitato; Giusta fra l’altro ricopre la carica di segretaria, occupandosi della convocazione delle riunioni e della conservazione delle carte del CLN stesso. Come dimostrano i verbali delle sedute Cesare interviene su questioni diverse: la necessità dell’assistenza ai reduci di guerra, l’opportunità di schedare i fascisti che rientrano dal nord, la situazione dei CLN per i quali auspica un ruolo più incisivo nella vita politico-istituzionale del Paese.
É stato sottolineato come per molte persone l’attività all’interno dei Comitati di liberazione locali abbia costituito una sorta di palestra politica, la prima fase di un intenso impegno all’interno dei partiti e delle istituzioni comunali. A Fiesole il caso più evidente è quello del socialista Ignesti, presidente del CLN, che sarà sindaco tra il 1958 e il 1964, ma anche quello di Fasola è significativo, in quanto il suo ruolo di membro del Comitato sfocia senza soluzione di continuità in quello di assessore e di consigliere. Già dai primi di settembre 1944, del resto, la prima giunta post-Liberazione, insediata dal CLN e guidata dal socialista Casini, è composta per la maggior parte da membri del CLN stesso. Tra questi Cesare Fasola, nominato assessore in un primo momento con delega all’Assistenza sociale e l’igiene e poi con delega ai Lavori pubblici.
In una situazione drammaticamente caratterizzata dalla distruzione di alloggi, strade, ponti, acquedotti e impianti elettrici, dalla mancanza di mezzi di trasporto, dalla necessità di procedere ad un urgente intervento di sminamento, possiamo immaginare quanto impegnativo sia stato il suo incarico. In giunta Fasola riferisce e avanza proposte in merito alla condizione degli edifici scolastici che hanno subito danni di guerra, alla rimozione delle macerie che ingombrano le strade e a quella delle mine collocate dai tedeschi, alla riattivazione della corrente elettrica, ai danni alla produzione boschiva, e curiosamente alla necessità di provvedere alla fornitura di macchine da scrivere, dopo le razzie effettuate dai tedeschi. In quanto assessore interviene inoltre nella polemica tra il sindaco e monsignor Rodolfo Berti, proposto della Cattedrale, per la mancata partecipazione dell’amministrazione comunale alle cerimonie religiose in onore di S. Romolo, approvando la scelta di Lugi Casini di non aderire ad un’usanza “introdotta dai fascisti e di sapore medievale, come l’offerta del cero”, e biasimando l’affissione sulla porta della Cattedrale della lettera in cui il sindaco declinava l’invito a partecipare alle manifestazioni per la festa del patrono.
Alle elezioni amministrative del 24 marzo 1946 – le prime dopo la caduta del fascismo – Fasola è eletto consigliere comunale per il Blocco democratico della ricostruzione, formato da azionisti, socialisti e comunisti. Nel 1947, dopo la fine del Partito d’azione, come molti suoi ex-compagni aderisce al Partito socialista, e nelle file di questo partito sarà presente in tutte le successive amministrazioni, che lo vedranno di nuovo assessore, questa volta con delega all’istruzione e al turismo, in seguito alle elezioni del 1951, e consigliere in seguito alle elezioni del 1956 e a quelle del 1960.
Nel quindicennio circa che va dal 1946 al 1960, durante il quale prosegue l’opera di ricostruzione da parte delle giunte Casini e Ignesti, Fasola partecipa alla vita politica fiesolana muovendosi prevalentemente nell’ambito dell’istruzione, della cultura e del turismo. Già nel dicembre 1946 presenta un’interpellanza in Consiglio in merito alla riapertura al pubblico del Museo Bandini– “una istituzione che interessa il decoro della nostra Città e che rivolge l’invito al forestiero per essere visitata” – e alla antica Scuola di disegno – a proposito della quale chiede al sindaco “se non sia possibile riprendere una tradizione antica e utile alla cittadinanza”. Da assessore, lavora alla ricerca di contatti per lo svolgimento di spettacoli estivi al Teatro romano, riferisce in giunta in merito alla riattivazione degli scavi nella zona archeologica e ai rapporti con la Soprintendenza, su sollecitazione dell’Ente provinciale per il turismo fa parte di un comitato per la ricostituzione dell’Associazione turistica di Fiesole.
Una questione che lo interessa particolarmente, legata al turismo, è il decoro cittadino: ad esempio nel 1947 presenta un’interpellanza perché i muri fiesolani siano ripuliti da scritte e residui di manifesti, perché “E’ evidente l’interesse che abbiamo a che le nostre vie, che sono visitate da numerosi forestieri, presentino quel carattere di lindura e di proprietà, che mette in risalto la bellezza turistica, che è quasi sola ricchezza che noi possediamo”. In una lettera al sindaco datata 1948 chiede che la strada Vincigliata-Maiano, meta di gite domenicali, e l’area di San Francesco siano ripulite dalla spazzatura e dotate di apposti bidoni. In una lettera del 1954 avverte Luigi Casini del pericolo presentato da un muro in via degli Angeli ancora pericolante per le cannonate subite in guerra, con grave rischio per i passanti.
Un altro problema che sta a cuore a Fasola è il ripristino del servizio filoviario Firenze-Fiesole, la cui interruzione nell’immediato dopoguerra costringe gli operai a recarsi quotidianamente a piedi nel capoluogo, e ancora nel 1947, in mancanza di un collegamento diretto, ad effettuare lunghe soste tra i tratti in cui è suddiviso il percorso. Sempre in merito alla filovia presenta interpellanze in Consiglio e si pronuncia in difesa degli interessi dei lavoratori affinché i biglietti abbiano tariffe più eque.
I suoi interventi in Consiglio comunale tra il 1951 e il 1956 spaziano da questioni squisitamente locali ad altre di più ampio respiro. Si va dal cordoglio per la morte di due lavoratori in un incidente avvenuto a Villa Machiavelli, al problema della formazione dei turni scolastici alla scuola comunale, dovuto alle gravi carenze dell’edilizia scolastica, alla discussa scarcerazione di Francesco Moranino, partigiano medaglia d’oro arrestato per episodi avvenuti durante la guerra di liberazione, ai fatti del 1956 in Ungheria, in Egitto, nel Nord Africa e nel Medio Oriente, riguardo ai quali esprime la propria angoscia per “ciò che sarebbe potuto accadere, e che avrebbe ancora una volta interrotto la marcia del progresso e del proletariato”. Rispetto a questi eventi riesce a far convergere su un unico ordine del giorno i voti di democristiani e comunisti, notando come, nonostante esistano diversità di opinioni (anche tra comunisti e socialisti, come è noto), ci sia “un’unità di intenti, così come esisteva nel tempo della liberazione, quando tutto era chiaro, perché tutti si sapeva dove erano l’oppressione e la tirannia. Oggi è meno chiaro: c’è l’Ungheria, ma ci sono anche Suez, l’Algeria, il Kenia. Condanniamo allora, l’ingiustizia e la violenza, ovunque si trovino”. Nel maggio 1957, quando il Sindaco mette in approvazione un ordine del giorno in cui auspica che il nuovo governo insediato applichi la Costituzione e adotti una politica estera contro gli esperimenti atomici, Fasola interviene sollecitando un’ampia partecipazione su problemi di tale rilievo e di fronte ai quali non può esserci “alcuno spirito di rinunzia o sfiducia”.
Gli interventi di Fasola presentano più di una volta richiami ai valori della Resistenza e allo spirito ciellenistico. In una seduta del Consiglio comunale del dicembre 1957, relativamente ad un ordine del giorno comunista in difesa dei valori della Resistenza in occasione dell’omaggio reso dal Presidente della Repubblica federale tedesca Heuss ai martiri delle Fosse Ardeatine e in vista della traslazione a Firenze delle salme dei fucilati alle Cascine, Fasola ricorda che “è proprio in virtù della Resistenza e del sacrificio di chi vi partecipò” che “questo Consiglio comunale si riunisce, avendo la Resistenza segnato il ritorno alla libera manifestazione della volontà popolare e quello delle rappresentanze elettive del popolo”; anche questa volta, grazie alla sua mediazione, i voti dei democristiani e dei comunisti convergono su un unico ordine del giorno che viene votato all’unanimità. É importante per lui anche la conservazione della memoria resistenziale: iscritto all’ANPI, è tra i soci fondatori dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana, istituito nel 1953, presso il quale si conserva il piccolo fondo personale che è già stato menzionato, e dove nel 1964 – anno successivo alla sua scomparsa – sarà commemorato da Carlo Ludovico Ragghianti.
Vale la pena ricordare anche che nel 1952 Fasola è tra i fondatori dell’Alleanza per la ricreazione popolare, un movimento che riprende in parte le posizioni del vecchio comitato di difesa dell’ENAL (Ente nazionale assistenza lavoratori), e che agisce come organismo di collegamento tra vari circoli e case del popolo: insieme a personalità di varia provenienza culturale e politica – ma soprattutto di sinistra, come Gaetano Pieraccini, Orazio Barbieri e Mario Fabiani – è membro del Comitato direttivo.
Torinese trapiantato a Firenze e poi a Fiesole, Fasola risulta infine ben integrato nel contesto sociale e culturale cittadino. Ad esempio intrattiene rapporti con Charlotte Spinn, vedova di Heinrich Ludolf Verworner, uno dei tanti artisti che avevano scelto il “colle lunato” come luogo d’elezione. Nel 1953 pronuncia un discorso in occasione dello scoprimento della lapide in ricordo di Verworner a villa di Fontelucente; da una cartolina a Charlotte datata Natale 1955 (conservata nel fondo archivistico intitolato a suo marito presso l’Archivio comunale) si intuisce un legame basato non solo su comuni interessi artistici ma anche su stima e affetto.
Il suo ultimo incarico di consigliere comunale, assunto in seguito alle elezioni amministrative del 6 novembre 1960, ha durata brevissima: dopo due anni di malattia, l’8 novembre Giusta viene a mancare e Cesare decide di dimettersi. Il 3 dicembre successivo le sue dimissioni sono discusse e approvate dal Consiglio, che si rammarica per la perdita e lo ringrazia per l’impegno profuso sin dai tempi del CLN.
Dopo la scomparsa della moglie, con cui ha condiviso decenni di impegno politico e culturale – ricordiamo che Giusta era storica dell’arte ben conosciuta, studiosa del Medioevo e del Rinascimento, docente universitaria a Genova – Fasola si trasferisce a Bagno a Ripoli, dove morrà tre anni dopo; ma possiamo immaginare che un legame particolare abbia continuato a unirlo a Fiesole. Secondo il verbale della seduta di insediamento del nuovo Consiglio dopo le elezioni del 1951, Fasola stesso sottolinea che per quanto sia nato altrove, “a Fiesole è giunto nel momento più cruciale ed a Fiesole si sente legato dal più affettuoso attaccamento, poiché qui ha vissuto il periodo più bello della vita”.




