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Resistenza e Liberamuratoria

Nei primi mesi del 1954, Carlo Ludovico Ragghianti pubblicava il libro Una lotta nel suo corso [1], una raccolta ragionata di carte e documenti interni al Partito d’Azione, con la quale si proponeva di far luce sul contributo dato alla Resistenza dalla formazione politica azionista [2]. Il critico lucchese intendeva ovviare un ridimensionamento di alcune delle componenti resistenziali che più avevano sostenuto logisticamente e materialmente la lotta di liberazione, andando a rimarcarne i meriti e a definire i contorni di alcuni dei suoi protagonisti meno conosciuti. In tal contesto, alcune pagine della pubblicazione si soffermarono su un «industriale pratese, generosa tempra d’uomo e nobile patriotta, precocemente defunto»[3]: Adon Toccafondi. Ragghianti ne descrisse l’impegno per la Resistenza a Prato e a Firenze, ne chiarì la collaborazione con il CTLN e lo ricordò tra i primi amministratori dei mesi successivi alla liberazione regionale. Sindaco di Vernio, paese dell’Alta Valle del Bisenzio, Toccafondi si distinse per il suo impegno tanto nella cosa pubblica quanto nel tessuto associativo provinciale. Di estrazione democratica e repubblicana, antifascista di lungo corso, Adon fu iscritto alla Massoneria di Palazzo Giustiniani e, in questa veste, seppe dar nuova vita alla loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato, la prima ad essersi opposta al fascismo nel 1922. In tale veste, egli si configuròcome l’elemento particolare di passaggi oggi in parte dimenticati ma ben presenti nelle dinamiche resistenziali, quali i rapporti e la comunanza di valori tra Liberamuratoria e Resistenza, che non a caso conobbero alcune interessanti traiettorie, di cui Francesco Fausto Nitti e il repubblicano Menotti Riccioli furono tra gli esempi più conosciuti. In questa prospettiva deve essere letta la riscoperta di una figura quale quella di Adon Toccafondi partigiano, massone, primo sindaco della Vernio liberata. Massoneria e Resistenza, Lotta contro la dittatura e ricerca della Vera Luce si incontrano e si intrecciano in questa figura di partigiano che sempre si operò per il bene comune. Una figura in buona parte persa nelle nebbie della storia, il cui studio biografico sembra tutt’altro che un esercizio privo di valore.

Chi era dunque Adon Toccafondi? Adon Toccafondi nacque a San Quirico di Vernio, nell’alta Valle del Bisenzio, il 13 settembre 1902 da Alberto Lorenzo, ex carabiniere a cavallo e gestore di una cava di materiale edilizio e da Oliva Marchi [4]. Attraverso l’impresa del padre, la famiglia era in contatto con i noti industriali della vallata, Lemmo Romei e Angelo Peyron e fu molto probabilmente grazie a questo legame che il giovane Adon fu portato a studiare presso l’allora Regia Scuola delle Arti Tessili e Tintorie ovvero l’odierno Istituto Tullio Buzzi. Fu nel clima interventista dell’istituto che Toccafondi ebbe a sviluppare: da una parte una solida conoscenza della chimica tintoria; dall’altra, secondo le idee dello stesso direttore Tullio Buzzi, un patriottismo con intense sfumature repubblicane. Un patriottismo che, tuttavia, non sfociò mai nel becero nazionalismo ma che assunse tutta la caratura morale della democrazia, della concezione mazziniana dell’emancipazione del popolo. Caratteristiche queste di cui Toccafondi ebbe a dare prova in almeno tre ambiti: nella lotta contro il fascismo, nell’amministrazione della cosa pubblica (del comune) nell’opera interna all’Obbedienza.
Licenziato in chimica nell’ottobre 1920, egli ebbe ben presto a scontrarsi con la violenza squadrista [5]. Il caso avvenne nella vallata bisentina dei primi anni Venti, laddove le rivolte annonarie del 1919furono parallele a una ripresa dei lavori per la Direttissima Prato-Bologna. Nel contesto dell’alta valle, il cosiddetto “biennio rosso” si piegava nella prospettiva degli scioperi nei cantieri per le scarse retribuzioni e nella temporanea paralisi dei lavori nell’inverno 1920-1921. Posto che, in vallata, i prodromi del fascismo si manifestarono sin dall’estate del 1920, la reazione squadrista alle iniziative operaie si concretò a partire dal 17 aprile 1921, quando la prima vera spedizione in territorio pratese e bisentino causò due morti e numerose violenze. A Vernio e nell’intera Valle del Bisenzio, l’azione fascista proseguì senza soluzione di continuità e, già nel luglio successivo, la giunta socialista di San Quirico fu costretta a dimettersi sotto le pressioni delle camicie nere. Fu in tal contesto che il fascismo bisentino si interessò anche di Toccafondi. Le sue profonde convinzioni repubblicane lo resero un bersaglio per lo squadrismo verniotto. Nel giugno 1921, gli squadristi lo affrontarono in pubblico e gli strapparono il distintivo riportante l’effige di Mazzini. Un fatto identico si ripeté nel successivo settembre, nel contesto della repressione fascista contro lo sciopero tessile decretato in opposizione della riduzione dei salari.
Non sembra allora casuale che, pochissimi mesi dopo, egli trovasse lavoro nelle industrie del Nord Italia, prima a Monza, poi a Sesto San Giovanni, poi ancora sul Lago di Como (dove ebbe a instaurare una propria impresa) e, infine, nel Bergamasco, a Caravaggio. Ma non si trattò solo di un progresso professionale. Il Nord Italia portò anche a una sua maturazione personale e morale. Durante la sua permanenza in Lombardia ebbe a sposarsi ed a metter su famiglia. Ma, soprattutto, fu in Lombardia che Toccafondi entrò in maniera attiva nel movimento antifascista clandestino di Giustizia e Libertà, grazie al repubblicano Arnaldo Guerrini e a Carlo Ludovico Ragghianti.
Manifesto del Comune di Vernio 1 novembre 1944La Lombardia fu insomma la premessa alla lotta resistenziale. Tornato alla fine degli anni Trenta in Toscana fu grazie a Toccafondi che nel 1940 fu possibile riallacciare dei rapporti tra i gruppi socialisti e repubblicani tra Firenze e Prato. Lo stesso Ragghianti ebbe a ricordare l’“intemerato repubblicano” Toccafondi come uno dei protagonisti della locale Resistenza [6]. Adon fu tra i presenti al congresso di formazione del Partito d’Azione fiorentino e fu in contatto con tutti i suoi principali dirigenti. Assunto il nome di battaglia di “Leonardo”, egli dette un importante contributo alla stampa clandestina per la quale procurò sia macchinari, sia i materiali per la pubblicazione del periodico azionista «La Libertà». Come ugualmente ebbe rilevanza la sua collaborazione con radio Co Ra, la Commissione Radio guidata da Enrico Bocci, il cui ruolo di comunicazione con le forze alleate fece assumere all’attività di Adon contorni più marcati [7]. In particolare, il suo ruolo di collegamento assunse rilievo a margine della comunicazione tra il gruppo di Bocci e gli Anglo-americani, per l’invio da parte di questi ultimi di rifornimenti e munizioni. Fu il partigiano “Leonardo” che svolse il ruolo di collegamento tra il campo di ricezione degli aviolanci, nel Pratese, nei pressi di Montemurlo e il gruppo fiorentino. Per altro, la tragica fine della radio Co.Ra. gruppo Bocci, scoperta pochi giorni dopo la realizzazione del primo dei lanci di materiale e uomini, rischiò di colpire anche Adon. Toccafondi scampò di poco alla cattura tedesca grazie alla segnalazione di Vincenzo Cangioli, suo conoscente e datore di lavoro del fratello.
Il ruolo svolto da lui svolto all’interno della Commissione Radio rimandava all’importanza della sua figura nell’organizzazione della Resistenza nel Pratese. Almeno due sono i meriti da segnalare. Anzitutto, Adon Toccafondi fu il principale responsabile del reclutamento di personaggi chiave della Resistenza a Prato quali Mario Martini, il capo militare delle truppe partigiane, e l’intero gruppo dirigente del Partito d’Azione (Roberto Cecchi, Rodolfo Corsi, il prof. Salinari, Cesare Grassi…). Ma soprattutto, Toccafondi fu l’ufficiale partigiano di collegamento tra il CLN di Prato e il CTLN posto a Firenze. Quando, dopo i tragici fatti di Figline, Prato fu liberata, fu Toccafondi assieme a pochi altri a guidare le truppe alleate e partigiane nei territori del circondario. Di sicuro furono lui, il dott. Mensurati e Franco Calcagnini (entrambi appartenenti come Toccafondi al Partito d’Azione) ad entrare per primi a Vernio.
Il paese di Vernio fu il secondo contesto in cui si ravvide l’impegno di Toccafondi per la democrazia e la libertà. Qui egli fu nominato sindaco con l’accordo di tutte le forze del CLN locale su indicazione delle autorità refgionali. Egli si impegnò per la ricostruzione di un paese devastato che ebbe anche ad affrontare tragedie personali come il crollo della galleria di Saletto. Durante i lavori di ripristino della viabilità ferroviaria sulla linea Firenze-Prato-Bologna, all’imbocco della galleria di Saletto, un improvviso crollo travolse una cinquantina di operaie e operai provocando 32 vittime [8]. Adon si pose in contatto sin dal giorno successivo alla tragedia con il CTLN e il CLN di Prato per organizzare una raccolta fondi in memoria delle vittime, la quale produsse 25.000 lire, che il Comune impiegò in parte a saldo dei funerali. Ma egli ebbe anche meriti più generali. Sotto la sua amministrazione fu approntato un piano di recupero e di ricostruzione, fu garantito l’approvvigionamento alle popolazioni colpite dalla guerra, fu approntata la ricostruzione materiale delle strade e degli edifici, nonché del locale acquedotto. Lasciò l’incarico nel luglio 1945, ma a tutt’oggi la testimonianza di Carlo Rossi, tra i suoi successori, lo descrivono come «un uomo di valore» [9]. Di sicuro, nella sua qualità di amministratore, le carte archivistiche lo restituiscono come un uomo della collaborazione che seppe relazionarsi con tutte le forze politiche. Ed ancora oggi riluce una lettera del comunista Carlo Ferri in cui è definito il suo impegno per la Vallata come «impagabile» [10]. Del resto, «chiamato a più alto incarico» [11], Toccafondi fu posto sin dall’inizio del 1946 alla direzione provinciale della United Nation Relief and Rehabilitation Admnistration (UNRRA), l’organismo alleato rivolto al sostegno della locale Ricostruzione.
Adon Toccafondi inizio anni QuarantaMa Toccafondi fu anche appartenente alla massoneria e, in questa veste, espresse una volta in più la sua tenuta morale. Affiliato dal 1944 presso la loggia Michelangiolo di Firenze, si impegnò per il risveglio di quella che a livello nazionale fu la prima istituzione liberomuratoria ad essersi pronunciata pubblicamente contro il fascismo: la loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato. Adon riprese i contatti con antichi appartenenti come Amedeo Strobino e Nazzareno Cecconi e di concerto con il venerabile della Michelangiolo, Anton Giulio Magheri e con l’oratore, Menotti Riccioli, diede vita a un primo triangolo pratese da essa dipendente. Dalle carte d’archivio ben emerge come il triangolo dovesse evolvere in un’officina ispirata dai «principi che avevano informato la gloriosa Giuseppe Mazzoni» [12]. All’inizio del 1947, lo stesso Riccioli si aggiunse ad altri quattro fratelli Spartaco Turi, Italo Baragli, Salvatore Bucca, Cesare Conti per risvegliare la loggia Mazzoni. Una loggia che dalle biografie dei suoi stessi appartenenti assume un carattere intimamente antifascista e incardinato sui valori della democrazia e della libertà. Qui basti ricordare la lunga militanza di Menotti Riccioli nell’antifascismo repubblicano e aggiungere tra i primi aderenti all’officina pratese (successivi ai fondatori) Rodolfo Corsi, vicepresidente del locale CLN.
Di li a poco Adon sarebbe mancato in un terribile incidente stradale. Ma di lui sarebbe rimasto il ricordo che Menotti Riccioli ebbe a fare del suo «instancabile impegno» [13]. Toccafondi fu un personaggio che in ogni suo spunto biografico lottò per i valori di libertà, unità e democrazia. La commemorazione accorata fattane tanto in pubblico, «in una piazza San Marco completamente piena di gente» [14] quanto nei lavori di loggia vale a chiarirne «le sue nobilissime qualità»: «onestà, sincerità, immenso amore per la Famiglia, per la Patria, per l’umanità – poteva esser letto nei verbali dell’Obbedienza – ispiravano la sua vita pratica» [15], facendo di Adon «uno di quei vivi focolai d’umanità che tengono in alto i valori dello spirito».

