Beatrice Giglioli, una donna sulla linea del fronte

1. I Giglioli di Pisa
Beatrice Elena Giglioli nasce a Portici (NA) il 5 febbraio 1892 da Italo[1] e Costanza Stocker[2]. I suoi due nomi richiamano due persone della storia della famiglia, uno per quella materna e uno per quella paterna. Grazie al Book IV. 1 dei Family Memorials of the Giglioli-Casella, scritte ad uso della famiglia da Maria Elena Casella (1888-1959), si apprende che Beatrice aveva una zia materna con lo stesso nome, Beatrice Alicia Ramsay Stocker[3], che nell’anno della nascita della nipote si imbarca per gli Stati Uniti per unirsi alle tribù dei Sioux come missionaria presbiteriana. Il secondo nome ricorre con continuità nel succedersi delle generazioni e si riferisce alla nonna paterna, Ellen Hillyer, per la devozione nei suoi confronti da parte di Italo, padre di Beatrice Elena[4].
La famiglia discende da Giuseppe Giglioli (1804-1865), figlio di Domenico (1775-1848) e Maria Luigia Palmerini (?-1862), patriota, membro della Giovine Italia e amico personale di G. Mazzini. Esule in Inghilterra, G. Giglioli aveva sposato Ellen Hillyer (1819-1894) e dalla loro unione erano nati cinque figli: Enrico (1845-1909), Augusto (1846-1901), Alfredo (1847-1897), Italo (1852-1920) e Elena (1858-1941).

Beatrice Giglioli nei primi anni venti. [Archivio Biblioteca Serantini]

Nel 1903 in seguito al trasferimento del padre Italo – già direttore alla Scuola superiore di agricoltura di Portici –, tutta la famiglia si stabilisce a Roma e dove Beatrice inizia gli studi superiori nel liceo ginnasio T. Tasso. Il suo percorso liceale si completerà al liceo classico G. Galilei di Pisa, perché nel 1904 il padre verrà nominato docente di chimica agraria alla locale Scuola superiore di agraria. Iscrittasi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa nell’ottobre del 1912, nel novembre 1913 sostiene l’esame al concorso per un posto di alunna aggregata senza sussidio alla Scuola Normale Superiore, classe di lettere e filosofia. La prova scritta di italiano a quell’esame si intitola L’opera di Dante considerata come sussidio alla conoscenza diretta e piena della Commedia. Vince il concorso e successivamente, per il merito dimostrato negli esami sostenuti, viene ammessa come alunna aggregata con sussidio.
Agli inizi della guerra, avendone conseguito il diploma il 6 aprile 1915, presta la propria opera di aiuto-infermiera della Croce Rossa Italiana. Il suo nome è anche nel 1° elenco dei soci del Club Alpino Italiano chiamati alle armi e il suo servizio sui treni ospedali inizia il 10 agosto 1915. Le infermiere volontarie e le aiuto-infermiere della CRI di Pisa svolgono servizio anche presso l’Ospedale militare di riserva, nel Palazzo Arcivescovile, nell’Ospedale succursale Pisa e negli istituti di rieducazione per soldati mutilati. In questo periodo Beatrice intrattiene corrispondenza con ufficiali e sottufficiali al fronte, quasi tutti studenti dell’Università di Pisa. Tra questi c’è Piero Pieri, in seguito tra i maggiori storici italiani della Prima guerra mondiale.
Nel giugno 1917 si laurea in lettere a pieni voti con una tesi su Il problema della decadenza dell’Impero romano negli storici moderni. Il relatore è Vincenzo Costanzi (1863-1929), ordinario di storia antica. Per nomina ministeriale, Beatrice viene incaricata dell’insegnamento di storia, geografia e diritti e doveri per l’anno scolastico 1917-18 nella Scuola tecnica Nicola Pisano di Pisa. Nel maggio 1918, presso l’Università di Pisa, supera l’esame di abilitazione all’insegnamento della lingua inglese per gli istituti d’istruzione media di 2° grado.
Nell’agosto 1918 si trasferisce a Londra, dove, il 26 dello stesso mese, ottiene per esame il posto di traduttrice al War Office (Ministero della guerra), con il compito di tradurre in inglese documenti e opuscoli italiani e francesi concernenti la guerra europea. Poche settimane dopo, il 21 settembre 1918, si dimette dall’incarico in seguito alla nomina ad assistente presso la Facoltà di Italiano dell’Università di Cambridge. Durante la sua permanenza in Inghilterra segue corsi di perfezionamento di filologia e letteratura inglese, tiene conferenze a Londra e a Edimburgo sulla storia e la letteratura italiana. Nel gennaio 1919 e per i due trimestri successivi assume l’incarico di insegnare lingua e letteratura italiana presso la stessa Università di Cambridge, impegno che prosegue fino al luglio successivo, quando è costretta a rientrare in Italia per l’aggravamento delle condizioni di salute del padre.
Nel frattempo, le profonde trasformazioni geo-politiche legate al riassetto seguito alla Prima guerra mondiale, generano tensioni politiche in tutta Europa. Il legame della famiglia Giglioli con la tradizione risorgimentale mazziniana e con il tema dell’autodeterminazione politica delle nazionalità, si manifesta nel sostegno alla spedizione fiumana di D’Annunzio, alle rivendicazioni dell’italianità della Dalmazia e all’indipendenza ceco-slovacca.
Nell’autunno del 1920 Beatrice diviene insegnante supplente di lingua inglese all’Istituto tecnico Antonio Pacinotti di Pisa, dove rimane negli anni scolastici 1920-21 e 1921-22. Vince il concorso generale a cattedre di lingua inglese per gli istituti tecnici e si trasferisce per un anno a Sassari, dove insegna all’Istituto tecnico Alberto Lamarmora. Dall’a.s. 1923-24 e 1924-25 insegna presso l’Istituto tecnico Germano Sommeiller di Torino, nel corso superiore della Sezione commercio e ragioneria. A Torino, nel 1925, per l’editore Paravia traduce dall’inglese la guida pratica di J.E. Russell, Lezioni intorno al terreno. A partire dall’a.s. 1925-26 torna a Pisa, al Liceo ginnasiale G. Galilei dove lei stessa aveva studiato e dove diventerà titolare di lingua e letteratura inglese dall’a.s. 1935-36. Dall’a.a. 1925-1926 è incaricata del lettorato di lingua inglese della Scuola Normale Superiore, incarico riconfermato fino al 1959. Presso la SNS sono conservati i registri delle sue lezioni a partire dall’anno 1932 e tra i testi da lei più utilizzati nei corsi compare Oliver Twist di C. Dickens.
Oltre che sul piano professionale, Beatrice è attiva anche su quello civile: quando il 13 febbraio 1926 viene fondata la Sezione di Pisa del CAI, risulta – insieme ai fratelli Irene e Giorgio, oltre che a Piero Zerboglio – tra i promotori e fondatori[5].
Il 25 febbraio 1933 firma il giuramento di “fedeltà” al Re e al regime fascista. Il verbale del giuramento riporta i nomi dei testimoni, Giovanni Gentile, direttore della SNS, e i docenti Francesco Arnaldi e Giovanni Ricci[6].

Ingresso Villa dei Giglioli, 1938 [Archivio Biblioteca Serantini]

Quella di Beatrice al fascismo non è un’adesione ideologico-politica, è invece un’adesione solo formale, dovuta alla necessità di rimanere come insegnante alla SNS, per poter continuare a provvedere a sé stessa e all’anziana madre. La sua precedente attività di volontaria della CRI nella Prima guerra mondiale e la partecipazione, insieme al padre, alla campagna a favore dell’indipendenza ceco-slovacca nel 1920, sono impegni pubblici di tipo “patriottico” nel segno della tradizione mazziniana, ma negli anni che vanno dal 1922 al 1933 non c’è nessuna sua presa di posizione in senso nazionalista. Del resto, nel libro sulla storia dei Giglioli scritto dalla madre di Beatrice e pubblicato nel 1935, benché l’argomento riguardi la tradizione risorgimentale della famiglia, non vi è traccia di alcun accenno al fascismo e al suo leader, in cui evidentemente l’autrice non riconosceva alcuna continuità con la storia del mazzinianesimo[7].
Dall’anno scolastico 1935-1936, oltre che al Liceo ginnasio G. Galilei, è nominata titolare di lingua e letteratura inglese anche alla scuola media R. Fucini di Pisa. Nel 1935 pubblica per R. Pironti di Napoli la traduzione di Much ado about nothing di W. Shakspeare.

2. Sulla linea del fronte: 31 agosto 1943-1° gennaio 1945
Durante gli anni di guerra con meticolosa puntualità Beatrice Giglioli annota su piccole agendine gli avvenimenti familiari e locali. Con la sorella Irene, Beatrice ha vissuto a Cisanello, sobborgo di Pisa, per gran parte del Novecento. Oltre alle notizie sugli eventi quotidiani, nelle sue agendine registra alcune dinamiche relazionali e sociali, che vengono alla luce, paradossalmente, per effetto dei bombardamenti su Pisa, che iniziano il 31 agosto 1943 e proseguono a lungo. Alla dimensione verticale delle bombe che cadono dall’alto e che producono morte e distruzione, subentra quella orizzontale degli effetti generati dalle esplosioni, a partire dai comportamenti di chi, sopravvissuto, si trova ad agire in una realtà fisica (edifici, ponti, strade) e umana (morti, feriti) drammaticamente colpita e dove la vita, per continuare, deve affrontare difficoltà inedite in una situazione che è mutata profondamente. Nella vita civile niente è più come prima: provvedere alle cure mediche per i malati e ora anche per i feriti, spostarsi da un luogo all’altro della città, a piedi, in bicicletta o con qualche altro mezzo, procurarsi cibo e rifornirsi di provviste, dare e avere notizie sulle persone care o conosciute, poter continuare o meno a svolgere il proprio lavoro, poter contare o meno sul funzionamento delle istituzioni, dei servizi postali, dei trasporti ferroviari e delle infrastrutture in genere, ecc. Le bombe, inoltre, producono anche un elevato numero di sfollati, le cui sorti sono esposte a grave rischio, costretti come sono a cercare ospitalità, un alloggio o almeno un riparo.

Bombardamento di Pisa, dicembre 1943 [The U.S. National Archives and Record Administration (NARA)]

Pochi giorni dopo il primo bombardamento, inoltre, in seguito all’armistizio con gli Alleati annunciato l’8 settembre, si determina un ulteriore cambiamento, che ha ripercussioni notevoli sulla società civile e rende ancora più precaria la situazione di Pisa e che peggiora con l’arrivo delle truppe d’occupazione naziste, alle quali gli uomini della RSI, sorta nel frattempo, sono del tutto subalterni.
Di tutto ciò si trova ampia traccia nei diari di Beatrice[8]. Quella che si raccoglieva nella villa di Cisanello prima dei bombardamenti era una fitta rete di rapporti fatta di legami parentali, amicali, professionali e culturali, sostenuta da una rete altrettanto fitta di vicini di casa, affittuari, conoscenti e persone provenienti per lo più dal territorio circostante per le collaborazioni domestiche (cucina, pulizie e lavori di casa) e per la fornitura di servizi (materie prime, cibo, servizi di manutenzione della casa, ecc.). A questi va aggiunta la cura dei numerosi animali (cani, gatti, galline, conigli, capre, api), e il conforto rappresentato dal giardino, con l’attenzione esperta ai fiori, alle verdure e alle piante da frutto, esito evidente delle competenze di Italo Giglioli trasmesse alle figlie. Dopo il bombardamento di Pisa, le sorelle Giglioli vogliono subito vederne gli effetti per valutarne la portata e si attivano per far fronte a tutto, a partire dal fatto che accorrono subito presso le macerie della casa degli amici Zerboglio, colpita in pieno da una bomba sul Lungarno Regio (odierno Lungarno Pacinotti), per mettere in salvo la maggior quantità possibile dell’archivio e dei numerosissimi libri che vi erano raccolti. La rete dei rapporti d’amicizia è un bene prezioso, che va tenuta attiva nei momenti difficili, come si vede quando il 23 settembre 1943, dopo aver saputo che l’amico Aldo Visalberghi (1919-2007) era stato ferito nella difesa di Roma, Beatrice Giglioli si affretta a informarne gli amici comuni della famiglia Barletta. La rete di solidarietà si manifesta accogliendo in casa sfollati, curando gli esseri umani e gli animali, continuando ad avere la stessa attenzione di prima anche per il giardino e ospitando amici e parenti a pranzo, a cena, per la notte o anche solo per il tè, cercando, procurando e distribuendo risorse alimentari e facendo di necessità virtù con quelle disponibili. Le sorelle Giglioli intendono in ogni momento ricostituire una comunità di fraternità e integrazione civile, il che rappresenta, per i loro interlocutori, una risorsa preziosa su cui contare. Fra gli amici ospitati più frequentemente a casa Giglioli ci sono persone di differente appartenenza religiosa, come anglicani e valdesi (il pastore Attilio Arias o l’insegnante e collega Laura Revel), o ebrei (alcuni esponenti della famiglia De Cori, Giulia Letizia Aghib, l’insegnante e collega Maria Sacerdotti), nonostante fossero in vigore le leggi razziali fasciste emanate nel 1938 e la persecuzione anti-ebraica si fosse inasprita dopo la nascita della RSI. È la storia stessa della famiglia Giglioli, con il suo ramo protestante inglese degli Hillyer e degli Stocker, a fornire esempio vissuto di costruzione comunitaria. Le Giglioli, del resto, non si fanno intimidire nemmeno dall’arrivo delle truppe tedesche nella loro casa, una prima volta ad aprile 1944 e poi altre due volte tra luglio e agosto.
Gli interlocutori delle sorelle Giglioli sono soprattutto insegnanti, colleghi di Irene e di Beatrice, la quale, insegnando sia nelle scuole secondarie che alla SNS, si trova a contatto con molti dei più noti intellettuali e scienziati attivi a Pisa (G. Gentile, L. Tonelli, L. Russo, S. Timpanaro sr. ecc.). Tra questi ci sono anche alcuni medici molto noti in città, come Francesco Niosi o Silvio Luschi, che prestano cure alle sorelle, amici e vicini. Nelle pagine di Beatrice si coglie bene anche il pesante impatto della guerra sulla vita della scuola. Il lavoro di Beatrice presso la SNS l’ha portata a essere insegnante di molti studenti poi noti nell’ambito delle professioni e che, come nel caso di Visalberghi, sono diventati anche amici. Alla costruzione di questa parte dei rapporti delle sorelle Giglioli con il mondo universitario ha anche contribuito la precedente attività di docente a Pisa del padre Italo, la cui amicizia con Adolfo Zerboglio, per esempio, ha portato all’amicizia fraterna tra le figlie di Giglioli e il figlio di Zerboglio, Piero, importante figura dell’antifascismo azionista toscano, il cui nome ricorre molto frequentemente nelle pagine del Diario. In effetti, dal Diario traspare la posizione antifascista delle Giglioli, tanto che la loro casa, oltre che un riferimento sicuro per Zerboglio, lo è anche per un altro esponente azionista, Carlo Ricci, frequente ospite a Cisanello, così come accadeva anche per altri antifascisti.

