Costanzo Ciano e il controverso affondamento della “Viribus unitis” (1° novembre 1918)

Tra le numerose onorificenze conferite a Costanzo Ciano (Livorno 1875 – Ponte a Moriano 1939), “eroe navale” nonché ricchissimo armatore e gerarca ministeriale del regime fascista, è annoverata quella di Commendatore dell’Ordine Militare di Savoia, attribuitagli il 19 gennaio 1919; tale riconoscimento rimane però il più controverso ed anche il meno conosciuto fra quelli ricordati nelle biografie – sia agiografiche che critiche – del noto esponente militare, politico e imprenditoriale livornese.
L’attribuzione onorifica della “commenda” era infatti legata ad un episodio bellico, costato la vita a circa trecento marinai (le stime a riguardo oscillano fra 250 e 350) quando ormai il conflitto si era virtualmente concluso; inoltre, poneva non poche ombre sull’atteggiamento morale e la fama dell’intrepido “violatore” di porti nemici[1].
L’azione di guerra in questione avvenne nella notte fra il 31 ottobre e il 1° novembre 1918, nel porto adriatico di Pola (Pula), base strategica della Marina austro-ungarica, dove furono affondate la corazzata “Viribus unitis” e la nave passeggeri “Wien” del Lloyd Austriaco ad opera di due ufficiali della Regia Marina italiana, mentre a Padova erano in corso i negoziati per stipulare l’armistizio fra Italia e Austria-Ungheria, poi formalizzato il 3 novembre con la firma delle rispettive delegazioni che, il giorno seguente, mise fine alle ostilità.
L’imperatore Karl I d’Asburgo, fin dal 16 ottobre 1918, aveva emanato un proclama che offriva la trasformazione della Duplice Monarchia in uno stato federale. Tra i provvedimenti connessi, era prevista la cessione della flotta imperial-regia alla nuova, ipotetica, federazione jugoslava, ossia dei Croati e degli Sloveni.
Di fatto, dunque, fin dal 17 ottobre era da ritenersi conclusa per l’Austria la guerra sul fronte navale.
Il 29 ottobre, il Comando supremo delle forze armate austriache aveva quindi accettato le condizioni per la resa imposte dalle forze alleate, fra cui la consegna dell’intera flotta alle nazioni vincitrici e il 30 ottobre, venerdì, l’imperatore Karl I aveva preventivamente disposto la consegna della flotta al Consiglio nazionale degli Sloveni, Croati e Serbi[2].
Infatti, fin dal pomeriggio del 30, sulle unità navali ancorate nel porto di Pola erano state ammainate le bandiere austriache, per essere sostituite da quelle croato-slovene. Sulla “Viribus unitis”, prontamente ribattezzata “Jugoslavija”, la bandiera imperiale venne ammainata alle ore 16.45 del 31 ottobre e, poco dopo, furono issate le bandiere croato-slovene sui due alberi principali della nave, così come altrettante bandiere rosse, salutate da 21 salve di cannone. Molti marinai avevano già cucito sui berretti i distintivi jugoslavi, mentre il comando della flotta era stato trasferito, su decisione del Consiglio nazionale jugoslavo, al capitano di fregata, croato, Janko Vukovič von Podkapelski che sarebbe perito nell’affondamento.
A terra, come a bordo delle navi ormeggiate, marinai, soldati e operai dell’Arsenale militare, oltre a festeggiare la fine della guerra, avevano formato comitati dei soldati e dei marinai, alla stregua di soviet, secondo le rispettive nazionalità (austriaci, boemi, cecoslovacchi, polacchi, ucraini, ungheresi e romeni), reclamando l’immediato congedo ed issando bandiere coi colori nazionali ma anche rosse. Anche la città era in tumulto e ovunque erano apparse bandiere italiane.
L’equipaggio effettivo della corazzata – 1.087 uomini tra marinai, sottufficiali e ufficiali – era assolutamente composito: 47% slavi (croati, sloveni, serbi…), 20% ungheresi, 16% austriaci, 15% italiani. Alcuni marinai di nazionalità austriaca ed ungherese erano già sbarcati, altri (inclusi gli italiani) sarebbero partiti l’indomani; il restante equipaggio era formato solo da sloveni e croati. Nessuno avrebbe più obbedito e combattuto e, nell’illusione della pace ormai venuta, sia in città che sulle navi, si era rinunciato alle misure d’oscuramento e la vigilanza era stata allentata.
L’obiettivo dell’incursione subacquea, la “Viribus unitis”, varata il 24 giugno 1911 a Trieste ed entrata in servizio nel 1912, assumeva una valenza simbolica in quanto ammiraglia della flotta imperiale. Inoltre, a fine giugno 1914 aveva riportato a Trieste le salme dell’erede al trono Franz Ferdinand e della consorte Sofia, uccisi nel fatidico attentato di Sarajevo e, il 24 maggio 1915, aveva partecipato al bombardamento navale di Ancona. Costata 67 milioni di corone, dal punto di vista militare, era risultata inadatta alla guerra marittima nell’Adriatico ed infatti, nel corso del conflitto, la “dreadnought” rimase quasi sempre alla fonda nel porto di Pola.

LA MISSIONE IN EXTREMIS

La missione di guerra subacquea, a lungo progettata, divenne operativa il 29 ottobre quando giunse a Venezia il telegramma con l’ordine di esecuzione immediata, da parte dell’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, Capo di Stato maggiore della Marina italiana, impartito al capitano Costanzo Ciano, capo dell’Ispettorato dei Motoscafi Antisommergibili[3].
Alle due pomeridiane del 31 ottobre 1918, due torpediniere (65-PN e 66-PN) e due Mas (94 e 95), a traino di queste, lasciarono dunque il porto di Venezia, al comando di Ciano, imbarcato sulla torpediniera 65-PN[4].
Verso sera, secondo il piano prestabilito, il Mas 95, su cui prese posto Ciano, fu “mollato” dalla torpediniera e fece rotta verso Pola, trasportando a bordo la “mignatta” S2, ossia un siluro modificato e munito, a prua, di due cariche esplosive magnetiche con 175 kg di tritolo ciascuna. Giunto nei pressi delle Isole Brioni, a circa tre miglia da Pola, il Mas 95, alle 22.13, mollò la “mignatta” lasciandola alla guida dei due “incursori” subacquei che, dopo circa quattro ore di navigazione semi-sommersa, riuscirono a superare gli ultimi sbarramenti del porto e raggiungere l’obiettivo. Non senza difficoltà, una delle due cariche fu

Mignatta (Museo navale La Spezia)

assicurata allo scafo della ex “Viribus unitis”, mentre l’altra, innescata e trasportata dalla “mignatta” abbandonata alla deriva, sarebbe finita nei pressi del piroscafo “Wien” affondandolo, senza causare altre vittime. I due «motonauti», scoperti e condotti a bordo della corazzata, avvisarono il comandante che la nave stava per saltare in aria, ma a causa di un ritardo del meccanismo ad orologeria, l’equipaggio tornato a bordo, dopo un primo abbandono, fu tragicamente coinvolto dell’esplosione e nel rapido naufragio della nave da battaglia, ormai non più “belligerante”.
Le ragioni di tale affondamento restano controverse; se forse i due “incursori” erano all’oscuro che ormai la “Viribus unitis” non poteva più essere ritenuta un’unità nemica, gli alti Comandi italiani ne erano verosimilmente al corrente. Innanzi tutto, a Pola, oltre al Consiglio nazionale degli jugoslavi si era costituito anche un Consiglio nazionale degli italiani in contatto con l’Italia così come, sicuramente, in città operavano agenti dell’intelligence militare italiana. Inoltre i servizi di informazione della Marina italiana sin dalla mattina del 31 ottobre avevano intercettato messaggi che riferivano dell’avvenuto passaggio di poteri. La notizia della cessione della flotta era peraltro già di dominio pubblico ed aveva raggiunto le redazioni dei giornali.
Nonostante ciò, alle torpediniere in navigazione non fu trasmesso via radio alcun contrordine da parte dell’Ammiragliato e su tale circostanza si possono fare almeno due ipotesi: i vertici della Marina italiana intendevano concludere il conflitto con una propria clamorosa affermazione, volta a bilanciare l’ultima “gloriosa” offensiva dell’Esercito italiano a Vittorio Veneto, oppure gli stessi comandi – d’intesa con il Ministero della guerra – miravano a indebolire la flotta del nascente stato jugoslavo, per assicurarsi il controllo navale dell’Adriatico nel dopoguerra[5].
Di fatto, circa trecento marinai di varie nazionalità morirono, assurdamente, ormai convinti d’essere sopravvissuti a quattro anni di guerra.
I due ufficiali italiani, protagonisti dell’incursione, rimasero prigionieri a bordo di due unità sino al 5 novembre quando vennero liberati all’arrivo della navi italiane che presero possesso del porto di Pola; i due ardimentosi, decorati entrambi con Medaglia d’oro al valor militare e promossi di grado, erano il maggiore Raffaele Rossetti[6] e il sottotenente Raffaele Paolucci[7].
La tragica vicenda però non si concluse con tali riconoscimenti; come ha scritto Pietro Spirito: «dall’oscuro fondo del mare, in quel remoto punto dell’Adriatico, dal relitto capovolto e silenzioso della corazzata adagiata nel fango, escono un po’ alla volta i fantasmi dei marinai morti nel naufragio, e chiedono conto».

Raffaele Rossetti

Nel marzo-aprile 1919, Raffaele Rossetti scoprì casualmente i provvedimenti che la Marina italiana aveva decretato a tutto favore di Costanzo Ciano, al quale era attribuito il merito principale dell’impresa di Pola e persino dell’invenzione della “mignatta”, ossia della “Torpedine semovente Rossetti”, per cui a Ciano veniva assegnato anche un terzo del premio in denaro previsto per l’affondamento, «in ragione del tipo della nave distrutta di L. 1.300.000, secondo la percentuale del 2 per cento sul costo della nave stessa»[8] che, teoricamente, doveva spettare ai soli Rossetti e Paolucci, secondo quanto previsto dal Decreto luogotenenziale n. 615 del 21 aprile 1918.
Di fronte a quella che riteneva un’ingiustizia si rivoltò Rossetti che, a tutti gli effetti, era stato l’ideatore, il sostenitore, il progettista, il collaudatore ed infine il pilota dell’ordigno subacqueo, mentre Ciano era intervenuto quale “supervisore” solo nella fase sperimentale con alcuni suggerimenti tecnici (qualcuno accolto e qualcuno errato). Le rimostranze di Rossetti peraltro si collegavano all’analoga partecipazione di altri 14, fra ufficiali e marinai, imbarcati sui due Mas dell’impresa di Pola, che potevano avere simili diritti[9].
Rossetti, dopo aver dato le proprie dimissioni dalla Marina, intraprese ricorsi legali, proteste e rimostranze di vario genere, comprese due lettere dirette a Ciano, il quale – pur riconoscendo in privato – il diritto reclamato da Rossetti, non si sarebbe attivato conseguentemente presso i vertici della Marina, dando adito al sospetto che fosse stato proprio Ciano ad avanzare la pretesa “tripartizione”. Il dubbio si rafforzò dopo che Rossetti apprese dall’ammiraglio Eugenio Cento che nel dicembre 1918 Ciano era andato a Parigi, in occasione delle consultazioni per il Trattato di Versailles, per incontrare l’ammiraglio Thaon di Revel allo scopo di esigere una parte del premio d’affondamento tanto che, in effetti, l’ammiraglio, accogliendo l’istanza di Ciano, inoltrò al ministro della Marina, Alberto del Bono, e al Consiglio superiore della Marina l’indicazione di dividere il compenso fra Rossetti, Paolucci ed appunto Ciano.
La vertenza aperta da Rossetti durò un anno, concludendosi con un parziale riconoscimento delle sue motivazioni; mentre a Ciano, al quale era stato negato pure l’avanzamento di grado, venne concessa la “commenda”, a titolo di consolazione. Per sottolineare la sua rivendicazione, nel 1924 Rossetti ritenne opportuno dare alle stampe un documentato quanto polemico libro sull’intera vicenda. Il libro, intitolato Contro la “Viribus Unitis” (sottotitolo: Le vicende di un’invenzione di guerra), fu edito all’inizio del 1925 dalla Libreria Politica Moderna di Roma, ma, appena stampato, un’incursione fascista incendiò la tipografia e quasi tutte le copie. Fortunatamente, il piombo dei caratteri e parte dei clichés delle fotografie si erano salvati permettendo una seconda edizione, stampata presso la Società anonima poligrafica italiana, nel settembre 1925[10].
Significativamente, il libro era dedicato alla memoria di Janko Vukovič, il capitano della “Viribus unitis”, «avversario di guerra che mi lasciò, morendo, esempio indimenticabile di generosa umanità».
A dimostrazione del suo disinteresse economico, Rossetti nel 1919 devolse l’intero importo del premio e, in particolare, destinò centinaia di migliaia di lire alla vedova e al figlio undicenne del capitano Vukovič, a favore dei quali s’aggiunse un analogo ingente contributo da parte di Paolucci.
Successivamente, le strade dei due protagonisti dell’impresa si sarebbero divise, anche politicamente.

SU OPPOSTI FRONTI

Terminato il conflitto, con decreto dell’11 novembre 1919 Rossetti fu dispensato, su sua richiesta, dal servizio attivo permanente e inserito nel ruolo degli ufficiali di complemento; l’anno successivo rinunciò al grado e venne posto in congedo a decorrere dal 1° settembre 1920. Rossetti, dopo aver appoggiato l’impresa dannunziana di Fiume di Gabriele D’Annunzio, con l’ascesa del fascismo si iscrisse al Partito repubblicano italiano, entrando in rotta di collisione col regime, in conseguenza anche dello sdegno suscitato dal comportamento di Ciano che nel 1921 era stato eletto deputato per i Fasci di combattimento (del cui Consiglio nazionale era membro) nella lista del Blocco nazionale e poi, nel primo governo Mussolini, divenuto sottosegretario di Stato per la Regia Marina, nonché commissario per la Marina Mercantile.
Sin dal 1922, Rossetti fu invece posto sotto sorveglianza poliziesca e schedato, come sovversivo repubblicano, nel Casellario politico centrale[11]. Nel marzo del 1923, riteneva governo e partito fascista «entrambi ripugnanti», soprattutto per i metodi violenti e corrotti. Il 4 aprile 1923, a Santa Margherita Ligure subì quindi un’aggressione squadristica per aver gridato «Viva la libertà, abbasso il fascismo, viva l’Italia libera!» durante un comizio fascista e, dopo essere stato oggetto di un pestaggio, fu arrestato e tradotto a Genova, prima in Questura e poi in una caserma dei carabinieri.
Nel giugno del 1923 fu tra i fondatori del movimento Italia Libera che raccoglieva ex-combattenti di tendenza repubblicana ed ex-legionari fiumani su posizioni antifasciste e, proprio il grido di Rossetti, fu assunto come nome dell’organizzazione, divenendone una sorta di “padre spirituale”.
Il 13 giugno 1925, mentre era impegnato a testimoniare solidarietà nei confronti di Gaetano Salvemini, arrestato per reati d’opinione, fu nuovamente aggredito da alcuni fascisti dovendo essere ricoverato in ospedale per le lesioni subite. Dopo questo episodio lasciò l’Italia stabilendosi a Parigi, dove trovò lavoro come tipografo. Nel 1930 aderì prima al movimento antifascista Giustizia e Libertà. Nel 1932, su posizioni di sinistra, fu eletto segretario del Partito repubblicano, carica passando, successivamente, a quello de La Giovine Italia. che mantenne sino al 1933 quando venne soppiantato da Randolfo Pacciardi. Nel gennaio 1935, assieme all’ex legionario fiumano Silvio Bettini, fondò, su posizioni antifasciste, l’Association franco-italien des Ancient combattants.