Volendo far rimanere agile la lettura, si informa che laddove non indicato diversamente in nota, i riferimenti al testo sono ripresi da A. Giaconi, La vera luce della democrazia. Adon Toccafondi, antifascista, partigiano, massone, Firenze, Pontecorboli, 2022.

Note al testo:

[1] Una lotta nel suo corso. Lettere e documenti politici e militari della Resistenza e della Liberazione, a cura di L. Ragghianti Collobi e S. Contini Bonacossi, Venezia, Neri Pozza, 1954.

[2] Cfr. A. Becherucci, Le delusioni della speranza. Carlo Ludovico Ragghianti militante di un’Italia nuova, Milano, Biblion, 2021, pp. 154-155, 165-166.

[3] Una lotta nel suo corso, cit., p. 354.

[4] Comune di Vernio, Ufficio di Stato Civile, Registro degli atti di nascita, a. 1902, atto n. 186.

[5] Per i seguenti dati sul fascismo pratese e bisentino, cfr. A. Bicci, Prato 1918-1922. Nascita e avvento del fascismo, Prato, Medicea Firenze, 2014, pp. 120 e ss..

[6] C.L. Ragghianti, Disegno della Liberazione italiana, Pisa, Nistri Lischi, 1962, p. 307

[7] Sul ruolo e sulla vicenda della Co.Ra. gruppo Bocci, cfr. G. La Rocca, La “Radio Cora” di piazza D’Azeglio e le altre due stazioni radio, Firenze, Tip. Giuntina, 1985. Per un’efficace sintesi cfr. F. Fusi, Il servizio Radio CO.RA. e il suo contributo alla lotta di Liberazione, in «Toscana Novecento. Portale di Storia Contemporanea», https://www.toscananovecento.it/custom_type/il-servizio-radio-co-ra-e-il-suo-contributo-alla-lotta-di-liberazione/, ult. consultazione 14-11-2022.

[8] Cfr. La Direttissima ferita. La ferrovia Firenze-Bologna, 1944-1946, Vaiano, CDSE della val di Bisenzio, 2009, pp. 48-69.

[9] Testimonianza di Carlo Rossi, partigiano comunista e già sindaco di Vernio dal 1964 al 1983, del 24 aprile 2019.

[10] Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, CLN di Prato, b. 5, f. 4, appunto di Carlo Ferri presidente del sottocomitato di Vaiano, novembre 1944.

[11] Testimonianza di Carlo Rossi, cit.

[12] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 2 febbraio 1947.

[13] Ivi, 15 gennaio 1948.

[14] Testimonianza di Carla Ignesti Toccafondi, figlia di Adon, il 28 novembre 2019.

[15] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 22 novembre 1947.

 




Cafiero Lucchesi e Dino Amilcare Alajeff Meoni

Sono presentati in due articoli 4 profili biografici di altrettanti comunisti dell’area di Firenze e Prato che subirono le persecuzioni del fascismo; tre di loro furono anche vittima dello stalinismo mentre Meoni che viene qui ricordato avrà comunque un percorso di distacco critico dal PCI nel dopoguerra.