Arrivo soldati a Pisa settembre 1944 [The U.S. National Archives and Record Administration (NARA)]

Non sono solo le numerose presenze di persone e cose a caratterizzare il Diario, ma anche alcune assenze. Può sembrare strano che in quelle pagine, così attente ad annotare tutto ciò che va dalla minuta vita quotidiana ai grandi avvenimenti politici e militari, manchino due fatti di grande rilievo. In effetti, non c’è alcuna citazione dell’uccisione di Giovanni Gentile, avvenuta a Firenze il 15 aprile 1944, e nemmeno dell’eccidio per mano nazista avvenuto a Pisa il 1° agosto 1944 in casa di Giuseppe Pardo Roques, presidente della comunità ebraica pisana, che era stato amico di Italo Giglioli. È probabilmente la gravità dei due fatti a indurre in Beatrice un’evidente auto-censura a scopo precauzionale. È nella corrispondenza con la sorella Lilia, svolta attraverso scambi realizzati fuori dal circuito postale grazie a mani amiche, che i due fatti vengono citati e commentati.

Negli anni della guerra Beatrice Giglioli continua a lavorare come insegnante al Liceo G. Galilei e come lettrice alla SNS, dove la conferma del suo incarico giunge anche per l’a.a. 1943-44 da parte del nuovo direttore, Leonida Tonelli, rinnovato anche da Luigi Russo[9]. Dall’anno accademico 1942-1943 fino al 1948-1949 è docente incaricata di lingua e letteratura inglese all’Università di Pisa. A causa delle vicende belliche nell’a.a. 1943-44 inizia le lezioni il 1° febbraio 1944 e può tenere solo lezioni saltuarie fino ad aprile.
Dopo la fase dell’occupazione tedesca della città e i mesi di guerra dell’estate del 1944, riprenderà l’insegnamento alla SNS il 25 gennaio 1945. Uno dei suoi interlocutori è il meridionalista Giuseppe Isnardi (1886-1965), collaboratore dell’Animi, che dal 1928 al 1934 insegna al Liceo classico Carducci-Ricasoli di Grosseto e dal 1934 al 1951 a Pisa, dove insegna lettere al ginnasio G. Galilei, collega di Beatrice, insieme a G. Raniolo e a Ildebrando Imberciadori, che insegna lettere al triennio liceale.
Sull’esempio della madre, Beatrice si dedica alla cura dell’archivio di famiglia con l’aiuto della sorella Irene e della cugina Maria Elena Casella. Il ruolo di Beatrice nel conservare l’archivio di famiglia è ricordato proprio dalla Casella in alcuni passi delle sue Family Memorials: «The passage was marked by Italo Giglioli in the book found for me by Beatrice Giglioli at Cisanello, in September 1958» (p. 80); «I once found by chance, in Beatrice’s study, a notebook with some notes jotted down by Italo Giglioli» (p. 150).
Beatrice muore a Pisa il 7 febbraio 1988. Le ceneri per sua volontà sono state collocate nel cimitero di Pisa accanto a quelle delle sorelle Irene e Lilia. L’archivio è lasciato ad Antonio Ricci, che lo ha donato alla Biblioteca F. Serantini.

Note

  1. Italo nasce a Genova il 1° maggio 1852 da Giuseppe e Ellen Hillyer. Si laurea in agraria al Royal Agricultural College di Cirencester, contea di Gloucestershire. Muore a Pisa il 1° ottobre 1920.
  2. Costanza nasce a Roma il 2 ottobre 1856 dal reverendo anglicano Edward Seymour Stocker (1828-1900) e da Jean Hamilton Dunbar (1829-1862). Nel 1885 incontra Italo Giglioli e sarà suo padre Edward, il 26 agosto 1886, a celebrare il loro matrimonio a Londra. Oltre alla cura dei figli, Costanza coltiva le sue passioni e, grazie alla vicinanza del marito e alla conoscenza della storia della famiglia Giglioli, si interessa alle vicende del Risorgimento italiano, in particolare alle avanguardie democratiche e giacobine attive a Napoli tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Da questi studi nasce il volume dedicato alla rivoluzione napoletana del 1799, pubblicato in Inghilterra nel 1903.
  3. Nata a Roma il 13 marzo 1858, Beatrice A.R. Stocker muore il 23 febbraio 1935 a Sonoma, in California, dov’è sepolta. Tracce molto interessanti della sua esperienza di missionaria si ritrovano in alcune lettere da lei inviate alla sorella Constance Giglioli Stocker, cfr. A Doorkeeper in the House of God: The Letters of Beatrice A. R. Stocker, Missionary to the Sioux, 1892-1893, a cura di A.M. Baker, «South Dakota History», vol. 22, n. 1, 24 marzo 1992, pp. 38-63.
  4. L’ultima figlia di Ellen Hillyer è stata chiamata Elena, così come quest’ultima ha voluto chiamare Maria Elena la sua unica figlia. Beatrice Elena non ha fatto a tempo a conoscere la nonna Ellen, morta nel 1894 in Abruzzo, a Chieti, dove risiedeva presso la famiglia del genero Raffaello Casella, marito di Elena Giglioli.
  5. «Notiziario» CAI – Sezione di Pisa, a. xxxvii, n. 1, 2017.
  6. SNS, Centro archivistico, fasc. Giglioli Beatrice. Dal fascicolo risulta che Beatrice Giglioli è iscritta al Pnf dal 31 luglio 1933, tessera n. 671151, e all’Afs (Associazione fascista della Scuola) dal 1934, tessera n. 022270.
  7. C. Giglioli Stocker, Una famiglia di patrioti emiliani. I Giglioli di Brescello, con appendice di 26 lettere inedite di patrioti del tempo, Milano [etc.], Società editrice Dante Alighieri, 1935.
  8. B. Giglioli, Diario 21 agosto 1943 – 1° gennaio 1945. Ricordi dell’estate 1944 di Antonio Ricci, a cura di F. Bertolucci, B. Cattaneo e G. Mangini, Ghezzano (PI), BFS edizioni, 2025.
  9. SNS, Centro archivistico, fasc. Giglioli Beatrice. L’incarico alla sns termina nell’a. a. 1959-60.



Nada. Tra Storia e Letteratura

Nada Giorgi

 

Nada da giovane

Nada Giorgi con Renato Ciandri

Nada Giorgi nacque il 25 gennaio 1927 a Pontassieve, in provincia di Firenze, da una famiglia di umili origini. Negli anni dell’adolescenza, durante la Resistenza, incontrò il partigiano Renato Ciandri, noto col nome di battaglia “Baffo”, modificato in Bube da Carlo Cassola nel romanzo La ragazza di Bube [1].  Dopo l”8 settembre 1943, lui, proveniente da Volterra, si era unito al gruppo di partigiani di Pontassieve. Era infatti sfollato a Torre a Decima, presso Molino del Piano, frazione di Pontassieve dove, tramite l’amico Pietro Verniani, conobbe Nada, anch’ella sfollata con la famiglia. Ciandri -durante la Resistenza- combatté infatti in varie formazioni (in special modo nel “Gruppo di Pontassieve” e nella “Ciro Fabbroni”) nella zona fra Pontassieve, Monte Giovi e Dicomano. Nel febbraio 1944, dopo essere riuscito a sfuggire all’arresto dei tedeschi, operava stabilmente sul monte Giovi con la formazione partigiana “Stella Rossa”. Pare abbia partecipato anche alla liberazione di Firenze rimanendo ferito nei pressi della stazione di Santa Maria Novella. Il 21 agosto 1944, quando le truppe alleate liberarono Pontassieve, Bube, come anche altri partigiani, rispose alla chiamata dei partiti antifascisti e si arruolò nel gruppo volontario 22° Fanteria “Cremona”. La disciplina e le regole militari però gli andavano strette, come viene raccontato nel libro di Massimo Biagioni; il suo temperamento e l’insofferenza per gli atti che non condivideva, gli fecero collezionare ben quattordici capi d’imputazione per insubordinazione; fu condannato poi amnistiato.

«Definito “ribelle fra i ribelli” per l’insofferenza verso la disciplina e i numerosi atti di insubordinazione, alla fine della guerra venne amnistiato di un totale di sedici anni di reclusione collezionati in pochi mesi come soldato nel “Cremona”[2]».

Dopo la guerra, la storia tra Renato a Nada proseguì e i due vissero per un periodo a Volterra, dove Renato trovò lavoro come guardia municipale.

Nel maggio 1945, tornarono a Pontassieve e per la Festa della Madonna del Sasso, evento molto atteso nella zona, dove avvenne il triste fatto che riportò nell’ombra della guerra e del dolore un’intera vallata, loro erano presenti.

I due giovani si dovettero presto separare: Renato venne, infatti, coinvolto nella sparatoria avvenuta il 13 maggio 1945, proprio in occasione di quella Festa. Al Santuario della Madonna delle Grazie al Sasso, non distante da Santa Brigida, sempre nel Comune di Pontassieve, furono uccisi un Carabiniere, il Maresciallo Carmine Zuddas e suo figlio Antonio. Il conflitto era da poco terminato, ma tra le macerie ancora visibili, la popolazione era divisa dalla guerra civile.

Ogni anno, la seconda domenica di maggio, veniva celebrata una solenne Messa cantata con l’offerta dei doni alla Madonna da parte dei vari compaesani dei paesi limitrofi, seguita dalla processione con la “benedizione della campagna”, e poi ancora, il pranzo. Seguiva nel pomeriggio la festa con musiche, danze e canti.

Processione della seconda domenica di maggio in Le Grazie e miracoli al Santuario https://www.conoscifirenze.it/toscana-firenze/517-le-grazie-e-miracoli-al-santuario.html

Una giornata di preghiera e di celebrazioni religiose, sfociò però nel caos. Fuori dalla chiesa, il Rettore del Santuario e tre giovani, ex partigiani, ebbero un acceso diverbio. Il motivo, apparentemente, pare fosse legato alle vesti succinte di questi, non adatte al contesto; stando, invece, ad altre testimonianze, i giovani avrebbero indossato il fazzoletto rosso al collo, simbolo inequivocabile e motivo di diverbio. Nella discussione intervenne il Maresciallo dei Carabinieri Zuddas, Comandante della Stazione dei Carabinieri di Molino del Piano, incaricato al servizio d’ordine, necessario per il regolare  svolgimento di una festività religiosa di ringraziamento per la fine della guerra, recatosi al Sasso con la moglie e il figlio diciassettenne. Chiese spiegazioni al prete, invitandolo a fare entrare i giovani, che avevano collaborato per liberare l’Italia dai tedeschi. Il figlio però, poco distante, non capendo forse bene cosa stesse succedendo e vedendo il padre accerchiato, seppur in modo innocui al momento, pare abbia estratto una pistola e abbia sparato, uccidendo uno dei giovani, il pollivendolo Luigi Panchetti. Stando, invece, ad altre ricostruzioni, pare che alcuni partigiani avessero tentato di disarmare il Carabiniere, dopo che questi aveva sparato un colpo in aria per ristabilire l’ordine, a causa del tafferuglio creatosi. Secondo la ricostruzione degli eventi, riportati in un dettagliato rapporto dell’Arma, coincidente con le notizie riportate dai giornali e con le testimonianze che hanno dato in seguito alcuni giovani incriminati, il figlio, visto il padre in pericoli, impugnata la pistola, avrebbe sparato in direzione di uno dei giovani, tale Panchetti, colpendolo a morte. Le persone attorno fermarono i due uomini, il Maresciallo e il figlio, rinchiudendoli in una stanza della canonica, fino all’intervento di alcuni partigiani, tra cui Renato Ciandri (Bube), presente assieme a Nada alla Festa e che -secondo le accuse- sparò contro il ragazzo, uccidendolo. Morirà assieme al figlio anche Carmine Zuddas [3].

Carmine Zuddas e la sua famiglia. Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/

Secondo Nada Giorgi, dopo che il diciassettenne Zuddas ebbe colpito a morte l’ex partigiano, gli altri membri della banda, che avevano nascosto precedentemente delle armi, al contrario di Ciandri, che era disarmato, correndo verso la chiesa, invitarono Bube a non tirarsi indietro, a restare fedele ai suoi ideali. Pare, perciò, che questi abbia tentato di disarmare il ragazzo e che, dopo una colluttazione, qualcuno abbia raggiunto il giovane con una raffica di mitra. Contemporaneamente, qualcuno aveva sparato anche al Maresciallo. A testimoniare l’innocenza del Ciandri, la Giorgi avrebbe presentato anche la deposizione della moglie del Carabiniere, Margherita Rotelli, unica sopravvissuta.

La vicenda non è tutt’oggi chiara: molte le versioni dei fatti, alcune delle quali vedono il Ciandri realmente coinvolto. Ogni protagonista di quel giorno ha raccontato dettagli diversi, che rendono difficile, oggi come allora, la ricostruzione di quella giornata di maggio [4].

I giovani trovati con le armi furono portati alle carceri a Firenze, in via Ghibellina. Renato e Nada tornarono invece a casa. Presto però, i compagni del Partito comunista, al quale Ciandri sarà sempre legato, lo invitarono a fuggire, a tornare verso Volterra, onde evitare di essere arrestato. Bube era infatti il più noto tra i ragazzi del Sasso. Inoltre, le elezioni del 2 giugno si stavano avvicinando e le tensioni politiche aumentavano.

Nonostante l’invito a consegnarsi, emersa anche la possibilità di esser scagionato, Bube si dette alla macchia. Dopo giorni passati in campagna, a Torre a Decima, sopra Molino del Piano, un amico camionista di Ellera lo aiutò a tornare verso Colle Val d’Elsa. Fu in quest’occasione che Nada e Bube conobbero Carlo Cassola, “comandante Carlino”, che era stato con i partigiani in montagna ed era il figlio del maestro di Ciandri. Si conobbero in un bar e i due raccontarono la vicenda del Sasso. Cassola ne rimase colpito e offrì a Bube una sistemazione momentanea a Volterra. Sembra che i tre abbiano passato anche la giornata del 2 giugno assieme [5].

Durante il viaggio verso quella cittadina, sul pullman (o meglio sulla sita), dove Ciandri si trovava con Nada, pare ci fosse Mons. Dolfi (Ciolfi nel libro), antipartigiano convinto. Alcuni passeggeri, inferociti, pare avessero addirittura minacciato il parroco, prima che, giunti a destinazione, Cassola e Bube non avessero portato il religioso in Caserma, salvandolo così dalle aggressioni della folla [6].

Bube riprese a vivere nel paese natio, ma presto i Carabinieri lo invitarono a presentarsi al tenente. Pareva convinto a consegnarsi, ma alcuni giovani dell’Anpi di Volterra, Ciaba e Niccolò, allertati dall’Anpi fiorentino, lo invitarono a non farlo. La notte una motocicletta andò a prenderlo: scappò prima verso Pisa, poi a Milano e infine in Francia, dove trovò lavoro come operaio tappezziere. Ottenne asilo politico come comunista, ma presto ebbe la condanna in Italia in contumacia a 19 anni di carcere. Per poter restare in Francia, doveva procurarsi i documenti: tentò così di arruolarsi prima nella Legione straniera, poi fuggì in Olanda e in Tunisia, per poi tornare in Francia e riprendere la sua attività di tappezziere. L’esilio di Ciandri durò fino al 1950, quando scoperto dall’Interpool, fu estradato in Italia. Rimarrà in carcere, prima a Torino, poi per un breve periodo a Pisa, poi ad Alessandria, a Bologna, all’Elba e, infine, a San Gimignano, dove rimase fino al 1961.

Il processo si era tenuto a Torino nel settembre 1946: alla difesa dei giovani contribuirono molti pontassievesi, con una raccolta fondi organizzata nella Casa del popolo di Santa Brigida. Il secondo giorno il processo verrà spostato negli ampi locali della Corte d’Assise, dove era presente anche una delegazione di operai della Fiat-Mirafiori.

Dopo il processo, infatti, erano state arrestate dieci persone, dopo le prime indagini, sette delle quali facenti parte del Corpo Volontari della Libertà. Tutti si dichiararono colpevoli, eccetto Bube, che si è sempre dichiarato innocente [7].

