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Idalberto Targioni

Nato nel 1868 e morto nel 1930, Targioni fu contadino, poeta autodidatta, attivista sindacale, militante politico, sindaco, scrittore e studioso, uomo controverso e discusso, spesso al centro di polemiche, sempre in contatto e talvolta in contrasto con altri protagonisti del suo tempo, come il gran maestro del Grande Oriente d’Italia Domizio Torrigiani o come, per vie indirette, Benito Mussolini. Targioni svolse un ruolo rilevante non solo a Lamporecchio, il suo luogo di adozione, nei pressi di Pistoia, ma in tutta l’area del Montalbano e in parte della Toscana e anche altrove, animando la società  e i movimenti contadini prima come socialista e, all’indomani della Grande guerra, come fascista.

Targioni era nato a Firenze il 19 ottobre 1868 (forse «dall’unione clandestina di un principe con una governante della Casa Reale», avrebbe scritto nel 1912) e fu lasciato da ignoti all’Ospedale degli Innocenti di Piazza Santissima Annunziata. Aveva quattro anni quando venne adottato dai coniugi Domenico e Giuditta Capecchi, contadini senza figli residenti nella frazione rurale di San Baronto, a Lamporecchio. Qui, pur costretto alle fatiche dei campi, riuscì ad imparare a leggere grazie alle lezioni offertegli da un prete del luogo. Da autodidatta imparò anche a scrivere e tra gli otto e i dieci anni cominciò persino a improvvisare e abbozzare i primi versi. Coltivò la vena poetica tanto da divenire uno dei più apprezzati e abili stornellatori estemporanei del Pistoiese. Fu operaio ferroviere, poi militare per tre anni prima di tornare al lavoro contadino quando, nel 1895, aderì al partito socialista e avviò un’intensa attività  militante tra i territori di Pistoia, Empoli e la Valdelsa, mostrando una spiccata sensibilità  per le cause di mezzadri e pigionali. I suoi testi poetici intriganti, spesso anticlericali e piccanti lo fecero soprannominare «Diavolo rosso». A seguito dei disordini del 1898, conobbe anche il carcere.

Rimatore in ottava, fu consigliere socialista a Lamporecchio dal 1901 dove operò fianco a fianco col massone democratico Domizio Torrigiani (che nel 1919 avrebbe assunto la carica di Gran maestro del GOI). Eletto segretario della Camera del Lavoro di Pistoia nel 1903, proseguì l’attività poetica (nel 1912 aveva già pubblicato una ventina di opere), iniziò a dedicarsi al giornalismo politico (scrisse per «La Martinella» di Colle Valdelsa, «L’Avvenire» di Pistoia, «Via Nuova» di Empoli e nel 1908 fondò «Il Risveglio del Montalbano») e tenne numerose conferenze e accademie in versi in Toscana, in altre regioni e persino in Svizzera e Francia. Nel 1914 fu eletto sindaco di Lamporecchio, unica amministrazione socialista del circondario di Pistoia.

Lo scoppio della Grande Guerra travolse la vita di Targioni, come quella di milioni di altri uomini, e spezzò in due tronconi la sua vita. Dopo una iniziale fase di opposizione all’intervento nel conflitto, che nel maggio 1915 lo portò all’arresto per l’accusa di aver incitato le manifestazioni antibelliciste  nell’Empolese, dopo l’intervento italiano in guerra di spostò su posizioni interventiste, seguendo la strada percorsa dal suo amico Torrigiani e di molti quadri e dirigenti socialisti come il più celebre Mussolini, fino a giungere a un sostegno esplicito per la guerra, in contrapposizione col neutralismo mantenuto dai socialisti italiani e in stringente contrasto con i suoi scritti e la sua attività  prebellica: una contraddizione che fu segnata anche da interessanti elementi di continuità, mai risolti pienamente come testimoniano i suoi ricchi e generosi scritti pubblici e privati.

Dopo la dopoguerra aderì al fascismo, che in Toscana era particolarmente dinamico e irriducibilmente violento; nel 1921 fondò e divenne segretario del Fascio di Lamporecchio. Trasferì le sue competenze e capacità sulla stampa fascista (scrisse per «Giovinezza», «La Riscossa», «L’Azione fascista», «Battaglia fascista»; fondò «L’Alleanza» e «L’Ordine»); nel 1923 fu nominato segretario dei sindacati fascisti dell’agricoltura della Provincia di Firenze e nel 1924 fu eletto consigliere provinciale fascista. Abbandonata ormai del tutto l’attività  poetica e ritiratosi quasi completamente a vita privata, Targioni morì a Lamporecchio il 25 maggio 1930, lasciando un vuoto che da allora non è mai stato colmato da nessun biografo e depositando una eredità  intellettuale e umana che è in attesa di essere compresa, interrogata, valorizzata.




Il racconto di un doppio disinganno: l’ultima lezione di Giuliano Foggi

Di Giuliano Foggi (1922-2010), ormai grande vecchio già oltre gli ottant’anni, colpivano la perenne passione educativa e la lucidità intellettuale con cui continuava a dipanare il filo di una memoria lontana: gli anni della guerra, l’8 settembre, la fine del fascismo, la Liberazione, i difficili anni della ricostruzione… E, per la ricchezza dei riferimenti storici e letterari, le sue parole andavano ben oltre il racconto di una storia personale, per farsi vicenda più larga, utile e interessante a far comprendere, soprattutto a quei giovani a cui Giuliano tanto amava riferirsi, il tormentato cammino della conquista della libertà, delle regole condivise, dei diritti.

Un itinerario che Giuliano ha saputo percorrere da protagonista per oltre mezzo secolo, impegnato in innumerevoli battaglie, piccole e grandi, per la democrazia, per l’accesso di tutti all’istruzione, per la diffusione della cultura, per la difesa della bellezza in particolare della sua città, Lucca, dove era nato nel 1922 da una famiglia operaia. Laureatosi a Pisa con una tesi sugli storici della Repubblica lucchese, Foggi ha insegnato sino alla fine degli anni ottanta nelle scuole superiori di Lucca, Viareggio, Barga, Montecatini, Volterra, Pisa formando generazioni e generazioni di studenti che ne ricordano ancora oggi, a tanti anni di distanza, con commozione e gratitudine le straordinarie doti professionali ed umane. Socialista e poi dirigente del Psiup, tra i fondatori del Potere operaio pisano e poi del Centro Karl Marx, Giuliano ha accompagnato gli impegni educativi e politici con un’incessante attività sindacale nella Cgil-Scuola locale e nazionale: incarichi svolti sempre con intelligenza, dedizione, attenzione alle novità che emergevano nella scuola e nella società, e grande capacità di trovare in ogni lotta il punto di equilibrio più avanzato insieme praticabile.

Più appartati e coltivati con una discrezione quasi assoluta i suoi interessi letterari, storici e filosofici. Ne fa fede un diario in prosa e in versi che si estende per oltre un sessantennio, dal 1942 al 2004, dal titolo Fedeltà-Giorno dopo giorno, a cui attinge il suo I miei giorni 1942-1945, libro pubblicato nel 2005 dalla casa editrice lucchese Maria Pacini Fazzi e prefato dall’allora presidente dell’Amministrazione provinciale Andrea Tagliasacchi, che così ebbe a scrivere: “Giuliano Foggi fa parte di quella leva di intellettuali che, senza chiedere nulla in cambio, ha svolto un ruolo importante nella storia del nostro Paese, sempre presente, operosa e combattiva in processi importanti e talora decisivi della storia d’Italia: la ricostruzione negli anni duri del centrismo, i formidabili anni sessanta, quelli dell’’assalto al cielo’. Giuliano Foggi vi appartiene di diritto e non solo per motivi anagrafici: piuttosto, perché è stato costantemente tra i primi a cogliere i segni dei tempi nuovi e ad impegnarsi con lucidità per trasformarli in programmi e progetti politici e sindacali sempre all’insegna di una generosa radicalità, di un’aspirazione a cambiare dal profondo i metodi, i contenuti e le finalità della politica”.

5 settembre 1944, Porta San Pietro: una delle prime immagini della Liberazione alleata della città di Lucca.

5 settembre 1944, Porta San Pietro: una delle prime immagini della Liberazione alleata della città di Lucca, operata dai soldati afroamericani della 92ª Divisione “Buffalo”.

Testo per molti versi sorprendente, I miei giorni 1942-1945 (di cui il lettore può trovare alcuni passaggi fra i “Documenti dalle fonti”) è il ‘diario dell’anima’ di un giovane che aveva vent’anni nei momenti più bui della nostra storia nazionale a cui, però, il 25 luglio e l’8 settembre, la spaccatura dell’Italia e la lotta antifascista, i giorni tormentati dell’immediato dopoguerra non fanno dimenticare la propria problematica vicenda privata, i rapporti con i coetanei e la famiglia, il difficile equilibrio fra ragione e sentimento, una complessa e contraddittoria ricerca di senso.