A fronte alta davanti al padrone.

Il 7 novembre 2016 abbiamo avuto un interessante colloquio con Gennaro Meli, responsabile della Federterra di Carmignano negli anni Cinquanta-Sessanta. Proponiamo il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

Quando e dove sei nato? Che ricordi conservi della tua infanzia?
Sono nato a Carmignano il 31 gennaio 1922, in una famiglia di mezzadri. I miei genitori lavoravano in un podere che era di proprietà di diversi padroni. La Carmignano di quand’ero ragazzo era un paese che si reggeva sull’agricoltura, dove i rapporti interpersonali erano diversi, molto diversi, da come sono oggi. Rammento ancora quando ci si riuniva, per esempio in occasione della vendemmia: c’era quello che cantava di poesia, quello che suonava, ed il clima era festoso, riuscivamo a scordare, per un momento, le difficoltà della vita. Non c’era, allora, l’individualismo che c’è oggi, la solidarietà, anche quella di classe, non era una parola vuota e questo rappresentava un punto di forza per gli organizzatori, per il movimento contadino.

Come ti sei avvicinato al sindacato e quali cariche hai coperto al suo interno?
Tornato dal servizio militare, fui colpito dall’impegno che, tanto a livello locale quanto a livello nazionale, i dirigenti del Partito comunista e della CGIL mettevano per migliorare le condizioni di vita dei contadini. Fu così che decisi di impegnarmi a mia volta, di cercare di dare il mio contributo. Si trattò di una scelta non facile e non priva di conseguenze perché, allora, chi militava attivamente nel sindacato veniva boicottato dai padroni e spesso non riusciva a trovare lavoro: io ho provato questo sulla mia pelle. In seguito sono diventato responsabile della Federmezzadri di Carmignano che, almeno fino alla fine degli anni Cinquanta, gravitava su Firenze più che su Prato. Io avevo rapporti diretti con Vittorio Magni, segretario della Federmezzadri provinciale, e spesso mi recavo in via dei Servi, dove avevano sede il partito e la Camera del lavoro. Ho pubblicato anche diversi articoli sui problemi dei contadini della mia zona sull’Unità e su Toscana nuova.

Puoi dirci qualcosa sulle condizioni dei contadini del Carmignanese negli anni Cinquanta-Sessanta?
Molto dipendeva dal tipo di podere che il mezzadro coltivava: se il podere dava olio, vino, frutta il contadino stava meglio, ma, in generale, si può parlare di condizioni di vita difficili: in tanti dovevano tirare la cinghia. I carichi di lavoro erano pesantissimi, la meccanizzazione insufficiente, le condizioni delle abitazioni pessime. In molte case i servizi igienici mancavano od erano cattivi, non c’era la corrente elettrica, non c’era l’acqua. Dove abitavo io, ad esempio, per procurarsi l’acqua bisognava fare un chilometro a piedi per arrivare ad una sorgente, portandosi dietro le mezzine. Nella fattoria di proprietà della contessa Lepri, nella zona di Artimino, le case dei contadini erano dei veri tuguri. Ricordo che quando andai a parlare con la contessa per chiederle di far eseguire dei lavori di miglioramento, mi voleva denunciare. “Non vedo l’ora – le dissi –, mi denunci, così poi ci facciamo due risate insieme”.

Quali erano le principali rivendicazioni dei mezzadri di Carmignano?
Oltre al miglioramento delle coloniche, le richieste più importanti riguardavano, come altrove, i contributi unificati, l’imponibile di manodopera, la meccanizzazione ed una modifica del riparto dei prodotti che, tenendo conto degli apporti reali, assegnasse al mezzadro una quota superiore al 50%.
Io avevo organizzato in modo capillare la Federterra, creando più gruppi di dieci-quindici contadini, ognuno con un suo capogruppo, per un totale di circa cinquecento mezzadri. Quando si trattava di fare una riunione, portavo l’avviso ai capigruppo e nelle case di campagna. Per parlare con la controparte, si formava una delegazione. I proprietari, spesso, non si presentavano e le trattative si svolgevano coi fattori, che adottavano una tattica dilatoria, sostenendo di dover riferire al padrone perché non potevano prendere determinate decisioni e così via. Con alcuni proprietari ci furono scontri molto duri, in specie col conte Contini Bonacossi, proprietario della Fattoria di Capezzana, la più grande della zona. Il conte aveva incaricato il fattore, un certo Del Giallo, di discutere con noi la questione dell’addebito ai mezzadri dei contributi unificati. I contadini erano stati costretti a firmare un documento in cui accettavano di pagare i contributi. Io però riuscii a convincerli a ritirare la firma. Si costituì poi una delegazione composta di una ventina di mezzadri e si andò da Del Giallo che, con fare altezzoso, rifiutò di riceverci. Io gli risposi a tono ed alla fine la battaglia fu vinta.