Nei giorni successivi alla Festa della Madonna, infatti, erano state molte le voci ad alzarsi. Membri del CLN si recarono sul posto. Molti capi delle formazioni partigiane tentarono di giustificare quanto era successo, come Romeo Fibbi, Lazio Cosseri, Giuseppe Maggi, commissario politico della brigata “Lavacchini” e futuro sindaco di Borgo San Lorenzo. L’evento, significativo di quel clima di passaggio, di tensione e di giustizia sommaria nel dopoguerra italiano, sconvolse un’intera comunità. Chiunque si riteneva portatore di giustizia, spesso in contrasto con altri. Qualcuno giustificò l’accaduto poiché il Carabiniere era stato antipartigiano e fascista, stando a certe voci. La vicenda stessa è caduta nell’oblio, già al tempo, complice il Partito Comunista di Pontassieve, reticente e forse -inconsciamente- desideroso di guardare al futuro nel clima di psicosi generale anticomunista, tipica degli ultimi anni Quaranta.

Il 26 agosto 1951, Ciandri e la Giorgi si sposarono nel carcere di Alessandria. Nada, infatti, gli era sempre rimasta accanto e aveva sempre cercato di mantenere i rapporti con il fidanzato prima e con il marito poi, tramite lettere, scambi di fotografie e, quando possibile, con i colloqui e le visite.

Intanto Renato in carcere frequentava la scuola, [8] mentre Nada lavora a Pontassieve come fiascaia.

Nel 1953 vennero scarcerati i compagni di Bube incriminati per i fatti del Sasso, ma con una condanna di minor durata. L’anno successivo Ciandri venne trasferito al carcere di Porto Longone, all’Isola d’Elba, a causa di un violento litigio con un altro detenuto [9]. Verrà poi trasferito a San Gimignano, dove Nada poteva andare più frequentemente. Come ricorda lei stessa nel libro di Biagioni, nessuno degli ex compagni di Partito, gli era rimasto vicino.

È in questo periodo che Bube, durante una visita in carcere, ricevette da Cassola la copia del libro. Alla storia di Nada e Renato, Carlo Cassola aveva dedicato le pagine del suo celebre romanzo, La ragazza di Bube, mettendo al centro della narrazione Nada, pur lasciando che nel titolo comparisse il nome del suo compagno, Bube appunto, rilegando la sua figura come secondaria. La Giorgi non apprezzerà perciò il romanzo, non sentendosi rappresentata dallo scrittore e non riconoscendo i suoi cari in quelle pagine. Dal libro emerge inoltre un Bube colpevole; per Nada, dunque, l’opera era un’eredità negativa dalla quale doversi liberare.

Potremmo dire che il romanzo non ricalca, infatti, la vera vita dei due protagonisti, sebbene prenda ispirazione dalle loro storie. La vicenda è ambientata in Valdelsa, poco dopo la Liberazione, e non nel Pontassievese, come nella realtà. I protagonisti sono due giovani, Mara Castellucci e Bube, ovvero Nada Giorgi e Renato Ciandri, detto Baffo. Mara è una ragazza di sedici anni che vive a Monteguidi insieme al padre, comunista militante, alla madre e a un fratello, Vinicio. La vera Nada il padre lo aveva conosciuto appena in quanto morì quando lei aveva solo tre anni.

In quel paese conosce Arturo Cappellini, detto Bube. Il giovane, amico e compagno di Sante, il fratellastro di Mara morto durante la Resistenza, si era recato nel paese dell’amico per conoscere la famiglia e in questo modo avviene il primo incontro con Mara. Tra i due nasce subito una simpatia e Mara, lusingata dall’interesse del ragazzo, inizia a scambiare lettere con lui. Tutta la trama, riproposta poi da Comencini nel celebre film, è un intreccio di fantasia e qualche riferimento reale.

Come lei stessa ha detto:

Non ho mai avuto un fratello nato fuori dal matrimonio: semplicemente non ho fratelli. Non ebbi mai amanti: tanto meno uno che si chiamava Stefano. Non feci l’amore con Bube nella capanna. So bene che Cassola scrisse un romanzo, una storia in parte inventata, ma la realtà sono io. La realtà è la mia famiglia, è mio figlio Moreno… Per lui, perché non avesse mai l’idea che suo padre fosse un assassino […] [10]

Secondo il libro, infatti, dopo il loro incontro, Bube e Mara si devono allontanare: Bube è, infatti, accusato di un delitto. Era accaduto che, mentre si trovava a San Donato con i compagni Ivan e Umberto, un prete aveva impedito loro di entrare in chiesa. Secondo i ragazzi, la ragione era il loro orientamento comunista. I giovani avevano allora iniziato a protestare, e un Maresciallo dei Carabinieri era intervenuto insieme al figlio a sostegno del prete. Bube e gli amici avevano inutilmente cercato di far valere le loro ragioni e, spinti dall’ira, avevano messo il prete contro il muro. Il maresciallo aveva perciò reagito sparando ad Umberto, uccidendolo. Per vendicare l’amico, Ivan, l’altro compagno di Bube, aveva ucciso il Maresciallo. A sua volta, Bube aveva rincorso fin su per una scalinata e ucciso il figlio del Maresciallo, mentre scappava.

Mara e Bube fuggono così verso Volterra, dove abita la famiglia di lui. A bordo della corriera si trova una donna che riconosce Bube e lo sprona a dare una lezione ad uno dei passeggeri: si tratta del prete Ciolfi, il quale durante la guerra aveva collaborato con i nazisti, causando così la morte del nipote della donna. Suo malgrado, dopo essere sceso, Bube viene praticamente costretto dai presenti a picchiare il prete per poter salvare la faccia: il suo ruolo nella zona era infatti quello del Vendicatore, appellativo con il quale viene talvolta ancora chiamato dagli abitanti del posto.

Arrivato a casa dai familiari, Bube viene avvertito dal compagno Lidori del rischio di essere arrestato per il delitto commesso e gli consiglia la fuga. Qualche giorno dopo, una macchina passa a prendere Bube per farlo rifugiare in Francia, mentre Mara ritorna a casa. Nel frattempo, qualcosa in lei è cambiato: non è più la ragazza spensierata di prima e si dimostra angosciata per la mancanza di notizie da parte di Bube.

Verso novembre, Mara decide di andare a lavorare come domestica in una famiglia a Poggibonsi. Qui stringe amicizia con una compaesana, Ines, con cui esce spesso e che le presenta Stefano. Mara, inizialmente fredda, lentamente comincia ad apprezzare la sua compagnia.

Dopo un anno, Bube, costretto al rimpatrio, viene arrestato alla frontiera ed è condotto a Firenze. Mara, accompagnata dal padre, si reca a sua volta nel capoluogo toscano per un colloquio con Bube. Durante l’incontro, la ragazza si accorge che il suo attaccamento a Bube era ancora molto forte, così decide che, da quel momento, sarebbe per sempre la sua donna. Bube viene condannato a quattordici anni di carcere. Mara, tornata a Poggibonsi, racconta a Stefano di aver preso una decisione: ha scelto Bube, che andrà spesso a trovare in carcere.  Il romanzo termina con Mara che attende la liberazione del suo amato.

«I primi tempi sono i più terribili, disse poi. Ma, in seguito, ci si fa quasi l’abitudine… sono passati questi sette anni , passeranno anche questi altri sette. E poi, io cerco di non pensarci. Conto solo i giorni che mi separano dal colloquio. Perché è tale una gioia quando lo rivedo [11]…»

Tale opera sarà un vero e proprio successo editoriale, che porterà Cassola a vincere il Premio Strega nel 1960. Venne tradotta in molte lingue, rendendo celebre la storia di Baffo e della Giorgi, divenuti Bube e Mara per i lettori, dove però la finzione supera la realtà [12].

Complici la fama del libro e l’eco ottenuta [13], grazie anche all’aiuto di Cassola stesso, che si mobilitò per aiutare Ciandri ad ottenere uno sconto di pena, il 22 dicembre 1961, Renato ottenne la libertà desiderata.

Entrambi i protagonisti, però, non si sentirono rappresentati dal libro di Cassola: Ciandri lamentava di essere stato dipinto come una figura a tratti negativa, che rinnegava i compagni, il Partito, gli ideali. La storia dei sentimenti, come affermò, non era in linea con la storia dei fatti, non fedele alla realtà. Neppure Nada si sentiva rappresentata, tanto che non riuscì nemmeno a finire il libro [14].

Pian piano i due ripresero una vita normale: Ciandri trovò finalmente un lavoro al Centro Carni e ne diventerà presto socio a tutti gli effetti.

Già pochi mesi dopo l’uscita del libro, Luigi Comencini, noto regista, aveva deciso di trarne un film dove apparirono come interpreti principali, attori della caratura di Claudia Cardinale e George Chakiris, rispettivamente nei panni di Nada (Mara) e Ciandri (Bube).

Claudia Cardinale e George Chakiris in una scena del film di Comencini

Anche le vicende attorno all’uscita del film sono controverse: Renato Ciandri non voleva che venisse proiettato, in quanto avrebbe contribuito a fissare, ancor più del libro, l’immagine già stereotipata che la gente si era fatta sulla sua persona. I produttori prima promisero ai Ciandri un ricco compenso per ottenere l’approvazione per la proiezione del film, poi – vista l’irremovibilità dei soggetti coinvolti- minacciarono Ciandri e la sua famiglia di querelarli. Non erano però le uniche querele: i Ciandri a loro volta ne firmarono una per non essere stati ascoltati, la sorella di Nada un’altra per informazioni false sulla figura del marito, scomparso durante la guerra, una, infine, da un figlio del Maresciallo Zuddas, critico sulla narrazione dei fatti, oltraggiosi per la memoria del padre e del fratello scomparsi e -a suo parere- poco fedeli ai fatti [15].

Nel frattempo, dall’unione di Nada e Renato nacque un figlio nel 1963, Moreno, autore, compositore e musicista.

Ciandri presto cambierà mansione e inizierà a lavorare in ufficio. Nel clima di rinnovata serenità, partecipa attivamente anche alle cerimonie degli eccidi della Seconda Guerra mondiale, agli anniversari e alle manifestazioni, continuando a coltivare gli ideali della Resistenza [16].

A metà degli anni Settanta, «Tuttolibri», il settimanale del quotidiano «La Stampa»,  rilegge il fortunato libro di Cassola. L’inviato Lamberto Furno incontra la coppia: è l’unica vera intervista di Ciandri [17].

Quando però la vita comincia a riprendere tranquillamente il suo corso, Renato scopre di avere un tumore, che il 6 novembre 1981 lo porterà alla morte [18]. Sentiti e partecipati i funerali. Venne sepolto presso il Cimitero di San Martino a Quona, a Pontassieve. Questa l’epigrafe sulla sua tomba [19]:

“Bube”

Renato Ciandri (3-3-1924/ 6-11-1981)

E voi imparate che occorre

vedere e non guardare in aria

questo mostro stava una volta

per conquistare il mondo

i popoli lo spensero

ma ora non cantiamo

vittoria troppo presto

il grembo da cui nacque

è ancora fecondo

Brecht

Alessandro Bargellini, 16-1-2009 https://resistenzatoscana.org/monumenti/pontassieve/sepolcro_di_ciandri/

La fama innescata dal libro non si arresta, anzi, ci saranno anche rappresentazioni teatrali sulla vicenda di Bube, come quella firmata dal registra Alessandro Gatto, di grande successo.

Nada, desiderosa di lasciarsi alle spalle gli anni della Guerra e della carcerazione del marito, ma volendone mantenere viva la memoria, comincerà a fare attività nelle scuole del territorio, per parlare ai ragazzi delle classi. Si spengerà il 24 maggio 2012 a 85 anni.

Negli ultimi anni di vita, Nada, per riabilitare la memoria del marito e per lasciare ai posteri la sua versione dei fatti, incaricò Massimo Biagioni, scrittore di Storia locale, giornalista pubblicista, oggi dirigente regionale di Confesercenti, con precedenti esperienze politiche, il compito di stendere in un secondo libro la sua biografia, da cui sono tratte molte delle informazioni qui riportate. Nada ha così scacciato la Mara del romanzo, e con Renato, è voluta tornare ad essere persona e non personaggio. «Ora posso anche morire!» disse a Biagioni, stringendo la prima copia uscita dalla Polistampa. Anche il figlio Moreno ha vinto il riserbo del padre che non ne aveva voluto parlare più, per dare spazio invece al volere della mamma [20].

 

Nada Giorgi, nominata cittadina onoraria del Comune di Pelago (FI) in News dalle Pubbliche Amministrazioni della Città Metropolitana di Firenze, http://met.provincia.fi.it/news.aspx?n=182704

Note

1.Sulla vita di Renato Ciandri e sulla sua attività di partigiano, prima del 13 maggio 1945, rimando alle pagine di Biagioni, pp. 27-46.

2. Giovanni Baldini, Renato Ciandri, “Bube”, in ResistenzaToscana, 14 luglio 2003, https://resistenzatoscana.org/biografie/ciandri_renato/ [consultato il 4 novembre 2024].

3. Per un’ulteriore ricostruzione della vicenda, si veda Dania Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990, pp. 142-144.

4. Diversa la versione dei fatti esposta nell’articolo di Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/ [consultato il 5 novembre 2024]. Tale versione incolperebbe infatti Bube e la sua compagnia.

5. Massimo Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006, pp. 51-52.

6. Rimando alle pagine di M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 52-53, per la ricostruzione delle vicende antecedenti che vedono coinvolto Dolfi.

7. D. Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, pp. 144-144.

8.  M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 85

9. Ivi, p. 93

10. Da Sandro Bennucci, «Io, Nada, vi racconto la vera storia della ragazza di Bube», «La Nazione», 13 aprile 2006 in LeonardoLibri, [consultato il 4 novembre 2024, https://www.leonardolibri.com/recensione.php?i=3314]

11. Carlo Cassola, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010, p. 217.

12. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 100. Per la trama del libro, vedi anche pp. 98-100.

13. Ivi, pp. 100-103.

14. Ivi, p. 109.

15. Ivi, p. 129.

16. Ivi, pp. 133-137.

17. La minuta dell’intervista è riprodotta in M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 141-144.

18. Ivi, p. 145.

19. Cfr. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 150. Nella primavera del 2005 la salma di Ciandri venne traslata in un forno non distante dalla Cappella dei caduti e degli ex combattenti di tutte le guerre.

20. Michela Aramini, Cinque anni fa morì Nada, la “ragazza di Bube”: il ricordo di Massimo Biagioni, in il Filo – Idee e Notizie dal Mugello, 24 maggio 2017 [consultato il 4 novembre 2024, https://cultura.ilfilo.net/cinque-anni-fa-mori-nada-ragazza-bube-ricordo-massimo-biagioni/]

 

Bibliografia

Biagioni Massimo, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006

Cassola Carlo, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010 [prima edizione, Einaudi, Torino, 1960]

Mazzoni Dania, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di novembre 2024.