Libro antieroico, I miei giorni, scandisce “la storia di un doppio disinganno: quello proprio di ogni generazione che sempre a proprie spese apprende il difficile mestiere di vivere; il disincanto, poi, di quella leva di giovani, che nati e vissuti all’interno del regime e dei suoi miti, si affacciava alla vita civile in tempi indelebilmente sfregiati dalla funerea isteria della dichiarazione di guerra dal balcone di palazzo Venezia. E i modi letterari scelti più di sessant’anni or sono dall’autore di queste pagine sono quelli propri della ‘meglio gioventù’ di allora, l’ermetismo e l’esistenzialismo: le due chiavi con cui quei giovani cercavano faticosamente di aprirsi all’esercizio della libertà, oscillando, come ha scritto qualcuno, tra ‘equivoco e fronda’, tra un’adesione, sia pure critica, al fascismo, e un sempre più sicuro, netto e ribadito rifiuto del regime e delle sue scelte” (dalla Prefazione).

Per conoscere più nel dettaglio l’esperienza di Giuliano Foggi durante la Seconda Guerra Mondiale, s’invita il lettore a consultare l’interessante articolo di Emmanuel Pesi “L’odore delle mele o il sogno della maturità. Giuliano Foggi tra fascismo, guerra e liberazione”, rintracciabile fra gli allegati della sezione “Materiali correlati”.




Il salto del muro: don Sirio Politi, preteoperaio a Viareggio.

“Hanno affittato anche le barche”. Con questa constatazione inizia un articolo dello scrittore viareggino Silvio Micheli, pubblicato sulle pagine del quotidiano comunista l’Unità all’indomani del ferragosto del 1961. Viareggio è in quegli anni una delle mete preferite del neonato turismo di massa, frutto di una crescita economica che proprio in quell’anno raggiunge il suo apice, con un aumento del PIL dell’8,3%. Sono gli anni del cosiddetto “miracolo italiano”, quando la lira conquista nel 1960 il riconoscimento di moneta più salda fra quelle del mondo occidentale. Milioni di italiani possono permettersi l’acquisto del televisore e del frigorifero: tuttavia, diventa l’automobile il sogno di molti. La FIAT, che nel 1955 mette in produzione la 600, presenta due anni dopo la 500, al costo di 490.000 lire, pari a tredici stipendi di un operaio: nonostante il prezzo sia elevato, inizia proprio in quegli anni la motorizzazione di massa degli italiani. L’utilitaria, spesso acquistata dopo la firma di numerose cambiali, permette di raggiungere, soprattutto in estate, le località balneari. “Tutta Viareggio” scrive Micheli “ha dovuto far posto ai ferragostini, una volta completati alberghi e pensioni. Ma i ferragostini continuavano ad arrivare rigati di sudore dalle città e dalle campagne cotte dal sole”.

Un’immagine del Lungomare viareggino in pieno boom economico: sullo sfondo, i cantieri della Darsena.

Un’immagine del Lungomare viareggino in pieno boom economico: sullo sfondo, i cantieri della Darsena.

Ma se esiste una Viareggio che fa del turismo, di élite e di massa, la sua risorsa principale e cerca di sistemare i villeggianti come può, c’è un’altra Viareggio che vive una situazione ben diversa. Da quando inizia la costruzione del porto-canale nel 1819, la città versiliese si sviluppa nei decenni successivi prendendo due direzioni: da una parte, la città turistica e commerciale con i suoi alberghi e i ritrovi per gli artisti, dall’altra, la Darsena con i cantieri navali, regno dei maestri d’ascia e calafati prima e della carpenteria metallica poi. A dividere queste due realtà, il porto-canale.

Tuttavia, nella Darsena viareggina non si costruiscono solo navi di ogni genere. In quella parte della città è situata anche una delle fabbriche più importanti: la F.E.R.V.E.T., acronimo che significa Fabbricazione E Riparazione Vagoni E Tramway, con sede principale a Bergamo e succursali in altre città. Le cronache e le testimonianze dell’epoca ci raccontano di un lavoro particolarmente duro, svolto in un ambiente malsano e con attrezzi inadeguati per il tipo di produzione richiesto. Per questo motivo gli operai, all’epoca circa 270, sono tra i più combattivi e politicizzati della città. Quando nel 1955 la FIOM subisce una pesante sconfitta nelle elezioni della commissione interna alla FIAT, passando dal 65% al 36%, nello stesso anno alla F.E.R.V.E.T. la FIOM aumenta i consensi, raggiungendo il 73% dei voti operai. Per tutti gli anni ’50 la conflittualità operaia si manifesta con scioperi e occupazioni dello stabilimento, come in quella estate del 1961. Dalla metà del mese di luglio, gli operai occupano lo stabilimento, contro la smobilitazione paventata dall’azienda, trascinando i lavoratori viareggini in più scioperi di solidarietà. Tuttavia, quella lotta passerà alla storia cittadina per un gesto di solidarietà e di disobbedienza di un prete, anzi di un preteoperaio.

Don Sirio Politi (1920-1988), preteoperaio

Nativo di Capezzano Pianore (Camaiore, Lu), don Sirio Politi (1920-1988), assieme al fiorentino don Bruno Borghi (1922-2006), fu il primo preteoperaio italiano.

Dall’estate del 1956 don Sirio Politi, nato nel 1920 e fino all’anno prima parroco di Bargecchia, una piccola frazione collinare del comune di Massarosa, si è stabilito nella Darsena, in un piccolo edificio trasformato in una chiesina che si affaccia sul Canale Burlamacca, e lavora come scaricatore di porto. Fino al 1959 ha lavorato in un cantiere navale, poi si è dovuto licenziare: le autorità ecclesiastiche romane hanno infatti posto fine all’esperienza dei pretioperai, nata in Francia nei primi anni ’40. Insieme a don Bruno Borghi di Firenze, Politi è il primo preteoperaio italiano.

Don Sirio chiede più volte alla direzione di poter effettuare la messa all’interno della fabbrica occupata, ma il permesso viene ripetutamente negato. Finché una domenica, dopo l’ennesimo rifiuto, prende una valigia e la riempie con gli arredi sacri. Porta con sé anche una scala, per permettergli di scavalcare il muro di cinta della fabbrica, e, con l’aiuto degli operai, riesce ad entrare. “Ho scavalcato questo abisso di divisione”, scriverà don Sirio, “e mi sono sentito come in terra libera, fra uomini liberi”. Gli operai gli fanno visitare la fabbrica: “Una attrezzatura primitiva, un macchinario antiquato di quarant’anni fa, un’organizzazione di lavoro assurda e un disordine inconcepibile”. Intanto viene preparato l’altare “con attrezzi di lavoro e lamiere”. Ricordando quella esperienza, scrive don Sirio: “Può darsi che molti non siano credenti. Forse alcuni hanno voluto questa Messa per interesse di pubblicità: ma a me non importava nulla dei motivi e delle intenzioni – e nel caso ero felice che almeno quella Messa servisse a dei poveri, a degli operai… l’importante era che Dio fosse lì tra i poveri, che Gesù Cristo consumasse lì, fra gli operai, il Suo Sacrificio di Redenzione… a dare senso, significato, valore infinito ed eterno a questa povera vicenda umana, a queste situazioni di ingiustizia, a questa sofferenza per i diritti fondamentali alla vita”.

Darsena viareggina: la "Chiesina del Porto" (o "Chiesina dei Pescatori") subito dopo la ristrutturazione del 1961, realizzata per mano dello stesso don Politi.

Darsena viareggina: la “Chiesina del Porto” (o “Chiesina dei Pescatori”) subito dopo la ristrutturazione del 1962, voluta e realizzata dallo stesso don Politi, che, poeta, uomo di lotta e di pace, era pure un abile artigiano.

La F.E.R.V.E.T. continuerà ancora per un trentennio l’attività, fino ad una ennesima occupazione e alla definitiva chiusura nel 1991. Don Sirio Politi proseguirà nel suo cammino, svolgendo l’attività di fabbro e continuando nelle battaglie nonviolente a difesa degli obiettori di coscienza, per la pace e contro l’opzione nucleare, attraverso una feconda attività editoriale. Morirà nel febbraio del 1988.




Alessandro Rinaldi, criminale di guerra dimenticato

Invitato a uno omicidio o a qualunque altra rea cosa,
senza negarlo mai, volenterosamente v’andava
e più volte a fedire e a uccidere uomini
con le proprie mani si trovò volentieri.

G.BOCCACCIO, Decameron, I,1.

Qualora la celeberrima descrizione del Boccaccio venisse purgata della sua aria ironica e assumesse un tono freddo e reale calzerebbe a pennello per un personaggio che tra il 1919 ed il 1947 assurse più volte ai disonori della cronache del territorio senese, ossia Alessandro Rinaldi.

Alessandro Rinaldi

Alessandro Rinaldi

Nato a Siena nel 1903, entrò giovanissimo nel movimento fascista; distintosi ben presto per l’intelligenza ed il coraggio, fece una rapidissima carriera assumendo una posizione di spicco ne La Disperata, la squadra d’assalto più brutale e sanguinaria del territorio.
Quando Mussolini prese il potere in Italia, il fascismo tentò di darsi una facciata di rispettabilità dislocando gli elementi più facinorosi in posti di scarsa importanza e questo fu anche il destino del Rinaldi ‘normalizzato’, come semplice impiegato, dietro una scrivania del Sindacato di Commercio.