Durante la guerra di Spagna partecipò ad alcune trasmissioni di Radio Barcellona lanciando proclami antifascisti e, per questo “tradimento” il regime fascista annullò la sua Medaglia d’oro al valor militare (confermata dopo la Liberazione) ma, soprattutto, la sua figura fu emarginata dalla storia ufficiale[12].
Nel 1939, in occasione della morte di Costanzo Ciano, si giunse a sostenere che «a lui, al suo inesauribile talento, si dovettero poi i sagaci studi e il perfezionamento degli ordigni necessari per forzare i porti di Trieste e Pola e colpire le grandi unità austriache; geniali fatiche che nell’ottobre 1918 si conclusero con l’affondamento della Viribus Unitis»[13].
Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, nel dicembre del 1939 Rossetti fu espulso dalle autorità francesi e a Modane consegnato alla polizia italiana che gli concesse di ritirarsi nella sua residenza a Rapallo. Nella primavera del 1941 trovò lavoro come linotipista presso l’editore Pirola di Milano; in tale periodo, pur vivendo in modeste condizioni economiche, accettò una somma di denaro dalla Marina, a patto però che fosse versata sul conto corrente di un orfanotrofio.
Dopo la Liberazione divenne membro del Consiglio comunale di Santa Margherita Ligure come consigliere indipendente in una lista comunista e capo dell’opposizione e, alle elezioni del 18 aprile 1948, fu candidato del Fronte popolare al Senato nella circoscrizione di Lucca.

Raffaele Paolucci

Al contrario, una volta tornato alla vita civile, l’ex-capitano Paolucci intraprese una rilevante attività medico-scientifica unitamente alla carriera accademica e politica all’ombra della monarchia e del regime fascista[14]. Nel 1921, assunse la guida dello squadrismo nazionalista quale comandante generale dei “Sempre Pronti per la Patria e per il Re” e fu eletto deputato al Parlamento per il Blocco Nazionale e poi del PNF, carica mantenuta sino al 1943. Nel 1935 era tornato ad indossare l’uniforme durante la guerra d’Etiopia, quando fu richiamato alle armi alla direzione di una Ambulanza Speciale Chirurgica della C.R.I. raggiungendo il grado di Maggiore generale medico. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia fascista, fu richiamato in servizio dal 5 settembre 1940, anno nel quale venne nominato dal re conte di Valmaggiore, una località nei pressi di Pola. Destinato a Roma presso il Ministero della Marina, il 22 marzo 1943 fu promosso tenente generale, per poi essere esonerato dal richiamo in servizio dal 5 agosto 1944. Nel secondo dopoguerra, Paolucci sarebbe tornato in Parlamento (1953) come presidente e senatore del Partito Nazionale Monarchico, in rappresentanza dell’Abruzzo e Molise.
Ben diverso il percorso di Costanzo Ciano, figura di primo piano del sistema di potere fascista, legato a Mussolini anche dall’acquisita parentela a seguito delle nozze fra il figlio Galeazzo e Edda Mussolini, nonché “padrone” di Livorno.
Nel 1925, nell’ambito della tendenza invalsa dopo il conflitto e incrementata durante il fascismo di creare una nuova nobiltà per meriti guerreschi, Ciano venne anche insignito, in onore dell’episodio del novembre 1917[15], del titolo nobiliare di conte di Cortellazzo che, di certo, a Livorno deve essere stato motivo di popolaresca ironia.

 

 

 

NOTE

  1. La motivazione venne riportata, con scarso rilievo, su «Il Telegrafo» del 6 marzo 1919: «Con regio decreto al capitano di vascello Costanzo Ciano, di Livorno, è stata conferita la commenda dell’ordine militare di Savoia, perché ispettore dei M.A.S. con intelligenza e perizia attendeva sino all’inizio al loro miglioramento, mentre nello stesso tempo preparava con grande fede ed amore i comandanti che dovevano portare alla vittoria le piccole unità. Nell’ultima spedizione di Pola studiò dapprima il congegno con il quale due eroi riuscirono ad affondare la nave ammiraglia della flotta nemica e accompagnò la spedizione sino sotto la diga di Pola, attendendo fino all’alba il ritorno».
  2. Il 6 ottobre 1918, a Zagabria, era stato fondato il Consiglio Nazionale degli Sloveni, dei Croati e dei Serbi (della Croazia). Il 29 ottobre il Consiglio interruppe tutte le relazioni politiche e diplomatiche tra Croazia e Austria, e tra Croazia e Ungheria. In seguito, Croazia, Slovenia e Bosnia si unirono nello Stato di Slovenia, Croazia a Serbia (SHS), poi Regno di Jugoslavia.
  3. Dopo essere entrato all’Accademia Navale di Livorno nel 1891, Ciano era stato nominato guardiamarina nel 1896, sottotenente di vascello nel 1898, tenente di vascello nel 1901. Partecipò alla guerra di Libia (1911-’12), ricevendo nel 1913 un encomio solenne per aver compiuto missioni speciali di polizia coloniale al comando del piroscafo Siracusa, requisito durante le azioni di guerra. All’entrata in guerra dell’Italia, nel 1915, venne destinato alla direzione del silurificio di Venezia della Regia Marina, ottenendo il grado di Capitano di corvetta nell’agosto del 1915 e nel 1916 sostituì il fratello Arturo al comando del cacciatorpediniere “Zeffiro”. Nel giugno 1917 venne promosso capitano di fregata e, dal luglio 1917 al maggio 1919, quale comandante di unità siluranti di superficie (Mas e torpediniere), venendo decorato con medaglia d’oro al valor militare per la famosa “beffa di Buccari” (febbraio 1918), operazione militarmente fallimentare ma che ebbe grande risonanza propagandistica grazie alla partecipazione di D’Annunzio. Nell’agosto del 1918, era stato quindi promosso capitano di vascello per meriti di guerra.
  4.  Entrambi i Mas (94 e 95) erano stati costruiti a Livorno, presso il Cantiere Navale “F.lli Orlando”, e consegnati alla Marina italiana nel 1917.
  5. L’ordine impartito era, secondo quanto riportato dallo storico Giacomo Scotti, di entrare in azione «prima che fosse inalberata la bandiera jugoslava sulla nave ammiraglia ex austriaca, per impedire che ciò avvenisse. Se fossero arrivati dopo, avrebbero dovuto distruggere la bandiera insieme alla nave».
  6. Raffaele Rossetti (Genova 1881 – Milano 1951). Laureato in ingegneria industriale nel 1904; dopo aver ha frequentato la regia Accademia Navale di Livorno, divenne tenente del Genio navale;. Nel dicembre del 1906 dopo aver conseguito la laurea in ingegneria navale e meccanica presso il politecnico di Milano fu destinato presso la Direzione delle Costruzioni Navali dell’Arsenale Militare marittimo di Taranto quale capitano del Genio navale. Nel 1912, imbarcato sull’incrociatore “Pisa” prese parte alla Guerra di Libia. Dall’aprile del 1915 al maggio del 1917 prestò servizio presso l’Ufficio Tecnico della Regia Marina a Genova, passando poi alla Direzione delle Costruzioni Navali dell’Arsenale di La Spezia col grado di maggiore del Genio navale, impegnandosi nella realizzazione di “mezzi insidiosi” per incursioni nei porti nemici. Promosso al grado superiore per merito di guerra, il 16 novembre 1919, a domanda, venne posto in congedo e promosso Tenente colonnello nella Riserva Navale.
  7. Giovanni Raffaele Paolucci (Roma 1892 – 1958). Dopo il servizio militare nel 1913 nella 10ª compagnia di sanità militare dell’Esercito, col grado di caporale e poi di sergente, allo scoppio della guerra venne richiamato e assegnato ad un lazzaretto per colerosi sul Carso. Laureatosi in medicina nel luglio del 1916, fu promosso sottotenente medico di complemento in forza all’8° Rgt. bersaglieri in Cadore. Successivamente divenne tenente e, su sua richiesta, passò in Marina, prestando servizio presso l’ospedale militare marittimo di Piedigrotta e successivamente presso il Forte San Felice a Chioggia (Ve). Imbarcato sulla “Emanuele Filiberto” come secondo medico di bordo, aveva iniziato ad interessarsi alle armi subacquee per colpire unità nemiche, entrando in contatto nel luglio del 1918 col capitano Rossetti.
  8. Il valore della “Viribus unitis” era stato stimato in Lire 65.000.000. Secondo il contatore de «Il Sole-24 Ore», l’importo di Lire 1.300.000 nel 1919 corrisponderebbero attualmente a quasi 2 miliardi di Euro (1.959.778,19).
  9.  Infatti, un ricorso in tal senso venne presentato anche dal capitano di fregata Giovanni Battista Scapin che, a bordo del Mas 95, era stato il comandante di entrambi i Mas impegnati nella missione.
  10.  Una copia originale della seconda edizione del libro è conservata presso al Biblioteca “F. Serantini” di Pisa ed è possibile riscontrarvi la mancanza di buona parte dell’apparato fotografico andato distrutto. Il libro è stato riedito dall’Associazione Culturale Sarasota (Massa, 2014).
  11. Secondo Sergio Benvenuti avrebbe invece militato nelle file del Partito Socialista Unitario (Il fascismo nella Venezia Tridentina (1919-1924), Trento, Società di studi trentini di scienze storiche, 1976, p. 114); tale affermazione appare però derivare dal fatto che nel 1922 Rossetti sostenne economicamente e collaborò, con alcuni suoi articoli contro il fascismo, a «La Giustizia», organo del Partito Socialista Unitario, oltre ad intrattenere rapporti di stima ed amicizia con Turati, Kuliscioff e Treves.
  12. Già nel 1934, nel capitolo L’affondamento della «Viribus Unitis», nel libro di Corrado Rossi Corrado, Gli Arditi del Mare, l’autore aveva preferito utilizzare le memorie di Paolucci, piuttosto che quelle scomode di Rossetti, dando rilievo alla partecipazione di Ciano e definendo «grottesca favola» e «ignobili calunnie» ad opera degli ex-alleati le obiezioni in merito all’opportunità dell’affondamento.
  13.  La risibile affermazione citata era all’interno di un articolo commemorativo pubblicato su «Il Legionario», riproposto nella raccolta di scritti necrologici (Costanzo Ciano, Roma, Pinciana, 1939), curata da Angelo Chiarini, avente come prefazione il discorso celebrativo pronunciato alla Camera da Raffaele Paolucci il 15 luglio 1939.
  14. Libero Docente di Patologia Chirurgica nel 1924, meritò la fama quale “chirurgo dei poveri” fin dal 1925, quando diresse l’Ospedale di Lanciano. Fu incaricato di Patologia Chirurgica all’Università di Bari dal 1926 al 1930, direttore della Clinica Chirurgica a Parma dal 1930 al 1932, a Bologna dal 1933 al 1938 e a Roma dal 1939 in poi come direttore dell’Istituto di Chirurgia Generale dell’Università degli Studi di Roma ”La Sapienza”. Dopo un anno di “epurazione”, nel 1946 riprese l’insegnamento all’Ateneo di Roma. Nel campo medico fu un pioniere della chirurgia polmonare, pubblicando numerosi lavori scientifici oltre a diversi volumi di tecnica chirurgica.
  15.  Il 16 novembre 1917, due corazzate austriache, scortate da 14 unità minori, bombardarono per circa quattro ore la batteria costiera della Marina italiana a Cortellazzo (Ve), venendo invano attaccate da due Mas, uno dei quali comandato da Ciano.



Nada. Tra Storia e Letteratura

Nada Giorgi

 

Nada da giovane

Nada Giorgi con Renato Ciandri

Nada Giorgi nacque il 25 gennaio 1927 a Pontassieve, in provincia di Firenze, da una famiglia di umili origini. Negli anni dell’adolescenza, durante la Resistenza, incontrò il partigiano Renato Ciandri, noto col nome di battaglia “Baffo”, modificato in Bube da Carlo Cassola nel romanzo La ragazza di Bube [1].  Dopo l”8 settembre 1943, lui, proveniente da Volterra, si era unito al gruppo di partigiani di Pontassieve. Era infatti sfollato a Torre a Decima, presso Molino del Piano, frazione di Pontassieve dove, tramite l’amico Pietro Verniani, conobbe Nada, anch’ella sfollata con la famiglia. Ciandri -durante la Resistenza- combatté infatti in varie formazioni (in special modo nel “Gruppo di Pontassieve” e nella “Ciro Fabbroni”) nella zona fra Pontassieve, Monte Giovi e Dicomano. Nel febbraio 1944, dopo essere riuscito a sfuggire all’arresto dei tedeschi, operava stabilmente sul monte Giovi con la formazione partigiana “Stella Rossa”. Pare abbia partecipato anche alla liberazione di Firenze rimanendo ferito nei pressi della stazione di Santa Maria Novella. Il 21 agosto 1944, quando le truppe alleate liberarono Pontassieve, Bube, come anche altri partigiani, rispose alla chiamata dei partiti antifascisti e si arruolò nel gruppo volontario 22° Fanteria “Cremona”. La disciplina e le regole militari però gli andavano strette, come viene raccontato nel libro di Massimo Biagioni; il suo temperamento e l’insofferenza per gli atti che non condivideva, gli fecero collezionare ben quattordici capi d’imputazione per insubordinazione; fu condannato poi amnistiato.

«Definito “ribelle fra i ribelli” per l’insofferenza verso la disciplina e i numerosi atti di insubordinazione, alla fine della guerra venne amnistiato di un totale di sedici anni di reclusione collezionati in pochi mesi come soldato nel “Cremona”[2]».

Dopo la guerra, la storia tra Renato a Nada proseguì e i due vissero per un periodo a Volterra, dove Renato trovò lavoro come guardia municipale.

Nel maggio 1945, tornarono a Pontassieve e per la Festa della Madonna del Sasso, evento molto atteso nella zona, dove avvenne il triste fatto che riportò nell’ombra della guerra e del dolore un’intera vallata, loro erano presenti.

I due giovani si dovettero presto separare: Renato venne, infatti, coinvolto nella sparatoria avvenuta il 13 maggio 1945, proprio in occasione di quella Festa. Al Santuario della Madonna delle Grazie al Sasso, non distante da Santa Brigida, sempre nel Comune di Pontassieve, furono uccisi un Carabiniere, il Maresciallo Carmine Zuddas e suo figlio Antonio. Il conflitto era da poco terminato, ma tra le macerie ancora visibili, la popolazione era divisa dalla guerra civile.

Ogni anno, la seconda domenica di maggio, veniva celebrata una solenne Messa cantata con l’offerta dei doni alla Madonna da parte dei vari compaesani dei paesi limitrofi, seguita dalla processione con la “benedizione della campagna”, e poi ancora, il pranzo. Seguiva nel pomeriggio la festa con musiche, danze e canti.