Il sindacato cattolico era forte tra i contadini della zona?
La CISL era forte dove c’erano molti coltivatori diretti, ma fra i mezzadri la sua presenza era una presenza minoritaria. Nel Carmignanese il sindacato cattolico era radicato in certe zone di tradizione bianca, moderata, Era questo il caso di Artimino: rammento che una volta io e Vieri Bongini, responsabile del movimento contadino pratese, giunti ad Artimino per un comizio, ci trovammo di fronte alla piazza completamente vuota. Il comizio però andava fatto perché i contadini conoscessero le nostre idee, le nostre proposte: “Non ti preoccupare – dissi a Vieri –, tanto nelle case ci sentono”. E parlammo lo stesso.

Che giudizio dai oggi della mezzadria e come hai vissuto la sua crisi?
L’istituto mezzadrile era un istituto superato perché non riusciva a soddisfare i bisogni della famiglia colonica, perché non garantiva un reddito soddisfacente ai contadini. Questo è sicuro. Però alla fine della mezzadria non è seguito qualcosa di meglio, è seguito il nulla. Occorreva una riforma agraria strutturale, che desse ai contadini la terra ed i mezzi per lavorarla. Ma questo non è mai avvenuto a causa delle resistenze dei proprietari. Come risultato abbiamo avuto lo spopolamento delle campagne, e questo, certamente, è stato un male.




Battista Tettamanti e Teresa Meroni: due vite parallele

Battista Tettamanti e Teresa Meroni, compagni di lotte e nella vita, costituiscono due esempi di un tipo di quadro sindacale largamente diffuso nel periodo a cavallo fra Otto e Novecento. Entrambi di umili origini (il padre di Battista faceva l’ortolano, Teresa era nata in una famiglia di operai), impossibilitati a frequentare studi regolari, trassero dall’esperienza di fabbrica la capacità di riflettere criticamente sulle condizioni di sfruttamento dei lavoratori, trovando nel Partito socialista e nel sindacato dei validi strumenti di formazione, che ne fecero degli organizzatori coraggiosi e concreti.
È grazie agli uomini ed alle donne che, come Battista e Teresa, compirono questo tipo di percorso, affrontando l’ostilità dei padroni e la persecuzione poliziesca, che la classe operaia è passata da “classe in sé” a “classe per sé”, maturando piena coscienza dei propri diritti ed acquisendo la determinazione necessaria per difenderli e per allargarli. È grazie a questo tipo di quadro sindacale che i lavoratori hanno potuto realizzare le conquiste più importanti prima dell’avvento del fascismo. Basta ripercorrere, anche rapidamente, le vite di Battista e di Teresa per rendersene conto.
Nato a Como nel 1879, Tettamanti si iscrisse nel 1896 alla Lega socialista della sua città e – dopo un breve periodo trascorso in Svizzera, dove era stato costretto ad emigrare dalla mancanza di lavoro – si mise subito in luce all’interno del sindacato, diventando nel 1907 segretario della Camera del lavoro comasca e conservando tale carica fino al 1914. Sono rimaste impresse nella memoria collettiva le lotte condotte in quegli anni dagli apparecchiatori, dagli edili (che nel 1908, sotto la sua responsabilità, occuparono i cantieri, anticipando di dodici anni l’esperienza delle occupazione delle fabbriche) e dai contadini della Brianza.
Abbastanza di frequente accadeva che il sindacato inviasse i quadri più sperimentati, formatisi di regola nel triangolo industriale, in zone del Paese dove l’organizzazione era giudicata meno forte. Fu così che nel 1915 Battista si trasferì a Prato per dirigere il movimento cooperativistico della Val di Bisenzio, la Lega laniera di Vaiano ed il settimanale socialista Il lavoro. Sul Lavoro Tettamanti scrisse molti articoli, alcuni dei quali rivelano una notevole capacità di analisi politica (tali sono, ad esempio, i pezzi in cui egli critica la linea dei vertici massimalisti del PSI, oppure quelli in cui, sia pure nel quadro di un’interpretazione abbastanza schematica del fascismo, riesce a cogliere la peculiarità di tale movimento nell’essere la sua base sociale costituita da una massa di piccoli borghesi spostati passati al servizio del capitale).
Durante il “biennio rosso” Battista fu alla testa delle più importanti lotte operaie, a cominciare dal moto del caroviveri del luglio 1919, quando la Valle del Bisenzio assunse l’aspetto di una piccola repubblica sovietica che si estendeva al’incirca da Santa Lucia a Montepiano e che aveva il suo centro a Vaiano. Tettamanti era a capo del Comitato di agitazione che dirigeva il moto: le amministrazioni comunali della Vallata vennero dichiarate decadute e sostituite da “commissari del popolo”, la bandiera rossa innalzata sul balcone del palazzo comunale di Vernio. Una guardia di lavoratori ebbe l’incarico di mantenere l’ordine pubblico. Nelle fattorie e nelle fabbriche furono eseguite requisizioni di generi alimentari e di tessuti che, raccolti presso le sedi sindacali, vennero poi distribuiti alla popolazione col 50% di riduzione sui prezzi correnti.
Passata la bufera del tumulto contro il caroviveri, Prato fu scossa da un imponente sciopero generale degli operai tessili, proclamato nell’ottobre del 1919. Battista fu molto attivo durante tutto il periodo dell’agitazione, e particolarmente significativo, perché indice di un costume davvero superiore, ci sembra il fatto che, pur essendogli state offerte due candidature di sicura riuscita alle politiche del 16 novembre, egli le rifiutasse, ritenendo cosa sconveniente abbandonare i lavoratori in lotta.
Nel gennaio del 1921 – quando, dopo l’occupazione delle fabbriche, i grossi industriali, costretti in un primo tempo a cedere alle richieste degli operai, erano ormai passati al contrattacco finanziando le squadre fasciste, sostenute dall’apparato burocratico e militare dello stato – Tettamanti venne arrestato mentre, alla testa degli edili della ferrovia Direttissima Bologna-Firenze, stava cercando di resistere all’offensiva delle ditte cui il governo aveva appaltato i lavori dopo l’estromissione delle cooperativa operaie.
Scontata la pena di otto mesi inflittagli dal Tribunale di Firenze, venne espulso dalla Toscana con un provvedimento di polizia e si stabilì a Milano, dove fu attivo nell’opposizione clandestina, cosa che gli valse la condanna al confino (trascorso a Favignana, a Lipari ed a Ventotene).
Nel 1924 lasciò il PSI per il Partito comunista d’Italia, nel quale confluì con la frazione terzinternazionalista.
Dopo la caduta del regime Tettamanti partecipò alla Resistenza, tenendosi costantemente in contatto con il Partito comunista e con i partigiani per mezzo di numerose riunioni svoltesi a Como ed a Lecco (dove, nel marzo del 1944, quando un’ondata di scioperi di chiaro significato politico interessò varie località dell’Italia centro-settentrionale, fu tra gli organizzatori della protesta).
Il 26 aprile 1945 Battista riassunse la carica di segretario della Camera del lavoro di Como che tenne fino al 1950, riannodando così, al pari di altri vecchi organizzatori, i fili di un’esperienza avviata in anni lontani.
Successivamente coprì varie cariche di rilievo, restando sulla breccia fino al 1963, quando un collasso cardiaco pose fine ad una vita che può ben dirsi esemplare.
Molti punti di contatto con quella di Tettamanti presenta la biografia di Teresa Meroni.
Nata a Milano nel 1885, Teresa aderì al PSI nel 1905, quando aveva appena vent’anni. Attiva propagandista, si trasferì a Vaiano nel 1915, insieme con Tettamanti, e quando quest’ultimo venne richiamato alle armi lo sostituì al vertice della Lega laniera, di cui divenne segretaria.
In tale veste Teresa fu protagonista di tante vertenze che si svolsero in quel torno di tempo nel Pratese, segnalandosi soprattutto per i suoi sforzi intesi ad organizzare il proletariato femminile. La lucida consapevolezza del fatto che la questione femminile era parte non secondaria di quella sociale, rappresenta l’elemento che più di ogni altro rende interessante la figura della Meroni. Essa si colloca così all’interno di un filone femminista presente nel socialismo italiano (filone che in Anna Kuliscioff ebbe l’esponente di maggior spicco) il cui obiettivo era l’attuazione di un progetto di emancipazione della donna in quanto tale e non solo in quanto operaia.
Un altro elemento che caratterizzò la propaganda della Meroni fu la recisa opposizione alla guerra. A Teresa si deve, con ogni probabilità, un manifesto “alle madri operaie”, pubblicato dal Lavoro il 25 aprile 1915 e sottoscritto da alcune donne vaianesi, che colpisce per la puntuale analisi di classe in esso svolta. Ma a Teresa si deve soprattutto l’organizzazione, nel luglio del 1917, di una memorabile marcia delle donne da Vaiano in direzione di Prato per manifestare, in modo clamoroso, contro il conflitto in corso.
Nel 1918 la Meroni venne internata a Livorno e successivamente a Castelnuovo di Garfagnana, ma anche in quelle località continuò imperterrita a svolgere la sua attività politico-sindacale. Tornò in Val di Bisenzio nel 1919, in tempo per partecipare, con un ruolo da protagonista, al moto del caroviveri.
Costretta a fuggire da Vaiano in seguito all’attacco fascista del 17 aprile 1921, Teresa si trasferì a Milano, prendendo parte attiva all’opposizione clandestina e guadagnandosi una condanna al confino. Nel 1924 aderì al PCd’I.
Rimpatriata nel 1937 per fine periodo, riprese subito l’attività politica antifascista che si saldò con quella da lei svolta successivamente nel periodo resistenziale.
Dopo la guerra si stabilì a Como insieme con Battista e per diversi anni fece parte del comitato centrale della FIOT nazionale. Morì nella città lariana nel 1951.
A questo punto qualcuno potrebbe forse chiedersi perché si sente il bisogno di ricordare oggi personaggi come Tettamanti e la Meroni. A questa domanda credo che si possa fornire una duplice risposta. Innanzitutto va osservato che la ricerca storica non è mai fine a se stessa perché fornisce alla conoscenza degli elementi sempre nuovi, ed è quindi occasione di arricchimento culturale e stimolo alla riflessione critica. Ma in questo caso mi pare di poter dire che essa assume una valenza del tutto particolare, che le conferisce il sapore dell’attualità. L’esempio di Battista e di Teresa è infatti ancor oggi da meditare in quanto essi hanno speso la loro vita battendosi per dei valori fondamentali (quelli della solidarietà, del progresso e dell’uguaglianza) che non hanno affatto perso la loro validità e che vanno anzi recuperati per cercare di ricostruire nel nostro Paese una forza politica autenticamente di sinistra. Questo, a mio avviso, è ciò che dà il senso a questo articolo e che rende l’esempio di Battista e di Teresa tuttora vivo e pieno di significato.