LUCCHESI Cafiero

(Prato 7.1.1897 – Butovo, Mosca (Russia) 4.6.1938)

 Nato a Prato nel 1897 da Al(a)dino e da Laudomia Lumini, famiglia imbevuta di ideali anarchici e socialisti. Frequentati i primi anni delle elementari, lavora come operaio nell’industria pratese degli stracci. Membro della gioventù socialista nel 1912, nel 1916 è denunziato, insieme ad altri, per propaganda contro la guerra in occasione della chiamata alle armi della classe 1897; soldato durante la guerra mondiale, diserta e nel 1918 è arrestato e condannato. Tornato in libertà riprende il suo lavoro. Ardito del popolo e iscritto al PCd’I dal 1921, nel novembre dello stesso anno è coinvolto in scontri con i fascisti, che hanno un seguito nel gennaio successivo, in data 11, quando, in risposta all’ennesima provocazione da parte del comandante delle squadre d’azione pratesi, tenente Federico Guglielmo Florio, spara alcuni colpi di rivoltella, ferendo a morte il suo persecutore, che muore 6 giorni dopo, ed altre persone per coprirsi la fuga. Un telegramma del 12 gennaio inviato dalla Prefettura di Firenze al Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, così descrive l’accaduto: «pomeriggio oggi, mentre ex Tenente Florio dirigente quel Fascio (di Prato, n.d.r.) accompagnato alcuni fascisti, sostava Porta Serraglio, imbattevasi nel comunista Lucchesi Cafiero, già condannato grave pena per diserzione, che lo fermava per parlargli. Tenente Florio allontanavasi da compagni, ma mentre sembrava che egli parlasse tranquillamente col Lucchesi, questi estratta rivoltella che teneva abusivamente, sparò tre colpi contro il Florio che riportava ferita all’addome per la quale versa in gravissime condizioni …». La Prefettura omette di riferire come, già in precedenza più volte, l’incontro con Florio era costato a Cafiero Lucchesi bastonate, frustate, calci, sputi e umiliazioni soprattutto quando era colto in compagnia della fidanzata Giulia Giacomelli. Leonetto Tintori, famoso pittore pratese, all’epoca dei fatti non ancora quattordicenne, è testimone oculare della sparatoria e in una sua memoria narra come anche in quella circostanza il giovane comunista sia stato provocato per l’ennesima volta dal capo squadrista. La posizione di Cafiero è aggravata dal contenuto della scheda personale del 5 dicembre precedente redatta per il Casellario Politico Centrale: in essa è descritto con «espressione fisionomica truce», gode di «pessima fama» ed è «acerrimo nemico del fascismo». Dopo lo scontro con Florio, colpito da mandato di cattura il 22 gennaio, egli si rende introvabile, nonostante che le ricerche della polizia si svolgano anche all’estero. Questa vicenda fa precipitare la situazione in città, dando luogo ad una settimana di terrore e alle dimissioni della giunta comunale socialista. Infatti la reazione fascista alla morte dello squadrista in ospedale provoca la devastazione e l’incendio della Camera del Lavoro e della sede della Lega Laniera, il danneggiamento della tipografia dove si stampa il settimanale socialista “Il Lavoro”, il tentativo di incendio della casa di Cafiero e la distruzione di sedi di cooperative ed associazioni operaie. Inoltre, al di là di ogni evidenza sull’identità dello sparatore, le autorità di polizia, in sintonia con la propaganda fascista, riescono a costruire un castello di false testimonianze per avallare la tesi di un complotto comunista sulla base del quale sono processati e condannati a pene pesantissime molti oppositori locali. Intanto Cafiero, rifugiatosi in un  primo tempo a Trieste, secondo la testimonianza di Egidio Bellandi, raggiunge poi l’URSS come emigrato politico.  Trova lavoro in una fabbrica tessile di Mosca, sposa poco dopo un’operaia russa, che gli dà presto un figlio. Nel 1924, con sentenza del 3 febbraio, è condannato in contumacia all’ergastolo e successivamente, il 26 gennaio 1933, inserito nella rubrica di frontiera e nel Bollettino delle ricerche. La caccia scatenata a suo carico dalla polizia infatti si è estesa anche all’estero, finché il 29 agosto 1932, da un’informazione di un fuoruscito pratese, Mario Imprudenti, rifugiatosi a Mosca, risulta che «Cafiero Lucchesi […] originario di Prato, dove avrebbe abitato in via Giudea, alto, magro, dai capelli bianchi, di circa 32-33 anni, risiede a Mosca da circa 5 anni. Dirige attualmente un reparto in una fabbrica di stoffe …». Il 21 novembre 1935 l’Ambasciata italiana a Mosca comunica che in Russia egli svolge attività politica e probabilmente aderisce alla sezione italiana del soccorso rosso, aiutando alcuni comunisti detenuti nelle carceri fasciste. Intanto la corrispondenza del fratello Primomaggio e del padre Aladino è strettamente controllata, ma non emerge niente di utile per le ricerche. Il 14 febbraio 1938 l’Ambasciata riferisce che è possibile che Cafiero Lucchesi sia stato accusato di trotzkismo ed arrestato: l’accusa che gli viene rivolta è di avere legami con circoli di emigranti sospettati di spionaggio. Al club internazionale degli emigrati, sia pure in posizione defilata, è membro della minoranza di sinistra che, composta da una mezza dozzina di elementi, fa capo a Virgilio Verdaro. Nel 1929 tutta l’opposizione all’interno della dirigenza del club degli emigrati italiani viene epurata e, 6 anni più tardi, viene chiuso lo stesso club, giudicato covo di spie dalla polizia politica. Secondo gli informatori della polizia italiana nel 1936 è inviato in Spagna: infatti la polizia avanza l’ipotesi che «il pericolosissimo comunista Lucchesi Cafiero, assassino del Martire Fascista Florio» si trovi a Madrid, da dove fa pervenire «ai compagni di Prato ingenti somme di denaro» e nel 1938 è segnalato a Barcellona come «il maggiore Lucchesi»; ma del fatto non ci sono conferme.  Già segnalato come bordighista dai dirigenti del PCd’I della sezione quadri del Komintern, è arrestato nel marzo del 1938 a Mosca con l’accusa di attività spionistica a favore dell’Italia, condannato alla pena di morte e fucilato nel poligono di Butovo, nei pressi di Mosca, nel giugno successivo. Riabilitato il 31.12.1959.

 FONTI: Archivio Centrale dello Stato (Roma), Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione affari generali e riservati, Casellario Politico Centrale, ad nomen; Archivio generale del Comune di Prato, carte Egidio Bellandi; Corneli Dante, Lo stalinismo in Italia e nell’emigrazione antifascista, Elenco delle vittime italiane dello stalinismo (A-L), quinto libro, Tivoli, Edito in proprio, 1981; R. Daghini, Da Prato a Mosca solo andata. La sorte di cafiero Lucchesi dopo l’omicidio di Federico Guglielmo Florio, in “Microstoria”, IX (2007); M. Di Sabato, Storia del fascismo e dell’antifascismo nel Pratese, Roma, Ediesse, 2013; Dundovich Elena, Gori Francesca, Guercetti Emanuela (acd), Reflections on the Gulag. With a Documentary Appendix on the Italian Victims of Repression in the USSR, Milano, Feltrinelli, Annali, XXXVII, 2001; M. Palla (a cura di), Storia dell’antifascismo pratese, Pisa, Pacini Editore, 2012; D. Saccenti, Memorie, Firenze, Istituto Gramsci, sezione toscana – CLUSF, 1981; F. Venuti, Ricordo di un combattente. Dino Alajeff Meoni, Prato, Pentalinea, 2017; www.fondazionebordiga.org; www.memorialitalia.it; www.pratoreporter.it; httpp://archive.is.