Ancora il 25 luglio del ’43, il soggetto viene descritto come un tranquillo scribacchino precocemente invecchiato e piuttosto corpulento ma gli avvenimenti dell’8 settembre lo trasformarono completamente restituendogli vigore.
Con la nascita della Repubblica Sociale Italiana, Il Rinaldi si mise immediatamente a servizio del prefetto di Siena Giorgio Alberto Chiurco, il quale lo nominò commissario politico per la città con pieni poteri.
Il nuovo funzionario non perse tempo. Si insediò alla Casermetta (oggi sede delle Stanze della Memoria), redasse delle accurate liste di antifascisti, sospetti e presunti fiancheggiatori dei partigiani quindi procedé agli arresti, agli interrogatori e alle torture. La sua azione non si arrestò alle mura della città ma si allargò a tutto il territorio con alcune puntate persino nel Grossetano. Una serie di testimonianze confermano la presenza del Rinaldi su buona parte dei luoghi degli eccidi e dei rastrellamenti avvenuti poco prima del passaggio del fronte: a Rigosecco (Montalcino), dove il 19 gennaio 1944 furono fucilati i partigiani Panti Luciano e Marsili Luigi; il 28 marzo dello stesso anno a Casa Giubileo (Monteriggioni) dove vennero fucilati diciassette partigiani che si erano arresi; il 5 aprile a Monticchiello, dove venne passato per le armi il partigiano Mencattelli Mario e infine il 28 aprile a Castellina Scalo, dove in seguito ad un rastrellamento effettuato insieme alle truppe tedesche rimasero uccisi tre civili ed altrettanti vennero deportati. Da notare che in tutte queste circostanze il gerarca ricoprì ruoli decisionali.
Si ipotizza persino, anche se ancora non sono emerse conferme, la presenza dello stesso a Scalvaia (Monticiano), dove vennero fucilati 11 renitenti alla leva, il 21 marzo 1944.
Particolarmente raffinata era anche la cura dell’immagine di se stesso che il Rinaldi presentava; si era fatto realizzare, infatti, una propria divisa diversa dagli altri militi della Guardia Nazionale Repubblicana, ossia un abito da cacciatore su cui facevano bella mostra di sé l’inseparabile fucile mitragliatore e due cartucciere, una per le bombe a mano e una per i caricatori. Dopo ogni azione fruttuosa, i militi della casermetta sfilavano su dei mezzi scoperti per le principali vie della città; sulla prima macchina del corteo, invariabilmente, si vedere il gerarca con la faccia truce.
L’arrivo degli alleati a Siena, i primi di luglio del ’44, vide la fuga di molti fascisti che decisero di seguire, nel nord Italia, le sorti della Repubblica Sociale Italiana.

Alessandro Rinaldi riparò ed operò nella zona di Brescia fino al maggio 1945 quando si rese latitante e divenne un criminale comune.
Riconosciuto a Firenze, venne arrestato e rinviato a giudizio il 28 febbraio del 1947. Inchiodato da prove e testimonianze inconfutabili, il gerarca insieme ad altri commiltoni subì la condanna all’ergastolo, ma la sua vicenda non finì qui: nel luglio 1948, riuscì ad evadere dall’Ospedale San Gallo di Firenze ma fu arrestato nuovamente a Brescia. A questo punto per lui si aprirono definitivamente le porte del carcere.

Nel 1959, dopo dieci anni di detenzione, venne anmistiato.




Leggere i manifesti di Oriano Niccolai

La Federazione del Partito comunista di Livorno aveva un grande grafico. Anzi un grandissimo grafico, Oriano Niccolai. L’Istoreco di Livorno gli ha dedicato, nel 2013 e poi di nuovo nel 2014, una bellissima Mostra con un altrettanto significativo Catalogo, dal titolo Rosso creativo.[1]  Le intenzioni dell’autrice di questo brano sono di cominciare, con questo intervento in rete, una sequenza di approfondimenti per raccontare come una visione politica si possa rappresentare graficamente e come si possa proporre una lettura della storia politica dell’Italia a partire dai colori, come suggerisce Maurizio Ridolfi [2], dalle scelte grafiche, dal testo che le accompagna. Perché i manifesti politici utilizzano una modalità polisemica per veicolare il loro messaggio. Parlano attraverso il colore, l’impaginazione, la grafica, le parole, la loro stessa dimensione e la tecnica di realizzazione.

Sez.2_18_0345Per favorire la comprensione di questa affermazione utilizzerò alcune esemplificazioni concrete, collocabili in un tempo ed uno spazio preciso, a partire dal manifesto del 1961 in occasione della vittoria di Castro a Cuba. Il manifesto è firmato lateralmente con un rinvio al committente, che è il Pci ma in particolare la Federazione giovanile comunista di Livorno. E noi sappiamo che per i manifesti della Fgci Oriano, come tutti gli altri grafici comunisti, aveva più libertà d’azione rispetto invece alle direttive che si ricevevano dalla direzione del Partito per quelli, in qualche modo, più ufficiali. Il colore che domina è il bianco dello sfondo. Secondo la lettura più ortodossa in cima al manifesto trionfa una scritta dove si ricorda che ha vinto non il leader, ma il “popolo” di Cuba che si è liberato del dittatore Fulgencio Battista. Poi il manifesto prosegue richiamando Castro e subito dopo ancora la rivoluzione cubana, ma aggiungendo a chiusura un richiamo alla pace. Qual è l’aspetto più significativo di questa comunicazione, della sua realizzazione grafica? Sicuramente festeggiare l’avvenuta presa del potere da parte di Castro. Quale l’intenzione che ci sta dietro? Allacciarsi al tema dell’internazionalismo in una cornice nella quale questo tema appassionava ancora milioni di uomini e di donne. Aver utilizzato l’immagine della bandiera cubana spezzata a cosa rinvia? Spezzata perché i cubani si sono liberati di un dittatore? Può darsi. Ma a mio parere ancora di più perché la bandiera cubana, ironia della sorte, è costruita con strisce blu su sfondo bianco e con una stella su sfondo rosso. Ricorda quasi in modo automatico la bandiera statunitense. Ed allora averla impaginata in questo modo, con le strisce “esplose” è un rinvio alla sconfitta degli Usa che in questa partita giocarono un ruolo decisivo ma pur sempre perdente. Non aver caricato il manifesto di “rosso” evita alla comunicazione di presentarsi come conforme ad una ortodossia comunista ancora molto forte agli inizi del decennio Sessanta, permette alla comunicazione di rimanere su un registro più “leggero”.

punto esclamativoPassiamo adesso ad un altro manifesto di quello stesso periodo, periodo contrassegnato anche dall’impegno militante di tutta la sinistra italiana a favore del popolo vietnamita in lotta contro gli Stati Uniti.  Nel manifesto di nuovo domina il bianco. Sembra impaginato con una disciplina grafica che risponde ad una direttiva artistica del “togliere” e non a quella dell’aggiungere. Il manifesto si può definire minimalista, quasi astratto. Un grosso punto esclamativo che produce un effetto “non centrato” rispetto al foglio, e che a causa di questa sua asimmetricità ha un impatto sul lettore ancora più efficace, produce un richiamo all’attenzione ma nello stesso tempo, e anzi ancora di più, rinvia alla traiettoria di una bomba che cade. La scrittura del testo che accompagna l’immagine, nelle realizzazioni di Niccolai sempre sintetica e mai aggiuntiva o sostitutiva, è collocata a sinistra e a destra della “bomba-punto esclamativo”.  Il messaggio invita ad un’azione di impegno contro la guerra, all’organizzazione di una Marcia della Pace dentro un quartiere periferico, a sud della città, una mobilitazione di quella che oggi potremmo chiamare la “società civile”. Un luogo decentrato nella città, nella sua periferia sud. Noi sappiamo che quel manifesto è uscito dalla Federazione del Partito comunista di Livorno e quindi ha una sua specifica e ben riconoscibile paternità politica, ma sappiamo anche l’originalità di questa composizione che rinvia senza mezzi termini alle avanguardie pittoriche più interessanti e alla migliore grafica italiana. Sappiamo che per Oriano fare il grafico era “l’arte del togliere”, e sappiamo che non l’aveva imparato da Calvino e dalla sua esigenza di leggerezza, ma dal suo maestro, Albe Steiner[3], il più grande e innovativo disegnatore/comunicatore del secondo dopoguerra italiano. E sappiamo[4] anche che quando sceglieva le parole per ogni manifesto, in testa gli giravano sia i racconti di Marcovaldo che le poesie del suo caro amico Gianni Rodari. Quel Rodari che si era ispirato a lui nella filastrocca “Giovannino perdigiorno”, che in primis doveva essere “Orianino perdigiorno[5]”. Perché? Perché Oriano aveva un aspetto minuto, quasi fanciullesco, con un’aria perennemente assorta e riflessiva, sembrava uno un po’ svagato che correva dietro alle nuvole immaginarie che si agitavano nella sua testa.  Chi lo ha frequentato lo ricorda così: concentrato sopra una pagina di giornale, taciturno, quasi assente, eppure Oriano era sempre assai presente, uno capace di ascoltare le richieste, farle proprie per poi trasformarle in un messaggio grafico e linguistico impeccabile, mai superfluo, mai retorico. Con le sue proposte, che difendeva con caparbietà e consapevolezza, riusciva ad interpretare i bisogni della Federazione, del Partito nel suo insieme, o delle singole parti di quella che era una macchina mastodontica, pesante, lenta. Ma nel farlo ogni volta si prendeva lo spazio di affermare la sua scelta grafica, libera e “leggera”, mai monumentale, mai ingombrante. Perché Niccolai metteva la sua capacità a disposizione del Partito non in modo mercenario o opportunista ma da appassionato militante quale si sentiva e voleva essere.