Un Partigiano di nome Annibale

Nato a Pistoia (Santomato) il 19 gennaio 1922, figlio di Leonardo e Capponi Maria Ida, Annibale Trinci ottiene la licenza elementare, contadino poi elettricista e operaio alla fabbrica pistoiese San Giorgio dall’ottobre del 1939, iscritto alla CGIL dove si compie la sua educazione di classe, in quella che negli anni ‘40 era una fucina di militanti operai comunisti. Nel 1941 Trinci è chiamato alle armi all’Elba a Portoferraio nel genio foto elettricisti; partecipa dal 18 novembre 1942 al 21 gennaio 1943 alle operazioni di guerra svoltesi nel Mediterraneo con la 105a Compagnia mista genio mobilitato e poi dal 7 febbraio 1943 al luglio 1943 e dal 9 agosto 1943 all’8 settembre 1944 nelle operazioni nel Mediterraneo per la difesa della patria a copertura costiera con la 105a Compagnia Mista Genio Mobilitato.

Dal 22 marzo 1944 per ordine della dirigenza della San Giorgio è trasferito nella sede di Cambiano, vicino Torino, da lì inizia la sua esperienza da partigiano con il nome di battaglia “Marco Polo”. È a Cambiano che Annibale incontra Giordano Bruschi e Olga Arcargioli. Giordano, di origine pistoiese, si era diplomato in ragioneria a Genova ed era stato assunto a 19 anni alla San Giorgio di Cambiano, introdotto dallo zio, il primo settembre 1944 come impiegato contabile per i settori della mensa e del magazzino; nonostante la giovane età diverrà ben presto, con il nome di battaglia “Giotto” commissario politico della 30a Brigata delle SAP “Capriolo”. Olga, in fabbrica dal primo luglio 1943 come impiegata stenodattilografa, anche lei diciannovenne, si ritrova nel tumulto della guerra e diventa una fida staffetta.
A Cambiano s’incontrano due classi operaie: una proveniente da Pistoia, l’altra da Sestri Ponente. I pistoiesi erano diretti da Trinci e Niccolai, impiegato originario di San Marcello. Il gruppo genovese era un nucleo storico nato in seno all’esperienza di “Soccorso Rosso” nel 1936 che aveva dato vita alla solidarietà ai compagni impegnati nella guerra civile in Spagna. La fabbrica genovese aveva una peculiarità: non aveva dirigenti fascisti, ma due ebrei, che non avevano mai fatto discriminazioni nell’assunzione di antifascisti. A Cambiano, fabbrica di armi di precisione, i BGS, arrivano quindi operai già politicizzati.

