IL CANDIDATO DEL FASCISMO AGRARIO MAREMMANO

Profilandosi ormai chiaramente la minaccia fascista, i socialisti, non solo non presero nessuna misura per fronteggiarla, ma col loro atteggiamento tendevano a impedire che ci si organizzasse a difesa. Il fascismo era infatti considerato dai dirigenti socialisti come un fenomeno di mera provocazione, tendente a far intervenire, contro le masse, le forze repressive dello stato borghese. «Non accettare la provocazione» fu fino all’ultimo la parola d’ordine dei dirigenti socialisti. Come se di fronte a bande armate che bastonavano e uccidevano, bruciavano le sedi delle organizzazioni operaie e scioglievano con la forza le amministrazioni socialiste, fosse possibile restarsene passivi, per non fare il gioco dei «provocatori». Istintivamente le masse sentivano che bisognava far qualcosa…”.
(L. Bianciardi, C. Cassola, I minatori della Maremma)

La recentissima pubblicazione del libro di Franco Dominici e Silvio Antonini, Gino Aldi Mai. Il Candidato agrario. Tra il Biennio rosso e l’avvento del Fascismo nella Maremma e nella Tuscia (1919-1924), edito da Effigi, col patrocinio dell’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, conferma la rilevanza del cosiddetto squadrismo agrario nella genesi politico-militare dei Fasci di combattimento e, in seguito, nella restaurazione economica-sociale delle campagne durante il regime fascista.
Dalla Lomellina al Molinellese, dal Polesine di Matteotti alle Puglie di Di Vittorio, il fascismo mussoliniano potè insediarsi, trovare finanziamenti e svilupparsi in territori in cui il padronato agrario, per lo più latifondista, aveva già una lunga “tradizione” di controllo e dominio della manodopera bracciantile e, più in generale, delle lavoratrici e dei lavoratori agricoli subordinati, attraverso l’impiego di propri “uomini” a cui erano demandati quei metodi violenti che non sempre potevano essere assicurati dai pur zelanti Carabinieri.
Secondo le zone, si trattava di piccoli eserciti privati formati occasionalmente da “guardie campestri”, sovrastanti, fattori, “caporali”, “factotum”, braccianti ingaggiati come crumiri, disoccupati assoldati alla giornata… che richiamavano i “bravi” di manzoniana memoria.
A loro era demandato il compito di fronteggiare proteste, scioperi ed occupazioni di terre, ma sovente erano anche la “longa manus” dei proprietari terrieri per “regolare conti” ed intimidazioni fuori dall’ambito lavorativo.

Foto della Squadra d’azione laziale, 1920, tratta da “Squadristi” di Franzinelli.

Le prime squadre fasciste s’inserirono quindi su questo terreno conflittuale, fornendo giovani votati alla violenza ed ex-combattenti per contrastare le Leghe – sia “rosse” che “bianche” – dei lavoratori della terra, compiere spedizioni punitive nei paesi non sottomessi, perpetrare persecuzioni individuali ed esecuzioni “mirate”.
L’intesa era nel reciproco interesse delle parti: i possidenti terrieri, per la tutela dei propri interessi e privilegi, potevano contare su una più efficiente guardia privata, operante come una forza politica, mentre i Fasci usufruivano di legittimazione e ingente sostegno economico, estendendo così la loro influenza, a spese del sindacalismo di classe e dell’associazionismo popolare.
Grazie alla disponibilità di camion e altri veicoli – ma in alcune zone anche di cavalli – lo squadrismo “tricolorato introdusse la tattica della “guerra di movimento”, ma risulta evidente la continuità funzionale con i pre-esistenti “mazzieri dell’Agraria”, così come appare evidente in alcune foto delle prime squadre fasciste nella campagne. Ai bastoni e alle doppiette da caccia si aggiungevano le armi da guerra, ma non vi erano ancora divise paramilitari ed elmetti e le rare camicie nere erano quelle “da fatica” allora normalmente usate dai contadini nel lavoro dei campi.
La situazione della Maremma, sia Toscana che Laziale, conferma perfettamente tale dinamica, seppure a fianco dell’importante realtà agricola vi erano non meno importanti insediamenti industriali e minerari che talvolta – come in Val di Cecina – vedevano un analogo “feudalesimo industriale”.