La storia ignota degli italo-greci a Firenze

Per i fiorentini non più giovani quell’area di fabbricati situata nella zona di Novoli, fra via Magellano e via di Caciolle, era considerata il quartiere dei greci, dove fra l’altro si potevano comprare sigarette di contrabbando sino agli inizi degli anni Ottanta. Per coloro che ci abitavano era invece Laspeica, in greco melma, un rione per decenni privo di strade e marciapiedi che nelle giornate di pioggia diventava un vero e proprio pantano, da cui il nome che gli era stato dato. Gli abitanti di questi appartamenti, costruiti nella prima metà degli anni Cinquanta, non erano propriamente greci ma italiani, la maggior parte di origine pugliese, che furono rimpatriati nel secondo dopoguerra. Erano quegli italiani che sul finire del XIX secolo, emigrati dalle coste pugliesi, raggiunsero la Grecia in cerca di una sistemazione economica migliore di quella che poteva offrire loro il nuovo Regno d’Italia. Molti si concentrarono nella città di Patrasso dove formarono una comunità di circa 3000 persone integrate perfettamente nel tessuto sociale greco [1]. Poi venne il 28 ottobre 1940 quando alle prime luci dell’alba le truppe italiane ricevettero l’ordine di attaccare la Grecia [2]. Con l’inizio della guerra lo sdegno e il rancore dei greci esplosero con il fragore della prima bomba che cadde proprio sulla scuola italiana di Patrasso “Santorre di Santarosa” facendo crollare la cappella adiacente al cortile dell’edificio: l’aereo volando ad altissima quota non poté certo distinguere la bandiera italiana che sventolava in quel mattino livido di pioggia [3]. Per fortuna era un giorno festivo (anniversario della marcia su Roma), vacanza per la scuola italiana, per cui non vi furono vittime innocenti.

Da quel momento l’armonia di un’integrazione naturale che nel corso del tempo si era creata fra la comunità italiana e i greci si sgretolò improvvisamente producendo ritorsioni su quei poveri italiani increduli di quanto stava accadendo, ma soprattutto innocenti per l’attacco militare che Mussolini aveva deciso contro quella terra in cui loro vivevano da generazioni in pace con sé stessi e con gli altri. Ma per i greci erano considerati corresponsabili dell’aggressione fascista e tutti i cittadini italiani, di sesso maschile, di oltre sedici anni, furono rinchiusi nei campi di concentramento di Goudì, Argos, Neakokkinià [4]. 

Con l’8 settembre del 1943 finì l’occupazione italiana della Grecia che passò direttamente sotto il controllo della Germania nazista e per la comunità italiana iniziò un nuovo calvario, oltre all’intransigenza ed alle mortificazioni messe in atto dagli ex fratelli greci, gli italiani dovevano ora subire anche la rabbia e le ritorsioni degli ex alleati tedeschi. Presi tra due fuochi la vita per gli italiani residenti in Grecia risultò sempre più problematica. Da una parte aumentarono le angherie ad opera dei greci perché li ritenevano i primi responsabili dell’occupazione, dall’altra iniziarono le deportazioni e le uccisioni ad opera dei nazisti, che manifestavano nei loro comportamenti maggiore ferocia verso gli italiani piuttosto che contro i greci. Finita la guerra il destino di queste persone di origine italiana pareva segnato; infatti, il governo ellenico aveva espresso al comando delle Forze Alleate l’intenzione di deportare in un ragionevole limite di tempo ai loro paesi di origine tutti i cittadini di Stati nemici ed ex nemici che si trovavano in Grecia, e di conseguenza il provvedimento riguardava anche gli italiani. A niente servì l’appello di Alcide De Gasperi alla Commissione Alleata per poter bloccare il rimpatrio degli italiani residenti in Grecia, e nell’autunno del 1945 iniziò l’esodo dei nostri connazionali…

La signora Angela aprì la porta di casa ritrovandosi dinnanzi un funzionario di polizia che gli intimava: mercoledì prossimo alle otto si faccia trovare al porto con tutta la sua famiglia per essere imbarcati sulla nave che vi porterà in Italia [5]. 

Più o meno le stesse parole furono proferite in quel novembre del 1945 a tutti gli abitanti di origine italiana che risiedevano a Patrasso da due o tre generazioni. Solo pochi giorni quindi per abbandonare la propria casa e i propri averi (fu consentito loro di portare solo poche e piccole cose). Si sta parlando di più di tremila persone integrate perfettamente nella società greca che, con lo scoppio della guerra, non solo subirono angherie, sopraffazioni ed insulti dai loro concittadini greci, ma alla fine del periodo bellico furono deprivati delle loro proprietà e cacciati malamente dal territorio ellenico. Sarebbe come se in un ipotetico scontro tra occidente e mondo arabo (e di questi periodi non è fantascienza…) si imbarcassero sulle navi tutti gli arabi residenti in Italia (molti dei quali con cittadinanza italiana) per riportarli in Africa.

Ecco di tutta questa storia degli italo-greci, della loro sofferenza nel lasciare una terra che ormai consideravano propria, delle loro difficoltà nel riadattarsi e nel reinserirsi nella società italiana che aveva lasciato alle spalle il Ventennio – di cui questi profughi conservavano un ricordo condizionato dalla propaganda fascista di assistenza agli italiani residenti all’estero – ecco che di questa vicenda la storiografia ufficiale sembra essersene dimenticata o forse neanche di conoscerla. È vero che si trattava della storia di poche migliaia di individui, storia che si configura come una goccia d’acqua nel mare delle profuganze che nel dopoguerra si muovevano per tutta l’Europa e nel mondo, ma si trattava pur sempre della vita di essere umani vittime di un destino scritto da altri di cui loro incolpevoli subivano le sorti.

 

Nave Patrai.

Per tutto il mese di novembre le corvette Patrai e Terrmoscopilichi fecero la spola tra Patrasso e Bari, portando a termine l’esodo dei nostri connazionali; dal capoluogo pugliese – dove molti decisero di rimanervi – risalirono la penisola con treni, spesso trovando posto su vagoni merci, con un interminabile viaggio su una linea ferroviaria rattoppata, giungendo finalmente a Bologna dove esisteva un centro di smistamento. Da qui i profughi presero principalmente due direzioni, verso il Piemonte, regione nella quale erano in funzione tre grandi complessi, la Caserma Passalacqua a Tortona, in provincia di Alessandria, la Caserma Perrone a Novara e le Casermette di Borgo San Paolo a Torino, o verso Firenze alla Caserma ex Genio dia via della Scala, dove trovarono alloggio circa 2000 italo-greci.

 

Veduta esterna della Caserma di via della Scala adibita a Centro profughi dal 1944 al 1956.

Questa grande struttura, originariamente un convento costruito alla fine del Duecento, nel corso dei secoli ha cambiato più volte uso di destinazione: ha accolto la prima stamperia a caratteri mobili nel 1472, successivamente dopo una restaurazione nel periodo rinascimentale è divenuta un educandato, dopo un conservatorio, per poi essere preso in consegna dall’esercito e dai carabinieri fino all’8 settembre del 1943 quando fu occupato dalle truppe tedesche. Dopo la Liberazione di Firenze nell’agosto del 1944 venne trasformato in Centro di raccolta per sfollati e profughi [6]. Artefice ed organizzatore del Centro fu il Capitano inglese Limbert che rimase al comando della struttura per circa un anno. Quando nel novembre del ‘45 giunsero ad ondate quei profughi provenienti dalla Grecia, molti locali della Caserma erano ancora occupati, nonostante i continui appelli ad abbandonare la struttura, dagli sfollati e dai fiorentini sinistrati, e gli italo-greci trovarono posto solo ammassandosi nelle camerate ancora libere e dentro un teatro e una chiesa sconsacrata all’interno dello stesso edificio.

Vivevano in grandi stanze, alcune senza finestre, dormendo per terra sopra pagliericci o ammassi di cenci che fungevano da materassi, una ventina di persone per camerata, dove ogni nucleo familiare trovava un proprio spazio innalzando coperte come divisori. Per queste persone ogni giorno si presentava come il precedente, sradicati dalla propria terra per colpe altrui, chiedevano soltanto che fosse concessa loro la possibilità di ricominciare, sia pure con fatica, a vivere. E in questo contesto di profondo degrado al Centro profughi all’inizio vi era solo il dolore, l’indecenza, l’abbattimento, vi era la totale sfiducia nelle istituzioni; nel cuore di questa gente sfortunata, piano piano, si faceva strada l’odio… ed era comprensibile. Gli avevano promesso un’accoglienza diversa in alloggi confortevoli e invece niente di tutto questo: “Venga a vederci signor Ministro” [7] scrivevano a Emilio Lussu allora in carica al Ministero dell’Assistenza postbellica. Queste persone avevano lasciato alle spalle le brutture, le persecuzioni, i morti sulle piazze di un’assurda guerra, avevano abbandonato piangendo la loro terra, le loro case, il loro mare, i loro animali come quella gattina di nome Xenià dagli occhi verdi che seguì fino al porto la sua padroncina, ma nella ressa e nella confusione venne scacciata e di lontano sulla banchina sembrava salutare quella bambina con le lacrime agli occhi che si allontanava dal porto di Patrasso imbarcata sulla nave che la portava in Italia [8].

Dai primi tempi del loro insediamento nella caserma di via della Scala gradatamente siamo passati tramite provvedimenti comunali e della Prefettura, con decreti legislativi, e soprattutto con le continue rivendicazioni sfociate spesso in rivolte di queste persone che niente avevano da perdere, ad una situazione di vita un po’ più decorosa di quella iniziale ma sempre al di sotto della normalità. Anche una certa propensione nel sapersi arrangiare, caratteristica dei patrassini e più in generale di tutti gli abitanti del bacino del Mediterraneo, giungendo perfino a contravvenire alla legge con la pratica del contrabbando, va inserita nel computo di tutti quegli elementi che contribuirono ad un qualche miglioramento delle condizioni di vita di questi profughi.

 

Giovani residenti al Centro di via della Scala, archivio privato famiglia Stella.

Famiglia italo-greca al Centro di via della Scala, archivio privato famiglia Croce.

E infatti solo dopo pochi mesi di vita al Centro, i profughi organizzarono in modo autonomo un mercato montando le bancherelle in via della Scala, una tra le strade meno movimentate di Firenze era diventata una delle più animate. Il Centro Profughi aveva creato un ambiente cosmopolita, in perpetuo movimento, «tanto che bastava affacciarsi ai cancelli per avere l’impressione di un grande alveare. E piano piano, lungo i marciapiedi della via erano cominciate le bancarelle. Naturalmente avevano attecchito quelle dei commestibili e delle cianfrusaglie, tanto che chi passava si godeva uno spettacolo vivo di colori,  poponi, cocomeri e altra frutta di ogni sorta esposti in pieno sole per un lungo tratto» [9]. Non era difficile scovare in mezzo ai banchi del mercato anche chi ti offriva di nascosto sigarette di contrabbando, naturalmente ad un prezzo inferiore rispetto a quello imposto dal monopolio di Stato. Questa attività illegale era nata quasi per caso perché venivano rivendute le sigarette che i soldati americani generalmente donavano alla popolazione: «avevo dieci anni e nascondevo i pacchetti di sigarette regalate dagli americani sotto il maglione per venderle sotto i portici di fronte a Piazza della Repubblica» [10].

Il contrabbando di sigarette, inizialmente tollerato dalla Guardia di Finanza, coinvolse sempre più i profughi facendo diventare il Centro di via della Scala il più grande punto cittadino di smistamento e smercio di sigarette [11]. La cronaca della stampa locale di quegli anni fa riferimento a continue ispezioni della polizia e soprattutto della Guardia di Finanza nei locali del Centro alla ricerca di sigarette che puntualmente scovavano nei posti più impensati.

Il contrabbando assunse dimensioni sempre più grandi sino a divenire una nota distintiva per i profughi “greci”, anche quando lasciarono il Centro di via della Scala per andare ad abitare nelle case popolari in via di Caciolle. Qui all’interno del rione, fra le stradine che collegavano le abitazioni con quelle tipiche scale esterne, è proseguito per tutti gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Il rione dei greci – molti clienti ignoravano la loro origine italiana – è stato sempre conosciuto dalla cittadinanza fiorentina come il luogo di approvvigionamento per quei fumatori che volevano risparmiare sul costo del pacchetto di sigarette. E se la Guardia di Finanza inizialmente aveva ricevuto precise disposizioni di tollerarlo, perché i profughi dovevano cercare pur di rifarsi una vita, poi intervenne duramente perché appunto questo fenomeno aveva assunto proporzioni molto più vaste – tutti passavano “dai greci” per le sigarette – con conseguenti danni al monopolio di Stato. Non tutti i profughi però continuarono questa pratica illegale, per molti fu solo all’inizio della loro avventura italiana, per poi cercare altre occupazioni: un lavoro che avrebbe dato loro la possibilità di un sostentamento economico per sperare in un futuro migliore. E non essendoci nella Firenze postbellica un’abbondanza tale di richieste per accontentare tutti, si specializzarono in attività di artigianato quali l’elettricista, il sarto, il falegname… Vi erano poi coloro che avevano trovato lavoro proprio all’interno del Centro nei laboratori di biancheria e calzoleria, locali annessi al Centro stesso, per la confezione di materiale assistenziale. Solo più tardi con l’inizio degli anni Cinquanta cominciarono le assunzioni in alcune fabbriche fiorentine che avevano ripreso la produzione industriale dopo la guerra: alcuni entrarono nella Pignone altri nella Gover. Ma ci furono anche coloro che decisero di raggiungere il nord Italia, soprattutto Torino, dove la Fiat aveva iniziato a richiamare emigranti da tutta la penisola. Queste persone che avevano lasciato Firenze si riunirono agli altri profughi che nel viaggio dalla Grecia a Bologna decisero di continuare per il nord.

Con il passare degli anni, oltre al lavoro, il problema più impellente per i profughi era riuscire a trovare una sistemazione in alloggi esterni dal Centro. A livello nazionale vi era l’esigenza da parte delle autorità statali di smantellare i centri di raccolta, o perlomeno di liberarli dalla presenza di quei profughi che soggiornavano ormai da anni in queste strutture a carico dello Stato. I vari Ministeri che si occupavano dei profughi avevano anche la necessità di reperire nuovi spazi per poter contenere le ondate dei rimpatriati dalle regioni giuliano-dalmate che continuavano a giungere in Italia sino alla fine degli anni Cinquanta. I tentativi messi in atto dai funzionari dello Stato non dettero però buoni risultati in merito: venivano elargite somme di denaro abbastanza consistenti per liberare i posti all’interno dei centri di raccolta, ma i profughi una volta acquisita la liquidazione continuavano a rimanervi perché non trovavano nessuna sistemazione all’esterno. Il Decreto-legge del 19 aprile 1948 n. 556, che imponeva la cessazione dell’assistenza ai profughi entro il 30 giugno 1949 tramite una liquidazione di 50.000 lire a persona, non dette assolutamente i risultati ipotizzati [12]. Il 30 giugno ‘49 almeno a Firenze nel Centro Profughi di via della Scala non si liberò nessun posto, anzi a leggere l’articolo del Nuovo Corriere del 7 ottobre 1949 sembra che la situazione abbia assunto toni da farsa pirandelliana perché quei soldi ricevuti allo scopo di trovare una sistemazione al di fuori delle mura del Centro – a sentire i profughi – furono subito spesi per acquistare tutti quegli oggetti, brande, coperte, pagliericci e il corredo per il vettovagliamento che furono loro ritirati al momento della liquidazione [13].

Per avviare realmente lo sfollamento del Centro di via della Scala si dovrà attendere la metà degli anni Cinquanta con le assegnazioni degli alloggi popolari: a parte qualche nucleo familiare che si staccò dalla comunità italogreca trovando sistemazioni nei nuovi quartieri dell’Isolotto e di Sorgane, gli altri furono dislocati sia nel già citato quartiere “dei greci” di via di Caciolle, sia alle Gore sopra Careggi, che – in un numero minore – a Coverciano in via Gelli. Nel novembre del 1956 con l’ultima famiglia traslocata nella casa popolare assegnata, il Centro profughi cesserà la sua attività e riprenderà la funzione di caserma militare. In via della Scala non vi sarà più il mercato multicolore che aveva reso piena di vitalità una strada meno frequentata e dai cancelli della caserma non si avrà più l’impressione di una grande alveare. E iniziava così per i profughi usciti dal Centro un nuovo – inverso – percorso di acculturazione: l’inserimento nella società italiana, fiorentina in specie.