Processione della seconda domenica di maggio in Le Grazie e miracoli al Santuario https://www.conoscifirenze.it/toscana-firenze/517-le-grazie-e-miracoli-al-santuario.html

Una giornata di preghiera e di celebrazioni religiose, sfociò però nel caos. Fuori dalla chiesa, il Rettore del Santuario e tre giovani, ex partigiani, ebbero un acceso diverbio. Il motivo, apparentemente, pare fosse legato alle vesti succinte di questi, non adatte al contesto; stando, invece, ad altre testimonianze, i giovani avrebbero indossato il fazzoletto rosso al collo, simbolo inequivocabile e motivo di diverbio. Nella discussione intervenne il Maresciallo dei Carabinieri Zuddas, Comandante della Stazione dei Carabinieri di Molino del Piano, incaricato al servizio d’ordine, necessario per il regolare  svolgimento di una festività religiosa di ringraziamento per la fine della guerra, recatosi al Sasso con la moglie e il figlio diciassettenne. Chiese spiegazioni al prete, invitandolo a fare entrare i giovani, che avevano collaborato per liberare l’Italia dai tedeschi. Il figlio però, poco distante, non capendo forse bene cosa stesse succedendo e vedendo il padre accerchiato, seppur in modo innocui al momento, pare abbia estratto una pistola e abbia sparato, uccidendo uno dei giovani, il pollivendolo Luigi Panchetti. Stando, invece, ad altre ricostruzioni, pare che alcuni partigiani avessero tentato di disarmare il Carabiniere, dopo che questi aveva sparato un colpo in aria per ristabilire l’ordine, a causa del tafferuglio creatosi. Secondo la ricostruzione degli eventi, riportati in un dettagliato rapporto dell’Arma, coincidente con le notizie riportate dai giornali e con le testimonianze che hanno dato in seguito alcuni giovani incriminati, il figlio, visto il padre in pericoli, impugnata la pistola, avrebbe sparato in direzione di uno dei giovani, tale Panchetti, colpendolo a morte. Le persone attorno fermarono i due uomini, il Maresciallo e il figlio, rinchiudendoli in una stanza della canonica, fino all’intervento di alcuni partigiani, tra cui Renato Ciandri (Bube), presente assieme a Nada alla Festa e che -secondo le accuse- sparò contro il ragazzo, uccidendolo. Morirà assieme al figlio anche Carmine Zuddas [3].

Carmine Zuddas e la sua famiglia. Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/

Secondo Nada Giorgi, dopo che il diciassettenne Zuddas ebbe colpito a morte l’ex partigiano, gli altri membri della banda, che avevano nascosto precedentemente delle armi, al contrario di Ciandri, che era disarmato, correndo verso la chiesa, invitarono Bube a non tirarsi indietro, a restare fedele ai suoi ideali. Pare, perciò, che questi abbia tentato di disarmare il ragazzo e che, dopo una colluttazione, qualcuno abbia raggiunto il giovane con una raffica di mitra. Contemporaneamente, qualcuno aveva sparato anche al Maresciallo. A testimoniare l’innocenza del Ciandri, la Giorgi avrebbe presentato anche la deposizione della moglie del Carabiniere, Margherita Rotelli, unica sopravvissuta.

La vicenda non è tutt’oggi chiara: molte le versioni dei fatti, alcune delle quali vedono il Ciandri realmente coinvolto. Ogni protagonista di quel giorno ha raccontato dettagli diversi, che rendono difficile, oggi come allora, la ricostruzione di quella giornata di maggio [4].

I giovani trovati con le armi furono portati alle carceri a Firenze, in via Ghibellina. Renato e Nada tornarono invece a casa. Presto però, i compagni del Partito comunista, al quale Ciandri sarà sempre legato, lo invitarono a fuggire, a tornare verso Volterra, onde evitare di essere arrestato. Bube era infatti il più noto tra i ragazzi del Sasso. Inoltre, le elezioni del 2 giugno si stavano avvicinando e le tensioni politiche aumentavano.

Nonostante l’invito a consegnarsi, emersa anche la possibilità di esser scagionato, Bube si dette alla macchia. Dopo giorni passati in campagna, a Torre a Decima, sopra Molino del Piano, un amico camionista di Ellera lo aiutò a tornare verso Colle Val d’Elsa. Fu in quest’occasione che Nada e Bube conobbero Carlo Cassola, “comandante Carlino”, che era stato con i partigiani in montagna ed era il figlio del maestro di Ciandri. Si conobbero in un bar e i due raccontarono la vicenda del Sasso. Cassola ne rimase colpito e offrì a Bube una sistemazione momentanea a Volterra. Sembra che i tre abbiano passato anche la giornata del 2 giugno assieme [5].

Durante il viaggio verso quella cittadina, sul pullman (o meglio sulla sita), dove Ciandri si trovava con Nada, pare ci fosse Mons. Dolfi (Ciolfi nel libro), antipartigiano convinto. Alcuni passeggeri, inferociti, pare avessero addirittura minacciato il parroco, prima che, giunti a destinazione, Cassola e Bube non avessero portato il religioso in Caserma, salvandolo così dalle aggressioni della folla [6].

Bube riprese a vivere nel paese natio, ma presto i Carabinieri lo invitarono a presentarsi al tenente. Pareva convinto a consegnarsi, ma alcuni giovani dell’Anpi di Volterra, Ciaba e Niccolò, allertati dall’Anpi fiorentino, lo invitarono a non farlo. La notte una motocicletta andò a prenderlo: scappò prima verso Pisa, poi a Milano e infine in Francia, dove trovò lavoro come operaio tappezziere. Ottenne asilo politico come comunista, ma presto ebbe la condanna in Italia in contumacia a 19 anni di carcere. Per poter restare in Francia, doveva procurarsi i documenti: tentò così di arruolarsi prima nella Legione straniera, poi fuggì in Olanda e in Tunisia, per poi tornare in Francia e riprendere la sua attività di tappezziere. L’esilio di Ciandri durò fino al 1950, quando scoperto dall’Interpool, fu estradato in Italia. Rimarrà in carcere, prima a Torino, poi per un breve periodo a Pisa, poi ad Alessandria, a Bologna, all’Elba e, infine, a San Gimignano, dove rimase fino al 1961.

Il processo si era tenuto a Torino nel settembre 1946: alla difesa dei giovani contribuirono molti pontassievesi, con una raccolta fondi organizzata nella Casa del popolo di Santa Brigida. Il secondo giorno il processo verrà spostato negli ampi locali della Corte d’Assise, dove era presente anche una delegazione di operai della Fiat-Mirafiori.

Dopo il processo, infatti, erano state arrestate dieci persone, dopo le prime indagini, sette delle quali facenti parte del Corpo Volontari della Libertà. Tutti si dichiararono colpevoli, eccetto Bube, che si è sempre dichiarato innocente [7].

Nei giorni successivi alla Festa della Madonna, infatti, erano state molte le voci ad alzarsi. Membri del CLN si recarono sul posto. Molti capi delle formazioni partigiane tentarono di giustificare quanto era successo, come Romeo Fibbi, Lazio Cosseri, Giuseppe Maggi, commissario politico della brigata “Lavacchini” e futuro sindaco di Borgo San Lorenzo. L’evento, significativo di quel clima di passaggio, di tensione e di giustizia sommaria nel dopoguerra italiano, sconvolse un’intera comunità. Chiunque si riteneva portatore di giustizia, spesso in contrasto con altri. Qualcuno giustificò l’accaduto poiché il Carabiniere era stato antipartigiano e fascista, stando a certe voci. La vicenda stessa è caduta nell’oblio, già al tempo, complice il Partito Comunista di Pontassieve, reticente e forse -inconsciamente- desideroso di guardare al futuro nel clima di psicosi generale anticomunista, tipica degli ultimi anni Quaranta.

Il 26 agosto 1951, Ciandri e la Giorgi si sposarono nel carcere di Alessandria. Nada, infatti, gli era sempre rimasta accanto e aveva sempre cercato di mantenere i rapporti con il fidanzato prima e con il marito poi, tramite lettere, scambi di fotografie e, quando possibile, con i colloqui e le visite.

Intanto Renato in carcere frequentava la scuola, [8] mentre Nada lavora a Pontassieve come fiascaia.

Nel 1953 vennero scarcerati i compagni di Bube incriminati per i fatti del Sasso, ma con una condanna di minor durata. L’anno successivo Ciandri venne trasferito al carcere di Porto Longone, all’Isola d’Elba, a causa di un violento litigio con un altro detenuto [9]. Verrà poi trasferito a San Gimignano, dove Nada poteva andare più frequentemente. Come ricorda lei stessa nel libro di Biagioni, nessuno degli ex compagni di Partito, gli era rimasto vicino.

È in questo periodo che Bube, durante una visita in carcere, ricevette da Cassola la copia del libro. Alla storia di Nada e Renato, Carlo Cassola aveva dedicato le pagine del suo celebre romanzo, La ragazza di Bube, mettendo al centro della narrazione Nada, pur lasciando che nel titolo comparisse il nome del suo compagno, Bube appunto, rilegando la sua figura come secondaria. La Giorgi non apprezzerà perciò il romanzo, non sentendosi rappresentata dallo scrittore e non riconoscendo i suoi cari in quelle pagine. Dal libro emerge inoltre un Bube colpevole; per Nada, dunque, l’opera era un’eredità negativa dalla quale doversi liberare.

Potremmo dire che il romanzo non ricalca, infatti, la vera vita dei due protagonisti, sebbene prenda ispirazione dalle loro storie. La vicenda è ambientata in Valdelsa, poco dopo la Liberazione, e non nel Pontassievese, come nella realtà. I protagonisti sono due giovani, Mara Castellucci e Bube, ovvero Nada Giorgi e Renato Ciandri, detto Baffo. Mara è una ragazza di sedici anni che vive a Monteguidi insieme al padre, comunista militante, alla madre e a un fratello, Vinicio. La vera Nada il padre lo aveva conosciuto appena in quanto morì quando lei aveva solo tre anni.

In quel paese conosce Arturo Cappellini, detto Bube. Il giovane, amico e compagno di Sante, il fratellastro di Mara morto durante la Resistenza, si era recato nel paese dell’amico per conoscere la famiglia e in questo modo avviene il primo incontro con Mara. Tra i due nasce subito una simpatia e Mara, lusingata dall’interesse del ragazzo, inizia a scambiare lettere con lui. Tutta la trama, riproposta poi da Comencini nel celebre film, è un intreccio di fantasia e qualche riferimento reale.

Come lei stessa ha detto:

Non ho mai avuto un fratello nato fuori dal matrimonio: semplicemente non ho fratelli. Non ebbi mai amanti: tanto meno uno che si chiamava Stefano. Non feci l’amore con Bube nella capanna. So bene che Cassola scrisse un romanzo, una storia in parte inventata, ma la realtà sono io. La realtà è la mia famiglia, è mio figlio Moreno… Per lui, perché non avesse mai l’idea che suo padre fosse un assassino […] [10]

Secondo il libro, infatti, dopo il loro incontro, Bube e Mara si devono allontanare: Bube è, infatti, accusato di un delitto. Era accaduto che, mentre si trovava a San Donato con i compagni Ivan e Umberto, un prete aveva impedito loro di entrare in chiesa. Secondo i ragazzi, la ragione era il loro orientamento comunista. I giovani avevano allora iniziato a protestare, e un Maresciallo dei Carabinieri era intervenuto insieme al figlio a sostegno del prete. Bube e gli amici avevano inutilmente cercato di far valere le loro ragioni e, spinti dall’ira, avevano messo il prete contro il muro. Il maresciallo aveva perciò reagito sparando ad Umberto, uccidendolo. Per vendicare l’amico, Ivan, l’altro compagno di Bube, aveva ucciso il Maresciallo. A sua volta, Bube aveva rincorso fin su per una scalinata e ucciso il figlio del Maresciallo, mentre scappava.

Mara e Bube fuggono così verso Volterra, dove abita la famiglia di lui. A bordo della corriera si trova una donna che riconosce Bube e lo sprona a dare una lezione ad uno dei passeggeri: si tratta del prete Ciolfi, il quale durante la guerra aveva collaborato con i nazisti, causando così la morte del nipote della donna. Suo malgrado, dopo essere sceso, Bube viene praticamente costretto dai presenti a picchiare il prete per poter salvare la faccia: il suo ruolo nella zona era infatti quello del Vendicatore, appellativo con il quale viene talvolta ancora chiamato dagli abitanti del posto.

Arrivato a casa dai familiari, Bube viene avvertito dal compagno Lidori del rischio di essere arrestato per il delitto commesso e gli consiglia la fuga. Qualche giorno dopo, una macchina passa a prendere Bube per farlo rifugiare in Francia, mentre Mara ritorna a casa. Nel frattempo, qualcosa in lei è cambiato: non è più la ragazza spensierata di prima e si dimostra angosciata per la mancanza di notizie da parte di Bube.

Verso novembre, Mara decide di andare a lavorare come domestica in una famiglia a Poggibonsi. Qui stringe amicizia con una compaesana, Ines, con cui esce spesso e che le presenta Stefano. Mara, inizialmente fredda, lentamente comincia ad apprezzare la sua compagnia.

Dopo un anno, Bube, costretto al rimpatrio, viene arrestato alla frontiera ed è condotto a Firenze. Mara, accompagnata dal padre, si reca a sua volta nel capoluogo toscano per un colloquio con Bube. Durante l’incontro, la ragazza si accorge che il suo attaccamento a Bube era ancora molto forte, così decide che, da quel momento, sarebbe per sempre la sua donna. Bube viene condannato a quattordici anni di carcere. Mara, tornata a Poggibonsi, racconta a Stefano di aver preso una decisione: ha scelto Bube, che andrà spesso a trovare in carcere.  Il romanzo termina con Mara che attende la liberazione del suo amato.

«I primi tempi sono i più terribili, disse poi. Ma, in seguito, ci si fa quasi l’abitudine… sono passati questi sette anni , passeranno anche questi altri sette. E poi, io cerco di non pensarci. Conto solo i giorni che mi separano dal colloquio. Perché è tale una gioia quando lo rivedo [11]…»

Tale opera sarà un vero e proprio successo editoriale, che porterà Cassola a vincere il Premio Strega nel 1960. Venne tradotta in molte lingue, rendendo celebre la storia di Baffo e della Giorgi, divenuti Bube e Mara per i lettori, dove però la finzione supera la realtà [12].

Complici la fama del libro e l’eco ottenuta [13], grazie anche all’aiuto di Cassola stesso, che si mobilitò per aiutare Ciandri ad ottenere uno sconto di pena, il 22 dicembre 1961, Renato ottenne la libertà desiderata.

Entrambi i protagonisti, però, non si sentirono rappresentati dal libro di Cassola: Ciandri lamentava di essere stato dipinto come una figura a tratti negativa, che rinnegava i compagni, il Partito, gli ideali. La storia dei sentimenti, come affermò, non era in linea con la storia dei fatti, non fedele alla realtà. Neppure Nada si sentiva rappresentata, tanto che non riuscì nemmeno a finire il libro [14].

Pian piano i due ripresero una vita normale: Ciandri trovò finalmente un lavoro al Centro Carni e ne diventerà presto socio a tutti gli effetti.

Già pochi mesi dopo l’uscita del libro, Luigi Comencini, noto regista, aveva deciso di trarne un film dove apparirono come interpreti principali, attori della caratura di Claudia Cardinale e George Chakiris, rispettivamente nei panni di Nada (Mara) e Ciandri (Bube).

Claudia Cardinale e George Chakiris in una scena del film di Comencini

Anche le vicende attorno all’uscita del film sono controverse: Renato Ciandri non voleva che venisse proiettato, in quanto avrebbe contribuito a fissare, ancor più del libro, l’immagine già stereotipata che la gente si era fatta sulla sua persona. I produttori prima promisero ai Ciandri un ricco compenso per ottenere l’approvazione per la proiezione del film, poi – vista l’irremovibilità dei soggetti coinvolti- minacciarono Ciandri e la sua famiglia di querelarli. Non erano però le uniche querele: i Ciandri a loro volta ne firmarono una per non essere stati ascoltati, la sorella di Nada un’altra per informazioni false sulla figura del marito, scomparso durante la guerra, una, infine, da un figlio del Maresciallo Zuddas, critico sulla narrazione dei fatti, oltraggiosi per la memoria del padre e del fratello scomparsi e -a suo parere- poco fedeli ai fatti [15].