Non di meno, lo squadrismo «tricolorato» dovette fare i conti col forte radicamento socialista, anarchico e sindacalista, ricorrendo – con la connivenza delle forze dell’ordine e dei comandi militari – a metodi terroristici; basti pensare alla Strage di Roccastrada che nel luglio 1921 anticipò le rappresaglie nazi-fasciste “10 per 1”.
La compiacenza della forza pubblica anche nell’assalto fascista a Grosseto venne confermata da una testimonianza, pubblicata sul quotidiano anarchico «Umanità nova» del 6 luglio 1921, che riferì «dei reali carabinieri allineati fare il presentatarm allo stato maggiore fascista».
La biografia di Gino Aldi Mai, ricco proprietario terriero grossetano, prima liberale e poi decisamente fascista, che rivestì importanti cariche pubbliche e istituzionali (sindaco, podestà, senatore…), al centro del saggio degli storici Dominici e Antonini, appare in effetti paradigmatica per comprendere l’involuzione, dal paternalismo alla reazione, della borghesia agraria non solo in in Maremma, ma simile nel resto della Toscana e del Lazio, così come nella Valle Padana e nel Meridione.
Le “patriottiche motivazioni ideali” di tale passaggio al Fascismo, ebbero il loro riscontro durante il regime quando, come scrive Franco Dominici: «Il padrone tornava a essere tale a tutti gli effetti e delegava il fattore, o agente agrario. I vecchi usi e prestazioni di tipo medievale erano adesso codificati dalla legge; i mezzadri dovevano consegnare nuovamente al padrone gli animali da cortile, le uova, la legna e quelle che diventeranno le “massaie rurali” saranno obbligate a prestarsi ai servizi padronali. Le leggi sugli infortuni agrari vennero abrogate, così come la mutua dei “rossi” il patronato dei “bianchi”; la divisione degli utili dei dei diversi prodotti (latte, suini, monta, castagne, ma anche prodotti come tabacco, barbabietola e pomodori), precedentemente a favore dei mezzadri, fu riportata dalle leggi fasciste al 50% fra le due parti. Il colono tornava a condizioni di vita più misere, a un lavoro con minori certezza, alle angherie dei fattori ed a una dieta alimentare più povera».
La lettura del libro offre anche l’occasione di riflettere su come, prima sui giornali di destra e nei rapporti di polizia e in seguito nella narrazione epica dello squadrismo, il clima di guerra civile instaurato dagli «schiavisti agrari» (seconda una nota definizione dannunziana) venne mistificato come un’eroica e disinteressata battaglia per salvare l’Italia dal bolscevismo e dall’anarchia, con la conseguente glorificazione dei pochi “martiri fascisti” a fronte di migliaia di vittime, perlopiù inermi, della classe lavoratrice e la criminalizzazione di quanti impugnarono le armi per la difesa delle libertà sociali.
I necrologi commemorativi dei fascisti rimasti uccisi nel grossetano e nel viterbese, citati nel libro, forniscono un esempio dello stilema retorico utilizzato per trasformare gli aggressori in vittime e gli oppositori in criminali.
Lo squadrista ventunenne Rino Daus che, da Siena, era giunto a Grosseto per espugnare militarmente il rosso capoluogo maremmano, veniva quindi definito come un «giovinetto» che morendo avrebbe invocato «Italia! Mamma!», mentre Giovanni Migliori, «tutto dedito alla casa e la lavoro», fu ucciso in un’imboscata da «una bieca figura di comunista» a Giuncarico. Giovanni Dessy, fondatore del Fascio di Orbetello, cadde in una sparatoria con alcuni malviventi, ma la sua morte fu il pretesto per rappresaglie contro i “rossi”. Il fascista grossetano Ivo Saletti rimase ucciso al ritorno da una spedizione punitiva a Roccastrada, probabilmente colpito da un colpo partito accidentalmente da un camerata che si trovava a bordo del medesimo camion, causando per ritorsione l’eccidio indiscriminato di dieci inermi paesani. Invece, lo squadrista grossetano Andrea Agnelli, mortalmente accoltellato da uno sconosciuto e la cui uccisione fu subito attribuita «a odio di parte», a distanza di tempo fu escluso dal martirologio fascista. Nello stigmatizzare l’uccisione del fascista viterbese Amoroso Melito venne invece sottolineato il fatto che era un mutilato, ma tale condizione non gli aveva impedito di «prendere parte a parecchie spedizioni punitive».
Un ventennio dopo lo stesso schema sarebbe stato ripreso dalla propaganda della Repubblica sociale contro i partigiani: i «ragazzi di Salò», vittime dei «banditi», ed ancora oggi viene riproposto nel tentativo di riscrivere la storia, dimenticando anche Roccastrada.