Meoni001MEONI Dino Amilcare Alajeff

(Prato, 03.05.06 – Prato, 21 marzo 1979)

 Figlio dell’anarchico Leonello, nasce a Prato il 3 maggio del 1906. Dopo la sua nascita la famiglia emigra in Francia per evitare persecuzioni politiche e già all’età di otto anni partecipa col padre a manifestazioni sindacali e pacifiste. Nel 1921 ritorna a Prato ed entra immediatamente in conflitto con i fascisti locali quando definisce il capo degli squadristi pratesi, Federico Guglielmo Florio, “un pagliaccio”; sebbene un appunto del Commissariato di PS lo presenti come dedito alla vita randagia, ma senza precedenti né pendenze penali, egli tuttavia ben presto aderisce al movimento giovanile comunista impegnandosi a diffondere materiale di propaganda del partito. Il 29 gennaio del 1929 la Pretura di Prato lo condanna a sei mesi di reclusione, alle spese di giudizio e a cinque anni di condizionale per oltraggio a un brigadiere dei RR CC e a un milite della MVSN per avere detto: “Fate pure, per ora avete ragione, ma anche per voialtri finirà, ed allora faremo i conti“.

Nel 1931, prima della scadenza della condizionale, è nuovamente arrestato come aderente all’organizzazione comunista e il 18 febbraio dell’anno successivo, dopo l’arresto del 31 gennaio, è denunciato al TS dalla Questura di Firenze. Dalla sentenza istruttoria n°65 del 29 aprile 1932 si apprende che, nonostante la sua dichiarazione di non avere mai svolto attività politica, da tempo era frequentatore della bottega del sarto Zola Settesoldi, insieme a molti giovani comunisti della città. Alla presenza dello stesso Giudice Istruttore, Meoni dà prova dei suoi sentimenti sovversivi dichiarando che non teme l’autorità di PS e tanto meno il TS e che non gli importa di riportare una condanna.

L’11 novembre del 1932 è scarcerato in occasione del decennale fascista e da quel momento riprende la sua attività politica clandestina per finire di nuovo arrestato il 27 febbraio 1934 con l’accusa di aver costituito, organizzato e diretto il partito comunista, facendo di esso parte e svolgendo propaganda a favore del medesimo: nel corso del 1933 infatti aveva intrapreso l’opera di ricostruzione dei quadri del partito dopo le retate del 1930 e del 1932, raccogliendo intorno a sé militanti come Armando Bardazzi, Egidio Tommaso Bellandi, Valentino Bianchi, Assuero Martino Vanni, che costituiranno il nucleo più resistente all’attività repressiva delle autorità di polizia. Egli stabilisce contatti col gruppo comunista di Sesto Fiorentino e di Firenze e organizza il Soccorso rosso, almeno finché non viene sospeso dal comitato per contrasti con Egidio Bellandi e Fernando Pacetti. Con sentenza n°1 del 28 gennaio 1935 il TS lo condanna a dieci anni di reclusione, al pagamento delle spese processuali,a quelle della propria custodia preventiva e alla libertà vigilata con due anni di condono condizionale.

Trasferito dal penitenziario di Regina Coeli, arriva il 5 marzo a quello di Civitavecchia (RM) per essere recluso nelle celle “separate”, dove conosce fra gli altri Mauro Scoccimarro, Giancarlo Pajetta e Umberto Terracini. Il Regio Decreto del 15 febbraio 1937 n°77, emanato per la nascita del principe di Napoli Vittorio Emanuele di Savoia, che prevedeva un’amnistia piena per le pene non superiori a tre anni e una riduzione di alcuni anni per le altre, permette la sua scarcerazione nel 1938: da quel momento è sottoposto ad una asfissiante sorveglianza. Ritornato a Prato, viene a sapere che anche il padre Leonello e il fratello Paleario sono stati arrestati: per aiutare la madre, si impiega presso il lanificio Campolmi, dove riprende a creare, con pazienza e determinazione, un embrione di organizzazione comunista, contribuendo a mantenere i collegamenti col direttivo del partito e riuscendo a sfuggire alla vasta retata dell’OVRA attuata nel Pratese nel mese di giugno del 1941.

Pochi giorni dopo la caduta di Mussolini è arrestato insieme al fratello e a numerosi comunisti per istigazione all’astensione dal lavoro, secondo quanto riferisce una prefettizia del 5 agosto, ma subito dopo il rilascio, si attiva per ricostruire il gruppo dirigente comunista pratese e un embrione di sindacato: il 24 agosto, insieme ad Assuero Vanni e ad Alberto Torricini, come rappresentante dei tessili pratesi, sigla a Firenze un accordo con la parte padronale che concede a tutti i dipendenti delle aziende tessili pratesi la somma di £ 500 a titolo di conguaglio salariale. Nel mese di settembre entra a far parte del CLN pratese e alla fine di febbraio del 1944 collabora con Bogardo Buricchi per l’organizzazione dello sciopero generale del marzo successivo nelle fabbriche cittadine. Quando i carabinieri si presentano nel lanificio dove lavora per arrestare i dipendenti che avevano scioperato e consegnarli ai nazisti per la deportazione, riesce a sfuggire alla cattura e da quel momento entra nella Resistenza armata.

Dal 1° marzo al 25 ottobre del 1944 milita nella brigata garibaldina “Gino Bozzi”, che opera sull’Appennino pistoiese-emiliano ed in Garfagnana. A lui è affidato il compito di stabilire i collegamenti della brigata con l’organizzazione comunista di Pistoia e il comando militare del CLN provinciale ed è anche il responsabile dell’approvvigionamento di generi alimentari a favore delle popolazioni delle zone liberate dai garibaldini. Infine la sua attività si estende alla ricerca di contatti con altre formazioni operanti sull’Appennino.

Nel dopoguerra è rappresentante delle maestranze tessili pratesi nella nuova Camera del Lavoro, è redattore del periodico del PCI “Il Proletario”, fa parte per un certo periodo della Commissione annonaria del Comune e sul piano politico caldeggia il patto di unità d’azione tra i partiti antifascisti, nonostante la deriva premonitrice del clima della guerra fredda della situazione politica nazionale, allo scopo di dare, come egli stesso scrisse, “un fattivo contributo all’opera grandiosa che dovrà essere compiuta per la resurrezione e il benessere della nostra città. Successivamente si allontana dal Pci imputando alla direzione del partito una serie di errori compiuti nel quadro del clima della guerra fredda e dell’offensiva padronale succeduta alla rottura dell’unità antifascista, collocandosi in un’area della sinistra critica.

 FONTI: Testimonianza raccolta da Giovanni Verni (archivio privato); Archivio di Stato di Prato, Commissariato di PS, 1923, busta 24; Archivio Istituto Storico della Resistenza in Toscana, CLN di Prato, Relazione sulla Resistenza pratese; Archivio Istituto Storico della Resistenza in Toscana, fondo Boniforti; Istituto Culturale e di Documentazione “Alessandro Lazzerini”, Prato, “Il Proletario”, LA 29 Palch. 1.01., Misc. Pratese 25; AA.VV., Aula IV. Tutti i processi del Tribunale Speciale fascista, Roma, ANPPIA, 1961; R. Daghini, Il cammino per la libertà. Podestà, Commissari, Resistenza. Liberazione e CLN nei comuni della provincia di Pistoia (1926-1946), Pistoia, Tipografia GF Press, 2013; M. Di Sabato, Dalla diffida alla pena di morte, Prato, Pentalinea, 2003; M. Di Sabato, Prato dalla guerra alla ricostruzione, Prato, Pentalinea, 2006; C. Ferri, La Valle rossa, Prato, Viridiana, 1975; A. Menicacci, Pagine della Resistenza nel Pratese, Prato, Viridiana, 1970; G. Tagliaferri, Comunista non professionale, Milano, La Pietra, 1977; F. Venuti, Ricordo di un combattente: Dino Alajeff Meoni, Prato, Pentalinea, 2017; G. Verni, La Brigata Bozzi, Milano, La Pietra, 1975; G. Verni, Pericolosi all’ordine nazionale dello Stato, Milano, La Pietra, 1980.