annibale e amiciDal 1o settembre 1944 Annibale Trinci s’iscrive al Fronte della Gioventù per l’indipendenza nazionale e la libertà nel comitato regionale Piemontese, nella sezione di Torino, VI zona, la zona delle Langhe. In seguito è garibaldino della XIV divisione del Piemonte della brigata d’assalto Garibaldi “Luigi Capriolo”, guidata dal Comandante Kin. In pieno accordo con i compagni del P.C.I. fu deciso di inviare Trinci presso una formazione “Giustizia e Libertà”, a Pino d’Asti, vicino Cambiano, precisamente nella IX G.L. al Comando del Maggiore Alberti, con il preciso compito di formare entro queste bande delle cellule del Partito Comunista, e intanto stabilire solidi collegamenti fra il Partito e i partigiani.
Nel novembre del 1944 si assiste a un rastrellamento nazifascista d’ingenti dimensioni, le divisioni se pur a conoscenza dell’imminente attacco subiranno perdite e feriti. Il 20 novembre 1944 Annibale Trinci combatte ed è ferito nella battaglia di Aramengo, vicino ad Asti sulle colline del Monferrato. Riconosciuto combattente partigiano dalla commissione regione Piemonte, Annibale Trinci ha partecipato dal 3 settembre 1944 al 8 maggio 1945 in territorio metropolitano astigiano con la qualifica di Sergente Maggiore Capo con la formazione partigiana IX divisione “Giustizia e Libertà” comandata dal capitano Oreste Gastone Alberti, dal 6 settembre 1944 (già combattente nel Veneto nelle formazioni “Giustizia e Libertà” e della 1a divisione alpina) Divisione Pedro Ferreira, nella III “Brigata Montano”, nello specifico nella colonna “Biz”(Luigi), e sulla brigata “Domenico Tamietti”. Tra il febbraio e il marzo 1945, fa parte anche di gruppo gappista che si occupava di far saltare i binari della ferrovia, nella zona di Villa Stellone, una stazione a circa tre chilometri da Trofarello. Il 18 aprile 1945, durante lo sciopero, Trinci occupa militarmente Trofarello e Cambiano e arrestando i fascisti armati. Il 21 maggio 1945, riconosciutagli l’attestazione di buona condotta dal prefetto, è ammesso come volontario nella Polizia del Popolo. Trinci era stato anche nominato capo della polizia interna alla fabbrica per garantire l’integrità della fabbrica, a causa di furti nello stabilimento, e successivamente di preparare il materiale sui vagoni merci diretti a Genova e Pistoia.

Nell’ottobre del 1945 riprende servizio alla fabbrica San Giorgio di Pistoia. Nel 1950 Annibale si sposa con Roberta Giannini, dalla quale avrà le figlie Manuela e Tamara. Il 29 novembre 1951 a causa di un infortunio sul lavoro durante un cantiere in Abruzzo perde una gamba; inizia questa volta una lotta con l’ingiustizia burocratica per il riconoscimento dell’infortunio, tanto che si occuperà del caso anche il sindacalista comunista Giuseppe Di Vittorio. Nel 1955 è licenziato dalla fabbrica essendo considerato “non adatto ai lavori di stabilimento”. Per la sua passione e attività nel dopoguerra ricopre varie cariche, è dirigente dell’ANPI di Pistoia, dirigente dell’Associazione invalidi di Pistoia, dirigente PCI della sezione di Porta Lucchese. Muore il 1 agosto 1981.

Alice Vannucchi è ricercatrice presso l’Istituto storico della Resistenza e della società Contemporanea di Pistoia, è membro della redazione della rivista “Quaderni di Farestoria”, è docente nella scuola primaria dal 2007. Fra le sue pubblicazioni: Il rientro in città: il problema degli alloggi, in Pistoia fra guerra e pace a cura di M.Francini, I.S. R.Pt. Editore, 2005. Teorie di democrazia in Italia e Francia nel dopoguerra in “Quaderni di Farestoria”,anno VIII-n2 maggio –agosto 2006,pag.61-69. Le scuole di partito nel PCI di Togliatti.Il caso toscano (1945-1953) in “Quaderni di Farestoria”,anno XII-n 2- maggio –agosto 2010,pagg.33-45. Ha curato la mostra e il numero monografico Cupe Vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti, ISRPt. Attualmente si occupa di storia sociale e storia dell’editoria.




Gronchi e il “caso” Livorno

Luglio 1955, a due mesi dalla sua elezione alla Presidenza della Repubblica, Giovanni Gronchi scelse Livorno come una delle prime città italiane da omaggiare con una visita ufficiale. In quell’occasione il consiglio comunale gli conferì la cittadinanza onoraria. «Di fronte a questo gesto di grata amicizia che l’Amministrazione Comunale livornese a nome dell’intera cittadinanza mi ha rivolto, – affermò Gronchi nella sala consiliare del Municipio – forse qualcuno si è domandato perché io ho avuto in questi anni per Livorno un affetto che talvolta ha superato quello dei suoi stessi cittadini. Gli è che Livorno rappresenta per me una somma di ricordi a cui ritorno ogni volta con una specie di compiacente ed intima commozione. Livorno mi ha visto ragazzo, piuttosto povero, in malo arnese, non per cattiva volontà della mia famiglia, ma per assoluta insufficienza di mezzi determinata e dalla salute di mio padre e da molte sfortunate coincidenze. Ebbene, Livorno mi accoglieva per la benevolenza dei parenti come un’oasi di tranquillità».

1955

Il “Tirreno” nel giorno della visita di Gronchi a Livorno nel luglio 1955

LIVORNO, CITTA’ D’ADOZIONE… Basterebbero solo queste parole a descrivere la peculiarità del rapporto che Gronchi, originario di Pontedera, instaurò con Livorno lungo l’arco del suo percorso biografico e politico. Per il Capo dello Stato la città aveva rappresentato in effetti il luogo degli affetti: qui risiedevano gli zii materni, i Giacomelli, che da ragazzo lo avevano accolto nella loro casa in piazza Magenta. «Ed allora – continuava significativamente Gronchi nel discorso del luglio 1955 – Livorno si è mescolata fin da quell’epoca alle vicende della mia adolescenza e della mia giovinezza ed è diventata una specie di città di adozione».

…E LABORATORIO POLITICO. Eppure nella storia politica di Gronchi, Livorno rappresentò anche una sorta di laboratorio in cui testare – anche in contrapposizione all’altro deputato Dc pontederese Giuseppe Togni con cui si contendeva la piazza – il suo metodo e le sue idee politiche in un contesto che nel dopoguerra presentò caratteri di eccezionalità. Nella sua visita ufficiale da Presidente della Repubblica, egli enucleò in poche pennellate il significato politico del suo rapporto con la città. «Finita la lunga parentesi fascista, – affermò Gronchi – […] io vidi Livorno così mutilata nei suoi organismi vitali, nelle sue fabbriche e nelle sue strade, e fu come se mi si presentasse un nuovo campo di esperienza umana e politica insieme legato alle sorti di questa città e fui condotto a darle collaborazione e assistenza […] e sentirla come una città intimamente vicina al mio spirito. Da questa è nata quella collaborazione che ebbe un nome in quel momento e in quel periodo che io amo ricordare, quello del sindaco Diaz che portò, con un concorde sforzo, a far non tutto, ma molto per la resurrezione di questa nostra città. Mi parve allora che si realizzasse quella provvidenziale collaborazione tra Stato ed enti locali, che, quando, si manifesta così piena e senza riserve, non va a vantaggio dell’una o dell’altra parte politica, ma del più vero ed effettivo bene comune».

GUERRA E PACE (FREDDA). Nel primo decennio postbellico a Livorno grazie soprattutto alle «reciproche aperture intellettuali» (come le definì il suo biografo Gianfranco Merli) tra Gronchi e il sindaco comunista moderato Furio Diaz (1944-1954), trovarono così terreno di coltura quelle “parallele convergenze” tra democristiani e comunisti che significarono anche un’anomala alleanza di governo Pci-Dc in consiglio comunale protrattasi fino al 1951, ben oltre la rottura a livello nazionale (per un’analisi di dettaglio si veda il contributo già pubblicato su ToscanaNovecento). Ma sotto la liscia superficie della «provvidenziale collaborazione tra Stato ed enti locali» il quadro si delineava ben più complesso: la sintonia tra mondi politici distanti appariva anche come il frutto di precisi tatticismi politici e reciproche strumentalizzazioni e, soprattutto, veniva completamente a sfaldarsi in ambiti meno appariscenti nei quali, nel confronto tra le due mobilitazioni di massa, cattolici e comunisti si contendevano l’egemonia sulla società proponendo modelli radicalmente alternativi. Nei primi anni della guerra fredda la Livorno elettoralmente dominata dai comunisti e città simbolo del potere “rosso”, divenne così per Gronchi una partita da giocare su più tavoli, alternando diverse strategie d’azione.