PISA 1944, IL RITORNO DEL GATTOPARDO

Dall’incrocio di archivi pubblici e privati, il racconto di come, nel caso emblematico di Pisa, poté imporsi quella continuità di uomini e apparati che segnò il dopoguerra[1].

Per vent’anni aveva vissuto in esilio a Roma, sognando ogni giorno il grande ritorno. Con la Liberazione il momento era arrivato. In una provincia devastata dalla guerra, c’era chi invocava l’avvento di un ordine nuovo. Lui no: già settantenne, ma in ottima forma, lui voleva chiudere in fretta non solo la “parentesi fascista”, ma anche quella partigiana.
Così tornò a Pisa l’ex Ministro Arnaldo Dello Sbarba nell’anno di grazia 1944. Agendo da regista tra Roma, la “sua” Pisa e l’ancor più “sua” Volterra, strinse la giovane forza dei CLN in una morsa di poteri convergenti: prefetti, partiti moderati, governo Bonomi, tribunale, stampa. Ecco come fece e chi lo aiutò.

Collesalvetti, 31 agosto 1944: il CLN di Pisa tiene la sua ultima riunione clandestina. I nazisti abbandonano la linea dell’Arno, dopodomani si entra in città. Tutti i ponti sono stati fatti saltare, la guerra ha fatto migliaia di vittime. Ma in quest’ultima seduta si respira l’aria dei giorni grandi. Vanno nominati gli uomini che la rivoluzione democratica insedierà ai vertici di tutti gli enti pubblici, dal comune agli ospedali, dalla Cassa di Risparmio alla polizia municipale. Come sindaco viene proposto Italo Bargagna, commissario politico della 23a Brigata bis Garibaldi “G. Boscaglia”; come questore Alberto Bargagna, comandante della stessa Brigata Garibaldi; come prefetto il comunista Armando Monasterio. Su ogni nomina il CLN dovrà fare i conti con il governatore militare alleato. E mette le mani avanti: “Si delibera di mandare una relazione al governo di Roma allo scopo di evitare la nomina di Dello Sbarba a prefetto di Pisa”[2].

Da giorni circolano voci in proposito. A Roma il governo del CLN è guidato da Ivanoe Bonomi, che ha resuscitato un “Partito democratico del Lavoro” (PDL) raccogliendo vecchi notabili del prefascismo. Per Claudio Pavone “partito trasformista per eccellenza”[3]. Si sa che Bonomi, nell’Italia già liberata, sta sostituendo i “prefetti del CLN” con funzionari di carriera o con compagni del suo stesso partito. A Roma ha nominato prefetto Giovanni Persico, suo braccio destro.
Si sa che Arnaldo Dello Sbarba è tra i cofondatori di questo PDL: “A Roma, prima del 25 Luglio – racconta lui stesso – io mi tenevo in contatto con alcuni dei principali esponenti dell’antifascismo”[4]. Si sa che nella Siena appena liberata è stato lo stesso CLN a proporre a Dello Sbarba di fare il commissario dell’ospedale di Santa Maria della Scala. Lui ha declinato l’invito: gli interessa tornare a casa. A Volterra. E poi a Pisa.