Ferdinando Targetti amministratore, antifascista, padre costituente

Nella serata di lunedì 22 marzo, con la collaborazione della Biblioteca Roncioniana di Prato e nell’ambito della Festa della Toscana, si è tenuto su piattaforma meet l’incontro “Ferdinando Targetti amministratore, antifascista e padre costituente“, dedicato al primo sindaco socialista di Prato (1912-1914). In quell’occasione Andrea Giaconi (vicepresidente del Coordinamento toscano dei Comitati per la promozione dei valori risorgimentali) ha intervistato Alessandro Affortunati (membro dell’omonimo Comitato pratese ed autore di vari contributi su Targetti, di cui ha redatto anche la voce relativa del Dizionario biografico degli italiani). L’intervista ha inteso ripercorrere i passi salienti della vita e dell’opera del politico socialista. Ne proponiamo il testo ai lettori di ToscanaNovecento.

Targetti proviene da una famiglia dell’alto ceto industriale pratese. Però aderì giovanissimo al Partito socialista. È possibile spiegare questa scelta ed in che misura essa può essere considerata anche più coerente di tante altre?

Sì, suo padre, Lodovico, era un grosso industriale laniero, uno dei fratelli, Raimondo, sarà sindaco liberale di Prato all’epoca del regicidio e, fra il 1922 ed il 1923, presidente della Confindustria. Ferdinando, invece, mostrò subito di non condividere i valori tipici dell’alta borghesia e si iscrisse al Partito socialista nel 1899, a diciotto anni, subito dopo i fatti di Milano. È probabile che le cannonate di Bava Beccaris non fossero estranee alla sua maturazione politica, ma le ragioni precise della sua scelta non si conoscono.

Forse, come talora accade, giocarono un ruolo anche fattori psicologici (il sottoscritto, ad esempio, si è orientato precocemente a sinistra anche perché, da bambino, il nonno paterno gli aveva raccontato della “domenica di sangue” di San Pietroburgo, nel 1905, delle povera gente presa a fucilate dalla truppa).

Certo è che Targetti fu davvero coerente con la  decisione presa: ne è prova il fatto che cedette la sua quota in ditta al fratello Gino, vivendo solo con i proventi della  professione di avvocato.

Targetti fu il primo sindaco socialista di Prato nel 1912, in un clima che, a livello di storia amministrativa era fatto (ce lo insegna Guido Melis) di revisione dei conti degli enti locali, di storno dei contributi per le spese degli organi centrali, di accantonamento delle opere di beneficenza e di delega alle associazioni di volontariato. In tal contesto, quali furono i suoi principali provvedimenti?

Targetti seguì un principio molto chiaro: ciò che gli premeva – ebbe a dire – era difendere gli interessi delle classi più deboli, nella convinzione che ciò equivalesse a fare del socialismo. Alla luce di questo principio-guida, la sua giunta fornì un ottimo esempio di amministrazione rossa.

Fra i provvedimenti varati, sono da ricordare almeno l’apertura di uno spaccio comunale, dove si vendeva il pane a prezzo calmierato, l’istituzione di un ufficio che, tra l’altro, esercitava anche funzioni di sorveglianza sui prezzi dei generi di prima necessità e l’approvazione di un progetto per la costruzione di blocchi di case popolari.

L’amministrazione Targetti termina alle soglie della prima guerra mondiale. Nel 1919 Targetti è eletto alla Camera dei deputati e nel 1920 diviene assessore nel Comune di cui era stato sindaco. Sono però anni in cui la violenza politica di matrice fascista sconvolge la quotidianità della vita civile (basti ricordare che nella sola Toscana sono concentrati un quinto di tutti gli atti di brutalità squadrista prima della Marcia: l’omicidio Lavagnini, i fatti di Roccastrada, la spedizione su Prato e Vaiano) Come reagì Targetti a questi tristi eventi?

Targetti fu risolutamente antifascista e non si fece intimorire dalle minacce: basti pensare che nel 1922 rifiutò di dare le dimissioni dalla carica di assessore nella giunta socialista presieduta da Giocondo Papi.

I fascisti lo odiavano e nel 1925 scampò alla “notte di San Bartolomeo” fiorentina (3-4 ottobre 1925) solo perché fuori città: non avendolo trovato in casa, gli squadristi spararono ai suoi vestiti appesi nell’armadio, in segno di macabra rappresaglia.

Trasferitosi a Milano si impegnò nell’attività clandestina entrando a far parte del Gruppo Erba, che era in contatto col Centro socialista interno. Difese inoltre numerosi antifascisti e, nel processo contro gli assassini di Matteotti, rappresentò la famiglia come avvocato di parte civile.

Dopo l’8 settembre, dovette riparare in Svizzera, dove raccolse fondi a sostegno dell’opposizione in Italia, tenne conferenze e collaborò a varie testate antifasciste (la Libera stampa, del Partito socialista ticinese, e la Voce socialista, giornale clandestino dei socialisti italiani nella Confederazione).

Targetti appartenne ad un partito, quello socialista, che qualche storico ha definito “inquieto”, soggetto ad una dialettica aspra e profonda sino alle vicendevoli fratture. Lo stesso Targetti attraversò durante la sua carriera politica le esperienze del PSU e dello PSIUP. Esperienze che visse come conseguenza di momenti drammatici per il socialismo. La prima si colloca nel periodo della salita al potere del fascismo. Quale fu la sua posizione all’interno del PSU?

Targetti si schierò subito a fianco di Matteotti, sostenendo la necessità della più recisa opposizione al fascismo, mentre un gruppo che faceva capo ai leader confederali riteneva possibile una “costituzionalizzazione” del fascismo stesso ed era quindi disposto ad una qualche forma di collaborazione col regime. Targetti, invece, non si fece mai nessuna illusione al riguardo.

Prima di passare al ruolo svolto nello PSIUP, è bene ricordare che Targetti fu anche un membro importante dell’Assemblea costituente e, per lungo tempo, vicepresidente della Camera dei deputati. Quali furono i suoi interventi più importanti alla Costituente?

In estrema sintesi, si può dire che Targetti sostenne la necessità di una costituzione “breve” (che fissasse cioè solo alcuni principi generali da attuarsi poi con leggi ordinarie), fu a favore delle regioni (memore dei guasti prodotti dal centralismo in Italia) e di una larga indipendenza del potere giudiziario dagli altri poteri dello stato.

Voglio poi ricordare che nel 1953 si dimise clamorosamente dalla carica di vicepresidente della Camera in segno di protesta contro la “legge truffa”, che violava il principio costituzionale dell’uguaglianza del voto, attribuendo di fatto un “peso” maggiore ai voti degli elettori delle liste apparentate.

Infine, perché decise di entrare nello PSIUP? E qual è la sua eredità come socialista?

Negli anni della seconda guerra mondiale Targetti aveva maturato il convincimento che la borghesia era pronta a tutto pur di non rinunciare ai suoi privilegi e che l’unità proletaria, cioè la più stretta unità d’azione fra socialisti e comunisti, fosse la condizione indispensabile per la difesa della democrazia, degli interessi dei lavoratori e per la realizzazione di riforme di struttura che facessero avanzare il Paese verso il socialismo.

L’alleanza del PSI con la DC, che comportava ovviamente la divisione a sinistra, la rottura con i comunisti, gli parve quindi inaccettabile, gli sembrò un passo che avrebbe finito con lo snaturare il PSI, riducendolo al ruolo di caudatario della DC al pari degli altri partiti di centro. Le ragioni della sua opposizione all’ingresso dei socialisti in un governo di centrosinistra organico e, quindi, della sua adesione allo PSIUP nel 1964 furono queste.

Quanto all’ultima parte della tua domanda, direi che la risposta ce la fornisce la biografia di Targetti stesso, cioè la biografia di uomo che ha lottato contro la dittatura, difendendo sempre la democrazia e gli interessi dei lavoratori nel segno di un socialismo non edulcorato.