gronchi guano togni angeli

Giuseppe Togni, Giovanni Gronchi, Emilio Guano e don Roberto Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

SENZA RISERVE PER LIVORNO. Non ci sono dubbi sul fatto che Gronchi agì senza riserve per aiutare Livorno a risollevarsi dai disastri bellici. Negli anni in cui fu Ministro dell’Industria (1944-1946) e poi Presidente della Camera come deputato eletto nella circoscrizione in cui ricadeva Livorno (1948-1955), si possono elencare tutta una serie di suoi interventi risolutivi per lo sblocco di leggi e finanziamenti specifici per la città. Dalla sua azione in favore degli accordi tra il Comune di Livorno e l’Inail per la concessione di mutui per la costruzione di case popolari, alla pressione attuata sul governo per lo sblocco della legge per la ricostruzione del centro storico, fino alla soluzione del difficile finanziamento dell’opera pubblica più ambiziosa e onerosa affrontata negli anni Cinquanta dall’amministrazione livornese, l’acquedotto del Mortaiolo (circa 900 milioni ai valori del 1953).

INVASIONI DI CAMPO (A SINISTRA). Ma questi interventi lo videro agire spesso su Livorno in “amichevole concorrenza” con  Giuseppe Togni, dal quale si distingueva, com’è noto, per idee politiche affatto coincidenti. Al radicale anticomunismo di Togni, Gronchi contrapponeva una strategia mirante a erodere terreno ai comunisti sul loro stesso campo. Nel decennio postbellico il futuro Capo dello Stato probabilmente aveva visto proprio in Livorno anche un terreno ideale per sperimentare nel piccolo la sua proposta politica: la sua critica ponderata al centrismo degasperiano si fondava sul mito della democrazia sociale e mirava a battere gli avversari politici “a sinistra”, puntando sulle riforme strutturali capaci di eliminare alla base i motivi dell’opposizione social comunista. In questa strategia Gronchi ebbe su Livorno molti alleati, tra cui il più importante fu, senza dubbio, il sacerdote don Roberto Angeli (per un profilo si veda questo contributo) che dalle colonne del suo settimanale «Fides», fedele al suo passato cristiano-sociale, appoggiò con evidenza l’azione del politico democristiano. Non a caso era stato lo stesso sacerdote, insieme al presidente diocesano di Ac, Dino Lugetti, a scrivere un accorato appello a Vittorino Veronese, presidente della giunta nazionale, quando alla vigilia delle cruciali elezioni del 18 aprile 1948 sembrava che Gronchi non venisse inserito nella Circoscrizione elettorale livornese. «Pensiamo che l’assenza di Gronchi nella lista della nostra circoscrizione diminuisca il credito del partito e metta in pericolo molti simpatizzanti», avevano esternato con chiarezza don Angeli e Lugetti. «Occorre ricordare – aggiungevano – che la nostra zona è, per antica tradizione, repubblicana e progressista: un nome come Gronchi attira molte simpatie e consensi anche fuori dalle nostre file. Gli avversari, ne siamo certi, si avvantaggerebbero assai della cosa e griderebbero ai quattro venti che la “D.C. ha messo in pensione i suoi uomini più progressisti e si è sbandata a destra”».

pontificia commissione assistenza

Il pulmann del Cla (archivio Centro Studi R. Angeli)

STRATEGIE ALTERNATIVE. Eppure l’azione politica di Gronchi per Livorno ebbe, come anticipato, anche altre facce molto meno evidenti e conosciute. Proprio grazie al «rapporto di fiducia e stima» che lo legava a don Angeli (per usare ancora parole di Gianfranco Merli), Gronchi elaborò una strategia che gli permise di appoggiare massicciamente le opere assistenziali cattoliche senza prestare troppo il fianco a polemiche ideologiche, riuscendo così ad erodere consenso sociale ai comunisti in un settore cruciale della battaglia politica. Nel settembre 1948 nacque infatti il Comitato Livornese Assistenza (Cla), un’associazione a carattere provinciale, presieduta da don Angeli e appoggiata da Gronchi – fin da subito – nel ruolo di «Alto Patrono». Crescendo a ritmo esponenziale, tra il 1948 e il 1955 il Cla  portò assistenza a più di 61mila persone in tutta la provincia costruendo asili, doposcuola, colonie estive e invernali, refettori per indigenti. Alla base della nascita del Cla, oltre all’urgenza evangelica di operare a favore dei più sofferenti, c’era anche l’idea di togliere ai comunisti il primato sulle opere d’assistenza alla popolazione e sull’educazione all’infanzia. L’accorgimento ideato da Gronchi e don Angeli fu quello di federare in un organismo unitario la Pontificia Commissione Assistenza, il Centro italiano femminile, l’Ac e le Acli, in modo – si legge in una relazione del 1961 – da consentire «una coordinazione perfetta nel lavoro» ed «eliminare doppioni e concorrenze» che altrove «avevano procurato un grave danno comune». Configurandosi come ente civile il Cla nasceva poi svincolato da «rapporti “giuridici” di dipendenza dalle Autorità ecclesiastiche», fattore che eliminava burocrazie di qualsiasi tipo e permetteva «di ricevere larghi aiuti finanziari, morali, ecc. dagli organi governativi». Come scriveva don Angeli nella citata relazione del 1961 il nuovo ente livornese ebbe così subito «l’appoggio delle Autorità governative» che videro in esso «il mezzo per togliere ai comunisti il primato che essi avevano nel campo assistenziale». Soprattutto, come veniva rilevato, era la «situazione locale che consigliava di non presentarsi al pubblico con una etichetta troppo prettamente ecclesiastica», per cui si mirò a dare al Cla un «aspetto ufficiale laico» per «penetrare in ambienti altrimenti refrattari».

LA BATTAGLIA DELLA CARITA’. I documenti conservati presso l’Archivio dell’Istituto Luigi Sturzo, svelano il sistematico flusso di aiuti che Gronchi riuscì a far arrivare al Cla dal 1948 alla fine degli anni Cinquanta. Uno schema relativo al 1950 attesta, ad esempio, che in quell’anno l’allora presidente della Camera si adoperò perché al Cla giungesse dal Ministero dell’Interno un contributo straordinario di 27 milioni oltre ad una serie di aiuti in medicinali e razioni alimentari. Ecco perché don Angeli, in un appunto del 1955, poté scrivere che la formula federativa e i buoni uffici di Gronchi, come presidente della Camera prima e della Repubblica in seguito, consentirono in una delle province più “rosse” d’Italia, «di eliminare praticamente i comunisti dal campo assistenziale» e di convogliare verso le opere del Cla «quasi la totalità dei contributi statali per l’assistenza pubblica». In un ambito così strategico della mobilitazione politica per conquistare le masse, anche per il «progressista» Gronchi la ricercata «provvidenziale collaborazione» tra forze politiche contrapposte, veniva a rompersi in nome delle superiori esigenze della guerra fredda.

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Una diocesi sfollata. La Chiesa di Livorno tra innovazioni pastorali e reti di assistenza (1943-1944), in Spaesamenti. Antifascismo, deportazione e clero in provincia di Livorno, a cura dell’Istoreco Livorno, Ets, Pisa 2015.




All’alba della Costituzione italiana

Il 2 giugno 1946, all’indomani del ventennio fascista ed a poco più di un anno dalla Liberazione e dalla conclusione del conflitto sul nostro suolo, il popolo italiano fu chiamato a scegliere tramite referendum tra la monarchia e la repubblica e contemporaneamente ad eleggere i deputati all’Assemblea Costituente.