mollettaMolti anni dopo, ancora per un’altra occasione di mobilitazione per la ricerca di pace. Oriano Niccolai disegna un altro manifesto. Siamo nei primi anni Novanta. La guerra stavolta è quella del Golfo. I tempi sono cupi e Niccolai sceglie lo sfondo nero su cui troneggia la data dell’appuntamento politico e sotto, attaccata ad un filo, è sospesa una bomba tenuta ferma soltanto da una molletta per i panni, su un filo pesantemente curvato. La scritta successiva indica il cosa fare e come, rinvia all’appuntamento di una fiaccolata. La manifestazione quindi si fa in notturna e questo può anche aver ispirato Niccolai a fare lo sfondo nero. Ma lo sfondo è nero anche perché siamo entrati in un orizzonte più cupo, il mondo per un vecchio militante comunista non è più così chiaro, c’è già stata la caduta del muro di Berlino e il tentativo di golpe contro Gorbaciov, tutto si è fatto più incerto. Per chi osservava quel manifesto, quel nero e bianco della bomba erano molto più significativi delle tante immagini di orrore che già campeggiavano nella nostra percezione nonostante la volontà di anestetizzare quella guerra da parte dei suoi contendenti. La “bomba” di Oriano non è proprio la bomba “intelligente” della propaganda militarista. È una bomba sospesa che sta per cadere. Che sicuramente cadrà, così come è, appesa ad un filo. L’innocua molletta, oggetto umile, persino casalingo che la trattiene, non la può certo bloccare per molto ancora. Quindi il messaggio implicito ma non troppo è: partecipate numerosi, la pace è in pericolo e forse siamo già in ritardo. Pochi anni fa due giovani artisti livornesi, Valerio Michelucci e Stefano Pilato ispirandosi forse a questa bomba realizzarono una installazione in occasione del 70° bombardamento di Livorno, quello del 28 maggio del 1943, e ne fecero una finta, dipinta di color fucsia magenta, e la attaccarono sospesa ad un palazzo vicino al mercato di Piazza Cavallotti, luogo popolare, deputato a rappresentare la tradizione democratica e pacifista della città. Perché le proposte intelligenti e creative permettono anche questo, di essere riprese e aggiornate e, risultare, nonostante le loro radici nel passato, originali e intelligenti.[6]

[1] Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti (a cura di Margherita Paoletti), Debatte Editore, Livorno, 2013. I manifesti che risultano nel Catalogo corrispondono a quelli della Mostra che fu realizzata a Livorno dall’8 al 22 novembre 2013 presso Villa Henderson e replicata a Pisa l’anno successivo presso il Centro San Michele degli Scalzi. Sono oggi custoditi presso l’archivio dell’Istoreco di Livorno e formano tutti insieme un fondo di circa duemila pezzi.

[2] Maurizio Ridolfi, L’Italia a colori Storia delle passioni politiche dalla caduta del fascismo ad oggi, Le Monnier, Bologna, 2015.

[3] Rosso creativo, cit., p. 15.

[4] L’espressione “noi sappiamo” non è legata a nessuna astuzia retorico-linguistica ma è giustificata dalle decine di ore di interviste e colloqui che prima di fare la Mostra e il Catalogo abbiamo avuto il piacere di realizzare all’interno dell’Istituto. In particolare Margherita Paoletti, che curò tutta l’operazione, costruì con Oriano Niccolai una specie di carta d’identità di ogni manifesto utilizzato.

[5] Rosso creativo, cit., p. 15.

[6] Purtroppo la bomba finta non c’è più. Fu realizzata nel 2013 e mai presa in carico dal Comune di Livorno. Distrutto uno dei fermi che la sostenevano, è stata tolta e mai più reinstallata.




Un quadro comunista: Natale Consorti

Quando mi è stato proposto di realizzare un libro-intervista con Natale Consorti (C come comunista. L’impegno di una vita, a cura di Alessandro Affortunati e di Luciana Brandi, Prato, Pentalinea, 2017) ho accettato subito molto volentieri perché Consorti, “Natalino” per i suoi concittadini vaianesi, è, a mio parere, una figura di grande interesse dal punto di vista dello storico in quanto rappresenta un tipo di quadro politico e sindacale molto diffuso nel secondo dopoguerra: di origine popolare, autodidatta, formatosi politicamente nel lavoro di partito e nella lotta quotidiana per affermare i diritti degli operai nella fabbrica, tale tipo di quadro ha saputo poi mettere a frutto, come amministratore, l’esperienza maturata e dare in tal modo un importante contributo allo sviluppo del Paese. È ad uomini come lui, semplici operai o contadini, che si deve la ricostruzione e la rinascita dell’Italia dopo la tragica e fallimentare esperienza del fascismo e della guerra.
Il testo dell’intervista è stato raccolto fra il dicembre del 2016 ed il gennaio del 2017: i quattro capitoli iniziali rispecchiano, a grandi linee, le varie fasi della vita dell’intervistato, mentre il quinto, abbandonando la dimensione locale, affronta il tema della crisi della sinistra.
Seguendo il filo dei suoi ricordi, Natale ci parla dunque della sua infanzia, dei momenti di serenità vissuti a casa degli zii nell’Osmannoro (e l’Osmannoro – rammenta – era allora “un paradiso”), ma anche della durezza della vita di fabbrica, quando, appena quattordicenne, cominciò, con altri ragazzi, a scegliere le bobine dal Forti, passando ore ed ore coi ginocchi in terra, su un pavimento di cemento, pieno di olio e di polvere, con le unghie che si consumavano, il callo che si formava sulle ginocchia e gli stinchi che si riempivano di bolle.
Sono l’esperienza diretta dello sfruttamento e la frequentazione, durante il ventennio, dell’ambiente laico e progressista della Pubblica assistenza vaianese che fanno maturare in lui una precoce coscienza di classe. Nel 1944, subito dopo il passaggio del fronte, Natale si iscrive al PCI ed alla CGIL. L’impegno nel partito e nel sindacato rappresenta per lui, come per tanti altri compagni, un momento di crescita non solo sul piano politico ma anche su quello personale, che lo porta a vincere la timidezza, ad acquisire piena coscienza dei propri diritti e ad affrontare senza alcun timore il padrone (come segretario della commissione interna della Forti, Natale ebbe un ruolo di primo piano nell’aspra vertenza che, nel periodo della smobilitazione delle fabbriche, si sviluppò negli stabilimenti della Briglia e dell’Isola).
In quel torno di tempo Natale vive anche, a fianco di Carlo Ferri, l’esperienza della costituzione del Comune di Vaiano. Con la nascita del Comune comincia la sua lunga esperienza di amministratore, prima come consigliere comunale e poi come sindaco dal 1975 al 1978, quando dovette dimettersi per ragioni di salute. Fra le realizzazioni dell’amministrazione da lui presieduta vanno ricordate almeno l’adesione di Vaiano al Consiag (la metanizzazione portò ad un notevole risparmio sul costo del riscaldamento sia per uso industriale che per uso domestico) e la ristrutturazione della scuola materna di Sofignano. Natale fu poi presidente della Comunità montana della Val di Bisenzio e consigliere provinciale a Firenze ed a Prato.
Dall’intervista emerge chiaramente anche l’importanza dell’impegno di Natale nel campo dell’associazionismo, un impegno concretatosi nell’inaugurazione della nuova Casa del popolo (20 settembre 1970) – che restituì finalmente agli operai un punto di riferimento, un locale dove ritrovarsi, dove poter discutere e godere di qualche momento di svago – e nella rinascita della Pubblica assistenza (1° marzo 2006), dopo l’acquisto della palazzina di via Braga da parte della Casa del popolo stessa e dalla Pubblica Assistenza “L’Avvenire” di Prato (Natale ha coperto la carica di presidente della Sezione vaianese della PA fino al 2010).
L’ultima parte dell’intervista è dedicata alla storia del PCI nel secondo dopoguerra ed alla crisi della sinistra in Italia. Una crisi che Natale riconduce all’abbandono di quei valori che da sempre hanno costituito il patrimonio ideale della sinistra politica, ad una progressiva perdita di identità che ha portato ad un continuo calo di consenso e di voti. Sulla base di queste considerazioni, chiaramente espresse nell’intervista ed in uno dei documenti riprodotti nel libro, egli si è quindi opposto alla liquidazione del PCI ed alla deriva che ha portato alla nascita del PDS-DS-PD. In sostanza – senza nessuna nostalgia per l’esperienza del cosiddetto “socialismo reale”, sul quale formula un giudizio di netta condanna –, egli mantiene vive le ragioni dell’essere comunista, non rinuncia al sale di una visione della storia imperniata sul concetto di lotta di classe.
Oggi Natale è un comunista senza tessera, che non ha perso né l’entusiasmo di una volta né la fiducia nella possibilità di realizzare una società diversa e migliore: “il mondo è sempre andato avanti – ci dice – ed avanti continuerà ad andare nella misura in cui noi saremo in grado di farlo progredire. Il compito della sinistra, oggi come ieri, è questo”.
Ed a Natale siamo riconoscenti anche per queste parole di speranza.