Gaetano Bresci

La sera del 29 luglio 1900, a Monza, il re d’Italia Umberto I si allontanava, a bordo di una carrozza scoperta, dalla palestra della società ginnica “Forti e liberi”, dove aveva premiato alcuni atleti. Ad un tratto, gli si avvicinò un giovane il quale, armato di una rivoltella, lo colpì a morte. Il giovane attentatore fu subito arrestato e identificato. Il suo nome era Gaetano Bresci, 31 anni, anarchico di Prato, della frazione di Coiano, di professione tessitore. Tornato da Paterson, negli Stati Uniti, dove era emigrato nel 1897, il Bresci aveva compiuto il gesto a seguito dei fatti del maggio 1898, quando il generale Bava Beccaris aprì il fuoco dei cannoni sulla folla che protestava per il rincaro del prezzo del pane, provocando 80 morti e 450 feriti e il monarca aveva premiato l’autore con la Gran Croce dell’ordine di Savoia, cercando di instaurare lo stato militare attraverso il governo del generale Luigi Pelloux. Era una cosa che l’anarchico pratese aveva ribadito più volte durante gli interrogatori: egli intese il gesto estremo per rendere giustizia alle vittime della strage di Milano e per opporsi a possibili regimi autoritari. Se il gesto in sé poteva dirsi esecrabile, rimaneva indubbio l’intento in funzione democratica che il suo autore aveva in mente. In quest’ottica, il Comune di Prato intese intitolare al Bresci una strada il 1 luglio 1976.

Il punto d’interesse diviene allora l’inquadramento della figura del tessitore anarchico, di quale fosse il suo contesto di formazione politico-sociale, delle inevitabili ricadute che su di esso vi furono dopo la morte del monarca, sull’inversa influenza che l’eco e il mito del Bresci hanno profuso negli ambienti libertari e cittadini (del suo paese natale) ed attraverso epoche e scuole politiche tra loro diverse. Gaetano Carlo Salvatore Bresci era nato a Prato il 10 novembre 1869 da Gaspare e da Maddalena Godi. Tessitore, come tanti cittadini della città del telaio, Bresci aveva passato una gioventù di lavoro tra spole ed orditi, al Fabbricone, la più grande industria tessile pratese e, successivamente, in imprese più piccole, lungo tutto un peregrinare tra Firenze, Compiobbi e Ponte all’Agna. Era in questo misto di laboriosità operaia e continui spostamenti che Bresci aveva visto la povertà delle campagne e maturò una l’insofferenza per l’ingiustizia contro gl’indifesi.

Ma l’esperienza personale si intrecciava ad una tradizione democratica e libertaria che a Prato aveva un senso comune di emancipazione popolare sin dai primi anni postunitari. Già da allora, i locali patrioti risorgimentali, guidati da Piero Cironi e, ben più a lungo, da Giuseppe Mazzoni erano i stati i padri fondatori di Società Popolari i cui statuti rovesciavano il rapporto mazziniano tra unità e libertà, facendo della prima un epifenomeno della seconda. La democrazia ebbe un suo primo punto di tangenza con l’anarchismo quando lo stesso Mazzoni conobbe personalmente Bakunin e ne divenne, per breve tempo, uno dei suoi principali referenti politici in Toscana. La stagione di contatto tra anarchia e democrazia laica fu di breve durata, si consumò tra la seconda metà degli anni Sessanta  e il 1871 e non corrispose ad un’evoluzione in senso libertario della sociabilità mazzoniana. Nondimeno l’avvicinamento tra le due sfere d’interesse dovette gettare i suoi semi. Meno di due anni dopo una prima sezione dell’Internazionale anarchica sorse anche a Prato. Sciolta dopo il tentativo insurrezionale organizzato dagli anarchici nel 1874, che dall’Emilia avrebbe dovuto irradiarsi a tutta la Penisola, si ricostituì alla fine del 1876. Insomma, il primo movimento anarchico pratese andò incontro ad una ridda di costituzioni e successivi scioglimenti di sezione che non ebbe soluzione di continuità sino almeno al 1892, quando, tramontata anche la quadriennale esperienza (1885-1889) del Nucleo Socialista Anarchico Amilcare Cipriani, fu il controverso personaggio di Giovanni Domanico a dare uno spessore più consistente al nucleo libertario cittadino. Era questo un gruppo che  rispecchiava la vocazione industriale di Prato non tralasciando gli antichi mestieri della città. In una lista stilata dalle autorità prefettizie di quegli anni, figuravano quaranta individui ritenuti anarchici attivi a Prato. Di essi, quasi la metà era impiegata nel settore tessile. La compenetrazione tra l’industria pratese e gli ambienti anarchici era quantomeno palpabile.

Fu in questo periodo e a tale ambiente che Bresci andò formando la propria personalità politica. Non a caso, il 2 ottobre 1892 si verificò un episodio che ebbe come protagonista il ventitreenne Gaetano Bresci, denunciato insieme ad altre quattro persone per aver preso le difese del garzone di un macellaio e condannato dal pretore a quindici giorni di reclusione. L’episodio è interessante perché dimostra che all’epoca – e quindi ben prima di emigrare negli Stati Uniti e di frequentare l’ambiente di Paterson – Bresci aveva già fatto proprie le idee anarchiche e conosceva esponenti del movimento libertario assai noti a livello cittadino: degli altri quattro imputati, infatti, tre (Artamante Beccani, Antonio Fiorelli ed Augusto Nardini) erano anarchici. Fu dunque il Bresci ad arricchire con le proprie idee il movimento negli Stati Uniti e non (o quanto meno non solo) l’anarchismo di Paterson a formare le idee di Bresci.

Stabilita la formazione di Bresci, è necessario comprendere le conseguenze avute dal suo gesto. Nel periodo che seguì il regicidio gli anarchici pratesi furono ovviamente esposti ad un intensificarsi della vigilanza e della repressione. Bresci morì (presumibilmente ucciso) nel carcere di Santo Stefano sulle isole Pontine, il 22 maggio 1901. Subito dopo l’attentato, a Prato furono operati diversi arresti, ma non per questo i libertari interruppero la loro attività, impegnandosi a fondo, negli anni successivi, nella campagna contro il domicilio coatto, nell’agitazione pro Acciarito e nei moti pro Ferrer. Più concretamente, come dimostrato in recenti pubblicazioni, il gesto di Bresci fu l’atto più eclatante dell’anarchismo pratese che, seppur presente fino almeno alla Liberazione, andò incontro ad una lenta ma costante discesa tanto da far affermare ad Anchise Ciulli, uno dei suoi più importanti esponenti, nel 1946 : « oggi questa città segue pochissimo le orme del suo grande figlio Gaetano». Molto più duraturo fu il mito di Bresci e la fascinazione avuta da più sponde.  Ed ancora nel secondo dopoguerra poteva essere letto non solo di celebrazioni anarchiche che accostavano Bresci a Malatesta e Pietro Gori, alla Comune di Parigi e alla Guerra di Spagna, ma anche di alcuni timori prefettizi per manifestazioni in ricordo all’attentatore pratese. Di forte impatto e grande eco fu l’iniziativa che nel 1986 vide erigere a Carrara un monumento dedicato a Gaetano Bresci. Iniziative in ricordo del tessitore anarchico, per quanto in maniera sempre più episodica e onomastica, si sono svolte anche a Prato. A tal proposito è per lo meno da segnalare il ritrovo che portò nuclei anarchici a ricordare Bresci nella via a lui intitolata e a segnalare secondo quanto riportato da un volantino di allora che «Bresci rivive […] in ogni azione di chi si oppone all’arroganza e alla violenza del potere». Ed è in quest’ottica che la figura di Gaetano Bresci va ancora oggi intesa: uno sguardo che dia conto tanto allo studioso esperto quanto al curioso appassionato sia dei numerosi spunti e temi dei quali il mito dell’“anarchico venuto dall’America” è divenuto parte integrante sia della tensione sociale alla quale la sua figura sia stata soggetta con il passare il tempo.

 




Alberto Torricini

Alberto Amilcare Torricini nacque a Prato il 9 marzo 1906. Di professione impiegato, poi rappresentante di commercio, aderì giovanissimo al Partito Comunista (quasi tutte le notizie su di lui, contenute in questo articolo, sono desunte dal fascicolo del Casellario politico centrale che lo riguarda).

Nella primavera del 1932 Torricini, che non aveva all’epoca alcun precedente, fu colpito da mandato di cattura in quanto membro di un’organizzazione comunista clandestina attiva a Prato. Rifugiatosi a Lione, il 30 giugno 1932 fu denunciato in stato di latitanza al Tribunale speciale per la difesa dello stato. Venne inoltre iscritto nel Bollettino delle ricerche e nella Rubrica di frontiera per il provvedimento di arresto.