Nel frattempo, dall’unione di Nada e Renato nacque un figlio nel 1963, Moreno, autore, compositore e musicista.

Ciandri presto cambierà mansione e inizierà a lavorare in ufficio. Nel clima di rinnovata serenità, partecipa attivamente anche alle cerimonie degli eccidi della Seconda Guerra mondiale, agli anniversari e alle manifestazioni, continuando a coltivare gli ideali della Resistenza [16].

A metà degli anni Settanta, «Tuttolibri», il settimanale del quotidiano «La Stampa»,  rilegge il fortunato libro di Cassola. L’inviato Lamberto Furno incontra la coppia: è l’unica vera intervista di Ciandri [17].

Quando però la vita comincia a riprendere tranquillamente il suo corso, Renato scopre di avere un tumore, che il 6 novembre 1981 lo porterà alla morte [18]. Sentiti e partecipati i funerali. Venne sepolto presso il Cimitero di San Martino a Quona, a Pontassieve. Questa l’epigrafe sulla sua tomba [19]:

“Bube”

Renato Ciandri (3-3-1924/ 6-11-1981)

E voi imparate che occorre

vedere e non guardare in aria

questo mostro stava una volta

per conquistare il mondo

i popoli lo spensero

ma ora non cantiamo

vittoria troppo presto

il grembo da cui nacque

è ancora fecondo

Brecht

Alessandro Bargellini, 16-1-2009 https://resistenzatoscana.org/monumenti/pontassieve/sepolcro_di_ciandri/

La fama innescata dal libro non si arresta, anzi, ci saranno anche rappresentazioni teatrali sulla vicenda di Bube, come quella firmata dal registra Alessandro Gatto, di grande successo.

Nada, desiderosa di lasciarsi alle spalle gli anni della Guerra e della carcerazione del marito, ma volendone mantenere viva la memoria, comincerà a fare attività nelle scuole del territorio, per parlare ai ragazzi delle classi. Si spengerà il 24 maggio 2012 a 85 anni.

Negli ultimi anni di vita, Nada, per riabilitare la memoria del marito e per lasciare ai posteri la sua versione dei fatti, incaricò Massimo Biagioni, scrittore di Storia locale, giornalista pubblicista, oggi dirigente regionale di Confesercenti, con precedenti esperienze politiche, il compito di stendere in un secondo libro la sua biografia, da cui sono tratte molte delle informazioni qui riportate. Nada ha così scacciato la Mara del romanzo, e con Renato, è voluta tornare ad essere persona e non personaggio. «Ora posso anche morire!» disse a Biagioni, stringendo la prima copia uscita dalla Polistampa. Anche il figlio Moreno ha vinto il riserbo del padre che non ne aveva voluto parlare più, per dare spazio invece al volere della mamma [20].

 

Nada Giorgi, nominata cittadina onoraria del Comune di Pelago (FI) in News dalle Pubbliche Amministrazioni della Città Metropolitana di Firenze, http://met.provincia.fi.it/news.aspx?n=182704

Note

1.Sulla vita di Renato Ciandri e sulla sua attività di partigiano, prima del 13 maggio 1945, rimando alle pagine di Biagioni, pp. 27-46.

2. Giovanni Baldini, Renato Ciandri, “Bube”, in ResistenzaToscana, 14 luglio 2003, https://resistenzatoscana.org/biografie/ciandri_renato/ [consultato il 4 novembre 2024].

3. Per un’ulteriore ricostruzione della vicenda, si veda Dania Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990, pp. 142-144.

4. Diversa la versione dei fatti esposta nell’articolo di Davide Batzella, Maresciallo Carmine Zuddas di Serramanna (dal libro di Cassola “La ragazza di Bube”), in ASerramanna, 22 Aprile 2013, https://www.aserramanna.it/2013/04/maresciallo-carmine-zuddas-di-serramanna-dal-libro-di-cassola-la-ragazza-di-bube-2/ [consultato il 5 novembre 2024]. Tale versione incolperebbe infatti Bube e la sua compagnia.

5. Massimo Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006, pp. 51-52.

6. Rimando alle pagine di M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 52-53, per la ricostruzione delle vicende antecedenti che vedono coinvolto Dolfi.

7. D. Mazzoni, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, pp. 144-144.

8.  M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 85

9. Ivi, p. 93

10. Da Sandro Bennucci, «Io, Nada, vi racconto la vera storia della ragazza di Bube», «La Nazione», 13 aprile 2006 in LeonardoLibri, [consultato il 4 novembre 2024, https://www.leonardolibri.com/recensione.php?i=3314]

11. Carlo Cassola, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010, p. 217.

12. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 100. Per la trama del libro, vedi anche pp. 98-100.

13. Ivi, pp. 100-103.

14. Ivi, p. 109.

15. Ivi, p. 129.

16. Ivi, pp. 133-137.

17. La minuta dell’intervista è riprodotta in M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, pp. 141-144.

18. Ivi, p. 145.

19. Cfr. M. Biagioni, Nada, la ragazza di Bube, p. 150. Nella primavera del 2005 la salma di Ciandri venne traslata in un forno non distante dalla Cappella dei caduti e degli ex combattenti di tutte le guerre.

20. Michela Aramini, Cinque anni fa morì Nada, la “ragazza di Bube”: il ricordo di Massimo Biagioni, in il Filo – Idee e Notizie dal Mugello, 24 maggio 2017 [consultato il 4 novembre 2024, https://cultura.ilfilo.net/cinque-anni-fa-mori-nada-ragazza-bube-ricordo-massimo-biagioni/]

 

Bibliografia

Biagioni Massimo, Nada, la ragazza di Bube, Polistampa, Firenze, 2006

Cassola Carlo, La ragazza di Bube, Oscar Mondadori, Milano, 2010 [prima edizione, Einaudi, Torino, 1960]

Mazzoni Dania, Attraverso la bufera: Pontassieve fra guerra, Resistenza e ricostruzione, 1943-1948, (con una nota introduttiva di Simonetta Soldani), Comune di Pontassieve, Pontassieve 1990

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo scritto nel mese di novembre 2024.




Giovanni Martelli: storia di un antifascista livornese

Il 21 gennaio 1944, Giovanni Martelli e Otello Frangioni si erano recati alla Casa Manna, un luogo di ritrovo per gli antifascisti comunisti livornesi e situato in via Trieste, col fine di prender parte a una riunione. Il punto di ritrovo era però fissato in un altro luogo e, visto che nessuno si presentò all’appuntamento, Frangioni e Martelli si recarono alla Casa Manna. Una volta entrati, caddero in una trappola, perché ad attenderli vi era un commando unificato composto da ufficiali tedeschi, repubblichini e questori.
Il terzo arresto mette a dura prova l’animo di Martelli e lo segna nel profondo perché i rischi che poteva correre erano maggiori del passato. Viene arrestato perché le autorità fasciste identificavano in lui il «filo conduttore» col movimento di liberazione e l’esponente ideale da cui trarre informazioni sulle formazioni partigiane della Brigata Garibaldi[1]. In quei giorni viene ripetutamente interrogato dal questore Moraglia, dal capitano della polizia Porquier, dai marescialli Marchesi e Artieri[2].
Martelli continua a negare qualsiasi coinvolgimento o relazione con gli altri membri della Resistenza livornese, afferma che non sapeva niente sui manifesti della propaganda partigiana e sui volantini del movimento di liberazione. Martelli ricorda il suo terzo interrogatorio con le seguenti parole:

«[…] A domanda risposi: io, nella mia prima giovinezza mi ero interessato di politica, ma soprattutto in seguito ai due arresti ed alla condanna cui fui sottoposto, nonché per l’essermi trovato in luogo di capofamiglia, non mi era interessato più di nulla. Da allora a quel momento, aggiunsi, c’era anche l’esperienza dell’Africa Orientale e, immediatamente dopo la vita di fabbrica come operaio specializzato, alla qualcosa tenevo al di sopra di tutto. Citai la esperienza del cantiere Orlando, […] e, infine, la esperienza alla Moto Fides. Le domande che attorno a queste risposte mi furono date furono sempre pronunciate dal tenente Purchié e dall’agente repubblicano Hippert. Sia l’Altieri come il Marchesi, non solo non mi fecero mai domande ma mai si opposero alle mie risposte. E, sia chiaro, solo loro due potevano farlo! Questo comportamento mi fu di grande conforto e non mancai di riferirlo a chi, dopo di me, doveva passare sotto quel “torchio”. Ciò che soprattutto poteva incutere maggiore timore, cosa che io stesso subii, era che a quell’interrogatorio erano sempre presenti uno o due rappresentanti della “Gestapo” e, spesso, erano loro a suggerire domande […]»[3]

Alla domanda posta dalle autorità repubblichine sul perché non fosse fascista, lui risponde con fermezza dicendo che non lo era e che non lo sarebbe mai stato, perché si definiva come eticamente diverso da loro. Nel periodo della terza detenzione presso il carcere Don Bosco di Pisa conosce esponenti di spicco della Resistenza locale e ebbe degli scambi epistolari con alcuni di questi, come Fortunato Garzelli e Oberdan Chiesa[4]. Purtroppo, venne a conoscenza di una tragica notizia, ovvero che un mese prima erano stati catturati all’Ardenza tutti i frequentatori della Casa Manna, come Vasco Iacoponi, Corrado Faiani e lo stesso Oberdan Chiesa[5]. Prima condividevano le celle in comune con altri, ma con l’arresto di Frangioni e di Martelli vennero messi in celle di isolamento.
Chiesa ebbe degli scambi epistolari con Martelli e gli chiese quale fosse la sua posizione, aveva un brutto presentimento e temeva per la sua vita. Quando Martelli cercò di inviare un biglietto di risposta, venne a conoscenza che Chiesa era stato fucilato. I due si erano incontrati due mesi prima a Cevoli, perché quest’ultimo attendeva Chiesa per l’invio di materiali col fine di realizzare dei documenti falsi. La scomparsa di Chiesa ebbe «l’effetto di una doccia fredda sull’intero gruppo e richiamò alla mente di ognuno la realtà del momento» che stavano vivendo[6].
Il 12 febbraio per ordine del prefetto Fac-Duelle viene messo in isolamento e conosce di nuovo la dura vita nel carcere fascista, soffre la fame, la sete, il freddo, la solitudine, la paura di non potercela fare. L’esperienza di Modena lasciò un segno indelebile, soprattutto per le condizioni in cui viveva: predominava una sensazione di insicurezza, perché spesso venivano prelevati alcuni prigionieri da parte dei nazisti e dei repubblichini per fucilarli[7]. Alle azioni di sabotaggio della Resistenza corrispondevano spesso queste rappresaglie nelle carceri.
Quattro mesi dopo viene trasferito nel carcere Sant’Eufemia di Modena e tenta una fuga durante il bombardamento dell’11 giugno. Il giorno successivo viene chiamato per un presunto interrogatorio, ma Martelli teme di non far ritorno. Al suo ingresso nella stanza dell’interrogatorio si trova davanti due marescialli tedeschi, i quali gli chiedono di spogliarsi per effettuare una valutazione delle sua condizioni fisiche. Molti detenuti e rivali politici venivano sottoposti a queste fittizie valutazioni che servivano per “attestare” l’idoneità fisica dell’individuo. È facile intuire che qualora una persona fosse risultata debole, malata o anziana, veniva mandata in Germania con la scusa fittizia che sarebbero stati inseriti in nuovi contesti lavorativi. In realtà venivano spediti nei campi di concentramento.
Nella medesima occasione, un capitano delle brigate nere gli promette che, in caso avesse preso parte a delle opere di volontariato, sarebbe stato scarcerato. Molti aderirono all’iniziativa perché ciò avrebbe permesso ai detenuti di uscire dal carcere e di raggiungere le altre formazioni partigiane attive nel modenese. Martelli rifiuta la proposta perché non lo convince, non si fida delle promesse dei repubblichini.
Nell’ultima settimana di luglio, i nazifascisti realizzano degli attacchi contro la Repubblica partigiana di Montefiorino, a cui i gappisti della sessantacinquesima Brigata “Walter Tabacchi” rispondono con diversi attacchi contro gli automezzi e le strutture delle forze di occupazione tedesche. Nella tarda mattinata del 30 luglio i militari del Rustungskommando di Bologna ricevono la notizia dell’ennesimo attentato nel centro storico di Modena, dove è detenuto Martelli: nel primo pomeriggio una delegazione parte dalla città felsinea e raggiunge la Ghirlandina. Convocate le autorità̀ civili e militari della RSI, i soldati del Rustungskommando invocano una rappresaglia esemplare. In un primo momento propongono di rastrellare venti persone da catturare nei caffè del centro storico e di fucilarle in Piazza Grande, ma le obiezioni di alcuni fascisti li convincono a desistere. Dopo una breve discussione, i tedeschi accettano che gli ostaggi siano prelevati dalle carceri di Sant’Eufemia, ma impongono di eseguire la missione nel più breve tempo possibile poiché vogliono tornare a Bologna per cena. Mentre i venti detenuti scelti per la strage vengono incolonnati e fatti uscire dalla prigione, suona l’allarme aereo e i modenesi affollano il rifugio di Piazza Grande. Sul selciato, il plotone d’esecuzione fa distendere le vittime sul ventre formando due file e tutti vengono uccisi con dei colpi alla nuca. Dopo il cessato allarme, la popolazione della città resta inorridita dal macabro spettacolo della piazza: i venti corpi inerti vengono lasciati sul selciato per quasi ventiquattro ore, poi un autocarro li trasporta al cimitero di San Cataldo.
La paura di non poter tornare a casa si materializza per Martelli: i prossimi che verranno condannati a morte sono proprio i detenuti antifascisti toscani. Sulla base di ciò che accadeva fuori dalle mura di Sant’Eufemia, ognuno poteva avere le ore contate. Molte persone che aveva conosciuto in quel periodo erano già morte per fucilazione o per impiccagione. La speranza di rivedere la sua amata Livorno si affievolisce, così tanto che sostiene:

«noi tutti fondavamo la nostra speranza sul fatto che i nostri verbali fossero rimasti a Livorno, per mio conto ciò voleva dire fino ad un certo punto, poiché io ero negativo, ma così non era per altri compagni, che in seguito a prove schiaccianti o accuse, o per non aver saputo resistere all’interrogatori avevano dovuto ammettere qualche cosa. Un giorno fummo di nuovo chiamati ed interrogati, insistemmo sull’atteggiamento assunto al primo interrogatorio e questa volta – ormai delusi delle volte precedenti – che non credevamo più a nessuna possibilità di uscirne, fu proprio la volta decisiva […]».[8]

Alla fine di agosto, Martelli viene scarcerato insieme ad altri compagni di Partito come Otello Frangioni ed è proprio a Otello che dedica la sua Autobiografia, proprio perché con lui ha «condiviso la vita nel partito subendo insieme rischi ed arresti»[9]. Di quel periodo così difficile, Martelli racconta:

«[…] Dopo alcuni giorni da quel triste episodio [dell’uccisione dei venti detenuti del Carcere di Sant’Eufemia] fu inviato al carcere, per interrogarci, un giudice istruttore. Uno alla volta fummo tutti interrogati e tenuto conto che quel giudice non aveva nulla in mano, in quanto i documenti istruttori erano rimasti al di là del fronte, fu relativamente facile a tutti a confermare le dichiarazioni già fatte e, chi si era troppo esposto, a rettificare la propria posizione. Capimmo di lì a pochi giorni che quel giudice era stato inviato dal Prefetto Repubblichino (credo di chiamasse De Santis), il quale era in rapporti con il Cnl.
Fu veramente la volta buona: a fine settembre – così mi sembra ricordare – fummo invitati tutti ad uscire con gli indumenti personali. Ci fu chiaramente detto che eravamo liberi. L’unico che rimase, per uscire dopo un mese circa, fu Vasco
Iacoponi. Una volta in libertà io fui incaricato dai compagni, eravamo tutti alloggiati in un grande albergo di Modena, di recarmi in una segheria nei dintorni di Modena dove conobbi il Baroni che era stato al confino con Vasco, il quale mi consegnò i documenti falsi, naturalmente repubblichini, con i quali avremmo dovuto viaggiare nei territori occupati […]»[10].