 

Città di Firenze – Case per i profughi. Legge 4 marzo 1952 n. 137.

 

A distanza di quasi ottant’anni molti protagonisti dell’esodo dalla Grecia sono scomparsi, altri sono ormai anziani, quasi tutti hanno lasciato le case dei rioni di via di Caciolle e via delle Gore, e negli anni gli appartenenti alla comunità si sono sposati con donne e uomini italiani perdendo progressivamente le caratteristiche della loro grecità, soprattutto la lingua che era rimasta nei primi tempi come elemento di forte distinzione. A Laspeica – nessuno ormai chiama più così il rione di via Caciolle – per le strade non si sente più parlare greco e neanche sentiamo più gli odori tipici della cucina greca, i venditori di sigarette erano già scomparsi da tempo e in questo quartiere ormai i segnali del passaggio della comunità patrassina stanno sfumando, inghiottiti da quel processo di integrazione che sembra abbia lasciato molto poco della loro storia e tradizione. La storiografia italiana che ha iniziato ad interessarsi delle profuganze del secondo dopoguerra contribuirà a non disperdere questa storia e concedere alle loro vicende un posto, seppur piccolo dato l’esiguo numero dei protagonisti, nel panorama della storia italiana del XX secolo. Altrimenti si correrebbe il rischio di appiattire, non conoscendolo, il loro viaggio “andata e ritorno”, come se non fosse mai avvenuto, come se dalla Puglia non fossero migrate volontariamente alla ricerca di un futuro migliore migliaia di persone alla fine dell’Ottocento verso la penisola greca, e da lì ritornare in Italia, cacciate malamente per colpe non loro e costrette a lasciare ogni loro avere costruito faticosamente su quella terra in circa settant’anni. Senza il soccorso della storiografia la loro speranza emigrando dalla Puglia, l’integrazione, la sofferenza, il dolore, l’emarginazione, e di nuovo la speranza e nuovamente la reintegrazione nella società italiana, che costituiscono la storia di questi uomini e donne, svanirebbero negli anni rimanendo semmai nei racconti orali tramandati di generazione in generazione che probabilmente con il tempo andrebbero persi. È un dovere quindi portare alla luce pagine di vicende umane del tutto o quasi ignorate o di storie già dimenticate al fine di rendere cosciente l’intera comunità che anche le vicende di pochi individui, come quella degli italo-greci, reclamano un posto nella storia ufficiale.

 

NOTE

[1] Insieme a Patrasso erano Atene, Corfù e Salonicco, affacciate sulle sponde del Mare Egeo, le città greche ad avere le comunità italiane più numerose, costituite per lo più da migranti meridionali soprattutto pugliesi. Anche a Zante vi era una piccola comunità di italiani di origine meridionale, che poco prima della Grande guerra non superava le 100 unità; meno numerosa era la presenza italiana a Cefalonia, dove agli inizi del Novecento si contavano nell’isola 19 famiglie, in prevalenza pugliesi, Cfr. Giulio Esposito, Esuli in patria: il caso degli italo-greci in Puglia, in Giulio Esposito e Vito Antonio Leuzzi (a cura di), La Puglia dell’accoglienza. Profughi, rifugiati e rimpatriati nel Novecento, Progedit, Bari 2015, p. 223.

[2] Sui recenti studi storici dell’occupazione italiana della Grecia cfr. i saggi di Paolo Fonzi: Oltre i confini. Le occupazioni italiane durante la seconda guerra mondiale (1939-1943), Le Monnier, Firenze 2020; Fame di guerra. L’occupazione italiana della Grecia (1941-43), Carocci, Roma 2022.

[3] Mario Conti, Gli italo-greci di Patrasso durante il periodo fascista (1930-1945), Ibiskos, Empoli 1988, p. 19.

[4] Cfr. Santarelli Lidia, La violenza taciuta. I crimini degli italiani nella Grecia occupata, in Paolo Pezzino e Luca Baldissara (a cura di), Crimini e memorie di guerra: violenze contro le popolazioni e politiche del ricordo, 2004. Nei documenti consultati presso l’Archivio di Stato di Firenze sulle richieste dei certificati di qualifica di profugo emerge come la maggior parte degli italo-greci giunti a Firenze furono, durante la guerra, internati civili in quei campi per circa 6/7 mesi, in Archivio di Stato di Firenze (ASFI), fondo prefettura, serie certificati qualifica di profugo, Fascicoli da n. 1 a n. 80, classifica 3A/2/14.

[5] Intervista a Cosimo S., a cura di Camilla Conti, Firenze, 28 ottobre 2021.

[6] Sulla storia della Caserma di via della Scala, convertita in Centro profughi dall’agosto del 1944 al novembre del 1956, cfr. il fondo dell’Ente Comunale di Assistenza (ECA) presente all’Archivio Storico del Comune di Firenze, dove sono raccolti in perfetto stato molti materiali sull’Ente dalla sua istituzione alla sua chiusura.

[7] Come si vive al centro profughi? Centinaia di ricoverati scrivono una lettera aperta al ministro Lussu – Il testo del documento – Dichiarazioni dei dirigenti, «La Patria», 22 novembre 1945.

[8] Mario Conti, Gli italo-greci di Patrasso, cit., p. 48.

[9] Mercanti bianchi e neri in via della Scala, «La Nazione», 31 agosto 1947, p. 2.

[10] Intervista a Cosimo S., a cura di Camilla Conti, Firenze, 28 ottobre 2021.

[11] Sul contrabbando di sigarette degli italo-greci a Firenze, oltre all’analisi della stampa locale del periodo, sono interessanti le relazioni degli assistenti sociali sui minori italo-greci che svolgevano tale attività, in ASFI, Direzione dei centri per la giustizia minorile, servizio sociale per i minori, anni 1951-1955.

[12] Giulio Montelatici, Lo sgombero… dei profughi, «Il Nuovo Corriere», 3 giugno 1949, p. 2.

[13] Ibid.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel giugno del 2024.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Come affermato in precedenza, Giovanni Martelli viene arrestato a Livorno l’11 giugno 1932, ha solo diciannove anni e definisce negli anni quell’evento come «un duro colpo».[1] Allo stesso modo, il 1932 rappresenta un anno difficile per la riorganizzazione della Federazione comunista livornese, in quanto molti militanti adulti e di spicco vengono arrestati.

Dapprima, Martelli viene fermato e perquisito da un poliziotto dell’OVRA, successivamente gli viene trovato un biglietto che testimonia la sua attività nell’organizzazione del Soccorso rosso.[2] Viene interrogato alla Questura Centrale dal Commissario dell’OVRA Parlagreco, il quale deduce che non solo egli militava nel PCd’I, ma che addirittura apparteneva alla Federazione insieme ad altri esponenti che erano già stati arrestati nei giorni precedenti. Martelli è costretto a riconoscere ed a identificare gli altri compagni di partito, come Leonardo Leonardi, Roberto Vivaldi e Giovanni Tardini. Martelli affermò che non conosceva nessuno, se non qualche individuo adulto dell’organizzazione comunista. Resistere però non è sempre facile e si può comprendere dalle parole usate nell’Autobiografia, in cui egli stesso racconta:

«[…] Pur insistendo a negare […], essi mi fecero uscire e dopo poco fui di nuovo chiamato e così mi trovai di fronte al Vivaldi, il quale – disgraziato – era in uno stato da fare pietà.

Mi domandarono: lo conosci?

No, risposi, non l’ho mai visto.

Essi allora si rivolsero al Vivaldi il quale mi disse: è inutile Martellino, non negare, sanno tutto, essi sanno e conoscono tutto del nostro movimento e quindi non vale la pena insistere, del resto hanno confessato tutti.

Per la verità rimasi molto colpito, non riuscivo a comprendere come esso avesse capitolato così; tuttavia, continuai a negare […]»[3]

Successivamente, viene sottoposto a una perizia calligrafica per vedere se davvero fosse stato lui l’autore del biglietto sul Soccorso rosso. Il biglietto conteneva un prestito in denaro da fare ad alcuni esponenti del Partito ed era stato realizzato da un altro militante, Iedo Tampucci. Martelli non rivelerà mai il nome dell’autore e il contenuto del biglietto.

Durante l’interrogatorio scopre che la denuncia era stata avanzata dal dirigente della Federazione, Roberto Vivaldi. Vivaldi era stato costretto a denunciare proprio perché, come si legge nell’Autobiografia, l’OVRA aveva scoperto l’organizzazione comunista. Effettivamente, molte cose erano cambiate all’interno della Federazione durante l’arresto di questi esponenti: l’organizzazione sembrava essersi sfasciata e sembrava aver smarrito le linee guida necessarie per ricostituirla. L’unica speranza era quella di riedificare il movimento con una nuova linfa, ma i militanti rimasti si rifiutavano di prendere parte a questo processo in quanto temevano l’intervento della polizia fascista.

Nel luglio 1932 Martelli viene mandato in prigione presso il carcere S. Leopoldo e denunciato al Tribunale speciale con l’imputazione prevista dall’articolo 270 del Codice Penale. Viene poi trasferito al carcere dei Domenicani e liberato nell’ottobre dello stesso anno in occasione dell’amnistia per il decennale dalla Marcia su Roma. Quell’arresto fu uno dei più grandi realizzati dall’OVRA, non solo per il numero di arrestati, ma anche perché raggiunse i compagni che stavano espatriando. Con la scarcerazione poco sarebbe cambiato nella vita di Martelli, perché sa che la condizione di vita in clandestinità e la lotta al fascismo sarebbero continuate. Lui stesso racconta:

«[…] La libertà era certo bella per tutti noi tuttavia, quasi spontaneamente, una parte di noi giovani decise di dare continuazione alla propria attività clandestina. Dico una parte perché, sia nel campo giovanile come in quello degli adulti non pochi si ritirarono a vita cosiddetta privata. Non ce ne facemmo motivo di scandalo. Pertanto ci rimettemmo a lavoro […] con una maggiore attenzione […]».[4]

Nel 1933 prende parte alla rifondazione del movimento comunista, un’iniziativa profondamente sostenuta dai giovani livornesi come Renzo Tamberi, Garibaldo Benifei, Otello Frangioni, Marte Corsi, Angiolo Giacomelli. In quel breve periodo, Martelli realizza dei volantini di propaganda e contribuisce alle attività della stampa clandestina.

A nove mesi dalla scarcerazione, il 1° agosto 1933 viene fatto salire su un’automobile in cui lo attendevano tre fascisti. Martelli è tranquillo perché sa che i materiali eversivi del PCd’I sono rimasti a casa sua e viene accompagnato nella sede rionale fascista di Barriera Garibaldi, un luogo tristemente noto per esser teatro di interrogatori e di torture che i fascisti infliggevano agli oppositori politici. Successivamente, viene bendato e portato in una stanza dove ad attenderlo c’è il tenente Gagliano. Il motivo della cattura è il seguente: Gagliano ha scoperto chi è l’autore dei volantini sovversivi, vuole sapere con chi collabora e dove sono custoditi. Il tenente gli mostra i volantini che effettivamente erano stati realizzati da lui e Tamberi, ma Martelli continua a negare tutto.

Gagliano lo invita a spogliarsi ed esamina le sue mani con una lente di ingrandimento. A quel punto, dei giannizzeri iniziano a picchiare violentemente Martelli soprattutto sulle mani, considerate il vero «corpo del reato».[5] Però, la polizia fascista non si limita a interrogare Martelli e decide di indagare su Tamberi. A seguito di diverse indagini compiute nelle settimane precedenti, la polizia fascista aveva scoperto che Martelli e Tamberi collaboravano insieme alla realizzazione dei volantini eversivi.

Quando si consultano delle autobiografie, ciò che sorprende sono sia le emozioni che possono produrre anni dopo sullo stesso lettore, che i minimi dettagli che vengono raccontati. L’Autobiografia di Martelli è un vero e proprio racconto dettagliato di tutte le vicende e le torture subite durante il Ventennio fascista, ma forse non è la minuziosità del racconto a sorprendere un qualsiasi lettore, quanto il pathos che trasmette quando narra le torture subite dagli amici e dai compagni di Partito, i giorni in carcere, la difficoltà a comunicare e a mantenersi in contatto con loro. Durante quell’interrogatorio, Martelli non vedrà mai arrivare Tamberi e crede che l’amico possa aver fatto dei nomi di altri militanti, che possa aver tradito tutti e che sia ceduto davanti alle violenze fasciste. In realtà, Tamberi non verrà interrogato nella sede rionale fascista di Barriera Garibaldi, ma direttamente a casa sua.

Martelli non sa che fare, continua a dire che non era a conoscenza di niente, ma a che scopo? Col passare delle ore e con l’aumento delle percosse subite ha anche egli paura di non farcela, di non saper resistere e di non sapere per quanto potrà mentire. La coercizione fascista era in grado di permeare la psiche di molti giovani e antifascisti che erano stati catturati. Martelli vede l’interrogatorio come una sfida in cui non vuole cedere, anche perché non ha un’altra scelta: deve resistere alla violenza per tutelare non solo l’organizzazione, ma anche i suoi compagni di Partito.

Il militante livornese seppe resistere a quelle brutalità, ma non per questo va raffigurato (e non avrebbe mai voluto definirsi) come “eroe”, piuttosto seppe assolvere le mansioni perché credeva fervidamente a un sistema valoriale basato su libertà e resilienza, così come altri compagni di Partito che cedettero alle violenze. Il raccontare determinati dettagli sulle attività o sulle organizzazioni considerate come eversive, non era sinonimo di “codardia”: non era facile resistere alle violenze e alle percosse che i fascisti infliggevano alle persone col fine di estorcere con mezzi disumani la verità.

L’interrogatorio durò sette ore e l’arrestato venne ripetutamente percosso dal maresciallo Niccoletti, verrà interrogato alla Questura di San Leopoldo e lì vi rimarrà in prigione per diverse settimane. A tre giorni dall’arresto alcuni suoi compagni della stessa organizzazione vengono arrestati e scoprirà che la denuncia era partita dal militante Sirio Vincensini. Vincensini aveva confessato da chi aveva avuto il manifesto originale, ovvero da Garibaldo Benifei che a sua volta aveva fatto il nome di altri militanti. Lo stesso Martelli racconta:

«[…] il Vincensini (un altro militante) informò il fascio che tanto io come il Tamberi quella sera eravamo a stampare, però non sapendo il luogo indusse i fascisti ad attendermi. Preso me, essi pensavano di cavarmi di bocca sia il luogo ove eravamo stati a stampare, come il nome Tamberi, questo per salvare il delatore […]».[6]

Insieme agli altri militanti livornesi, egli promise che avrebbe evitato di compromettere la posizione degli altri compagni, altrimenti il processo sarebbe andato avanti all’infinito.