In seguito, per incarico del PCI e sotto falso nome, si stabilì a Milano, dove continuò l’attività antifascista.

Il 22 maggio 1936 fu arrestato e denunciato nuovamente al Tribunale speciale dall’ispettore generale di PS Francesco Nudi. Torricini, si legge nella denuncia, “Sottoposto a ripetuti interrogatori […] ha ammesso […] la sua qualifica di emissario comunista, precisando di essere stato incaricato nel marzo 1936 dai dirigenti del partito comunista all’estero di venire nel Regno […] per […] diffondere la stampa. Ha dichiarato però di non voler fare alcuna rivelazione”. Dalle dichiarazioni di altri arrestati, risultò però che Torricini li aveva incaricati di spedire giornali e materiale di propaganda.

Sulla base di queste accuse, Torricini venne condannato, con sentenza emessa l’11 dicembre 1936 a ben 21 anni di reclusione (che iniziò a scontare a Fossano, Civitavecchia e Sulmona). Autodidatta avido di letture, egli chiese, durante gli anni trascorsi in carcere, di essere autorizzato ad acquistare numerosi libri: è interessante osservare che fra questi figurava anche La democrazia in America, di Alexis de Tocqueville, che il Ministero della cultura popolare (Direzione generale per il servizio della stampa italiana) giudicò, naturalmente, inadatto ad un condannato politico. Liberato nell’agosto 1943 per un “atto di Sovrana clemenza”. Torricini fece ritorno a Prato. Attivo nelle file della Resistenza, fu l’artefice della riorganizzazione dei sindacati e, dopo la liberazione, venne scelto dal CLN come segretario della ricostituita Camera del lavoro.

Negli anni successivi – stabilitosi in una casa di via Machiavelli, dove è stata poi collocata una lapide che lo ricorda – egli continuò l’attività politica, coprendo numerosi incarichi: consigliere comunale per il PCI fino al 1970, fu anche dirigente dell’ANPPIA e consigliere della Croce d’oro.

Morì a Prato il 10 dicembre 1981.




Torquato Cecchi: dall’anarchia all’amicizia con Soffici

Torquato Cecchi nacque a Poggio a Caiano il 5 gennaio 1872 da Camillo e Albina Rocchi, muratore. Dopo aver militato nelle file del PSI, aderì al movimento libertario e  prese parte ai moti del maggio 1898. Dovette per questo emigrare all’estero, prima a Vienna e poi in Francia, paese dal quale venne espulso nel 1900. Rientrato in Italia, nel 1901 era segnalato come un propagandista anarchico molto attivo, che per diffondere le sue idee si recava di frequente in varie città.

La sera del 28 agosto 1901, in occasione di un contraddittorio svoltosi a Poggio a Caiano fra l’avvocato Campodonico, monarchico, ed il socialista Alberto Furno, Cecchi – si legge nel fascicolo del Casellario politico centrale a lui intestato – mobilitò “molti socialisti ed anarchici di Sesto, Peretola […] Brozzi e frazioni limitrofe, facendo occupare ad essi quasi tutto il teatro, ed eccitandoli […] a commettere disordini che furono scongiurati mediante la di lui espulsione dalla sala”. Nel 1906 – insieme con Eusebio Nepi, futuro sindaco socialista di Carmignano – fu tra i fondatori dell’Unione comunale di consumo di Poggio a Caiano. Con lo pseudonimo di “Trincetto”, collaborò anche all’Avanti! ed alla Riscossa, il settimanale  dei socialisti del collegio di Campi Bisenzio. Nel 1911 (anno in cui si trasferì nel comune di Signa) risulta che Cecchi non si occupava più di politica. La grande guerra segnò poi una svolta nei suoi convincimenti politici, svolta alla quale non fu verosimilmente estranea l’influenza di Ardengo Soffici, di cui era diventato amico.

Cecchi cominciò così a guardare con favore al fascismo e nel 1920 – grazie a Soffici, che gli fece conoscere l’editore Vallecchi e gli fornì anche la xilografia per la copertina – poté pubblicare un libro di versi intitolato A bordo (il volume è stato ripubblicato nel 2003 dal Comune di Poggio a Caiano, con un’interessante Introduzione di Silvano Gelli, da cui abbiamo tratto alcune delle notizie riportate in questo articolo). Cecchi tornò così alla poesia, una delle passioni della sua giovinezza, che lo aveva visto cimentarsi con altri poeti estemporanei della zona in accese tenzoni in ottava rima. “Quanti leggeranno A bordo – scrive Gelli nella sua introduzione – non troveranno forse un grande poeta, ma vi scopriranno l’attualità di certi pensieri […] e la freschezza di alcune semplici rime, ancora piacevoli da gustare a distanza di ottanta anni”.

Ormai scivolato su posizioni conformistiche, fra il 1922 ed il 1923, Cecchi scrisse qualche articolo su giornali fiancheggiatori del movimento mussoliniano (fra cui L’avvenire di Prato, settimanale dei combattenti locali). Nel 1928 la polizia segnalò che Cecchi si dimostrava favorevole al regime, ma il prefetto di Firenze non ritenne opportuno radiarlo dallo schedario dei sovversivi a causa dei suoi precedenti politici. Ancora vigilato nel 1940, morì dieci anni dopo munito – come si suol dire – dei conforti religiosi.




Un pratese “Giusto tra le Nazioni”

La vicenda di Gino Signori è abbastanza eccentrica rispetto ai miei interessi di storico, dato che io mi occupo prevalentemente di storia del movimento operaio e contadino, del sovversivismo e dell’anarchismo. Tuttavia, quando Manuele Marigolli e Fiorenzo Fiondi mi proposero di ricostruirla per conto dell’Associazione culturale per il lavoro e la democrazia, accettai subito con molto interesse. Riproporre oggi la figura di Signori, noto ai più soltanto come pittore, in un momento in cui l’intolleranza e l’odio per i diversi  sembrano prevalere assume infatti un particolare significato perché ci fa capire che i valori della solidarietà sono valori perenni, valori che non vanno mai dimenticati.

L’esistenza di Gino Signori è stata, nel contempo, un’esistenza comune ed eccezionale.

Nato a Barga nel 1912 in una famiglia di modeste condizioni che si trasferì negli anno Venti a Schignano e successivamente a Figline di Prato, Signori non ebbe modo di compiere studi regolari e cominciò a lavorare da ragazzo, prima, per un breve periodo, alla Direttissima e poi in fabbrica.

Richiamato alle armi nel 1941, venne catturato dai tedeschi all’Isola d’Elba pochi giorni dopo l’8 settembre ed immediatamente avviato in Germania. Dal punto di vista giuridico, la condizione di Gino era quella di “internato militare”, una categoria inventata dai nazisti per sottrarre i prigionieri di guerra italiani alle tutele previste dalla Convenzione di Ginevra ed all’assistenza della Croce rossa (nel diritto internazionale gli internati militari sono in realtà i soldati di uno stato belligerante sconfinati nel territorio di uno neutrale che ha l’obbligo di trattenerli per evitare che tornino a combattere).

Rispetto ai suoi compagni, Gino aveva due vantaggi: era in possesso della qualifica di infermiere specializzato e parlava discretamente il tedesco. Nell’estate del 1944 egli si trovava ad Amburgo dove, come infermiere, si prendeva cura delle vittime dei micidiali bombardamenti cui era sottoposta la città e godeva quindi di una relativa libertà di movimento.

Una sera, mentre si recava da Finkenwerder all’ospedale di Amburgo, Gino si imbatté in una colonna di ragazze ebree. Quelle che restavano indietro venivano sistematicamente eliminate. Signori vide che una ragazza, che non ce la faceva a tenere il passo della colonna, stava per essere uccisa: ubbidendo allora ad un impulso più forte di lui, e rischiando la propria vita, affrontò il soldato armato di mitra che stava per sparare alla ragazzina e lo convinse a risparmiarla.