Il 5 settembre 1944, lui e Otello Frangioni tornarono a Livorno, a seguito di un lungo viaggio per l’Emilia-Romagna e dopo aver attraversato le zone di Vergato e di Marzabotto. Dovettero superare i campi minati, evitare le pattuglie e i rastrellamenti. Il rientro a Livorno non fu facile, ma Martelli riuscì a tener fede all’obiettivo: tornare a casa. Livorno era stata liberata il 19 luglio e il loro rientro venne consacrato con una festa all’interno della Federazione comunista livornese.
Il nuovo Segretario era Aramis Guelfi, che assegnò Martelli alla Federazione di Pisa col compito di dirigere le attività dell’organizzazione sindacale Federterra. Pisa resterà un luogo caro a Martelli, perché proprio lì aveva avuto origine il suo percorso di resistenza attiva al nazifascismo e lì aveva pianificato le attività dei Nuclei del Fronte Nazionale di Liberazione in Toscana. Inizialmente, crede che col suo incarico possa entrare più in contatto con l’anima di quei luoghi che conosceva bene. In realtà, già nei primi mesi del 1945 lascia la mansione perché «non [lo] entusiasmava»[11]. In compenso, viene incaricato della propaganda presso la redazione del bollettino della Federazione. Martelli nella Nota autobiografica del 1987 si lascia ad una confessione, in cui afferma:

«[…] Tutti quegli incarichi, tuttavia, rappresentavano per noi le prime esperienze di vita legale del partito per cui non mancavano, da parte di ognuno di noi, comportamenti tutt’altro che idonei alle responsabilità che ci erano state affidate […]»[12].

Effettivamente, Martelli all’epoca ha 32 anni e conosce ben poco la vita di partito, forse non l’ha nemmeno sperimentata fino in fondo. Martelli ha lavorato in ambito propagandistico e nel contesto della lotta armata al nazifascismo, ma sapeva ben poco di politica. La ridefinizione e il ripristino delle istituzioni democratiche sarà un problema che in realtà coinvolgerà tutto il Paese, la vita politica, le istituzioni pubbliche, i civili.
Dopo la liberazione, Aramis Guelfi venne trasferito alla Federazione comunista di Taranto e poi di Lecce, e Ilio Barontini successe alla guida della Federazione livornese. Martelli diventò Vicesegretario nel periodo in cui Ilio Barontini entrò a far parte prima della Consulta e poi della Costituente.
Negli anni successivi, Martelli diventerà una figura di spicco nell’ambito sindacale e svolgerà una serie di impieghi che lo porteranno lontano da Livorno per diversi anni. Diventerà segretario delle Federazioni comuniste di Treviso e di Carrara, poi svolgerà degli impieghi presso la FIOM (Federazione Impiegati Operai Metallurgici) e la CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro). Rientrerà nella città labronica solo negli anni Sessanta, anni in cui verrà nominato come presidente della Commissione di Controllo del PCI locale e come Presidente del Bacino del Carenaggio[13]. Martelli è morto il 22 ottobre 1992 a Livorno.

Conclusioni.

Da decenni la storiografia sta producendo numerose monografie sulle vite degli antifascisti e sulle esperienze di lotta durante la Resistenza (1943-1945), col fine di esaminare complessivamente i valori condivisi e le azioni compiute dai gruppi antifascisti. Allo stesso modo, questo elaborato ha cercato di esaminare i valori di un uomo molto attivo nella resistenza toscana e livornese. Il tema è quindi importante per ricostruire le storie e le figure di chi si è fatto testimone di libertà in un periodo segnato dalla violenza e dall’autoritarismo.

Nello sviluppo dell’elaborato, una domanda è emersa: come si potrebbe descrivere l’esperienza politica di Giovanni Martelli?

L’esperienza politica di Martelli ricorda le esperienze di tanti altri militanti attivi nel periodo della Resistenza all’occupazione nazifascista, in cui questa lotta ha rappresentato un punto di svolta e una chiave di lettura per il futuro repubblicano e democratico del Paese. Per Martelli, la verità è stata rivoluzionaria e ha sempre fatto riferimento a questo valore in qualunque sua battaglia, nelle fabbriche, nella sua città, a livello nazionale. La storia di Martelli è la storia di un uomo resiliente, che ha saputo adattare i suoi ideali davanti a qualsiasi difficoltà o situazione storica; di un militante determinato e fedele agli ideali del Partito; di un sindacalista che poneva le questioni operaie e sociali al centro di qualsiasi analisi sulla realtà circostante.

L’analisi ha evidenziato quanto sia difficile saper racchiudere le esperienze di vita e di militanza politica in poche semplici parole. Ogni storia, seppur piccola, può esser densa di sfumature ed un caso emblematico è proprio quello della vita di Martelli.

Le problematiche emerse nello sviluppo dell’elaborato possono esser riscontrate consultando le fonti utilizzate. Metter insieme di documenti così personali e all’apparenza scollegati ha significato entrare in contatto con dei materiali biografici vivi, che non hanno delle vere e proprie controparti, ovvero: non ci sono dei documenti da confrontare con quanto racconta lo stesso Martelli. Le fonti consultate sono principalmente fonti primarie, arricchite da ricerche realizzate personalmente sui destinatari dei documenti o sui contenuti.

L’augurio da fare per un futuro è che la storiografia possa approfondire maggiormente le biografie di quegli uomini e di quelle donne che hanno apportato notevoli contributi alla causa dell’antifascismo e della Resistenza, col fine di poter comprendere maggiormente quali sono stati quei valori e quelle speranze che hanno permesso la nascita della Repubblica italiana e della Costituzione.

NOTE

1 Martelli G., Autobiografia, cit., p. 10.
2 Martelli conosceva bene il capitano della polizia Luigi Porquier (alias Porchié) perché, come racconta nella Nota autobiografica, era quel ragazzo che aveva percosso nel 1928 durante i corsi premilitari. Dopo le percosse che dette a Porchié, venne mandato al commando di polizia (all’epoca in via Cairoli), dove successivamente venne sottoposto a un interrogatorio e radunato con altri in via Ippolito Nievo. Dopo i rituali di circostanza, venne invitato ad uscire ed espulso per indegnità. Per fortuna, Porchié non lo riconosce durante la terza cattura di Martelli.
3 Allo stesso modo, Martelli conosce anche il brigadiere Marchesi perché è sempre stato presente ai suoi interrogatori, ma lo definisce comunque come una brava persona. L’impressione di Martelli sul brigadiere Marchesi viene descritta anche nel testo: Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 354.
4 Fortunato Garzelli (1902-1944): nasce in una famiglia proletaria e si trasferisce a Livorno perché lavora come aiuto macchinista presso le Ferrovie dello Stato. Aderisce al Partito Comunista e nel 1933 subisce i primi fermi, arresti e perquisizioni. Nel 1941 costituisce il primo Fronte nazionale antifascista ed è membro della Concentrazione antifascista, poi diventato CLN di Livorno. Muore a pochi giorni dalla liberazione di Livorno mentre guida una pattuglia partigiana nei pressi di Quercianella (una frazione di Livorno), in uno scontro a fuoco avvenuto con i tedeschi il 15 luglio del 1944.
Oberdan Chiesa (1911-1944): nasce in una famiglia liberale e aderisce al Partito Comunista. Ben presto viene schedato dall’OVRA e definito come pericoloso antifascista. Negli anni Trenta, vive per un breve in Francia e partecipa alla Guerra Civile spagnola. Al suo rientro viene nuovamente arrestato e liberato in vista dell’8 settembre. Successivamente prende parte alle formazioni partigiane nell’entroterra livornese, ma viene arrestato il 22 dicembre del 1943 e trasferito al carcere Don Bosco di Pisa. Da quell’arresto non vi farà più ritorno, viene infatti fucilato a Rosignano Solvay (LI) il 29 gennaio 1944. Per un approfondimento sul tema, vedi: Brunetti G., Oberdan Chiesa: un uomo, una vittima, un mito. Pisa: Edizioni ETS, 2022.
5 L’Ardenza è un quartiere periferico situato a sud del comune di Livorno.
6 Tredici M., L’inchiesta, la spia, il compromesso, cit., p. 355.
7 Ivi, p. 357.
8 Martelli G., Autobiografia, cit., p. 12.
9 Martelli G., Autobiografia, cit., p. 12.
10 Ibidem.
11 Id, Nota autobiografica riferita al “dopo Liberazione”, marzo 1987, p. 2.
12 Ibidem.
13 Quando viene nominato Presidente del Bacino del Carenaggio, Martelli mostra delle doti manageriali che fino ad allora non era riuscito a sperimentare, contribuendo alla costruzione della Lips (la Società addetta alla progettazione e commercializzazione di eliche e alberi di trasmissione nel campo navale) e della piattaforma Sincrolift (una piattaforma della Darsena Morosini). Lasciò la Presidenza nel 1979, perché a lui successe Nelusco Giachini.

Articolo pubblicato nel giugno 2024.




La scelta di vita di Guido Battista Galeotti

Quando salì sul treno per Firenze e, via Bologna, arrivò alla stazione centrale del Milano da poco più di un anno le armi avevano cessato di sparare nelle martoriate contrade del nord d’Italia. Nel capoluogo lombardo si respirava un’aria che già sapeva di rinascita e la politica la incontravi dietro a ogni angolo di strada. Nella piazza principale, sovrastata dall’imponenza del Duomo, ogni sera si formavano capannelli di persone, uomini di tutte le età che discutevano sulle novità della giornata. Mescolato tra la gente, qualcuno più avveduto provava a immaginare il domani, il futuro del paese. Un giovane, un ragazzone diciassettenne, alto e magro, ascoltava ogni parola e non perdeva una battuta. Arrivato dalla periferia toscana, ascoltava e apprendeva. Ascoltava e ricomponeva nella sua mente il complesso mosaico del dopoguerra italiano. Ma cosa ci faceva in piazza Duomo a Milano quel toscano ancora imberbe e un po’ spaesato? E soprattutto chi era?

Tre anni prima.
Per uno scherzo della storia ai primi del 1944 furono proprio i tedeschi a dare a Guido Battista Galeotti il suo primo lavoro quando lungo la costa tirrenica bisognava allestire fortificazioni d’ogni tipo in previsione di sbarchi del nemico. Un lavoro per i nazisti, proprio a lui che in casa, dallo zio Beppe e dal padre Giannino, aveva sempre sentito parlare di antifascismo e alle adunate della gioventù fascista mai aveva partecipato. Ben presto, però, ancora adolescente avrebbe conosciuto la durezza della guerra.
Dopo la liberazione di gran parte della Versilia e di Pietrasanta, sua città natale, dalla fine di settembre del ’44 l’abitazione dei Galeotti venne a trovarsi da un giorno all’altro a poche decine di metri da una batteria americana che sparava colpi verso le ultime propaggini delle Alpi Apuane dove terminava (o iniziava) la linea Gotica, la fortificazione tedesca che tagliava in due l’Italia e giungeva, attraverso tutto l’Appennino tosco-emiliano, fino alla costa adriatica. Guido Battista, con la curiosità dei ragazzi, si intrufolò subito nel campo allestito dai soldati alleati. A comandarli era un certo Peter, unico bianco del battaglione, che tutte le sere andava a dormire nella cucina dei Galeotti, ritenendola la stanza più sicura perché più a sud e, dunque, meno esposta ai tiri dei tedeschi. Una convivenza con i soldati americani che per la famiglia Galeotti e in particolare per Guido Battista significò razioni extra di pane, alimenti in scatola e cioccolate. Cosa non da poco per quei tempi.
Dalle stragi nazifasciste di Sant’Anna e di numerose altre località versiliesi i Galeotti ne restarono fuori avendo deciso di non allontanarsi dalla loro abitazione del Verzieri, poco fuori le mura di Pietrasanta. Subito dopo il 25 Aprile 1945 Guido Galeotti si avvicinò e poi si iscrisse al Partito Comunista Italiano. La voglia di gettarsi in prima persona nel gorgo della politica lo spinse alla militanza attiva. Un passo che gli avrebbe cambiato la vita. Ma questo ancora non poteva saperlo. In un primo momento si dedicò all’organizzazione del Fronte della Gioventù (così si chiamava allora quella che sarà la Federazione Giovanile Comunista Italiana). Poco tempo dopo il suo impegno lo rivolse al partito impegnandosi nel popolare quartiere di Porta a Lucca, a due passi dalla sua casa, dove partecipò al comitato per l’assistenza invernale ai disoccupati maggiormente bisognosi. Un organismo inizialmente formato da soli comunisti che, in accordo con la Cooperativa di Consumo di Pietrasanta, gestì la somministrazione giornaliera e gratuita di quattrocento minestre calde ad altrettante bocche da sfamare. La cellula comunista del quartiere, attraverso la capillare rete organizzativa del Pci, doveva redigere gli elenchi di chi aveva diritto a quel tipo di assistenza. Regole rigide e severi controlli incrociati supportavano il lavoro giornaliero dei militanti comunisti e chi rientrava nei requisiti richiesti riceveva il buono pasto col quale recarsi alla mensa della Cooperativa. Galeotti visse in prima persona quello straordinario immediato dopoguerra. E ne fece tesoro.

Con Togliatti alla scuola comunista.
L’attivismo di Guido Battista Galeotti fu notato da un operaio marmista, Dino Fracassini, dirigente della locale sezione del Pci. Fracassini frequentava la federazione di Lucca e segnalò al segretario Fulvio Zamponi quel giovane comunista di Pietrasanta che, tra tutti gli iscritti affluiti al partito dopo la liberazione, si stava distinguendo per passione e capacità. Non passò molto tempo e la federazione mandò a chiamare Galeotti.
Senza troppi giri di parole mi venne proposto di partecipare a un corso di formazione di cinque mesi che si sarebbe svolto alla scuola di partito a Milano” ricorda Guido Battista. Le lezioni stavano per iniziare e una risposta doveva essere data molto presto.
La famiglia non si oppose a questa opportunità e così, dopo qualche giorno, Guido Battista in piena notte si trovò a bussare al portone di una grande villa, forse requisita a qualche gerarca fascista, in piazzale Libia a Milano. Spaesato, un po’ confuso, timoroso per quello che l’attendeva aveva fatto la sua scelta di vita.
Il paese stava vivendo una formidabile stagione. A marzo era iniziata la più lunga tornata elettorale della storia d’Italia, conclusasi solo in autunno per via di una mobilità viaria ancora ridotta o resa impossibile dalla guerra in certi comuni della penisola. Pertanto, le elezioni amministrative slittarono in alcune parti del territorio nazionale. Le donne votarono per la prima volta e poterono anche essere elette. Una grande conquista. In giugno, col referendum istituzionale, l’elettorato fu chiamato a scegliere tra monarchia e repubblica e contemporaneamente a eleggere l’Assemblea costituente.
Con Galeotti partecipavano al corso una quarantina di allievi, di età diverse e provenienti da varie regioni. “Vi trovai compagni che avevano combattuto in Spagna contro i franchisti, nelle Brigate internazionali e da quella presenza, per me come per altri, partì lo sforzo per una più approfondita presa di coscienza. Ero il più giovane di tutti. In quelle stanze scoprì lo studio approfondito della storia, un modo nuovo di guardare agli uomini e ai fatti accaduti e a quelli in corso”.
Per Guido Battista la permanenza a Milano non significò soltanto studiare e seguire con atten-zione le lezioni alla scuola di partito. Appena ambientatosi prese a uscire ogni sera. Ai capannelli di gente in piazza Duomo lo accompagnava con la moto Giulio Seniga, un partigiano di diversi anni più grande di lui che poi diventerà segretario di Pietro Secchia, il numero due del Pci, e causa del suo allontanamento dai vertici del partito. Altre volte Guido Battista visitò alcune fabbriche nel vi-cino comune di Sesto San Giovanni. Durante la sua permanenza a Milano ebbe anche la possibilità di andare alla Scala, subito ricostruita dopo le distruzioni dei bombardamenti, e dal loggione vide la “Bohème” di Puccini. Così i cinque mesi trascorsi alla scuola comunista furono un tutt’uno con il contesto urbano e con la società milanese, in un orizzonte che generosamente si allargò alle conoscenze di quel giovanissimo allievo.
Nella villa di piazzale Libia una mattina arrivò, inatteso, Palmiro Togliatti. L’emozione di Galeotti e di tutti i presenti fu grande davanti al capo dei comunisti italiani, il leggendario Ercoli, l’uomo della “svolta di Salerno” nella primavera del ’44 appena giunto da Mosca.
Il caloroso ma breve saluto di Togliatti agli allievi della scuola di Milano non consentì approfondimenti né tantomeno di parlare della novità del “partito nuovo”, delle sue caratteristiche ideolo-giche, politiche e organizzative. Temi sui quali Togliatti tornerà qualche giorno dopo nella sede della federazione in un rapporto ai quadri dirigenti milanesi. Anche in quella occasione Galeotti fu presente. “Ascoltare Togliatti era un piacere” ricorda Guido Battista Galeotti.