«Dio creò l’uomo, non l’uomo ariano». La Resistenza di don Roberto Angeli

Livorno, aprile ’44. Nelle quattro stanze al pianterreno di una palazzina di via Micali 9, sono stipati circa 90 ebrei. Tra loro anche una ventina di profughi francesi di origine italiana, scampati non si sa come ai rastrellamenti nazisti di Parigi del ’40: un’odissea di mille chilometri per finire di nuovo nella bocca del leone. Tutti insieme (malati, vecchi, bambini e profughi) sono nascosti lì da cinque mesi. Da quando cioè l’ospedalino israelitico di via degli Asili è finito nella zona della città requisita dai tedeschi e quell’angelo in tonaca nera si è fatto in quattro per organizzare il nuovo rifugio. Quattro tocchi leggeri alla finestra, è il segnale. Raffaello Niss, interrompe il gioco coi bambini, circospetto si avvicina alla porta e gira il chiavistello. Con sollievo, pensa: «È ancora lui». Sul volto affilato di don Angeli si scalda un sorriso. Tra le mani tiene stretto il consueto fagotto: viveri, medicinali, indumenti, mille lire e la novità di un piccolo cartoccio: «Ecco la farina per il vostro Seder pasquale».

L’istantanea fotografa uno degli episodi più noti dell’opera di soccorso agli ebrei organizzata da don Roberto Angeli, figura di spicco della Resistenza toscana. Appena un mese dopo quel gesto di rara sensibilità il sacerdote livornese venne arrestato dalla Gestapo e internato per un anno in un’odissea che toccò i campi di Fossoli, Mauthausen, Gusen e Dachau. Oggi che l’interesse sul sacerdote, scomparso nel 1978, si va accrescendo (nel 2007 la diocesi livornese ha rieditato il suo Vangelo nei lager, studi e iniziative si moltiplicano) si comprende quanto complessa e estesa sia stata la trama della rete di assistenza organizzata in quei mesi.

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

Emilio Angeli (Archivio Centro Studi R. AngelI)

I LEGAMI CON LA SANTA SEDE. Dagli archivi emerge che l’opera del gruppo di don Angeli (sacerdoti e giovani laici provenienti dagli ambienti della Fuci) era legata a doppio filo non solo al movimento di resistenza militare della capitale ma anche alla rete clandestina vaticana di soccorso agli ebrei e ai prigionieri alleati. Don Angeli, fondatore del gruppo dei cristiano-sociali livornesi, comandava uno dei servizi informazione della divisione Giustizia e Libertà della Toscana e, grazie anche al supporto di suo padre Emilio (conosciuto nella Resistenza come il “nonnino”) aveva stabilito contatti personali con la marchesa Giuliana Benzoni, con la «primula rossa» monsignor Hugh O’Flaerty dell’ambasciata irlandese, col futuro cardinale Pietro Palazzini, oggi annoverato nel giardino dei Giusti di Gerusalemme. Attraverso questi canali dalla Santa Sede e dalle varie ambasciate arrivarono aiuti in denaro, indumenti, viveri, medicinali, documenti falsi per decine di ebrei e centinaia di prigionieri alleati nascosti in vari paesi della Toscana e dell’Emilia.

IN SOCCORSO DI 1600 PRIGIONIERI ALLEATI. Dopo l’8 settembre 1943 giunse ai cristiano-sociali la segnalazione di un gruppo di prigionieri alleati nella zona di Vinchiana (Lucca). Fu allora che don Angeli, che da tempo era addentro agli ambienti romani per i suoi studi alla Gregoriana, cercò e stabilì contatti con la marchesa Giuliana Benzoni, «ricevendone una prima somma di 20 mila lire – scrive Emilio Angeli in un relazione al Servizio Informazione Militare, l’intelligence italiana – per i bisogni più urgenti dei prigionieri lucchesi. Da allora le segnalazioni ed informazioni sui gruppi di prigionieri bisognosi di aiuto si moltiplicarono». Dal 10 novembre 1943 al 25 agosto 1944 il gruppo che faceva capo a don Angeli riuscì a correre in soccorso a un numero notevolissimo di persone. «1500-1600 militari alleati – scrive ancora il “nonnino” – senza dimora stabile, sprovvisti di tutto, dal vestiario ai viveri». Più difficile stabilire, allo stato attuale delle documentazioni, quanto furono gli ebrei nascosti e soccorsi in quei mesi.

LA MARCHESA BENZONI, L’EMINENZA GRIGIA IN GONNELLA. Giuliana Benzoni fu un personaggio di assoluto rilievo nella Roma occupata: dalla «generosa suola delle scarpe» della marchesa, scrive Fulvia Ripa di Meana, «escono permessi militari, congedi e false carte d’ identità». Per Maria José di Savoia, fu una sorta di “eminenza grigia in gonnella”, capace di introdurre la “regina di maggio” negli ambienti antifascisti romani e in diretto contatto col sostituto della segreteria di Stato vaticana, monsignor Giovanni Battista Montini. «Fra Badoglio, Bonomi, Croce, Sforza, De Nicola, Togliatti, Nenni, De Gasperi, Gonella, Saragat, La Malfa, Giorgio Amendola, generali ed eminenze vaticane, “gappisti” ed emissari alleati – scrive Nello Ajello – la Benzoni esaltò i suoi talenti. Era ora vivandiera dei partigiani e falsificatrice di carte annonarie, ora esperta in radio rice-trasmittenti e “crocerossina dell’ informazione”, ora addetta a nascondere prigionieri, ebrei, militari sbandati».

FIUMI DI DENARO BUONO DA ROMA. Pressappoco le stesse operazioni che riuscì a mettere in piedi il gruppo di don Angeli, in mezza Toscana: i bracci del soccorso livornese furono capaci di arrivare, oltre che nella provincia di Livorno, anche in quelle di Firenze, Pistoia, Grosseto, sulle Apuane e perfino nelle zone di Modena. Per il soccorso ai prigionieri alleati la sola Benzoni, scrive Emilio Angeli, «mi affidò complessivamente una somma di lire trecentocinquantamila». Ma non fu tutto: «Data l’insufficienza delle somme messe a disposizione dalla Benzoni – scrive il “nonnino” – col sopraggiungere delle esigenze invernali, mio figlio don Roberto si recò nuovamente a Roma, riuscendo a conferire direttamente con l’ambasciata Irlandese in Vaticano e l’ambasciata Jugoslava. Fu così che la situazione dei prigionieri alleati in Toscana fu fatta presente anche all’ambasciata inglese in Vaticano». Ai militari jugoslavi, nascosti nei pressi di Ponte a Moriano, venivano portati gli aiuti che provenivano da monsignor Nicola Moscatello, dell’ambasciata jugoslava.

Oflaherty

Hugh O’Flaerty, la “primula rossa” del Vaticano

AL LAVORO CON LA «PRIMULA ROSSA». Ma è con l’ambasciata irlandese e quella inglese che don Angeli riuscì a creare i contatti più preziosi: «L’ambasciata irlandese – scrive Emilio Angeli – fu in grado di assicurare che tutti i prestiti e le spese sostenute da chiunque per aiutare i prigionieri sarebbero stati restituiti dagli Alleati non appena il territorio fosse stato liberato. Questo data l’impossibilità da parte dell’ambasciata inglese di fornire al momento direttamente le somme occorrenti. All’ambasciata irlandese furono così portati nomi e messaggi dei prigionieri alleati da trasmettersi a Londra». Motore strategico dell’ambasciata irlandese era l’ecclesiastico del Sant’Uffizio, monsignor O’Flaherty. «L’azione dell’irlandese – scrive Andrea Riccardi – a cavallo tra immunità vaticane e coraggio personale, rappresenta una vicenda emblematica del clima di Roma in quei mesi». Il monsignore stazionava spesso nelle vicinanze della basilica di San Pietro, sulla piazza, e prendeva contatto con eventuali soldati alleati arrivati fin lì tra la gente. Vari ecclesiastici, preti antinazisti e diplomatici alleati erano collegati alla sua rete clandestina. Un contatto importantissimo che dette via libera all’attività di assistenza del gruppo livornese. «Dopo queste intese – scrive al Sim il “nonnino” – ci sentimmo autorizzati ad assicurare alle famiglie e a tutti coloro che sostenevano le spese per i prigionieri che le spese da loro sostenute, le somme versate e i danni materiali eventualmente subiti sarebbero stati loro rifusi a guerra finita. Su queste premesse si estese tutta la nostra attività di assistenza».