Il 9 dicembre del 1933 Martelli viene condannato a due anni e cinque mesi di reclusione da scontare alla Casa di pena di Civitavecchia. Il periodo di detenzione non è così duro, a detta di Martelli stesso, perché le condizioni igienico-sanitarie in cui viveva erano buone, aveva diritto due ore di aria invece che una, e poteva prendere parte a laboratori di scrittura e di traduzione. Questa esperienza costituisce un punto di svolta nella sua formazione politica nella quale potrà sperimentare delle nuove forme di mobilitazione politica ed attività pratiche che non aveva mai testato a Livorno. All’interno della cella stipula delle relazioni con esponenti di spicco come Giovanni Parodi e Pietro Carsano, i quali gli trasmettono i principi fondamentali del comunismo e lo avviano a un vero e proprio percorso di formazione sul comunismo.[7] A Civitavecchia, Martelli studia dalla mattina alla sera ed è sottoposto a una disciplina ferrea, perché «il Partito pretendeva che i giovani fossero preparati nel migliore dei modi».[8] L’obiettivo prefissato dal PCd’I era quello di insegnare varie discipline concernenti il materialismo storico, l’economia politica, la letteratura.

Il capo della cella era Giovanni Parodi, ma vi erano comunque altre celle separate dove vi erano esponenti illustri del Partito. Tra una cella e l’altra avvenivano degli scambi di informazioni grazie alla complicità di alcune guardie carcerarie, le quali si rendevano disponibili allo scambio di «farfalle», ovvero biglietti scritti su cui venivano annotati gli argomenti di discussione da trattare nelle ore di aria.[9]

Nel settembre del 1934 viene scarcerato grazie ad un indulto concesso straordinariamente in seguito alla nascita della prima figlia di Re Maggio, il luogotenente dell’epoca della Casa di pena di Civitavecchia. Martelli sa bene che niente sarebbe stato più come prima, perché non vuole più essere il semplice ragazzo che diffonde volantini eversivi ed ha capito che per rovesciare il regime è necessario agire diversamente.

Nel febbraio del 1935 il padre muore e deve far fronte a una difficile situazione economico-finanziaria che travolge tutta la famiglia, tenta più volte di poter far rientro ma senza successo. Dapprima viene mandato al settantacinquesimo di Fanteria di Siracusa, un reggimento di disciplina composto dai criminali più disparati (ladri, stupratori, pochi antifascisti e qualche renitente alla leva) e poi viene assegnato alla scuola di Allievi Ufficiali.[10] In quel breve periodo cerca più volte di tornare a Livorno dai suoi cari, ma senza successo. Nei suoi tentativi di rientrare a casa viene ostacolato perché non aveva completato i corsi premilitari in età adolescenziale che soltanto gli avrebbero permesso di tornare nella città di residenza. Il 5 marzo dello stesso anno viene inserito nel corpo di spedizione in partenza per l’Africa Orientale, per l’Abissinia.  Secondo il figlio, Walter Martelli, la sua esperienza nella Guerra in Africa Orientale non fu completamente negativa per il padre, in quanto non prese parte a delle iniziative militari e riuscì a stabilire delle buone relazioni con gli abitanti del luogo.[11] Martelli ha raccontato ai suoi figli di aver diffuso nei villaggi dei consigli medici e delle nozioni generali per migliorare le condizioni igienico-sanitarie.

Al suo rientro a Livorno, avvenuto nel 1936, molte cose erano cambiate. Alla fine del 1936 venne assunto presso i Cantieri Orlando, un’esperienza positiva che l’autore definì come una «grande conquista».[12] Lo stabilimento racchiudeva la storia del movimento operaio antifascista livornese e, per queste ragioni, riuscì a mettersi nuovamente in contatto con i compagni antifascisti che aveva conosciuto durante la clandestinità. La rete dei rapporti tra i militanti comunisti venne prima stabilita all’interno del cantiere e poi estesa al di fuori, ed era retta proprio dallo stesso Martelli.

A livello nazionale, il PCd’I abbandonò il precedente carattere settario che negli anni precedenti aveva portato il movimento ad isolarsi rispetto alle iniziative di altri partiti antifascisti. Tra il 1934 e il 1938 venne creato un Fronte popolare, in cui erano riunite tutte le forze politiche in aperta opposizione al regime. Questa fu anche la fase in cui i due partiti operai – il Partito Socialista e il Partito Comunista – ripristinarono delle forme di dialogo e di collaborazione dopo anni di scissione, culminate con la stesura di un patto di unità di azione nel 1934.

A livello locale, la Federazione livornese si ricostituì con esponenti di spicco e di varia provenienza come militanti storici, intellettuali, teorici, professori, figure pubbliche e notorie della comunità labronica. Un lieve passo avanti che venne messo di nuovo a dura prova da un’ondata di arresti senza precedenti.[13] Grazie alla rete di relazioni che Martelli aveva edificato ai Cantieri Orlando col militante comunista Mario Galli, l’organizzazione potè stabilire delle relazioni con intellettuali del calibro di Vittorio Marchi, Antonio Maccaroni, Aldo Balducci, Giorgio Stoppa. Le riunioni del nuovo partito si tenevano presso la casa dell’intellettuale Umberto Comi ed affrontavano temi svariati, come il rapporto tra il fascismo e la guerra, la Germania nazista, l’utilizzo della cultura e degli ideali comunisti come unica soluzione davanti alla violenza.[14] Mentre, Martelli e altri esponenti di partito che avevano vissuto direttamente sulla loro pelle la condizione proletaria, si facevano portavoce di altre tematiche, come i problemi della fabbrica e dello sfruttamento dei lavoratori.

Martelli non condivideva la nuova struttura della Federazione perché «nonostante i nuovi componenti si dichiarassero comunisti erano ben lungi dall’esserlo».[15] Secondo il militante di adozione livornese, gli ideali che quest’ultimi condividevano erano ideali social-liberali e poco affini ai principi marxisti-leninisti. Inoltre, a suo giudizio, esisteva una profonda differenza tra chi studiava il marxismo dalla cattedra e chi conosceva il marxismo perché apparteneva alla classe operaia.

Nel 1939 non gli viene riconosciuto più l’esonero dalla leva, riconosciutogli nel 1935 in quanto orfano di padre e unico capofamiglia, ed è per questo motivo che lascia il suo impiego ai Cantieri Orlando. L’ingegnere Bechi, all’epoca direttore dei Cantieri Orlando, si oppone al suo trasferimento inviando una lettera alla Questura di Livorno, ma senza successo. Inizia quindi a lavorare per un’azienda che produceva bombe a mano a Fiume, nota come Motofides. Durante quel periodo lavora alla realizzazione dell’Incrociatore San Giorgio, prende parte ad azioni di insubordinazione dalla catena di montaggio e viene licenziato nel 1942, perché considerato politicamente pericoloso.

Nel 1943 viene mandato a Torino alla Caserma Marmora ma, in seguito ai bombardamenti, viene mandato a Massa Marittima, una città in provincia di Grosseto. In quel piccolo centro rafforza il proprio legame con altri militanti comunisti locali e lì vi rimane fino alla ratificazione dell’Armistizio di Cassibile. Grazie all’aiuto di un militante locale, riesce a scappare dalla città grossetana e a raggiungere la famiglia sfollata ai Bagni di Casciana, dove si trovava anche sua moglie insieme alla sua famiglia. Si unisce alle formazioni partigiane locali nate dopo l’8 settembre e fa parte del Partito del Comitato militare ed ha come compito quello di organizzare i vari nuclei di partigiani della zona prima dell’arrivo del fronte di liberazione.[16]

NOTE

[1] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 2.

[2] Il Soccorso rosso, noto anche come “Soccorso rosso internazionale per i combattenti della rivoluzione” in sigla MOPR, è stata un’organizzazione internazionale legata all’Internazionale Comunista con il compito di fornire supporto ai prigionieri comunisti e alle loro famiglie. Il Soccorso rosso è rimasto attivo tra gli anni Trenta e la Seconda guerra mondiale e condusse campagne di solidarietà sociale, di supporto materiale e umanitario, a sostegno dei prigionieri comunisti.

[3] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 2.

[4] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso. Livorno 1935: processo ai comunisti. Livorno: Media Print, 2020, p. 346.

[5] Come compare sul dizionario Treccani, originariamente il giannizzero era un soldato di un corpo scelto di truppe a piedi dell’impero Ottomano, spesso adibito alla guardia del corpo del sultano. Nel periodo fascista si indicavano invece tutte quelle persone al servizio di qualche personaggio illustre della milizia fascista. Ma lo stesso termine può anche esser usato in senso dispregiativo per indicare uno scagnozzo o tirapiedi, forse questo è il significato a cui fa riferimento Martelli nella sua Autobiografia. La citazione compare in: Martelli G., Autobiografia, cit., p. 4.

[6] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 6.

[7] Giovanni Parodi (1889-1962) nasce in una famiglia operaia e diventa ben presto militante del PCd’I, viene arrestato nel 1927 dal Tribunale Speciale Fascista e gode dell’amnistia nel 1937. Fugge in Francia nel 1940 e viene arrestato l’anno successivo. Fortunatamente riesce ad evadere e a continuare il lavoro politico clandestino, nel dopoguerra fu membro del Comitato centrale del Partito Comunista Italiano e Segretario generale della Federazione Italiana Operai Metallurgici (in sigla, FIOM).

Giovanni Carsano (1891-1965): inizialmente operaio torinese, aderisce al PCd’I e partecipa al biennio rosso. Come Parodi viene arrestato nel 1927 e rilasciato dopo dieci anni, viene mandato al confino nel 1943 dove rimane fino alla liberazione. Dopo la guerra lavora presso i sindacati dei pensionati e presso l’Unione internazionale dei sindacati dell’Alimentazione.

[8] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 349.

[9] Ibidem.

[10] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 350.

[11] Intervista dell’autrice a Walter Martelli, svoltasi il 2 aprile 2024 presso l’abitazione di quest’ultimo a Livorno.

[12] Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 350.

[13] Tra gli esponenti di spicco vengono arrestati Garibaldo Benifei e Aramis Guelfi.

Aramis Guelfi (1905-1977): inizialmente maestro d’ascia, viene condannato nel 1939 dal Tribunale speciale a scontare quattro anni di reclusione. Viene liberato anch’egli con l’Armistizio dell’8 settembre, ma continua a combattere nella zona di Volterra. Diventa esponente di spicco del Partito Comunista livornese, per poi aderire nel 1963 al Partito Socialista Democratico.

[14] Umberto Comi era vicedirettore del giornale fascista “Sentinella Fascista” e spesso scriveva articoli non proprio conformi all’ideologia fascista, ma erano spesso difficili da decifrare nei loro contenuti e, proprio per la sua adesione al Partito, si crearono delle divisioni all’interno del movimento.

[15] Martelli G., Autobiografia, cit., p. 9.

[16] L’area sottoposta al controllo di Giovanni Martelli è relativamente grande e comprendeva molte piccole città della provincia di Pisa, come: Lari, Cascina, Crespina, Terricciola, Chianni, Peccioli.

Articolo pubblicato nel maggio 2024.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Introduzione
Giovanni Martelli è stato un antifascista, militante comunista e sindacalista livornese. Ha dedicato la sua vita ai lavoratori e agli ideali di libertà, in cui credeva fervidamente. È stato vittima delle violenze fasciste, di incomprensioni da parte dei suoi stessi compagni di Partito e dei dirigenti dei sindacati, di un sistema politico che cambiava costantemente e in cui si identificava sempre meno.
Questo articolo vuole ripercorrere una parte della vita di Martelli, dalla sua precoce militanza nel Partito Comunista d’Italia fino alla detenzione nelle carceri [1]. Verranno esaminate anche tutte quelle persone che hanno assistito Martelli nel proprio percorso politico, come alcuni antifascisti e militanti livornesi, partigiani attivi nella Resistenza all’occupazione nazifascista, politici e sindacalisti della Prima Repubblica. Tale ricerca non può esser scissa da un’analisi complessiva sul contesto nazionale che ha fatto da sfondo alla sua vita, un contesto segnato dal fascismo prima e dalle tematiche del secondo dopoguerra.
Il progetto è nato sulla base della consultazione dell’Autobiografia e delle note autobiografiche redatte da Giovanni Martelli stesso, e successivamente è stato esteso grazie a degli approfondimenti attuati su altri documenti conservati dal militante. Fino ad oggi la biografia e le esperienze di vita di Martelli sono state poco note alla comunità livornese odierna ma, grazie ad un lavoro di ricerca attuata personalmente presso l’Istituto Storico della Resistenza e delle Società Contemporanee della provincia di Livorno (in sigla, ISTORECO), adesso sarà possibile ricostruirle passo dopo passo. Martelli non era di origini livornesi, eppure il suo impegno politico è sempre stato rivolto alla città labronica fin da quando aveva diciassette anni, fin dal 1930.
L’articolo illustra non solo la sua figura, il suo impegno politico e sociale, ma anche i valori che ha condiviso e che lo hanno contraddistinto in tutti i suoi anni di militanza. Perché al di là della figura, c’è stato un uomo che ha creduto negli ideali di libertà, solidarietà, verità, lavoro. Martelli è stato proprio questo: un militante che ha corso dei rischi per i valori in cui credeva, ed è proprio partendo da questi valori che sarà possibile definire con maggior chiarezza la sua figura.
Per la realizzazione dell’elaborato sono stati consultati i documenti redatti e conservati da Martelli stesso, come ad esempio: le note autobiografiche, la propria biografia, lettere e opuscoli, articoli di giornali, comunicati. Le fonti sono state dapprima analizzate analiticamente, approfondendo i contenuti e gli eventi riportati, e successivamente sono state esaminate complessivamente col fine di tracciare un filo rosso che le ponesse in correlazione. Le persone non decidono casualmente di conservare determinati documenti, il tutto dipende dal grado di importanza che per essi rivestono; oppure, ogni individuo conserva un determinato oggetto perché lo rappresenta intrinsecamente. I documenti accumulati da un essere umano non sono mai agenti neutrali della storiografia, ma vanno osservati con attenzione e cautela.
Per esaminare questa storia particolare ed affascinante, l’elaborato è stato suddiviso in tre brevi paragrafi (pubblicati in tre articoli distinti).
Il primo paragrafo (pubblicato qui di seguito) illustra i primi anni di militanza di Giovanni Martelli nel Partito Comunista d’Italia durante il regime fascista e il suo incontro precoce con la classe operaia. Come afferma nella sua autobiografia, Martelli incontra la politica in età giovanile e quasi per caso, senza rendersi conto di cosa significasse aderire a un partito costretto alla clandestinità durante un regime totalitario. Si accorge delle responsabilità che ricopre solo quando vivrà sulla propria pelle la perquisizione e l’arresto.
Il secondo evidenzia i suoi due periodi di detenzione nelle carceri fasciste e le difficili condizioni psico-fisiche in cui ha vissuto. Nonostante gli arresti, Martelli apporterà un contributo significativo alla causa dell’antifascismo livornese e della Resistenza.
Il terzo ripercorre l’ultimo periodo di detenzione avvenuto prima presso il carcere di Don Bosco a Pisa e poi presso il carcere di Sant’Eufemia a Modena. L’ultimo arresto segnerà in maniera indelebile la vita del giovane antifascista di adozione livornese, soprattutto perché temeva di non poter più far ritorno a casa.