Quella ragazza era un’ebrea praghese che rispondeva al nome di Hana Tomesowa. Gino la nascose nel campo dove era internato fino al momento della liberazione e, contemporaneamente, aiutò anche molte altre giovani israelite, fornendo loro cibo ed assistenza.

Tornato a Prato, Signori non si fece pubblicità, non parlò molto di questa esperienza, che pure aveva segnato la sua vita e sarebbe stata alla base della sua arte. Nel 1964, vent’anni dopo i fatti, venne però contattato da un camionista bresciano, un certo Giuseppe Bosio, che aveva avuto modo di conoscere Hana nell’albergo dove essa lavorava. Hana gli aveva chiesto di cercare il suo salvatore, fornendogli i pochi dati di cui disponeva, ed alla fine Bosio era riuscito nell’intento. Nel giugno del 1964 Hana venne a trovare Gino nella sua casa di Figline: a testimonianza di quell’incontro resta anche la foto che pubblichiamo, in cui si vede chiaramente Signori mentre osserva il numero di matricola tatuato sul braccio sinistro di Hana.

Nel 1984, al termine di una procedura lunga e complessa, Yad Vashem – l’istituto commemorativo dell’Olocausto, che ha sede a Gerusalemme e si occupa di rintracciare e ricordare i non ebrei che, disinteressatamente ed a rischio della vita, aiutarono gli ebrei negli anni delle persecuzioni naziste – attribuì a Gino la qualifica di Giusto fra le Nazioni. La medaglia dei Giusti gli venne consegnata l’anno successivo, nel corso di una cerimonia svoltasi nel Palazzo comunale di Prato.

Questa, in estrema sintesi, la vicenda di Gino Signori. A questo punto bisogna chiedersi perché egli agì come agì, quali furono le motivazioni del suo coraggioso comportamento. Ebbene, se nei documenti e nella memoria di chi lo ha conosciuto cerchiamo una risposta a questa domanda, vediamo che Gino – al pari degli altri Giusti fra le Nazioni, a cominciare da Giorgio Perlasca, quello forse più famoso – trovò del tutto naturale mettere a repentaglio la propria vita per salvare quella di una innocente.

Signori chiude così i suoi ricordi:

Io […] ho l’anima in pace in quanto non ho nulla da rimproverarmi perché ho rischiato più volte la […] vita per fare del bene agli altri […] Se dovessi ripercorrere quel Calvario di sofferenza, non mi discosterei di un sol passo dalla condotta da me tenuta.

“Fare del bene agli altri” è dunque una cosa da considerare del tutto naturale e – si potrebbe dire – quasi scontata. La malvagità e la violenza sono innaturali. Questa, al di là di ogni retorica, è la grande lezione che Gino ha saputo darci.




Un quadro comunista: Natale Consorti

Quando mi è stato proposto di realizzare un libro-intervista con Natale Consorti (C come comunista. L’impegno di una vita, a cura di Alessandro Affortunati e di Luciana Brandi, Prato, Pentalinea, 2017) ho accettato subito molto volentieri perché Consorti, “Natalino” per i suoi concittadini vaianesi, è, a mio parere, una figura di grande interesse dal punto di vista dello storico in quanto rappresenta un tipo di quadro politico e sindacale molto diffuso nel secondo dopoguerra: di origine popolare, autodidatta, formatosi politicamente nel lavoro di partito e nella lotta quotidiana per affermare i diritti degli operai nella fabbrica, tale tipo di quadro ha saputo poi mettere a frutto, come amministratore, l’esperienza maturata e dare in tal modo un importante contributo allo sviluppo del Paese. È ad uomini come lui, semplici operai o contadini, che si deve la ricostruzione e la rinascita dell’Italia dopo la tragica e fallimentare esperienza del fascismo e della guerra.
Il testo dell’intervista è stato raccolto fra il dicembre del 2016 ed il gennaio del 2017: i quattro capitoli iniziali rispecchiano, a grandi linee, le varie fasi della vita dell’intervistato, mentre il quinto, abbandonando la dimensione locale, affronta il tema della crisi della sinistra.
Seguendo il filo dei suoi ricordi, Natale ci parla dunque della sua infanzia, dei momenti di serenità vissuti a casa degli zii nell’Osmannoro (e l’Osmannoro – rammenta – era allora “un paradiso”), ma anche della durezza della vita di fabbrica, quando, appena quattordicenne, cominciò, con altri ragazzi, a scegliere le bobine dal Forti, passando ore ed ore coi ginocchi in terra, su un pavimento di cemento, pieno di olio e di polvere, con le unghie che si consumavano, il callo che si formava sulle ginocchia e gli stinchi che si riempivano di bolle.
Sono l’esperienza diretta dello sfruttamento e la frequentazione, durante il ventennio, dell’ambiente laico e progressista della Pubblica assistenza vaianese che fanno maturare in lui una precoce coscienza di classe. Nel 1944, subito dopo il passaggio del fronte, Natale si iscrive al PCI ed alla CGIL. L’impegno nel partito e nel sindacato rappresenta per lui, come per tanti altri compagni, un momento di crescita non solo sul piano politico ma anche su quello personale, che lo porta a vincere la timidezza, ad acquisire piena coscienza dei propri diritti e ad affrontare senza alcun timore il padrone (come segretario della commissione interna della Forti, Natale ebbe un ruolo di primo piano nell’aspra vertenza che, nel periodo della smobilitazione delle fabbriche, si sviluppò negli stabilimenti della Briglia e dell’Isola).
In quel torno di tempo Natale vive anche, a fianco di Carlo Ferri, l’esperienza della costituzione del Comune di Vaiano. Con la nascita del Comune comincia la sua lunga esperienza di amministratore, prima come consigliere comunale e poi come sindaco dal 1975 al 1978, quando dovette dimettersi per ragioni di salute. Fra le realizzazioni dell’amministrazione da lui presieduta vanno ricordate almeno l’adesione di Vaiano al Consiag (la metanizzazione portò ad un notevole risparmio sul costo del riscaldamento sia per uso industriale che per uso domestico) e la ristrutturazione della scuola materna di Sofignano. Natale fu poi presidente della Comunità montana della Val di Bisenzio e consigliere provinciale a Firenze ed a Prato.
Dall’intervista emerge chiaramente anche l’importanza dell’impegno di Natale nel campo dell’associazionismo, un impegno concretatosi nell’inaugurazione della nuova Casa del popolo (20 settembre 1970) – che restituì finalmente agli operai un punto di riferimento, un locale dove ritrovarsi, dove poter discutere e godere di qualche momento di svago – e nella rinascita della Pubblica assistenza (1° marzo 2006), dopo l’acquisto della palazzina di via Braga da parte della Casa del popolo stessa e dalla Pubblica Assistenza “L’Avvenire” di Prato (Natale ha coperto la carica di presidente della Sezione vaianese della PA fino al 2010).
L’ultima parte dell’intervista è dedicata alla storia del PCI nel secondo dopoguerra ed alla crisi della sinistra in Italia. Una crisi che Natale riconduce all’abbandono di quei valori che da sempre hanno costituito il patrimonio ideale della sinistra politica, ad una progressiva perdita di identità che ha portato ad un continuo calo di consenso e di voti. Sulla base di queste considerazioni, chiaramente espresse nell’intervista ed in uno dei documenti riprodotti nel libro, egli si è quindi opposto alla liquidazione del PCI ed alla deriva che ha portato alla nascita del PDS-DS-PD. In sostanza – senza nessuna nostalgia per l’esperienza del cosiddetto “socialismo reale”, sul quale formula un giudizio di netta condanna –, egli mantiene vive le ragioni dell’essere comunista, non rinuncia al sale di una visione della storia imperniata sul concetto di lotta di classe.
Oggi Natale è un comunista senza tessera, che non ha perso né l’entusiasmo di una volta né la fiducia nella possibilità di realizzare una società diversa e migliore: “il mondo è sempre andato avanti – ci dice – ed avanti continuerà ad andare nella misura in cui noi saremo in grado di farlo progredire. Il compito della sinistra, oggi come ieri, è questo”.
Ed a Natale siamo riconoscenti anche per queste parole di speranza.