«DIO CREO L’UOMO, NON L’UOMO ARIANO». Quella di don Angeli, non fu soltanto una «resistenza operativa», ma anche, sottolineava, una «resistenza ideologica organizzata». A partire dal 1940 nel suo cenacolo di studi sociali presso l’Arciconfraternita di S. Giulia a Livorno tenne pubbliche conferenze in cui mostrava quanto la dottrina cristiana fosse antitetica alle tesi razziste: «Dio creò l’uomo, non l’uomo ariano», esordì una volta. «Vi leggerò oggi -– proseguì -– alcune pagine scritte da Hitler e dal più notevole teorico del nazismo, Rosenberg. Da queste chiarissime citazioni, voi potrete capire perché il mondo oggi soffra la più terribile e sanguinosa tragedia della sua storia. Sono brani che non hanno bisogno di commento».

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

Monsignor Giovanni Piccioni e don Angeli (Archivio Centro Studi R. Angeli)

BATTESIMI E DOCUMENTI FALSI. Grazie anche a queste basi culturali, a Livorno l’opera dei cattolici in aiuto agli ebrei fu particolarmente intensa. Già immediatamente dopo la promulgazione delle leggi razziali del ’38 il vescovo di Livorno Giovanni Piccioni, buon amico del rabbino Alfredo Toaff (padre dell’ex rabbino capo di Roma, Elio), aveva dato precise disposizioni a clero e laici: i fratelli ebrei non dovevano essere lasciati soli. La comunità ebraica cittadina contava allora 2000 componenti (la quinta italiana in termini numerici dopo Roma, Milano, Trieste e Torino), di questi 116 furono catturati dalla Gestapo e solo 16 riuscirono a tornare. Presso la curia, sotto il diretto controllo del cancelliere don Amedeo Tintori, venne creato un ufficio per la concessione dei certificati di battesimo agli ebrei. «Io stessa – – raccontava Erminia Cremoni – – feci da madrina di battesimo e di cresima ad alcune giovani ebree». Presso le suore di S. Teresa ad Antignano fu costituto una sorta di «ufficio falsificazioni documenti»: i giovani dipendenti comunali Vincenzo Villoresi e Dino Lugetti si distinsero nella creazione di carte d’identità false.

L’OPERA DI DON ANGELI. Don Angeli si occupò personalmente del trasferimento di 24 ebrei dall’ospedalino israelitico prima in una palazzina di via Nardini, poi in via Micali. Il sacerdote, come testimoniò poi l’avvocato ebreo Giuseppe Funaro, «liberatosi dalla veste talare e rimboccatosi le mani, cominciò a fare opera di facchino. Quattro giorni durò il trasporto dei letti, dei bagagli e delle masserizie». Nei cinque mesi successivi e fino all’arresto il sacerdote, coadiuvato da padre Giuseppe Spaggiari, Erminia Cremoni, Paolo Brilli e altri giovani fece in modo che nulla mancasse ai circa 90 ebrei nascosti in via Micali. Insieme al giovane profugo Raffaello Niss, che a Parigi era a capo dell’Opera di protezione dei bambini ebrei, organizzò diversi viaggi clandestini per trovare nascondigli e protezione più sicuri man mano che i rastrellamenti nazisti si facevano più sistematici.

L’UNITÀ, DALLA COMUNE SOFFERENZA. «Noi crediamo -– commentava nel 1973 il sacerdote in un incontro organizzato dalla comunità ebraica livornese –- che Dio muova misteriosamente le forze profonde della storia per cui dal male può talvolta fiorire anche il bene». Nell’esperienza della clandestinità e del lager don Angeli, vide prepotenti i semi per superare secoli di inimicizia. «La lotta comune, la comune atroce sofferenza ci hanno avvicinato come non mai». E concludeva: «Non possiamo dunque che formulare un augurio, che questo avvicinamento progredisca in una sempre più profonda amicizia e rappresenti un reale contributo alla reciproca comprensione tra persone e gruppi di diversa religione o ideologia, tra popoli e comunità».

Gianluca della Maggiore è dottorando in Storia contemporanea presso l’Università di Roma Tor Vergata. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa anche di cinema, Resistenza e movimenti politici. Ha pubblicato il volume Dio ci ha creati liberi. Don Roberto Angeli (2008).

 




Albano Milani Comparetti: un notabile tra guerra e Liberazione

Viver qui è un purgatorio; ma è molto utile ch’io ci sia. Se no non ci resterebbe nessuno e tutto andrebbe perduto.

Il 12 luglio del 1944, Albano Milani Comparetti (1885-1947), padre del futuro don Lorenzo Milani, con queste parole risolute ma al contempo cariche d’inquietudine si rivolgeva in lettera alla moglie Alice Weiss (1895-1978). Si era allora a poche settimane dall’arrivo su Firenze del fronte di guerra, attestato in quei giorni a nord di Siena, e Albano dirigeva le sue parole alla consorte scrivendole da Gigliola, l’amata fattoria che i Milani possedevano dal 1914 nel comune di Montespertoli, pochi chilometri a sud-ovest del capoluogo regionale toscano.

Gigliola cartolina

La fattoria di Gigliola dei Milani Comparetti, nel comune di Montespertoli (gentile concessione di Valeria Milani Comparetti)

 Luogo prediletto dalla famiglia e cornice cara all’infanzia e alla gioventù dei tre figli di Albano (Adriano, Lorenzo ed Elena), agli inizi degli anni Quaranta Gigliola era divenuta per necessità rifugio appartato dei Milani i quali, nel tentativo di sottrarsi alla minaccia dei bombardamenti e nella speranza di poter meglio proteggere Alice dai pericoli cui andava incontro in quanto appartenente a famiglia ebrea, lì si erano stabilmente trasferiti nel 1942. Nel loro buon ritiro immerso nella campagna fiorentina, i Milani avevano così cercato di blandire i disagi e ridurre i rischi di un conflitto allora lontano che però dopo l’8 settembre del 1943 e l’inizio dell’occupazione tedesca si era fatto sempre più presente. In particolare, a seguito della liberazione di Roma il 4 giugno del 1944 e della rapida avanzata del fronte di guerra in Toscana, la situazione era andata rapidamente mutando. Anche il comune di Montespertoli aveva assistito allintensificarsi della presenza tedesca e Gigliola era divenuta base di diversi reparti intenti a fare la spola tra la prima linea e le retrovie e dediti per lo più al saccheggio. Ai primi di luglio, perciò,  preoccupato per la sorte dei propri cari, Albano aveva disposto il loro allontanamento dalla fattoria di famiglia, oramai ritenuta non più sicura e prossima a essere fagocitata dall’arrivo del fronte in rapida marcia su Firenze.

Il 3 luglio, infatti, la moglie Alice partì da Gigliola alla volta di Firenze, seguita subito dopo da Lorenzo, allora giovane seminarista. Quest’ultimo, che il 19 giugno precedente aveva raggiunto i genitori a Gigliola a seguito della chiusura del Seminario fiorentino del Cestello, protetto dal suo abito talare il 4 luglio partì infatti alla volta di Firenze assieme alla sorella Elena, raggiungendo la madre a Bellosguardo, sulle colline circostanti Firenze, dove i Milani avevano in affitto una villa nella quale abitava già il primogenito Adriano, giovane studente di medicina allora inserito nella rete clandestina del Partito d’Azione. Rimasto solo a Gigliola in compagnia del fratello Giorgio, Albano Milani avrebbe assistito da quella posizione al devastante passaggio del fronte, facendone un dettagliato resoconto in una serie di lettere-diario che tra il 4 luglio e il 6 agosto 1944 egli scrisse alla moglie Alice.

A lungo rimaste inedite, queste ultime sono adesso pubblicate in un recente libro di Valeria Milani Comparetti – nipote di don Lorenzo – che con documentazione inedita e passione filologica per la prima volta ha ricostruito il rapporto che legava il futuro priore di Barbiana a suo padre Albano (si veda la locandina della presentazione del libro in  “Materiali Correlati”). In precedenza trascurata dalla storiografia, la figura di Albano – come ci suggerisce il racconto della nipote – appare invece centrale nella formazione culturale di Lorenzo e persino per il suo cammino di conversione, considerato in tal senso l’interesse che Albano – nonostante il clima agnostico e “scientista” della famiglia – dimostrò per il tema religioso e che lo avvicinò persino allo studio di testi dogmatici e teologici. Personaggio sicuramente ricco di talenti, studioso eclettico di letteratura, poliglotta, nonché imprenditore e attento amministratore dei possessi familiari, Albano nelle sue lettere scritte alla moglie nell’estate del 1944 ci offre uno spaccato inedito sulla storia della famiglia Milani, presentandoci un affresco composito dal quale risaltano al contempo i fatti terribili della guerra, dell’occupazione tedesca e del passaggio del fronte, i legami d’affetto nonché soprattutto il ruolo di pater familias e di possidente illuminato che in quei tragici eventi porta Albano a farsi carico sia dell’incolumità dei propri cari che di quella del piccolo microcosmo contadino di Gigliola che su di lui faceva affidamento: Sento il dovere di star qui con i nostri dipendenti che guardano a me come al loro capo e al loro protettore nella grande burrasca, avrebbe scritto non per nulla alla moglie.