Le cronache dell’epoca raccontano che gli italiani sfidando la calura di una domenica di fine primavera – inizio estate, in modo composto, disciplinato e tradendo emozione attendono pazientemente all’esterno dei seggi il loro turno.

L’affluenza alle urne sarà vicina al 90% e ciò testimonia la grande voglia di partecipazione e di esprimere il proprio voto in modo libero.

Il referendum fu favorevole all’istituto repubblicano che conseguì il 54% dei consensi contro il 46% raggiunto dalla monarchia. A sua volta le consultazioni per l’Assemblea Costituente si caratterizzarono per il successo dei cosiddetti “partiti di massa” (DC, PCI, PSIUP) che ottennero ben 426 seggi su 556 a disposizione, cioè i ¾ del totale.

Tra coloro che furono eletti in Assemblea ci furono anche Calogero Di Gloria, Palmiro Foresi, Abdon Maltagliati e Attilio Piccioni, tutti candidati nella circoscrizione elettorale Firenze – Pistoia la quale annoverò anche Sandro Pertini e Teresa Mattei.

Ma chi erano i costituenti eletti. Di che cosa si occuparono in Assemblea?

Di GloriaCalogero Di Gloria nasce a La Spezia nel 1917, uomo di raffinata cultura, professore di storia e materie letterarie nei principali istituti cittadini, autore di poesie e padre fondatore della “Brigata del Leoncino”, associazione culturale cittadina organizzatrice di eventi, manifestazioni, momenti di approfondimento su tutte le forme dell’arte e delle scienze. Con le elezioni del 2 giugno 1946 sarà eletto nelle liste del PSIUP nella circoscrizione elettorale Firenze – Pistoia

In sede assembleare intervenne in materia di rapporti civili, sull’ordinamento di Regioni, Province e Comuni ed infine sull’architettura istituzionale del futuro Stato repubblicano.

Rispetto all’ordinamento degli enti locali insisteva sulla necessità di rafforzare le province attraverso l’assegnazione di maggiori risorse economico – finanziarie ed espandendo i loro poteri di intervento, solo in questo modo avrebbero potuto rispondere efficacemente ai bisogni dei rispettivi territori.  In relazione all’architettura istituzionale evidenziava l’opportunità della creazione di un sistema bicamerale e la necessità di dare luogo ad un Senato elettivo, inoltre si dichiarava a favore dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica mentre l’esecutivo avrebbe dovuto distinguersi per efficacia, efficienza e la capacità di rispondere agli interessi del Paese. Il 10 agosto 1997 terminerà di vivere.

Pistoia 3Palmiro Foresi nasce a Livorno nel 1900 da padre di simpatie repubblicane mentre la madre morirà prima che lo stesso raggiungesse i due anni di vita. Si dedica agli studi liceali e universitari, conseguendo la laurea in fisica e giurisprudenza, insegnando matematica presso l’istituto privato “Giuseppe Guerrieri” con sede nella città labronica, assumendo successivamente l’incarico di assistente di diritto ecclesiastico presso l’università di Pisa.

In politica è ricordato tra l’altro per essere stato uno dei fondatori del PPI Livorno, mentre nell’ottobre 1944 è eletto segretario provinciale della DC pistoiese.  L’incarico di maggior prestigio sarà l’elezione alla Costituente con le consultazioni del 2 giugno 1946 con quasi 7000 preferenze. Nella medesima fece parte della Commissione per l’esame dei disegni di legge che vide la partecipazione di autorevoli personalità quali Piero Calamandrei e Nilde Jotti. Tra i suoi interventi e contributi si ricorda in particolare quello relativo alla stesura dell’articolo 45 che recita così: «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità. La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato».  Con esso si intendeva disciplinare l’impresa cooperativa e l’impresa artigiana cercando di tutelare la cooperazione con finalità di mutualità.

Foresi sarà poi rieletto anche nelle prime due legislature del Parlamento repubblicano e svolgerà anche un ruolo importante relativamente a vicende locali quali quella che vide contrapposte la Lazzi e la SACA, aziende di trasporto pubblico della provincia di Pistoia, inoltre sarà determinante per la risoluzione del contrasto tra imprenditori agricoli e lavoratori delle aziende ortovivaistiche e che si concluse con la firma del “Lodo Foresi” nel dicembre 1954. In seguito sarà Presidente dell’Ente Nazionale Previdenza ed Assistenza Statali, consigliere al comune di Roma e capogruppo della DC. Si spegnerà nel dicembre 1980.

Abdon Maltagliati nasce a Vellano (Pescia) il 7 novembre 1894 da famiglia di contadini poveri, condannato a 22 anni di carcere per i fatti di Empoli (ingiustamente accusato) e dal quale vi uscì nel 1932. Si rifugia inizialmente in Francia e successivamente in Unione Sovietica dove svolse il ruolo di direttore della Radio Italiana di Mosca, per poi rientrare nel novembre 1945 a Pistoia, dopo aver effettuato un esperienza anche nell’esercito sovietico. Segretario della Camera del Lavoro di Pescia, il 2 giugno 1946 sarà eletto nelle liste del PCI deputato alla Costituente dove si occupò principalmente dei temi del lavoro e dei lavoratori e pur non contribuendo a scrivere materialmente gli articoli riconducibili al principio lavorista cioè a quel principio che considera il lavoro come strumento di realizzazione della personalità di ciascun individuo. Il suo impegno e la sua attività saranno alquanto importanti nell’affermazione di quei principi precedentemente elencati. Cesserà di vivere il 10 novembre 1957.

Pistoia 4Attilio Piccioni nasce a Poggio Bustone in provincia di Rieti il 14 giugno 1892. Di professione avvocato sarà eletto per la lista della D.C. alle elezioni del 2 giugno 1946. Farà parte della Commissione dei 75 cioè quella che contribuirà alla stesura materiale del dettato costituzionale. Egli interverrà sul tema delle autonomie locali e in particolare sull’istituzione dell’ente Regione per il quale dichiara di essere a favore della sua creazione giudicata dallo stesso come baluardo per le libertà dei cittadini e per le libertà democratiche del Paese, affidando loro anche una potestà legislativa rispettosa comunque dell’ordinamento statale. Oltre al tema illustrato interverrà anche sulla formazione e la composizione della seconda Camera cioè del Senato, auspicando che questi sia su base regionale.

Sarà poi ricordato per aver svolto il ruolo di Ministro degli Esteri dal quale si dimetterà nel settembre 1954 a seguito del coinvolgimento del figlio Piero nello scandalo “Montesi”.  In seguito sarà rieletto al Parlamento ininterrottamente fino alla legislatura che si conclude anticipatamente nel 1976, anno in cui viene a mancare.

Filippo Mazzoni nasce a Pistoia nel 1972. E’ laureato in Storia e Scienze Politiche. Collabora con l’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia di cui fa parte anche del Consiglio Direttivo. É autore della pubblicazione “La federazione comunista pistoiese dalla Liberazione al <<terribile>> 1956 (2003), ha collaborato assieme ad altri ricercatori alla stesura del volume “Pistoia fra guerra e pace” (2005) ed ha curato con P. L. Guastini e G. F. Marcucci “All’alba della costituzione italiana. I quattro costituenti pistoiesi (2008). É inoltre autore della pubblicazione “Una storia da non dimenticare. Ricostruzione storica dell’eccidio del 31 marzo 1944 alla Fortezza S. Barbara (2008 e ristampa 2015). Infine per conto della casa editrice Ibiskos ha pubblicato “Il terribile quindicennio (1969 – 1984). La storia delle stragi raccontate ai ragazzi” (2014). Con Stefano Bartolini ha curato il recupero dell’Archivio “Andrea Devoto” conservato presso il Polo delle Scienze Sociali dell’Università di Firenze, inoltra collabora con la rivista “QF – Quaderni di Farestoria” edita dall’Istituto.