La presa di consapevolezza (novembre 1913-giugno 1932).
Giovanni Martelli nasce il 17 novembre 1913 a Castelfiorentino in una famiglia di umili origini: suo padre è operaio presso la Metallurgica Italiana e sua madre è casalinga. Per questioni lavorative il padre si trasferisce col resto della famiglia a Livorno, quando Martelli era molto piccolo. Lo stesso padre era nato e domiciliato a Livorno.
Vista la difficile situazione economica in cui viveva la famiglia, Martelli è costretto a lavorare non appena ha terminato le scuole elementari. Il suo primo impiego è presso l’ufficio telegrafico, dove vende a domicilio i telegrammi in arrivo, e a quindici anni lavora alla Cristalleria Torretta. Conosce il mondo del lavoro molto presto, quando è poco più che un bambino. Il contatto precoce con questa realtà lo segna così tanto nel profondo che le battaglie proletarie rimarranno al centro dei suoi interessi e delle sue discussioni.
Fino ai diciotto anni svolge più impieghi: diventa manovale edile, costruisce i blocchi di Shangai, svolge degli incarichi presso l’impresa Feltrinelli[2]. Successivamente, inizia a lavorare presso la ditta francese Mathon in uno stabilimento di materiali refrattari[3]. L’autore descrive la difficile condizione lavorativa in cui viveva, il difficile rapporto col sistema di produzione industriale fordista e la scarsa remunerazione che riceveva. Martelli racconta quella realtà con le seguenti parole:

«[…] Lavorai in quella fabbrica per circa due anni e fu in essa che conobbi veramente la durezza del lavoro e delle condizioni imposte all’operaio. In questo stabilimento, costruito secondo i moderni criteri dell’epoca, nonostante il paternalismo di quella direzione, le condizioni del lavoratore erano subordinate alla “salute” dei materiali […]. La condizione [in] cui si trovava l’operaio addetto alla macinazione del materiale refrattario, immerso per ore e ore permanentemente [nel] nuvolo di polvere e così via. Una forte percentuale di quegli operai, che per anni avevano dovuto lavorare a quelle condizioni, veniva colpita da malattie tubercolari o da gravi forme di silicosi […]»[4].

Quelle difficili condizioni lavorative gli fecero capire l’importanza della formazione, dell’istruzione e della scuola, di quei percorsi che aveva dovuto abbandonare a causa della povertà. Martelli comunque tra i diciotto e i ventuno anni riesce a frequentare delle scuole serali di avviamento professionale, dove si specializza in motori e in aviazione.
Sempre all’età di diciotto anni, Martelli si avvicina alla politica e al PCd’I quasi per caso. Nella sua Autobiografia racconta che non si è mai spiegato il perché a quell’età nutrisse una «profonda avversione verso il sistema fascista» e una «certa simpatia per il Partito comunista»[5]. In realtà, esisteva una motivazione di fondo che spiegava i suoi sentimenti contrastanti: come altri giovani cresciuti durante il Ventennio, era costretto a frequentare dei corsi premilitari che detestava nel profondo.
L’attività politica di Martelli si inserisce proprio in un periodo storico molto complesso. Nel 1931 si iscrive alle organizzazioni giovanili della Federazione comunista livornese a Iedo Tampucci e Leonardo Leonardi ma, a causa della sua giovane età, inizialmente non ricopre dei ruoli di rilievo politico all’interno della federazione e svolge altre attività, come: azioni di propaganda, organizzazione delle cellule, distribuzione e lanci dei manifesti di propaganda, preparazione dei materiali da discutere nelle riunioni. Aderire a un movimento considerato come eversivo in un regime autoritario, significava prender parte consapevolmente alla vita clandestina.
Un anno dopo entra a far parte del Comitato federale dei giovani e conosce molti giovani comunisti livornesi, tra cui Otello Frangioni e Garibaldo Benifei[6]. È necessario precisare che questi giovani non solo svolgeranno dei ruoli di rilevanza all’interno della lotta al regime nazifascista, ma continueranno anche a ricoprire degli incarichi di spicco all’interno del Partito dopo la guerra. Inizialmente prendono parte a riunioni su argomenti concernenti i presagi di una guerra imminente e la possibile partecipazione del fascismo ad essa, e successivamente svolgono il ruolo di trasmissione all’interno dell’organizzazione delle inaudite difficoltà che stava vivendo il Partito a livello nazionale. Inoltre, svolgeranno azioni di proselitismo clandestine nelle fabbriche e nelle giornate di festività dei lavoratori, come il primo maggio abolita dal regime e realizzeranno dei volantini inneggianti lavoro, pace e libertà.
Il 1932 è un anno che segnerà in maniera irreversibile la vita di Martelli in quanto viene arrestato l’11 giugno dall’OVRA, la polizia politica e segreta del regime che aveva il compito di reprimere l’antifascismo. Fino al 1944, Martelli verrà arrestato complessivamente tre volte e verrà denunciato al Tribunale speciale, come compare anche nella scheda biografica del Casellario Politico Centrale[7].
Le torture subite, gli arresti, le condanne e i trasferimenti, cambieranno le scelte di vita di Martelli che da militante per caso, divenne sinceramente convinto delle proprie scelte e continuerà ad opporsi al regime con un coraggio senza precedenti. È proprio con queste esperienze difficili che Martelli acquisirà una maggior consapevolezza e coscienza su cosa vuol dire esser militanti in un partito di opposizione durante un regime totalitario.

Note

  1. D’ora in avanti il Partito Comunista d’Italia verrà indicato con la sigla PCd’I.
  2. Presso l’impresa Feltrinelli, Martelli lavora allo scarico e carico del legname. Per un’impostazione generale sul tema, vedi: Martelli G., Nota autobiografica, Livorno, gennaio 1985, p. 1.
  3. Lo stabilimento qui menzionato è la “Società toscana per lo sfruttamento di cave e miniere C. Mathon”, attiva in tutto il territorio toscano e collocata a Livorno all’epoca in Piazza San Marco. Per un approfondimento sul tema, vedi: Camera di commercio della Maremma e del Tirreno, Fascicolo delle Società cessate, b. 838.
  4. Martelli G., Nota autobiografica, cit., p. 3.
  5. Martelli G., Autobiografia, Direzione del Partito Comunista Italiano (Sezione Quadri), 20 marzo 1945, p. 1.
  6. Otello Frangioni (1913-1952): è coetaneo di Martelli, con cui stringe un solido rapporto di amicizia. Anche lui si iscrive al Partito Comunista quando è giovanissimo e nutre un interesse profondo per le questioni proletarie. Sposerà una delle sorelle di Martelli e diventerà suo cognato. Muore in un incidente stradale a Scandicci insieme a altri militanti livornesi, come Leonardo Leonardi e Ilio Barontini.
    Garibaldo Benifei (1912-2015): Nasce in una famiglia antifascista, composta dal fratello anarchico Rito e dal fratello socialista Antonio. Nel 1933 viene arrestato con Martelli e condannato a un anno di reclusione presso il Palazzo dei Domenicani a Livorno, dove conobbe Sandro Pertini. Dopo l’arresto nel 1939 viene condannato a sette anni di carcere, ma viene liberato con l’Armistizio dell’8 settembre 1943. Tornato a Livorno aderisce al CLN e prende parte attivamente alla guerra di liberazione. Nel dopoguerra ha continuato a lavorare come operaio ed è stato esponente di spicco del Partito Comunista livornese.
  7. Casellario Politico Centrale, Giovanni Martelli, b. 3092, < http://dati.acs.beniculturali.it/CPC/ >, data di consultazione: 18 marzo 2024.

Articolo pubblicato nell’aprile 2024.




Il lavoro femminile a Campo Tizzoro

La Società Metallurgica Italiana – Smi – nacque il 14 aprile 1886 a Roma. Già a partire dall’anno seguente iniziarono ad aprire i primi stabilimenti in Toscana e di particolare rilevanza furono quelli della Montagna Pistoiese: Limestre, Mammiano e Campo Tizzoro. La costruzione di quest’ultimo iniziò nel 1910 e divenne operativo a partire dall’anno seguente. Campo Tizzoro, trovandosi in un fondovalle isolato e stretto tra ripidi monti, veniva considerato un posto protetto da possibili attacchi, era inoltre una zona in cui era presente abbondante «manodopera a basso costo, di provenienza rurale e perciò non ancora politicizzata o sindacalizzata».

L’arrivo della Smi sull’Appenino toscano produsse numerosi cambiamenti a livello sia sociale che culturale: migliaia di persone vennero inserite nel lavoro salariato in zone rurali e montane, inoltre, nel 1915, la Smi contribuì alla costruzione della Ferrovia Alto Pistoiese e anche al finanziamento della rete telefoninca sulla montagna. Ciò che caratterizzava gli stabilimenti della Smi nella zona della Montagna era «l’autoritario disciplinamento delle maestranze, la volontà di consolidare nei lavoratori un sentimento di appartenenza all’azienda e di acquietare insubordinazioni», cose che vennero conseguite sia all’interno che all’esterno della fabbrica. Se da una parte la Smi era dunque centro propulsore del miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti e oprattutto degli operai della zona, dall’altra imponeva una presenza quasi autoritaria. A tal proposito, la Società realizzò numerose infrastrutture sociali che avevano lo scopo di pianificare la vita dei dipendenti e della comunità a vari livelli: culturale, ricreativo, sportivo, didattico. A Campo Tizzoro – zona deserta prima dell’avvento dello stabilimento industriale – venne per esempio creato quello che fu battezzato “Villaggio Orlando”, che racchiudeva istituti scolastici, impianti sportivi, ma anche un museo, una biblioteca, una chiesa, oltre a numerosi alloggi per le famiglie. Venivano organizzati corsi serali di scuola elementare per gli operai e le operaie analfabeti, oltre al cinematografo e alla filodrammatica.

Durante la Prima guerra mondiale, la Smi fu la principale fornitrice delle munizioni per l’esercito e la marina, in quel periodo venne inoltre avviata la costruzione del nuovo impianto di Fornaci di Barga, che cominciò a produrre nel giugno 1916. In occasione dei periodi bellici, la Società metallurgica era stata dichiarata «industria ausiliaria», per questa ragione usufruì non solo di agevolazioni nell’approvigionamento di materie prime e di privilegi relativi alla manodopera, ma anche dell’esonero delle maestranze maschili dal servizio militare, cosa che ebbe sicuramente delle conseguenze nella vita delle comunità locali.

Negli anni Venti, la produzione della Smi non fu costante: nel 1926, in seguito a un momento di crisi, recuperò, per poi retrocedere nuovamente con la crisi del ’29, tanto che a Campo Tizzoro le maestranze erano circa 700 nel 1927, mentre nel 1930 passarono a essere solo 126.

Per quel che riguarda il rapporto della fabbrica di Campo Tizzoro con il fascismo, soprattutto nel periodo dalla guerra di Spagna, emerse l’avversione verso il regime, tanto che nel 1943 cominciarono i rallentamenti per sabotare la produzione di munizioni e in seguito la S.A.P. – Squadra di Azione Patriottica – utilizzò le gallerie sotterranee della fabbrica per trafugare viveri, armi e munizioni destinate ai partigiani. Anche a Fornaci si registrano posizioni antifasciste tra gli operai.

Seguì, nel secondo dopoguerra, un momento di crisi e una diminuzione della manodopera, che portò a numerose mobilitazioni e proteste nel pistoiese in opposizione ai licenziamenti. Complice sicuramente anche il clima che si respirava a livello nazionale e internazionale in quegli anni, ci fu un inaspriamento del rapporto tra lavoratori e direzione aziendale, oltre a forti discriminazioni in base all’appartenenza politica: per esempio a Campo Tizzoro i comunisti furono i primi a essere licenziati.

Nel 1976, la Metallurgia Italiana si dotò di una nuova organizzazione finanziaria e le imprese produttive vennero concentrate nel gruppo La Metalli Industriale S.p.A (Lmi), così che la Smi diventò holding di un gruppo industriale metallurgico internazionale.

Una particolarità dell’industria metalmeccanica della zona della Montagna Pistoiese fu la forte presenza femminile, soprattutto a partire dal periodo del primo conflitto mondiale: nel 1918 le donne a Campo Tizzoro rappresentavano il 44,7% della manodopera, ma già da prima della Grande Guerra vi era comunque una partecipazione femminile considerevole all’interno dell’industria. Nonostante il brusco calo dell’occupazione delle donne nel secondo dopoguerra, il ruolo avuto dalle operaie precedentemente aveva permesso loro di creare un rapporto molto stretto con la fabbrica, di conseguenza iniziarono a ottenere ruoli sempre più importanti e maggiori responsabilità all’interno degli stabilimenti.

Fu proprio a Campo Tizzoro che Gabriella Venturi – sindacalista attiva tra fine anni ’60 e inizi 2000 – mosse i primi passi all’interno della fabbrica. Le vicende che hanno caratterizzato la sua vita sono ricostruibili attraverso i pochi documenti di archivio conservati, ma anche grazie alle parole di chi l’ha conosciuta personalmente: amici, compagni e parenti.

Gabriella nacque il 29 dicembre 1942 a Pistoia e visse tutta la vita a Pracchia, in via Fontana, dove, non essendosi mai sposata, abitò con i genitori. Non si ha una data precisa del suo ingresso alla Smi di Campo Tizzoro come operaia, probabilmente ciò avvenne attorno ai diciotto anni. Per quel che riguarda l’istruzione, sappiamo che Gabriella portò a termine il perscorso della scuola media, ma non frequentò mai le superiori, e, presubilmente, prima di iniziare il suo percorso nell’industria metallurgica, svolse qualche lavoro saltuario.

Proveniente da una famiglia profondamente credente, inizialmente s’iscrisse alla Cisl, in quanto sindacato più vicino al mondo cattolico e quindi alla sensibilità con la quale era cresciuta. In seguito avvenne il passaggio dalla Cisl alla Cgil, nei primi anni Settanta, un passaggio che, nelle loro interviste, Renzo Innocenti e Simonetta Bartoletti descrivono come qualcosa che avvenne in maniera naturale e repentina[1]. La nipote Simonetta sottolinea il fatto che la svolta, quindi il passaggio dal sindacato cattolico alla Cgil, all’interno della famiglia di Gabriella aveva avuto un certo peso, quasi come se la donna avesse tradito alcuni ruoli e alcuni valori con i quali era cresciuta. Simonetta racconta che il padre di Gabriella si ritrovò presto a dover fare i conti con la realtà e ad adeguarsi a essa: i tempi erano cambiati e le cose «stavano andando avanti più vivacemente rispetto a quello che lui aveva vissuto». La trasformazione di Gabriella fu radicale: non solo entrò nella Cgil, ma si iscrisse al Partito comunista italiano nel 1974. Oltre a essere iscritta al Pci, la nipote Simonetta riporta che Gabriella, nel 1984, era iscritta anche all’Anpi. Purtroppo non ci sono elementi che permettono di attestare se fosse iscritta anche precedentemente.

Venne licenziata, per motivi non del tutto chiari, dalla Smi di Campo Tizzoro probabilmente nel 1983 o nel 1984, infatti le ultime attestazioni della sua presenza nella fabbrica trovate in archivio risalgono al 27 gennaio 1983, quando venne eletta, come anche precedentemente, nel reparto Nastro[2]. Nei primi anni Ottanta, all’interno della Lmi vennero eliminati migliaia di posti di lavoro, tanto che si passò dai circa 7’000 occupati nel 1980 ai 3’000 nel 1985. Dopodichè la ritroviamo assunta in Cgil il 2 gennaio 1985 e Simonetta Bartoletti afferma che Gabriella è stata la prima donna in Segreteria Confederale, cosa che, purtroppo, non si può confermare attraverso i documenti consultati.