A Lucca, al lavoro in federazione.
Rientrato dalla scuola comunista, Galeotti venne chiamato a lavorare in Federazione per saggiarne sul campo le qualità e il grado di maturazione raggiunta. L’operazione però si rivelò prematura. Fu un’esperienza breve e tutto sommato sofferta come ricorda lui stesso. Da quel momento avrà inizio un intermezzo lungo una decina di anni, con l’attività politica e sindacale portate avanti prevalentemente nella sua città e nell’ambito del suo primo vero lavoro, l’impiego nella Cooperativa di Pietrasanta, grande complesso commerciale che si collocava ai vertici nazionali nel ramo del consumo. La costituzione della federazione comunista della Versilia, a fine 1958, si presenterà per Galeotti come seconda occasione per iniziare la carriera di “rivoluzionario di professione”. E questa volta sarà colta senza ripensamenti.

* * *

Guido Battista Galeotti l’11 ottobre 2023 ha festeggiato il novantacinquesimo compleanno. Con una memoria e una lucidità non frequenti per quell’età è tornato di recente con una riflessione sui tempi lontani che segnarono la sua adolescenza e i primi anni della maturità. Lo ha fatto con un libro, pubblicato, in relazione alla sua scelta di vita, col titolo emblematico di “Un amore così grande”.

 




Guido Cerbai, un percorso sghembo e coerente

Le stagioni più vivaci della sinistra italiana – quelle, diciamo, dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta – sono state animate da soggettività molto diverse e sono state tante le figure che hanno attraversato questi anni con bagagli politico-culturali e lungo percorsi non convenzionali.
Una di queste figure è Guido Cerbai, nato a Galliano di Mugello nel 1934, vissuto dal 1946 al 1959 a Firenze e successivamente trasferitosi a Pisa, dove attualmente risiede.
Oggi, alle soglie dei novant’anni, Cerbai è una figura sempre presente e visibile nella vita politica cittadina come attivista e dirigente di Rifondazione Comunista, ereditando una fitta rete di relazioni intessuta nel corso di sessant’anni di attività dapprima sindacale e quindi nelle istituzioni e portando sempre nelle assemblee e nelle iniziative politiche una voce autorevole che si appoggia a una memoria precisa, lucida e colta.
Tutte queste caratteristiche hanno fatto in modo che diverse persone, indipendentemente tra loro, lo abbiano individuato nella seconda metà degli anni Dieci come testimone privilegiato di un lungo periodo di vita politica e sindacale cittadina. Questo riconoscimento si è materializzato nel febbraio 2019 in una lunga intervista di vita in video della durata di oltre quattro ore che è stata successivamente montata, suddivisa in sette scansioni cronologiche e caricata sulla piattaforma Youtube. Per favorire l’accesso all’intervista è stato quindi realizzato un apposito sito web (cerbairacconta.wordpress.com), dal quale è possibile anche scaricare una versione sintetica dell’intervista di poco più di un’ora.
È molto difficile se non impossibile individuare una fase saliente di questo lungo percorso di vita, in quanto in tutte le sue diverse fasi si ritrova lo stesso intreccio armonico tra universo affettivo, impegno politico e lavoro, segnato peraltro da una forte coerenza di fondo.
Ciò che cambia nel tempo sono gli scenari, raccontati con viva partecipazione emotiva e con ricchezza di particolari. Scenari molteplici e articolati ma che possono essere ricondotti a quattro fondamentali: la dura campagna mugellese della famiglia, dell’infanzia e degli anni della prima adolescenza, la Firenze della frequentazione della Madonnina del Grappa fino al compimento degli studi universitari, la vita di fabbrica a Pisa fino ai primi anni Novanta e infine l’impegno politico nel territorio, cioè nel quartiere e in città, prevalente negli ultimi decenni. Questi scenari si articolano poi internamente e si sovrappongono tra loro, come nel caso dell’impegno politico e di quello sindacale, entrambi intensi soprattutto a partire dal Sessantotto, oppure, più indietro nel tempo, come nel caso della vita all’interno della Madonnina del Grappa, dove la formazione scolastica e universitaria s’intrecciano con la vita dell’istituto ma anche con la vita politica fiorentina, fortemente segnata dalla presenza di grandi personalità del cattolicesimo progressista.

Roma, manifestazione per la pace 1991

Figura impegnata in prima fila e al tempo stesso osservatore analitico e capace di ricostruire il contesto storico e politico, Cerbai restituisce in modo altrettanto dettagliato e preciso gli eventi personali e quelli collettivi: i difficili anni del dopoguerra, la Firenze di Giorgio La Pira e di Don Lorenzo Milani, il clima oppressivo della fabbrica degli anni Sessanta, l’imprevista e galvanizzante svolta del Sessantotto, che sconvolge sia la sfera politica che quella culturale, il robusto impegno sindacale nella fase ascendente degli anni Settanta e poi in quella del lento regresso degli anni Ottanta e Novanta, ma segnata dallo straordinario successo costituito dalla salvezza dell’impianto pisano e di tutti i suoi posti di lavoro, il parallelo emergere di un impegno di partito che pur nelle successive formazioni non verrà mai meno e gli darà la possibilità di trasporre l’ispirazione democratica di base ereditata da Don Milani e da La Pira dal consiglio di fabbrica alla presidenza del consiglio di circoscrizione.
Questa interpretazione tenacemente radicale dell’impegno pubblico prende infatti varie forme e si traduce nell’adesione a diverse sigle, dalla Cisl al Movimento politico dei lavoratori, da Democrazia proletaria a Rifondazione comunista, ma non tradisce l’ispirazione di fondo maturata negli anni dell’adolescenza all’incrocio tra cattolicesimo progressista e un socialismo non burocratico, ma al contrario anzitutto autogestionario.
La testimonianza di Guido Cerbai permette di ripercorrere anche le trasformazioni economiche e sociali che hanno via via segnato gli anni della ricostruzione, quindi del miracolo economico e poi degli ultimi decenni e di osservare da vicino figure come quella di Don Giulio Facibeni o quella di Don Lorenzo Milani, oltre ad altri protagonisti della sinistra politica e sindacale pisana e nazionale.

Sitografia:

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Archivi:
BFS ISSORECO, Archivio della Federazione provinciale pisana di Democrazia Proletaria,
BFS ISSORECO, Carte «Consiglio di Fabbrica Guidotti»




Giorgio Alberto Chiurco: un intellettuale militante nel regime fascista.

Giorgio Alberto Chiurco (1895-1974) è noto soprattutto come cronista ufficiale della rivoluzione fascista, autore di una delle più celebri opere edite sul tema negli anni del regime mussoliniano. Nato a Rovigno d’Istria ma trasferitosi presto in Toscana per motivi di studio, egli fu uno dei protagonisti della fascistizzazione delle province senese e grossetana. Ma non solo: medico e squadrista della prima ora, poi parlamentare, ufficiale pluridecorato, docente universitario e scienziato razzista, Chiurco fu un attore molto attivo nella vita politica e intellettuale del regime. Finora, il suo percorso biografico era stato soltanto parzialmente esplorato dalla storiografia ma il volume di Borri, esito di un’approfondita ricerca negli archivi nazionali e internazionali, si propone di fornire una ricostruzione complessiva delle vicende politiche e culturali del personaggio, che si intrecciano su più livelli con la storia italiana del Novecento.

Riportiamo di seguito un estratto del volume, dedicato al ruolo svolto da Giorgio Chiurco, come medico e intellettuale fascista, nella creazione di un nuovo prototipo di italiano, il cosiddetto «Uomo Nuovo» fascista inteso come modello di un’umanità superiore, destinata a fare le fortune dell’Italia e del regime.

 

Un intellettuale militante

V’è una cultura della rivoluzione che si esprime attraverso la polemica pubblicistica di uomini come Maccari e Malaparte. Ve ne è un’altra che parla per anatemi e per invettive ma che, andando al sodo, serve unicamente nei momenti di pericolo […]. V’è, infine la cultura della rivoluzione che ha avuto per cronisti Gorgolini e Chiurco, e che ha per storici Volpe ed Ercole. La prima cultura, della polemica pubblicistica, impedisce che le porte della rivoluzione si chiudano […]. La seconda cultura, quella degli oltranzisti, è sempre richiamabile in servizio, al primo segno del temporale. La terza cultura, quella dei cronisti della rivoluzione, rimane l’anima di ogni processo storico da istruirsi a carico di quei nemici che, rimasti nascosti durante il nostro cammino, tentano di uscire allo scoperto per sbarrarci, al momento che sembrerà loro opportuno, la strada.

Era in questi termini che Mussolini descriveva a Yvon De Begnac[1] l’attivismo politico racchiuso nell’opera degli intellettuali fascisti. Chiurco trovava posto nel gotha culturale fascista non tanto per meriti scientifici, ma come cronista del periodo rivoluzionario, a dimostrazione della forte impronta ideologica che ne caratterizzò il lavoro, come pure della pluralità di ambiti su cui tale operato si estese. L’eclettismo dell’istriano può leggersi come riflesso del pluralismo culturale sperimentato dal regime, inteso come sovrapposizione fra correnti e programmi diversi nei campi delle arti e della scienza, destinati però a convergere nella mobilitazione in favore della rivoluzione fascista.[2] La celebrazione totalitaria del primato della politica su ogni espressione della vita delle masse rappresenta probabilmente la sintesi più efficace per spiegare tale pluralità, senza con questo voler ridurre la cultura fascista alla sua sola funzione strumentale.[3]

Mario Isnenghi distingueva tra intellettuali militanti, produttori di senso, e intellettuali funzionari, organizzatori e propagandisti, rinviando alla funzione svolta dagli attori culturali nella società fascista. L’attenzione di Isnenghi non era rivolta alla sola conoscenza alta, ma all’organizzazione culturale latamente intesa, comprendendo quindi insegnanti, giornalisti, oratori i quali, per motivi e in modi diversi, portarono la dottrina fascista tra le masse.[4] Le convergenze e sovrapposizioni riscontrabili tra tali figure e funzioni,[5] lungi dallo sminuirne l’efficacia, riconfermano la pluralità di livelli su cui si mossero gli agenti culturali del fascismo, seppur all’interno della cornice tracciata dal regime. Anche intellettuali intransigenti come Chiurco, contrari a mediazioni che limitassero la forza rinnovatrice fascista, distinsero la propria attività per un doppio crisma culturale e politico, conoscendo convergenze e divergenze rispetto alle correnti dominanti.[6] Non ci sono soltanto opportunismo e spirito conformista nelle proposte del medico istriano, pronto a formulare idee e difendere le proprie posizioni, se ritenute meritevoli, anche quando difformi dagli orientamenti del regime. A rendere Chiurco un intellettuale militante, nel significato più letterale del termine, è la natura totalizzante della sua adesione al regime, che ne fa uno scienziato, medico e autore vissuto nel fascismo e del fascismo, criticandone talvolta decisioni e orientamenti, ma condividendone il progetto complessivo.

La produzione letteraria dell’istriano può essere ricompresa nelle due macrocategorie degli scritti scientifici e delle opere a carattere cronistico-letterario dedicate al fascismo rivoluzionario e ai suoi martiri. Una distinzione – come vedremo – comunque non priva di punti d’incontro, riflesso tanto del ricordato eclettismo dell’autore, quanto del progressivo prevalere del Chiurco politico rispetto allo scienziato. Gli scritti razzisti degli anni Trenta, piegati alle necessità della pseudoscienza di regime, sono in tal senso indicativi della politicizzazione di tutta la produzione letteraria dell’istriano, il quale appartenne alla cosiddetta «industria culturale» tratteggiata da Gabriele Turi, formata dall’insieme degli intellettuali di regime. Al centro di tale produzione, indipendentemente dalle singole aree di interesse, rimasero sempre la costruzione dello Stato nuovo e di una nuova generazione di italiani, i «fascisti integrali» evocati da Mussolini.[7] Il concetto dell’italiano nuovo ricorre tanto negli scritti scientifici, quanto nella produzione cronistico-letteraria del medico istriano, sempre attento a temi quali l’educazione dei giovani, lo sport, l’eugenetica, la salvaguardia della sanità razziale.