Un secolo ed un architetto: Giovanni Michelucci

Il 7 aprile 2014 siamo giunti alla terza presentazione del documentario, sottotitolato in inglese, Giovanni Michelucci. Elementi di vita e di città, regia di Cristiano Coppi, al Cinema Odeon di Firenze realizzato con la Provincia di Pistoia la Fondazione Giovanni Michelucci di Fiesole con il contributo della Regione Toscana e in quest’occasione con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia in collaborazione con l’Università di Firenze, Dipartimento di Architettura DIDA/Festival Internazionale di Architettura in video MEDIARC.

Le precedenti presentazioni erano state al cinema Globo di Pistoia nel dicembre 2012 e al Museo MAXXI di Roma nel maggio 2012.

Il documentario racconta i cento anni vissuti da Giovanni Michelucci e i momenti che hanno segnato la sua vita di uomo e di architetto. Attraverso filmati dell’epoca, riprese delle sue opere più importanti e interviste, il documentario vuole descrivere la complessità ed il fascino di un personaggio di cui tanto si è scritto ma che ancora oggi conserva molti aspetti da esplorare. Collaboratori, architetti e storici dell’architettura, come Claudia Conforti, Paolo Portoghesi, Corrado Marcetti, Mauro Innocenti, Marco Dezzi Bardeschi, Francesco Dal Co, solo per fare qualche nome, hanno raccontato le molteplici sfumature di uomo che ha attraversato un secolo, il secolo breve cogliendone i mutamenti. La puntuale regia di Cristiano Coppi si è avvalsa di un comitato scientifico composto da Andrea Giraldi, Matilde Montalti e Alice Vannucchi.

Nato il 31 dicembre 1890 a Pistoia in una famiglia proprietaria di un’officina per la lavorazione artigianale e artistica del ferro, si diploma all’istituto Superiore di Architettura dell’Accademia di Belle Arti, nel 1914 ottiene la licenza di professore di disegno architettonico; insegnerà presso l’istituto superiore di architettura di Firenze e sarà eletto Preside della Facoltà di Architettura nel 1944.
Durante la grande guerra Michelucci realizza una cappella sul fronte orientale vicino a Caporetto: più volte sarà costretto a confrontarsi con gli effetti della catastrofe (la ricostruzione del centro di Firenze dopo la seconda guerra mondiale, la risistemazione del quartiere popolare di S. Croce dopo l’alluvione, la chiesa a Longarone dopo la tragedia del Vajont). Dopo la guerra lascia le “Officine Michelucci”. All’ambiente artistico pistoiese, in cui svolge un ruolo importante di riferimento intellettuale, appartiene anche Eloisa Pacini, raffinata pittrice, che sposa nel 1928 conosciuta frequentando politici, intellettuali, pittori e musicisti mondanità di Roma dove vive dal 1925.
La sua adesione al regime fascista e oculate frequentazioni lo portano nel 1933 ad essere coordinatore del gruppo toscano e alla vittoria nel concorso per la Stazione di S. Maria Novella a Firenze con un’opera di valore internazionale per le qualità funzionali e per l’inserimento nel contesto storico e urbano.
3Dopo la guerra, che osserva da lontano isolandosi  nella sua casa alla Cugna, immersa nella natura della montagna pistoiese e che sarà nuova fonte di ispirazione,  crea la rivista “La Nuova Città”, espressione di un nuovo atteggiamento verso la società, dialogante e partecipativo, propone per la ricostruzione della zona attorno a Ponte Vecchio ipotesi innovatrici che s’infrangono di fronte alla tendenza conservatrice della città. Nel 1948 Michelucci lascia la presidenza della Facoltà di Architettura di Firenze passando alla facoltà d’ingegneria di Bologna; continua la ricerca di un nuovo linguaggio dell’architettura: la concezione dello spazio percorribile, la città variabile, un nuovo rapporto antico-moderno che si esprime anche nell’uso congiunto della pietra e del mattone con il cemento armato, l’acciaio e i nuovi materiali, così le idee prendono forma come  per la Chiesa di San Giovanni Battista sull’Autostrada del Sole, a Campi Bisenzio, conclusa nel 1964, trait d’union di un paese in pieno miracolo economico, nella quale Michelucci anticipa i temi di una Chiesa in mutamento come sarà sancito dal concilio Vaticano II, o con la Chiesa di Borgo Maggiore, nella Repubblica di S. Marino.

6Nel 1967 progettò con Mauro Innocenti l’ospedale di Sarzana affrontando così il tema della degenza, ma la costruzione, avviata nel 1974 si protrasse per decenni e non poté vederla ultimata.

Nel 1972 nel saggio Brunelleschi mago,pubblicato con l’editore  ed amico pistoiese Tellini, con la postfazione di Mario Aldo Toscano. Bruno Zevi scrive su “L’Espresso” dei colloqui informali e antiaccademici di Michelucci con Brunelleschi. Il titolo è suggerito da un passo di Kafka “Perché mago? Non so, ma è capace di provocare un vivo sentimento di libertà…”. Wanda Lattes in un  intervista a Michelucci presso la sua casa al Roseto a Fiesole descrive il libro come un “volumetto elegante, raffinato senza illustrazioni, spoglio di banali concessioni alla civetteria consumistica” con chiaro intendimento pedagogico e civico, nato non ambizione filologica ma come proseguimento di quelle lezioni impartite per anni in cattedra. Mario Toscano l’ha ascoltato per anni, poi ha iniziato a registrare i suoi discorsi spontanei; uno scritto che nasce quindi come discorso socratico tra un docente e tanti non individuati discenti.

michelucciNel 1974 muore la moglie Eloisa ed inizia un nuovo decennio creativo e progettuale. Nel 1982 Giovanni Michelucci costituisce con la Regione Toscana ed i comuni di Fiesole e Pistoia la “Fondazione Michelucci”, mentre una donazione di disegni al Comune di Pistoia costituisce il “Centro di documentazione Giovanni Michelucci” di Pistoia.

Le pagine de La Nuova Città,  riflettono su temi come Carcere e città, Scuola e periferia, Città e follia, e portano all’ideazione del Giardino degli incontri nel carcere fiorentino di Sollicciano, un progetto sviluppato dal 1986 con i detenuti per creare un luogo di incontro  con i familiari, ultimato nel 2007. Il 31 dicembre 1990 muore a Fiesole.

Alice Vannucchi  è ricercatrice presso l’Istituto storico della Resistenza e della società Contemporanea di Pistoia,  è membro della redazione della rivista “Quaderni di Farestoria”, è docente nella scuola primaria dal 2007. Fra le sue pubblicazioni: Il rientro in città: il problema degli alloggi, in Pistoia fra guerra e pace a cura di M.Francini, I.S. R.Pt. Editore, 2005. Teorie di democrazia in Italia e Francia nel dopoguerra in “Quaderni di Farestoria”,anno VIII-n2 maggio –agosto 2006,pag.61-69. Le scuole di partito nel PCI di Togliatti.Il caso toscano (1945-1953) in “Quaderni di Farestoria”,anno XII-n 2- maggio –agosto 2010,pagg.33-45. Ha curato la mostra e il numero monografico Cupe Vampe: la guerra aerea a Pistoia e la memoria dei bombardamenti, ISRPt. Attualmente si occupa di storia sociale e storia dell’editoria.