Gigliola e il fattore

Alice Weiss in calesse davanti alla villa di Gigliola, 7 aprile 1920 (gentile concessione di Valeria Milani Comparetti)

Composta allora da più di venti poderi per cica 200 ettari di cui 150 di seminativo, la tenuta di Gigliola era stata acquistata nel giugno del 1914 dal padre di Albano, Luigi Adriano Milani, archeologo e numismatico di fama, il quale, rimasto vedovo l’anno precedente della moglie Laura Comparetti, figlia del filologo Domenico e della pedagogista russa Elena Raffalovich, aveva assegnato in via successoria quella produttiva azienda ai quattro figli (Albano, Giorgio, Piero ed Elisa) affidandone però la gestione al maggiore Albano. Quest’ultimo, in effetti, con la morte del padre avvenuta nell’ottobre del 1914 era divenuto amministratore e curatore dell’intero patrimonio familiare che all’epoca comprendeva diverse proprietà immobiliari, sia cittadine che rurali. Proprio attorno alla tenuta di Gigliola si sarebbero però concentrate le attenzioni di Albano.

Possidente del tipo paternalista, benché bonario, convinto dell’efficienza del sistema di fattoria e della bontà sociale della mezzadria – che non per nulla avrebbe difeso in un suo pamphlet del 1946 – a cavallo delle due guerre Albano si impegnò energicamente nell’ammodernamento della tenuta, sperimentando nuove varietà di colture e dedicandosi soprattutto alla viticoltura e alla produzione enologica, alla quale avrebbe applicato le conoscenze scientifiche che aveva acquisito nei suoi studi universitari di chimica,  dedicandovi poi saggi e pubblicazioni.

Podere Ulivello

Podere Ulivello. Albano Milani Comparetti al centro. Alla destra il fattore di Gigliola, Mattolini. 15 aprile 1922 (gentile concessione di Valeria Milani Comparetti)

La sua, in effetti, fu una gestione moderna dell’azienda che se pur guardava ancora con convinzione all’utilità dell’agricoltura mezzadrile, era però attenta al contempo alle nuove culture aziendali che si stavano affermando in Italia tra le due guerre, con particolare attenzione ai sistemi di organizzazione scientifica del lavoro di cui Albano diverrà peraltro sostenitore e promotore quando nel 1932 si trasferirà con la famiglia a Milano per impiegarsi nella Società Italiana Bedaux, un’azienda fondata nel 1927 da industriali del calibro di Agnelli e Pirelli allo scopo di diffondere l’omonimo metodo di organizzazione del lavoro.

D’altra parte, anche in quegli anni è sempre alla conduzione del possesso di Gigliola, caro alle gioie e agli affetti di tutta la famiglia, che Albano rimane particolarmente legato. Così, quando nella prima metà degli anni Trenta un’improvvisa crisi economica che colpisce i fratelli Milani e in modo particolare il secondogenito Giorgio sembrò mettere in dubbio la tenuta del patrimonio familiare e la conservazione della fattoria di Montespertoli, Albano si impegnò a preservarne l’integrità assumendosi il debito del fratello e facendo subentrare nella proprietà di Gigliola anche la moglie Alice Weiss. Arginato lo scompenso finanziario della famiglia, le quote proprietarie assunte da Alice sarebbero state poi recuperate da Albano nel 1939, quando cioè, a seguito della proclamazione delle leggi razziali, la situazione della consorte si fece molto delicata. Già in precedenza, i due coniugi, sposatisi nel 1919 con rito civile, avevano fatto di tutto per nascondere le origini ebraiche di Alice e salvaguardare la prole da possibili discriminazioni. Per prima cosa, nel 1934, proprio durante un soggiorno a Gigliola, avevano fatto battezzare i figli Adriano, Lorenzo ed Elena (nati rispettivamente nel 1920, 1923 e 1928) da don Viviani, pievano di S. Piero in Mercato e amico di famiglia, che ne aveva retrodatato i certificati al giorno della loro nascita. Nel 1938, poi, Alice, oltre a far domanda di recessione dalla Comunità Israelitica di Trieste, sua città natale, si era fatta battezzare in aprile dallo stesso don Viviani e il 30 novembre successivo aveva potuto celebrare con rito cattolico il matrimonio con Albano nella chiesa di S. Maria del Suffragio, a Milano. Proprio per sfuggire ai primi segnali di vessazioni antisemite, nel 1942 i coniugi Milani avevano lasciato il capoluogo lombardo, rifugiandosi a Gigliola.

Albano nei campi

Albano assieme a un contadino tra le spighe di grano. 13 giugno 1928 (gentile concessione di Valeria Milani Comparetti)

Anche qui, però, la minaccia di una possibile persecuzione si era presto ripresentata, lambendo la stessa rete familiare dei Milani. Il 30 dicembre del 1943, infatti, le autorità repubblichine di Montespertoli procedettero al sequestro dei beni della villa e fattoria di Trecento, di proprietà dell’ebreo triestino Giorgio Manni e di sua moglie Bianca Weiss sorella di Alice, che i due avevano acquistato nel 1933 proprio da Albano. Fortunatamente, l’arresto dei coniugi Manni fu scongiurato grazie a un anonimo benefattore che li preavvisò in tempo della minaccia, permettendo loro di mettersi al riparo. La tenuta di Gigliola non fu invece raggiunta da analogo provvedimento, perché a quella data Albano era già rientrato in possesso delle quote proprietarie di Alice che quindi non figurava più intestataria del bene. Quest’ultima poté così continuare a rimanere a Gigliola relativamente al sicuro, almeno sino a quando tra giugno e luglio del 1944 con l’avvicinarsi del fronte di guerra la presenza e il controllo dei reparti tedeschi aumentarono di numero e intensità. Fu allora, appunto, che fu deciso l’allontanamento di Alice e dei figli alla volta di Firenze.

Autunno 1928. La famiglia Milani di fronte ai locali di fattoria. A destra Alice con il piccolo Lorenzo sulle ginocchia. Alle loro spalle la finestra della stanza dove Albano e Giorgio vennero trattenuti dai tedeschi fra il 17 e il 23 luglio 1944

Autunno 1928. La famiglia Milani di fronte ai locali di fattoria. A destra Alice con il piccolo Lorenzo sulle ginocchia. Alle loro spalle la finestra della stanza dove Albano e Giorgio vennero trattenuti dai tedeschi fra il 17 e il 23 luglio 1944 (gentile concessione di Valeria Milani Comparetti)

Rimasto a Gigliola, Albano, nelle settimane in cui si compì il passaggio del fronte nella zona, si dette anima e corpo a cercare di mediare i difficili rapporti tra forze occupanti e popolazione locale, puntando sulla sua autorità sociale e soprattutto sfruttando la sua ottima conoscenza del tedesco, che in alcuni casi gli consenti in effetti di stemperare l’aggressività degli occupanti: Oggi alle 15 sotto il solleone – scrive il 13 luglio alla moglie – sono dovuto andare una volta e mezzo a Sazzipoli per intervenire presso militari tedeschi che volevano portar via i tre buoi rimasti, dopoché un paio di settimane fa, come sai ne avevano portato via uno. Siamo riusciti a far desistere. Uno dei due soldati era un berlinese, un bravo ragazzo che si è commosso a sentirmi parlare così bene tedesco e di Berlino.

Tuttavia, man mano che la prima linea avanza e i combattimenti si fanno più intensi, i tedeschi inaspriscono il proprio atteggiamento e anche Albano è costretto a subirne in prima persona le conseguenze. Il 17 luglio infatti un nuovo reparto prende possesso della villa di Gigliola e rinchiude Albano e il fratello Giorgio nei locali di fattoria, nei quali di fatto i due rimangono segregati per alcuni giorni. La notizia del fermo giunge sino a Firenze, da dove Lorenzo il 18 luglio decide di partire in soccorso del padre, intraprendendo un rischioso e coraggioso viaggio in solitaria sino a Gigliola. Non ci è noto il momento esatto in cui Lorenzo giunge a Gigliola, solo sappiamo che poco dopo il  rilascio di Albano e del fratello, avvenuto il 23 luglio, egli è presente e li coadiuva nel porre a riparo quel poco che si è salvato nei locali della villa, ripetutamente saccheggiata dagli occupanti. Oramai il fronte è a pochi chilometri e Gigliola è presa di mira dal fuoco incrociato dei due eserciti in lotta.