Nell’ottica del regime, le nuove generazioni dovevano essere innanzitutto numerose, in salute e fisicamente prestanti, motivo per cui la medicina divenne una pratica «con etichetta nazionalistica e marchio fascista», come scritto da Giorgio Cosmacini.[8] Il regime sottopose la disciplina all’influenza dell’autorità politica, facendo dei medici i “sacerdoti” del progetto mussoliniano di ingegneria sociale, incaricandoli di salvaguardare la salute fisica e morale della popolazione, di «abituare gli italiani al moto, all’aria libera, alla ginnastica ed anche allo sport».[9] Nel 1921, Chiurco vedeva negli squadristi i protagonisti di una nuova era, «gli eletti, gli aristocratici del pensiero e dell’azione predestinati al comando da Dio e dalla patria». Per un corretto sviluppo dei giovani risultava fondamentale la «forza, equilibrio, volontà, disciplina che solo una razionale educazione fisica può dare».[10]

L’evoluzione del concetto di uomo nuovo ricalca nel pensiero di Chiurco la cronologia tracciata da Emilio Gentile, per cui a cavallo tra gli anni Venti e Trenta l’attenzione si concentra sul potenziamento fisico e demografico della popolazione, con l’emergere dell’imperialismo e del razzismo quali fattori di rilievo nel dibattito. Nel Manuale di cultura fascista del 1930, l’autore inseriva le politiche demografiche tra «i principi basilari del Fascismo nei riguardi della tutela fisica e morale della razza», vedendo nella crescita della popolazione «uno dei mezzi più efficaci per la sua valorizzazione ed espansione materiale e spirituale nel mondo».[11] Al numero doveva seguire la qualità, assicurata dallo sviluppo di qualità fisiche e mentali, favorite da politiche volte ad «accrescere la validità, l’energia e la resistenza morale e fisica del giovane», facendone un «cittadino soldato» e un cittadino-produttore.[12] Con la proclamazione dell’impero alla metà degli anni Trenta, alla formazione delle nuove generazioni si aggiunse il problema della loro protezione dal rischio di incroci genetici con le popolazioni indigene, la mescolanza con le quali rappresentava «sia per ragioni sanitarie e biologiche, che per la dignità della razza, un grave pericolo per il popolo italiano colonizzatore». Per questo motivo, diventava «un dovere della nostra dignità imperiale» la «formazione di una coscienza razziale per difendere la razza italica da qualsiasi imbastardimento», ricorrendo a leggi che «impediscono il mescolamento di italiani con indigeni».[13]

Al problema della preservazione si affiancava quello dell’educazione. Per questo motivo, il regime varò dagli anni Venti quello che Luca La Rovere ha definito «il più importante esperimento di pedagogia politica di massa mai tentato nella storia nazionale italiana».[14] L’educazione morale doveva riguardare il senso di disciplina e la fedeltà all’idea, per cui sui fascisti, secondo i postulati di Arnaldo Mussolini, incombeva «il dovere di essere, nella vita nazionale, sempre i primi, vigili contro gli avversari» ma anche pronti «a volgarizzare i postulati», a «tesserli ed a viverli nelle manifestazioni di ogni giorno».[15] Fascismo, aggiungeva Chiurco, significava «soprattutto spirito di abnegazione ed assoluta e cieca disciplina», poiché «il fascista deve essere in prima linea puro e senza macchia».[16] Nei manuali scolastici curati tra il 1930 e il 1934, l’istriano dedicò ampio spazio ai «doveri del cittadino verso la famiglia e verso la patria», sostenendo che ogni buon italiano «sentirà, e praticherà, prima di ogni altro, il dovere dell’ordine e della disciplina», poiché «dall’uno e dall’altra scaturiscono il rispetto delle leggi, il sentimento della gerarchia, l’ossequio all’Autorità».[17]

È infine evidente l’intento educativo della Storia della rivoluzione fascista. Non a caso, Mussolini medesimo, nel proprio Invito alla lettura, incluse tra i principali destinatari dell’opera «i giovani delle più fresche generazioni», che attraverso l’opera «impareranno a venerare i segni del Littorio e a rispettare i veterani che fecero la Guerra e la Rivoluzione».[18] La funzione didattica della Storia fu sottolineata da numerose riviste del tempo, con Carlo Capasso che la definì «una vera scuola per le generazioni nuove»,[19] mentre il periodico del ministero della Pubblica Istruzione, Accademie e Biblioteche d’Italia, inserì i volumi del Chiurco tra le opere che «inizieranno il giovine alla meditazione degli avvenimenti storici».[20] Pure i fuoriusciti antifascisti intuirono l’intento pedagogico di quella che definirono «una storia del fascismo ad uso dei balilla», e pur criticando l’opera e lo stile prolisso dell’autore, riconobbero come il poter disporre di «un’organizzazione di massa, inquadrata da migliaia di cavalier Chiurco» costituisse un punto di forza dell’Italia mussoliniana.[21]

Tramite l’apparato propagandistico fascista, la Storia divenne un testo importante per il progetto di rinnovamento nazionale, una presenza immancabile tra gli scaffali di biblioteche, circoli di lettura, scuole di ogni grado e tipologia, nonché dono per gli studenti che maggiormente si fossero distinti nell’apprendimento, i quali «nell’esempio dei pionieri della rigenerazione della patria» avrebbero trovato «i migliori esemplari per la loro formazione spirituale».[22]

 

[1] F. Perfetti (a cura di), Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 402-3.

[2] A. Tarquini, Storia della cultura fascista, Il Mulino, Bologna 2011, p. 225.

[3] E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Carocci, Roma 2008 (ed. orig. 1995). In generale, R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, Il Mulino, Bologna 2000.

[4] M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Einaudi, Torino 1979.

[5] S. Luzzatto, The Political Culture of Fascist Italy, in Contemporary European History, vol. 8, 2, 1999, p. 322.

[6] A. Tarquini, Storia della cultura fascista, cit., pp. 86-89, 228-29.

[7] G. Turi, Lo Stato educatore. Politica e intellettuali nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 21. Sul tema, E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 235-64; P. Bernhard, L. Klinkhammer (a cura di), L’uomo nuovo del fascismo. La costruzione di un progetto totalitario, Viella, Roma 2017.

[8] G. Cosmacini, Medici e medicina durante il fascismo, Pantarei, Milano 2019, p. 65. In riferimento al ruolo dei medici nel regime, R. Maiocchi, Scienza e fascismo, Carocci, Roma 2004, pp. 140-54.

[9] Discorso ai medici del novembre 1931, in E. e D. Susmel (a cura di), Opera Omnia, vol. 25, La Fenice, Firenze 1956, pp. 58-62. Circa la funzione educatrice dello sport, P. Dogliani, Educazione fisica, sport nella costruzione dell’«uomo nuovo», in P. Bernhard, L. Klinkhammer (a cura di), L’uomo nuovo del fascismo, cit., pp. 143-55.

[10] Lo squadrista incarnò il mito fascista dell’italiano nuovo, E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 245-48. Per le citazioni cfr. L’inchiesta fascista sui fatti di Roccastrada, in L’Era Nuova, 30 luglio 1921; Fascismo ed educazione Fisica, in La Scure, 24 giugno 1922.

[11] G.A. Chiurco, Manuale di cultura fascista, Morano, Napoli 1930, pp. 89-90.

[12] Id., L’educazione fisica nello Stato fascista. Fisiologia e patologia chirurgica dello sport, San Bernardino, Siena 1935, p. 7. Il modello di “cittadino-soldato” è posto al centro della pedagogia totalitaria del regime dalla seconda metà degli anni Venti.

[13] Id., La sanità delle razze nell’Impero italiano, Istituto Fascista dell’Africa Italiana, Roma 1940, pp. 1049-50.

[14] L. La Rovere, Totalitarian Pedagogy and the Italian Youth, in J. Dagnino, M. Feldman, P. Stocker (a cura di), The “New Man” in Radical Right Ideology and Practice. 1919-1945, Bloomsbury Academic, London 2018, p. 21. La traduzione è mia.

[15] A. Mussolini, Fascismo e civiltà, Hoepli, Milano 1937, pp. 134-35.

[16] G.A. Chiurco, Comandamento del fascista: onestà e disciplina, in Il Popolo Senese, 3 gennaio 1929.

[17] Id., Elementi di cultura fascista, Morano, Napoli 1934, p. 94.

[18] B. Mussolini, Invito alla lettura, in G.A. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, vol. 1, Vallecchi, Firenze 1929, pp. VII-VIII.

[19] C. Capasso, Storia della rivoluzione fascista di G.A. Chiurco, in Bibliografia fascista, 7, 1929, pp. 1-3. Capasso fu docente scolastico, studioso di didattica e professore universitario.

[20] G. Ruberti, Libri per una vita intera, in Accademie e Biblioteche d’Italia, 1, 1929, pp. 50-58.

[21] S. T., Una storia del fascismo ad uso dei balilla, in Lo Stato Operaio, 8, 1929, pp. 706-11.

[22] La citazione è di Ruggero Romano, deputato fascista dal 1924 al 1939, durante una cerimonia ufficiale a Noto, cfr. C. Sgroi (a cura di), R. Liceo-Ginnasio «A. Di Rudinì» di Noto. Annuario Scolastico 1929-1930, Studio Editoriale Moderno, Catania 1931, p. 22.




Faccia a faccia con Gaetano Salvemini

Il breve testo di Maria Pichi offre un frammento di memoria su Gaetano Salvemini, “fotografato” negli ultimi anni del suo insegnamento dalla cattedra di Storia, presso l’Ateneo fiorentino. Siamo agli inizi degli anni ’50 a Firenze. Salvemini è da qualche anno rientrato dall’esilio cui l’aveva costretto il regime fascista. Dai ricordi dell’autrice affiora un inconsueto ritratto dell’anziano professore, colto in una situazione particolare. E’ al tempo stesso un piccolo spaccato di un’Italia che oggi non c’è più, dove poteva accadere che un protagonista della storia dell’antifascismo e della cultura militante potesse ricevere gli studenti in camera da letto – a causa di una indisposizione – e in tale inusitata sede svolgere la sessione di esame, pur di evitar loro di finire “fuori corso”. Sullo sfondo compaiono fugacemente, in veste di assistenti, due protagonisti della cultura fiorentina (e italiana) del dopoguerra, come Ernesto Ragionieri (all’autrice non particolarmente simpatico) ed Eugenio Garin.

Faccia a faccia con Salvemini

Gaetano Salvemini rivide l’Italia nel 1947: ne era espatriato da clandestino vent’anni prima e tornò a Firenze all’Università, quella stessa che allora lo aveva espulso dalla cattedra di storia moderna. La sua esistenza era stata sconvolta radicalmente per ben due volte: nel terremoto di Messina aveva perduto l’intera famiglia, moglie e sei figli, poi il regime fascista lo aveva messo in carcere e privato prima dell’insegnamento e poi della nazionalità.
Nel ritorno alla sua sede universitaria di quest’uomo anziano e provato dalla vita come non ammirare la capacità di resilienza? Ma, realisticamente, questo ritorno dovette creare qualche imbarazzo nel mondo accademico fiorentino: la cattedra di Storia Moderna era occupata lecitamente e degnamente dal professor Carlo Morandi. Su quella di Storia Medioevale (Salvemini aveva titoli anche per essa) sedeva Nicola Ottokar, che proprio con Salvemini, all’inizio del secolo, aveva avuto dei vivaci dissensi a proposito di Magnati e popolani nella Firenze del Duecento! Forse pesavano ancora? Certo è che Ottokar era ormai un signore malandato quanto al fisico e impigrito dal punto di vista didattico: della gioventù aveva conservato unicamente l’accento russo e un bastone col pomo d’avorio dono dello zar. Tuttavia non era collocabile a riposo.
Le difficoltà furono superate dotando la Facoltà di Lettere di una nuova disciplina: Storia del Risorgimento. La materia non era curriculare, ma solo facoltativa e le lezioni del professor Salvemini, va detto, non furono molto frequentate. Confesso con rimpianto – ed un certo disagio – di averne ascoltata una sola anch’io e fu ben più vivace, ben più interessante di quelle che certi colleghi tenevano nelle aule adiacenti. Infatti alcuni assolvevano alla funzione docente spesso declamando passi del libro che avevano dato loro fama anni prima: li sapevano a memoria e li recitavano con sentimento. Ne ricordo un altro che borbottava le sue riflessioni a testa bassa, tra sé e sé: noi studenti non ci guardava mai in faccia.
Stando così le cose nell’autunno del 1949, poiché per me cominciava il terzo anno di lettere, andai a chiedere la tesi al professor Morandi: al primo esame mi aveva dato trenta e disse di sì. Quanto a me accettai senza batter ciglio di studiare Romagnosi e presi a frequentare assiduamente varie biblioteche. In piazza San Marco non ci andavo mai. Probabilmente non avrei mai più avuto occasione di trovarmi faccia a faccia con Salvemini se nella primavera del ’50 il professor Morandi non fosse stato stroncato da un infarto.
Intorno alla nomina del successore, nella persona di Delio Cantimori, la facoltà di lettere si divise tra sostenitori e avversari. La lotta, che durò un anno intero, fu un episodio minimo della guerra fredda, o, per dirlo all’italiana, dell’opposizione al “fattore K”, perché Cantimori era un docente prestigioso della Normale di Pisa, ma anche un noto intellettuale comunista.
E diciamo pure che nel contesto generale fu un episodio minimo, ma certamente non fu sentito come tale da un certo numero di studenti che dovevano assolutamente sostenere l’esame di storia moderna entro l’anno solare 1950. Era la condizione sine qua non vuoi per ottenere l’esonero dalle tasse, vuoi per la conferma di borse di studio o per non finire fuori corso. E tra quelli c’ero anch’io.
Saltarono i due appelli di giugno e di luglio; saltò il primo appello autunnale e poiché noi interessati in fondo eravamo quattro gatti i nostri problemi non facevano notizia.
Quando si seppe che Salvemini era disposto a dare lui una mano era ormai la fine di novembre pioveva, faceva freddo e il medico gli aveva tassativamente prescritto di starsene ben riguardato, magari a letto, e di non uscire comunque da casa sua … che poi casa non era, ma la stanza di una pensioncina in via San Gallo.
Per farla breve, in un mattino uggioso di tardo autunno un gruppetto di studenti – ed io con loro – fra le otto e le nove si trovò nel corridoio di quella pensione. Dalle camere uscivano, e ci rientravano precipitosamente, le signore ospiti in vestaglia, con i bigodini in testa, sconcertate dalla nostra presenza. Eppure di goliardico non avevamo proprio niente, tutti composti, silenziosi, un po’ in ansia per la prova imminente.
Venne il mio turno ed ecco il colpo d’occhio: una cameretta in buona parte occupata da un letto e da due poltroncine ai lati della testiera, una per Ernesto Ragionieri, che era stato l’assistente del defunto Morandi, l’altra per il professor Eugenio Garin: era giovane allora, ma già molto autorevole.
Ai piedi del letto c’era giusto giusto lo spazio per lo sgabello destinato a me.
Si può avere un ricordo delizioso di un esame? Tra l’altro è un aggettivo che può avere qualcosa di melenso che non mi appartiene. Seduta sul mio panchetto, le mani sulle ginocchia, con le une e le altre sfioravo la peluria di un plaid, unica nota di confort e di colore in un ambiente dimesso. All’altro capo di quel plaid da “déjeuner sur l’erbe” emergeva dai cuscini il busto di Salvemini, con la barba bianca, lo sguardo ammiccante e gioioso di uno gnomo da favola.
Sì, si può avere un ricordo delizioso di un esame che fu anche serio perché Morandi esigeva dai suoi studenti una mole di letture notevoli e la commissione si attenne, senza fare sconti, al programma che egli aveva previsto.
Quell’anno vari testi riguardavano la Riforma e ricordo che il mio colloquio prese le mosse da un classico: L’etica protestante e lo spirito del capitalismo del Weber. Poi toccò altri argomenti che non ricordo, finché nel discorso, ma non per mia iniziativa, entrarono la mia futura tesi e il Romagnosi, intorno alla cui prosa oscura avevo cominciato ad arrabattarmi.
Salvemini rideva e scherzava: che anch’io sembrassi fare capolino dal plaid in fondo al letto? Perfino le labbra sottili di Garin abbozzavano sorrisi. Ragionieri no: inespressivo, impassibile se non addirittura imbronciato, non traeva alcun piacere da quella situazione anomala. Ad Ernesto buonanima – voglio dirlo – mancava il senso dell’umorismo.
Ma c’è di più: quel mugugno, forse, non era solo caratteriale, forse era un microscopico gesto politico. Ragionieri, comunista di stretta osservanza, probabilmente sedeva “obtorto collo” su quella poltroncina riguardosa alla sinistra di Salvemini, che recentemente aveva avuto uno scontro vivace con Togliatti.
Salvemini aveva l’aria di divertirsi davvero ed è possibile che ridesse per via dell’assistente ostile e immusonito non meno che per la ragazza che faceva capolino in fondo al suo letto.
A me piace pensare che proprio l’atmosfera un po’ surreale di quell’esame abbia consentito a Gaetano Salvemini di concludere “in letizia” la sua lunga e movimentata carriera universitaria.
Di lì a pochi mesi, ormai pensionato, commemorò solennemente Carlo e Nello Rosselli e lasciò Firenze. Avrebbe trascorso a Sorrento i suoi ultimi anni.
A me aveva dato trenta … o non fu forse trenta e lode ?