Renzo Innocenti – segretario provinciale quando Gabriella faceva parte della segreteria Fiom – nella sua intervista racconta che il suo primo incontro con Venturi avvenne nel periodo dell’autunno caldo, in occasione di un’occupazione – probabilmente la prima – dell’Istituto tecnico industriale di Pistoia frequentato dallo stesso Renzo. Gabriella, già dipendente della Smi di Campo Tizzoro, arrivò alla scuola con una delegazione. Si tratta di un evento che conferma il fatto che anche a Pistoia il movimento degli studenti aprì un fronte di confronto e unità con gli operai. Innocenti afferma che, fin dall’inizio, Gabriella gli diede l’impressione di essere una combattente, una persona molto concreta, pragmatica, tenace e una donna che emergeva in un mondo di uomini. Del suo animo guerriero si hanno delle attestazioni grazie ai documenti di archivio. A tal proposito, colpisce un evento in particolare: durante le assemblee di fabbrica del 20 ottobre 1971, viene indetto, attraverso il volantino «No! Ai 400 licenziamenti», uno sciopero per il giorno seguente. In quell’occasione, insieme ad alcuni compagni, Gabriella venne accusata di aver organizzato una manifestazione non autorizzata, di aver ostacolato la libera circolazione e di avere usato violenza contro alcune guardie giurate. Per queste ragioni, venne citata a comparire il 21 novembre 1973.

Gabriella aveva inoltre un’attenzione e un legame profondo nei confronti della Montagna Pistoiese, sentiva la necessità di scommettere su un suo ruolo più forte e visibile, in modo tale da contribuire a contrastare la perdita del ruolo industriale e manifatturiero dovuto al ridimensionamento della presenza della Smi, ma voleva anche impedire la chiusura di aziende occupate in altri settori nella zona della Montagna. Nonostante Renzo Innocenti non ricordi che Gabriella abbia mai seguito le lavoratrici a domicilio, in un documento risalente al 21 maggio 1985 e a lei destinato, emerge che la donna era stata nominata come componente della Commissione Comunale per il lavoro a domicilio «per il comune di San Marcello Pistoiese in rappresentanza dei lavoratori».

Il rapporto di Venturi con il movimento femminista è interessante, dal momento che, a partire dal secondo dopoguerra, in Italia ci fu un radicale mutamento all’interno dei sindacati, sia della partecipazione femminile, sia dell’organizzazione delle strutture delle donne. La maggior parte della nuova generazione delle sindacaliste aveva preso parte alle vicende che avevano caratterizzato il loro tempo: avevano beneficiato della scolarizzazione di massa e in molte avevano preso parte al movimento del 1968. Si erano inoltre distanziate e avevano iniziato a guardare con scetticismo alcune posizioni delle loro precorritrici. Dall’intervista di Renzo Innocenti emerge però il fatto che Venturi non sembrerebbe aver mai avuto stretti rapporti con il femminismo, anzi, in diverse occasioni pare abbia criticato alcune posizioni radicali del movimento. Simonetta Bartoletti ricorda che Gabriella era spesso in giro, in diverse occasioni si recava anche all’estero, e più che cercare di trovare un proprio spazio in quanto donna all’interno del sindacato, con i suoi tempi e le sue differenze, sembrava piuttosto voler adeguarsi a uno stile di vita che solitamente caratterizzava la sfera maschile. Era sicuramente molto legata alla famiglia, ma allo stesso tempo era sempre sui fronti, passava poco tempo in casa. Non erano molte le donne disposte a dedicare tutto il loro tempo a un impegno così totalizzante e questo fu sicuramente un elemento che colpiva tutti coloro con i quali si trovava a confrontarsi Gabriella. Nonostante questa presa di distanza dal movimento femminista, Gabriella era comunque consapevole delle difficoltà, delle differenze e delle disparità di genere all’interno del movimento sindacale per i ruoli di responsabilità e di direzione.

Andata in pensione nei primissimi anni 2000, Gabriella si spense nel 2002, ma il suo ricordo è sopravvisuto a lei. Una prova dell’affetto e dell’importanza che ha avuto la donna all’interno del sindacato si ha in occasione della tredicesima edizione di CGIL INCONTRI del 2009, che si svolse tra il 23 giugno e il 5 luglio. L’incontro del 2 luglio con i ragazzi del campo di lavoro Liberarci dalle Spine s’intitolava «….dedicato alla Lella (Gabriella Venturi) “Racconti di lotte al femminile”», coordinato da Maria Cangioli e con la partecipazione di Anna Goretti.

Martina Lopa studia storia all’Università di Firenze, dove sta lavorando a una testi di laurea sulle prime organizzazioni femminili e l’animalismo nell’800, e collabora con la Fondazione Valore Lavoro, per la quale sta curando una mostra sul 70° anniversario della prima Conferenza nazionale della donna lavoratrice svoltasi a Firenze il 23-24 gennaio 1954.




Guido Cerbai, un percorso sghembo e coerente

Le stagioni più vivaci della sinistra italiana – quelle, diciamo, dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta – sono state animate da soggettività molto diverse e sono state tante le figure che hanno attraversato questi anni con bagagli politico-culturali e lungo percorsi non convenzionali.
Una di queste figure è Guido Cerbai, nato a Galliano di Mugello nel 1934, vissuto dal 1946 al 1959 a Firenze e successivamente trasferitosi a Pisa, dove attualmente risiede.
Oggi, alle soglie dei novant’anni, Cerbai è una figura sempre presente e visibile nella vita politica cittadina come attivista e dirigente di Rifondazione Comunista, ereditando una fitta rete di relazioni intessuta nel corso di sessant’anni di attività dapprima sindacale e quindi nelle istituzioni e portando sempre nelle assemblee e nelle iniziative politiche una voce autorevole che si appoggia a una memoria precisa, lucida e colta.
Tutte queste caratteristiche hanno fatto in modo che diverse persone, indipendentemente tra loro, lo abbiano individuato nella seconda metà degli anni Dieci come testimone privilegiato di un lungo periodo di vita politica e sindacale cittadina. Questo riconoscimento si è materializzato nel febbraio 2019 in una lunga intervista di vita in video della durata di oltre quattro ore che è stata successivamente montata, suddivisa in sette scansioni cronologiche e caricata sulla piattaforma Youtube. Per favorire l’accesso all’intervista è stato quindi realizzato un apposito sito web (cerbairacconta.wordpress.com), dal quale è possibile anche scaricare una versione sintetica dell’intervista di poco più di un’ora.
È molto difficile se non impossibile individuare una fase saliente di questo lungo percorso di vita, in quanto in tutte le sue diverse fasi si ritrova lo stesso intreccio armonico tra universo affettivo, impegno politico e lavoro, segnato peraltro da una forte coerenza di fondo.
Ciò che cambia nel tempo sono gli scenari, raccontati con viva partecipazione emotiva e con ricchezza di particolari. Scenari molteplici e articolati ma che possono essere ricondotti a quattro fondamentali: la dura campagna mugellese della famiglia, dell’infanzia e degli anni della prima adolescenza, la Firenze della frequentazione della Madonnina del Grappa fino al compimento degli studi universitari, la vita di fabbrica a Pisa fino ai primi anni Novanta e infine l’impegno politico nel territorio, cioè nel quartiere e in città, prevalente negli ultimi decenni. Questi scenari si articolano poi internamente e si sovrappongono tra loro, come nel caso dell’impegno politico e di quello sindacale, entrambi intensi soprattutto a partire dal Sessantotto, oppure, più indietro nel tempo, come nel caso della vita all’interno della Madonnina del Grappa, dove la formazione scolastica e universitaria s’intrecciano con la vita dell’istituto ma anche con la vita politica fiorentina, fortemente segnata dalla presenza di grandi personalità del cattolicesimo progressista.

Roma, manifestazione per la pace 1991

Figura impegnata in prima fila e al tempo stesso osservatore analitico e capace di ricostruire il contesto storico e politico, Cerbai restituisce in modo altrettanto dettagliato e preciso gli eventi personali e quelli collettivi: i difficili anni del dopoguerra, la Firenze di Giorgio La Pira e di Don Lorenzo Milani, il clima oppressivo della fabbrica degli anni Sessanta, l’imprevista e galvanizzante svolta del Sessantotto, che sconvolge sia la sfera politica che quella culturale, il robusto impegno sindacale nella fase ascendente degli anni Settanta e poi in quella del lento regresso degli anni Ottanta e Novanta, ma segnata dallo straordinario successo costituito dalla salvezza dell’impianto pisano e di tutti i suoi posti di lavoro, il parallelo emergere di un impegno di partito che pur nelle successive formazioni non verrà mai meno e gli darà la possibilità di trasporre l’ispirazione democratica di base ereditata da Don Milani e da La Pira dal consiglio di fabbrica alla presidenza del consiglio di circoscrizione.
Questa interpretazione tenacemente radicale dell’impegno pubblico prende infatti varie forme e si traduce nell’adesione a diverse sigle, dalla Cisl al Movimento politico dei lavoratori, da Democrazia proletaria a Rifondazione comunista, ma non tradisce l’ispirazione di fondo maturata negli anni dell’adolescenza all’incrocio tra cattolicesimo progressista e un socialismo non burocratico, ma al contrario anzitutto autogestionario.
La testimonianza di Guido Cerbai permette di ripercorrere anche le trasformazioni economiche e sociali che hanno via via segnato gli anni della ricostruzione, quindi del miracolo economico e poi degli ultimi decenni e di osservare da vicino figure come quella di Don Giulio Facibeni o quella di Don Lorenzo Milani, oltre ad altri protagonisti della sinistra politica e sindacale pisana e nazionale.

Sitografia:

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Archivi:
BFS ISSORECO, Archivio della Federazione provinciale pisana di Democrazia Proletaria,
BFS ISSORECO, Carte «Consiglio di Fabbrica Guidotti»




Il partigiano Beppe e la Resistenza nel Volterrano

La vicenda partigiana di Vinicio Modesti (Beppe) è una storia esemplare per comprendere la Resistenza nella provincia di Pisa. Sono qui presenti, infatti, molti degli elementi fondamentali per cogliere le specificità della lotta di liberazione nel Volterrano, l’area di maggiore attività partigiana a livello provinciale.

L’irrequietezza e l’insofferenza delle generazioni più giovani rappresentano il punto di partenza senza il quale non sarebbe neanche pensabile una partecipazione armata alle attività clandestine antifasciste e antitedesche. Vinicio era nato a Volterra nel 1924: dopo l’8 settembre, poco più che studente e appena approdato all’insegnamento tecnico, organizzò con un paio di amici un piccolo nucleo di cospiratori. Un membro del locale Cln li invitò però ad aspettare, per «non turbare la pace del paese». Intanto, a partire dal novembre 1943, la pace dei maschi nati tra il 1923 e il 1925 fu turbata dalla chiamata alle armi delle autorità militari della neocostituita Repubblica di Salò. Da qui la scelta di sparire e unirsi ai partigiani.

I tentativi di avere contatti con la rete antifascista si rivolsero inizialmente verso Firenze, poiché altrove in Toscana l’organizzazione clandestina era ancora debole e poco strutturata, ma senza esito. Alcuni gruppi di uomini alla macchia si erano formati più a sud, attorno a Massa Marittima, comandati da Velio Menchini ed Elvezio Cerboni; i primi di novembre l’incarico di organizzare una formazione partigiana venne affidato a Mario Chirici, comandante repubblicano antifascista molto noto nella zona e appena tornato dalla Jugoslavia. Erano molti i collegamenti con il Volterrano e la Val di Cecina, aree collinari e boscose unite da una fitta rete di strade comunali: nel giro di pochi giorni i ragazzi che insieme a Vinicio Modesti volevano unirsi ai partigiani trovarono i contatti giusti per raggiungere il campo base della banda di Chirici, all’Uccelliera, tra Monterotondo e Massa Marittima. Vinicio però arrivò in un momento particolarmente infelice: la formazione si era appena spostata per sfuggire a un rastrellamento e senza essere riuscito ad agganciare nessuno il giovane decise di rientrare a Volterra.

Non appena rientrato, i militi repubblichini, ben informati dei suoi movimenti, lo andarono a cercare a casa, in Piazza dei Priori; all’ultimo un vicino generoso lo nascose permettendogli di fuggire. Nascosto da coloni in mezzo al bosco, tratteneva rapporti epistolari con la famiglia, che nel frattempo subiva la persecuzione fascista: il negozio venne chiuso, i genitori e le sorelle furono costretti a lasciare Volterra. Nel mese di gennaio del 1944 Vinicio si spostò di nuovo verso sud, nel grossetano, dove riuscì finalmente a incontrare i partigiani di Mario Chirici. In pochi giorni venne nominato capo squadra e vide la graduale crescita degli effettivi armati dai 15 iniziali agli 80 circa.

A metà febbraio, tuttavia, la vita della formazione venne bruscamente interrotta dal rastrellamento del Frassine, il maggior trauma nell’esperienza resistenziale della zona, motivo di una profonda frattura che non si sarebbe mai più rimarginata. La sera del 15 febbraio, partirono da Follonica e da Massa Marittima dei camion carichi di militi fascisti locali, a cui si aggiunsero altri provenienti da Grosseto, in direzione dell’area dove avevano base i partigiani: prima dell’alba del 16 febbraio, tre colonne di repubblichini comandate dagli ufficiali Giovanni Nardulli di Massa Marittima, Monti di Grosseto e Pini di Castelpiano, conclusero l’operazione di rastrellamento della formazione, che venne presa totalmente alla sprovvista. La maggior parte degli uomini riuscì a scappare, un piccolo gruppo si asserragliò in una casa colonica, da dove ingaggiò una lunga sparatoria con gli assedianti. Dopo qualche ora i partigiani si arresero: cinque vennero trucidati, gli altri furono condotti in prigione.

Molti uomini che avevano gravitato intorno a Chirici decisero di allontanarsi e proseguire la loro attività più a nord-est, tra le province di Pisa e di Siena, in particolare nell’area tra il bosco delle Carline, Radicondoli e il bosco di Berignone, dove si era formata una squadra sotto il comando di Elvezio Cerboni. Qui con la guida di Guido Stoppa e di Alberto Bargagna l’organizzazione militare e i rapporti con il territorio si fecero più solidi e strutturati, le bande si svilupparono in maniera efficiente e dai primi di marzo riuscirono a darsi un livello operativo coordinato e coerente. Le azioni a Belforte e Montieri, nel marzo 1944 sancirono l’inizio di una nuova fase.

Il diario del partigiano Beppe, datato aprile 1944, è stato di recente ristampato insieme a un racconto successivo dello stesso Vinicio Modesti. L’attività da lui svolta dopo la guerra come scultore e insegnante hanno lasciato una memoria viva nel territorio; meno invece si sapeva della sua esperienza partigiana. Sia il diario che il racconto si chiudono però con la primavera del 1944, tranne un accenno alla vicenda della sorella Rossana che si prolunga fino a giugno. Le vicende partigiane vissute nel maggio e nel giugno non appaiono. Si tratta di una scelta singolare, che merita una riflessione. La maggior parte delle azioni partigiane di questa area avvennero proprio a partire dal maggio del 1944, quando con lo sfondamento della Linea Gustav e la ripresa dell’avanzata alleata sul territorio italiano, le speranze di una liberazione imminente spinsero a una crescita esponenziale della presenza e della forza resistenziale nella provincia di Pisa. Molti si unirono solo in questa ultima fase, tra la primavera e il passaggio del fronte.

Di questi mesi, che pure furono i più ricchi di colpi riusciti e di consenso da parte della popolazione, Vinicio Modesti tace. Forse perché altri potevano raccontare, mentre lui solo avrebbe potuto testimoniare ciò che accadde prima, i lunghi itinerari inconcludenti, le sconfitte, gli «odiosi attendismi». Forse perché considerava la parte precedente quella più autentica e sofferta dell’esperienza partigiana, più solitaria e imprevista, dura e dagli esiti imprevisti. Impossibile arrivare ora a una risposta certa; rimane il fascino irrisolto per una testimonianza ricca e vitale, irrequieta e intensa come lo sa essere solo lo spirito di un ragazzo che «era giovane ma [che] i suoi diciannove anni li aveva vissuti così intensamente che in certe cose pareva un saggio».