Il 24 luglio, un proiettile alleato centra il tetto della cameretta di Lorenzo, dove il seminarista era salito poco prima a mettere un po’ d’ordine: Se veniva un momento prima Lorenzo sarebbe morto, scrive Albano ad Alice lo stesso giorno. Nella notte tra il 25 e il 26 luglio, le ultime retroguardie tedesche si ritirano da Gigliola ma gli scontri con i reparti britannici e le truppe coloniali dell’VIII Divisione Indiana proseguono durissimi fino al 27, giorno in cui il capoluogo del comune viene liberato. Albano e Lorenzo, che hanno passato gli ultimi momenti al sicuro nelle cantine della fattoria, nei giorni seguenti la liberazione si danno un gran da fare per assistere la popolazione locale. Ad entrambi, che parlando inglese riescono perfettamente a farsi intendere dalle nuove autorità alleate, viene concessa una certa libertà nonché uno speciale lasciapassare che permette loro di muoversi in sicurezza. Lorenzo in particolare, nei giorni seguenti si recherà più volte ad assistere l’anziano don Viviani alla Pieve di S. Piero in Mercato che nei giorni del fronte ha accolto un gran numero di sfollati. Qui già il 27 luglio padre e figlio intervengono in appoggio a un gruppo di donne, impaurite dall’atteggiamento insubordinato di alcuni reparti indiani che avevano cercato di razziarle e usar loro violenza: abbiamo cercato di aiutare le profughe accompagnandole coi loro mezzi dal rifugio alla porta della Pieve e Lorenzo ed io abbiamo anche aiutato a trasportare le loro materasse fin fuori dove le donne si sentono più sicure, informava Albano il 28 luglio scrivendo ad Alice.

Montespertoli 44

Montespertoli, 27 luglio 1944. Fanti inglesi del 5° Royal West Kent ispezionano le macerie del paese appena liberato (Library and Archives, Canada)

Nel frattempo, mentre il fronte prosegue il suo cammino in direzione di Firenze, a Montespertoli la macchina burocratica alleata si attiva per ripristinare un governo locale provvisorio. Come loro consuetudine, gli ufficiali alleati preposti agli affari civili si rivolgono ai maggiorenti del comune. Uno dei primi a essere interpellato è proprio Albano che per il suo alto profilo e la sua conoscenza dell’inglese viene preso subito in considerazione per un posto di responsabilità, che per la verità lo lascia alquanto dubbioso: Qui vorrebbero farmi sindaco – comunica ancora alla moglie il 31 luglio – cosa che mi seccherebbe molto in questo momento, perché ci sono elementi pericolosi e la baraonda è grande ed io mi intendo troppo poco di queste cose. In effetti, il clima che si respira in quei giorni non è dei più distesi. La formazione della prima giunta della Liberazione, infatti, registra un duro braccio di ferro tra il governatore alleato e i partiti antifascisti del locale Comitato di Liberazione Nazionale che contro il parere dei militari vogliono imporre all’esecutivo il principio di rappresentanza partitica. L’accordo si raggiunge solo il 4 agosto con la formazione di una giunta formalmente apolitica, ma presieduta dal bracciante comunista Angelo Verdiani. Albano per il momento non ne entra a far parte, benché per la verità a quella data gli siano già stati affidati alcuni incarichi. Il 1° agosto, infatti, è stato convocato dal governatore alleato il quale lo ha affiancato all’ufficiale responsabile della polizia militare, il capitano Robertson.

Nel settembre del 1944, però, a seguito di una crisi municipale innescata da un ulteriore attrito sorto tra il CLN e il nuovo governatore alleato, si assiste a un rimpasto della giunta che porta all’ingresso di Albano nell’esecutivo e che permette un certo appeasement tra Alleati e componenti politiche antifasciste. Nella nuova giunta del Verdiani – riconfermato alla carica di sindaco –  Albano si interessa prevalentemente dell’istruzione scolastica del comune, compito questo che poi gli viene formalmente attribuito il 5 novembre. Il 13 ottobre 1944, inoltre, egli è nominato assieme alla moglie Alice Weiss membro della commissione comunale per la vigilanza e la tutela della pubblica istruzione, mentre nel febbraio del 1945 viene eletto anche presidente del consiglio di amministrazione del patronato scolastico. In questi mesi, nella sua veste di assessore alla pubblica istruzione, Albano si dedica soprattutto alla ricostituzione della Scuola secondaria di avviamento professionale di tipo agrario, un istituto comunale che aveva aperto a Montespertoli nell’anno scolastico 1942-43. Agli occhi di Albano per un municipio rurale quale quello di Montespertoli l’esistenza di una scuola che dopo le elementari consentisse ai figli del popolo un avviamento allo studio dell’agraria appariva un elemento di indubbia importanza per il miglioramento delle condizioni di vita locali. Non per nulla, l’esecutivo decise di porre l’affare nella propria agenda. A favore di questa realizzazione fu però Albano che più di tutti si diede da fare, intervenendo più volte nelle adunanze della giunta per sollecitare lo sblocco di quei fondi che sarebbero serviti all’impianto della scuola, nonché impegnandosi personalmente per dotarla di un corpo docenti idoneo e qualificato. Alla direzione dell’istituto, peraltro, fu insediata una cara amica di famiglia dei Milani, Clara Francese Foà, insegnante di matematica e laureata in Fisica all’Università di Firenze, che sarebbe rimasta alla guida dell’istituto sino alla fine del 1945. Nonostante le evidenti difficoltà finanziarie riscontrate dall’amministrazione comunale, grazie all’impegno di Albano e della moglie, la scuola di avviamento, nell’anno didattico 1944-1945 poté riscuotere un certo successo, registrando l’iscrizione di 57 tra alunni e alunne, ottenendo il riconoscimento del Ministero della Pubblica Istruzione e licenziando a fine anno 16 su 18 iscritti dell’ultima classe.

La Riforma Agraria

Lo studio che Albano Milani Comparetti dedica nel 1946 alla mezzadria e nel quale ne difende la conservazione (Tip. Giuntina, Firenze 1946)

L’esperienza di Albano Milani Comparetti nella giunta della liberazione di Montespertoli si sarebbe protratta sino alla fine del 1945, nonostante in questo lasso di tempo egli dovette subire una serie di accuse politiche che gli furono rivolte dal locale CLN. Quest’ultimo infatti, già nel dicembre del 1944 rese nota la precedente esperienza che Albano aveva avuto tra il 1924 e il 1927 nella giunta comunale fascista di Montespertoli e ne chiese per questo le dimissioni. Albano, in effetti, nel giugno del 1924 era stato eletto come assessore supplente nell’esecutivo di Montespertoli, anche se non vi aveva mai partecipato assiduamente. Il prefetto di Firenze, informato della cosa, il 6 marzo 1945 fece sapere d’aver già disposto per la sostituzione del Dr. Albano Milani in seno alla Giunta comunale di Montespertoli, a patto però che la notizia del suo incarico nell’amministrazione fascista venisse comprovata. Albano, in sua difesa redasse un breve memoriale, nel quale chiarì che allora la sua partecipazione alla giunta comunale non aveva avuto carattere politico, dato che vi era entrato come rappresentante degli interessi degli agricoltori, e che per di più nel 1924 non esisteva ancora la legge fascista Provinciale e Comunale ed il regime non era ancora intervenuto sul piano amministrativo. Inoltre, faceva notare Albano,  la sua iscrizione formale al PNF era avvenuta solamente nel 1933, ed egli non aveva neppure mai aderito al Partito Fascista Repubblicano, rifiutandosi per di più di far parte dell’esercito della RSI e respingendo ogni offerta di collaborazione che gli era stata offerta durante l’occupazione. Considerati i legami che la famiglia Milani aveva intessuto da tempo con il milieu antifascista fiorentino e con gli ambienti azionisti soprattutto, nelle cui file militava peraltro il figlio primogenito Adriano, Albano parlava sicuramente in buona fede quando qualificava la sua adesione al potere locale fascista come una mera questione di adattamento. Egli era stato un agrario, forse un poco paternalista, in fin dei conti un conservatore, eppur convinto della necessità di trovare una via che portasse al miglioramento economico e sociale delle classi subalterne e al conseguimento del massimo beneficio alla collettività; obiettivi che egli nel dopoguerra, come iscritto al partito liberale, andava ancora ricercando nell’idea liberale e nei potenziali benefici che il progresso tecnico e la razionalizzazione economica avrebbero potuto apportare alla società. Alla fine, comunque, il procedimento di accertamento politico non gli comportò alcuna conseguenza ed egli continuò indisturbato a espletare le sue funzioni di assessore, intervenendo alle adunanze della giunta di Montespertoli sino a quella del 22 settembre 1945. Una settimana più tardi, il 29, mentre si trovava a Gigliola, Albano fu colto da una grave crisi cardiaca che ne segnò irrimediabilmente la salute. Egli riuscì a intervenire un’ultima volta all’adunanza della giunta municipale del 21 novembre, dopo la quale, tuttavia cessò ogni funzione nell’amministrazione comunale di Montespertoli. Ritiratosi in famiglia, Albano si sarebbe spento a Firenze il 2 marzo del 1947.

L’articolo ripropone una sintesi del saggio di F. Fusi, “Albano Milani Comparetti: un notabile a Montespertoli tra guerra e Liberazione” contenuto nel libro di Valeria Milani Comparetti “Don Milani e suo padre. Carezzarsi con le parole. Testimonianze inedite dagli archivi di famiglia” Edizioni Conoscenza, Roma 2017. Si ringrazia Valeria Milani Comparetti per averne consentito la pubblicazione su ToscanaNovecento.