Maria Pichi in Lauretta *

Roma, 15 marzo 2023

* Maria Pichi in Lauretta è nata a Torino il 6 novembre 1928. Ancora bambina seguì la famiglia a Firenze, presso la cui Università si laureò in Storia, nell’anno accademico 1952-53, con Delio Cantimori, discutendo una tesi sul pensiero di Gian Domenico Romagnosi. Per decenni ha insegnato italiano in vari istituti superiori del Lazio e a Roma, dove ancora risiede.




Pier Carlo Masini (1923-2023)

A cento anni dalla nascita di Pier Carlo Masini (Cerbaia fraz. di S. Casciano Val di Pesa, 26 marzo 1923 ‒ Firenze, 19 ottobre 1998) si ricorda l’opera di un intellettuale che, tra tutti coloro che si sono occupati degli anarchici e delle radici “eretiche” del primo socialismo, è stato, se non il più importante, di certo uno degli storici più rigorosi e originali del Secondo Novecento. Masini, inoltre, non è stato solo un uomo di pensiero, ma anche un militante antifascista, condannato giovanissimo al Confino politico, vicesindaco di San Casciano Val di Pesa nei primi mesi della Liberazione, impegnato prima nelle fila del PCI poi in quelle dell’anarchismo e infine in quelle del socialismo democratico, oltre che un raffinato uomo di cultura e un bibliofilo competente e appassionato.

La passione per la storia in Masini ha radici lontane. Nell’autunno 1941 s’iscriveva alla facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze. Tra i suoi docenti c’erano Giuseppe Maranini, che quell’anno teneva un corso sul costituzionalismo inglese; Pompeo Biondi, che proponeva il tema della sinistra hegeliana; soprattutto, Carlo Morandi, docente di Storia moderna, che svolgeva un corso sulla storia dei partiti politici italiani. Le lezioni di Morandi sono state importanti per la formazione e per l’approccio alla cultura storica del giovane Masini. In quel periodo Morandi era uno fra i più brillanti storici italiani, un innovatore del metodo della ricerca storica. Le sue ricerche sulle forze politiche moderate dell’Italia unita e sulle relazioni diplomatiche che legavano l’Italia all’Europa sin dall’inizio dell’età moderna, così come la sua opera più nota, I partiti politici in Italia dal 1848 al 1924, uscita pochi mesi dopo la fine del Secondo conflitto mondiale, sono ancora oggi un punto di riferimento per gli studiosi. Tra i suoi allievi vanno ricordati, tra gli altri, Giampiero Carocci, Giuliano Procacci ed Ernesto Ragionieri.
Morandi aveva consigliato a Masini di leggere il libro di Giacomo Perticone, Linee di storia del comunismo, uscito nel 1942 per le edizioni dell’Istituto Studi Politici Internazionali di Milano. Dopo tale lettura, seguiva quella di Linee di storia del socialismo (pubblicato nel 1941), dello stesso Perticone, dove Masini aveva potuto leggere per la prima volta il testo degli appelli contro la guerra dell’internazionalismo socialista di Zimmerwald (1915) e di Kienthal (1916). In questa fase Masini stava vivendo una prima, breve esperienza politica che lo aveva portato dalle iniziali simpatie per il fascismo eterodosso alla scelta antifascista, scelta che aveva causato la sua condanna al Confino di polizia per due anni. Rientrato a Firenze nell’autunno del 1943, fino alla primavera del 1945 aveva studiato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze per preparare la sua tesi di laurea sulla diffusione del saintsimonismo in Toscana, approfondendo nel contempo le caratteristiche storiche e teoriche delle origini del socialismo [1].
Masini_Pier_Carlo_Anarchici_comunistiMasini fa parte a pieno titolo di quella giovane generazione di storici inquieti che, nel pieno della crisi politica, sociale ed economica italiana degli anni della guerra, sulle macerie lasciate dal fascismo e attraverso la sofferta strada della Lotta di liberazione, aveva maturato l’esigenza di ripensare la storia d’Italia attraverso lo studio del movimento operaio e del lavoro, facendola entrare nel panorama scientifico italiano come una nuova disciplina, con lo scopo di andare oltre le vecchie scuole storiografiche moderate, idealistiche e nazional-fasciste. La scelta di Masini non era diversa da quella compiuta anche da altri giovani intellettuali che si avvicinavano allo studio della storia e che nasceva, oltre che da un interesse culturale generale e dal percorso di studi, anche e soprattutto da una scelta di impegno etico politico [2].
L’intreccio tra storia e politica ha caratterizzato, come è stato più volte sottolineato in campo storiografico, la ricerca sulle origini del movimento socialista in Italia, diventando «il terreno prioritario» su cui si affermava «l’impegno della storiografia di sinistra». Si trattava di «una scelta politica precisa, volta a conferire dignità e legittimazione – entro l’ambito dello Stato democratico – al movimento operaio»[3].
Dopo una breve parentesi tra le fila comuniste durante la Resistenza, nell’estate del 1945 Masini sceglieva di schierarsi nel campo libertario. La sua adesione non era di tipo sentimentale. Egli si riconosceva in una definizione di Antonio Labriola, che distingueva con favore, all’interno dell’anarchismo, gli anarchici “ragionanti” dagli altri, precisando in tal senso la sua posizione nel solco del pensiero di Errico Malatesta, Luigi Fabbri, Francesco Saverio Merlino e Camillo Berneri, tracciando, di fatto, i lineamenti di una fisionomia umana e intellettuale che ha tutti i caratteri dell’autoritratto condotto ex post e fissato su carta soprattutto per sé:

Fin dal primo accostarmi all’anarchismo, ai profeti, esteti e poeti dell’anarchia preferii sempre gli anarchici positivi: quelli che sanno coniugare i principi di libertà con quelli dell’associazione e della solidarietà: che partono dall’individuo ma arrivano alla società; che sostengono le proprie ragioni ma che sanno ascoltare anche quelle degli altri e di ogni problema vedono, oltre la faccia visibile e certa, quella invisibile e controversa; che oltre i confini della propria parte ideologica, scoprono l’anarchismo, spesso inconsapevole, che pulsa per forza naturale, in uomini e gruppi di colore diverso, in un’area libertaria più vasta di quella professa e militante; che non si limitano alla protesta ma traducono l’utopia della vetta in proposte, programmi, progetti per cambiare il piano; che sono continuamente irrequieti, autoironici, insoddisfatti, autocritici del loro stesso anarchismo, che lo adoprano non come un metro per misurare e magari condannare gli altri, ma come una lente per leggere meglio in se stessi e nella società[4].

Masini_Pier_Carlo_EresieL’impegno politico di Masini in questi anni sarà totalizzante, coinvolgendolo a tempo pieno nella propaganda orale, nell’organizzazione di convegni e nella redazione di periodici, e facendone in breve uno dei principali leader giovanili del movimento libertario risorto dopo vent’anni di dittatura.
Masini si laureava nell’anno accademico 1945-1946 discutendo con Rodolfo De Mattei la tesi su I riflessi del santsimonismo in Toscana. Il suo interesse per Henri de Saint-Simon nasceva dalle ricerche sulle origini del moderno pensiero socialista e della storia risorgimentale italiana, temi tanto cari al professor Morandi.
Le indagini di Masini sull’Ottocento italiano erano finalizzate non solo a una più precisa ricognizione e messa a punto di momenti significativi dell’identità storico-politica dell’anarchismo italiano, ma anche alla rivisitazione della riflessione teorico-politica di quei momenti della storia italiana dell’800 nei quali si era posto il problema del cambiamento “rivoluzionario” della società. Va in questa direzione il suo saggio Dittatura e rivoluzione nei dibattiti del Risorgimento, in cui analizza il pensiero di Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari, Giuseppe Montanelli, Carlo Pisacane[5]. In questo lavoro Masini distingueva il doppio significato del termine “dittatura”: quello che si riferisce al ruolo dominante dello Stato piemontese, verso cui la ripulsa dei rivoluzionari ottocenteschi era comune, e quello che intendeva la “dittatura” come possibile momento o forma rivoluzionaria. Su questo punto le posizioni divergevano, generando polemiche. L’osservazione iniziale che, a questo proposito, viene fatta da Masini, è illuminante circa le sue posizioni al contempo storiografiche e politiche:

Fu un’inutile polemica, allora; ma ritorna utile oggi come una nuova vena cristallina che riverberi i suoi riflessi sulle lotte contemporanee e ci illumini una più moderna interpretazione del Risorgimento. Qui considereremo il pensiero di alcuni noti eretici dell’Ottocento, anche per suffragare una tesi che ci è cara: essere l’anarchismo italiano una genuina espressione delle secolari esperienze del nostro popolo, un prodotto della sua più libera tradizione culturale, e non già − se ne persuadano i malevoli per ignoranza − un isolato vaneggiamento d’asceti od un improvviso sproloquio di folla[6].

Il 1946 è stato un anno particolare non solo perché, dopo la fine del conflitto mondiale, si era svolto il referendum istituzionale dal quale era nata l’Italia repubblicana, ma anche perché cadeva il centenario della nascita di Cafiero. Sul piano storiografico l’anniversario era stato anticipato da un articolo di Aldo Romano sulla scoperta, presso l’Archivio di Stato di Napoli, di tre lettere di Friedrich Engels a Cafiero[7]. A guidare la curiosità e gli studi di Masini era stata, in questo periodo, la lettura di un saggio di Carlo Morandi, pubblicato su «Belfagor», dal titolo esemplificativo: Per una storia del socialismo in Italia. Nel suo intervento Morandi sottolineava la necessità, per la nuova storiografia, di avviare un’indagine seria e rigorosa sulla storia del socialismo in Italia abbandonando fini apologetici e polemici. Lo storico scriveva che era necessario non solo studiare gli aspetti teorici della diffusione delle idee del socialismo, la “città del sole”, ma in particolare «raccogliere lo sguardo attento sulla “città dell’uomo”». Era un richiamo esplicito a indagare a fondo, andando alle radici della storia sociale e politica del movimento operaio, nelle città e nelle campagne, fin nelle più piccole località, dove si era espressa l’esperienza ideale e pratica del moderno socialismo in tutte le sue correnti. Nell’articolo, tra i vari argomenti e personaggi, veniva fatto riferimento alle correnti marxiste revisioniste, da Merlino a Mondolfo, alle esperienze bakuniniste della Prima Internazionale e ai suoi personaggi, ma soprattutto alla necessità di “vere biografie storiche” dei leader del movimento. Possiamo immaginare che per il giovane studioso e militante Masini la lettura dell’articolo di Morandi sia stata una sorta di appello all’arruolamento nelle nuove leve della ricerca storica.
Poco tempo dopo la pubblicazione del saggio di Morandi, sul periodico settimanale milanese «Il Libertario», diretto da Mario Mantovani, Masini pubblicava il suo primo lavoro su Cafiero, intitolato Pisacane e Cafiero[8]. In seguito, in occasione del centenario della nascita di Cafiero, sempre su «Il Libertario» Masini pubblicava l’articolo Per il Centenario della nascita di Carlo Cafiero (1° settembre 1846-1° settembre 1946). Note sparse[9], così come, su «Volontà» di Napoli, presentava un altro saggio dedicato al rivoluzionario pugliese, in particolare agli ultimi anni della sua militanza, quella più controversa e drammatica[10].
Masini_Pier_Carlo_1923_1998_ridCome si è detto, in Masini l’intreccio tra l’interesse storico e l’impegno politico in questo periodo è stato fortissimo, dunque non era un caso che la sua prima conferenza pubblica come militante della Federazione anarchica italiana, ma soprattutto come efficace divulgatore della storia ‒ si trattasse di figure legate alle vicende del movimento anarchico o a snodi storici come la formazione dei ceti moderati durante il Risorgimento – fosse significativamente dedicata al tema Carlo Cafiero pioniere del movimento operaio, tenuta il 30 marzo 1947 a Empoli presso la locale Università Popolare.
L’approccio di Masini alla storia in funzione del suo impegno etico politico non era affatto strumentale e ancor meno superficiale. Nella ricostruzione delle vicende del movimento libertario e socialista, infatti, la sua formazione e i suoi studi lo portavano ad utilizzare un metodo rigoroso, filologico e critico, anche quando scriveva per la stampa del movimento o del partito. A questa impostazione Masini rimarrà fedele per tutta la vita lasciandoci una grande eredità culturale e di metodo di cui i suoi scritti ne sono una testimonianza viva.

NOTE:

[1] Per un inquadramento generale della vita intellettuale e politica di P.C. Masini si rimanda ai seguenti volumi: Pier Carlo Masini. Un profilo a più voci. Atti della giornata di studi sulla figura e l’opera di Pier Carlo Masini, Bergamo, Sala Curò, 16 gennaio 1999, a cura di G. Mangini, Numero monografico di «Bergomum», Bollettino della Civica biblioteca Angelo Mai di Bergamo, 2001; Pier Carlo Masini. Impegno civile e ricerca storica tra anarchismo, socialismo e democrazia, a cura di F. Bertolucci e G. Mangini, Pisa, BFS, 2008.

[1] Cfr. L. Cortesi, Le origini degli studi sul movimento operaio in Italia in ricordo di Pier Carlo Masini, in Pier Carlo Masini. Un profilo a più voci …, cit., pp. 43-53.

[1] Cfr. G. Gozzini, La storiografia del movimento operaio in Italia: tra storia politica e sociale, in La storiografia sull’Italia contemporanea. Atti del convegno in onore di Giorgio Candeloro. Pisa, 9-10 novembre 1989, a cura di C. Cassina, Pisa, Giardini, 1991, pp. 241-276.

[1] Cfr. P.C. Masini, Introduzione in R. Bertolucci, A come anarchia o come Apua: un anarchico a Carrara, Ugo Mazzucchelli, Carrara, FIAP, [1989], p. VI.

[1] Il saggio esce in sei puntate, P.C. Masini, Dittatura e Rivoluzione nei dibattiti del Risorgimento, «Volontà», nn. 1-6 pubblicati dal 1° luglio al 1° dicembre 1947.

[1] Cfr. Id., Dittatura e Rivoluzione …, cit., prima puntata, p. 30.

[1] Cfr. A. Romano, Nuovi documenti per la storia del marxismo, «Rinascita», gennaio-febbraio 1946, pp. 27-28.

[1] Cfr. P.C. Masini, Pisacane e Cafiero, «Il Libertario», 23 luglio 1946, p. 2.

[1] Cfr. Id., Per il Centenario della nascita di Carlo Cafiero (1° settembre 1846-1° settembre 1946). Note sparse, «Libertario» numeri dal 21 agosto al 4 settembre 1946. In questi anni Masini entra in contatto e lo rimarrà per lungo tempo con Luigi Dal Pane, altro autorevole studioso del socialismo italiano, depositario di un importante archivio di documenti, alcuni dei quali da lui utilizzati proprio in occasione del centenario della nascita di Cafiero e pubblicati in un opuscolo illustrato da fotografie d’epoca. Cfr. In memoria di Carlo Cafiero nel primo centenario della nascita (1846-1946), a cura di L. Dal Pane, Ravenna, La Romagna socialista, dicembre 1946.

[1] P.C. Masini, Carlo Cafiero ed una controversia intorno alla sua ultima posizione politica, «Volontà», 1° marzo 1947, pp. 73-83. Cfr., inoltre, (a cura dell’archivista), Il giudizio di Cafiero: commemorando il “Manifesto dei comunisti” (febbraio 1848-febbraio 1948), «Umanità nova», 1° febbraio. 1948, p. 3.

Articolo pubblicato nel marzo del 2023.