Anni ’20, Arnaldo Dello Sbarba, (secondo da destra) ministro del governo Facta, in una cerimonia a Roma

L’ex ministro conta su protezioni altolocate. Come quella di Adalberto Berruti, potente capo di gabinetto al Ministero dell’interno (che il presidente Bonomi ha tenuto per sé). Berruti è stato prefetto di Pisa dal 1941 al 1943: “In quel periodo – scriverà Berruti – ebbi occasione di conoscere l’on. Arnaldo Dello Sbarba e di avere con lui, in parecchie circostanze, colloqui e scambi di vedute. Ebbi così modo di apprezzare l’elevatezza di pensiero e di sentimento dell’on. Dello Sbarba. Dopo il 25 luglio 1943 fu tra i miei più validi collaboratori nella liquidazione del fascismo pisano”[5]. I due non si erano più persi di vista. Appena lasciata Pisa, Berruti aveva ricontattato Arnaldo: “Eccellenza, le mando da Roma il mio saluto. Conservo di Lei il miglior ricordo e mi auguro di incontrarla presto”. Come dire: si tenga pronto[6].
Berruti è un piemontese la cui antipatia verso i fascisti è pari al suo rigore istituzionale[7]. Diventato capo di gabinetto, Berruti ha voce in capitolo sulla nomina dei prefetti. Pisa gli sta particolarmente a cuore. Vi destina quindi un suo uomo di fiducia: Vincenzo Peruzzo. Anche la vita di Peruzzo si era già incrociata con quella di Arnaldo Dello Sbarba. Peruzzo era stato dal 1921 al 1922 al Gabinetto per le pensioni di guerra nel governo in cui Arnaldo era ministro del lavoro. La carriera di Peruzzo aveva attraversato il fascismo. Per otto anni aveva addirittura lavorato per l’ufficio stampa di Mussolini. Il suo rapporto col regime si era guastato con la guerra: “Per noi – scrive nella sua autobiografia – si sarebbe comunque conclusa con una disfatta: soggiogati dai tedeschi vincitori, o vinti dagli alleati”[8].

Vincenzo Peruzzo arriva a Pisa il 7 settembre 1944: è “il primo prefetto dopo la Liberazione”. Scosso dalle drammatiche condizioni della città, Peruzzo se ne prende cura con una dedizione che la gente ammira. Con la politica però è diverso: ha rapporti difficili col sindaco Bargagna, consulta il meno possibile i CLN, appena può sostituisce i sindaci nominati dalla Resistenza, soprattutto se comunisti. Ai politici preferisce i tecnici. “Ma i tecnici da lui nominati – scrive Carla Forti nel suo saggio su Pisa nel dopoguerra – sono immancabilmente o rappresentanti dei poteri forti, o funzionari pubblici in carica nel precedente ventennio”[9].

Peruzzo lega subito con Arnaldo. Già il 5 ottobre – ignorando i desiderata del CLN – lo nomina commissario della Cassa di Risparmio di Pisa. “Dopo i primi sondaggi con le autorità locali e con le persone più autorevoli dell’ambiente pisano – racconta Peruzzo – mi parve di aver scelto l’uomo adatto al posto importante”.
Secondo passo. Nel novembre il prefetto nomina la giunta provinciale. “Dopo opportuni sondaggi”, Peruzzo designa come presidente il democristiano Aldo Fascetti e, tra gli assessori, l’avvocato Gino Sossi. Sossi è cognato di Arnaldo Dello Sbarba, nonché suo socio in affari e in politica.
Terzo passo. Il 23 novembre Peruzzo istituisce la “Commissione provinciale istruttoria per l’epurazione” composta dal presidente del Tribunale Tito Cangini, dal magistrato Giovanni Miele e dal matematico Leonida Tonelli. Anche Tito Cangini è legato ad Arnaldo Dello Sbarba: è stato giudice al tribunale di Volterra e presidente della locale Cassa di Risparmio[10]. In entrambi gli ambiti Arnaldo è di casa. La commissione per l’epurazione, scrive Carla Forti, “giudicherà da non punirsi quasi tutti i sospesi dal servizio”. In perfetta assonanza col prefetto che, preso in consegna dagli alleati il campo di prigionia per ex fascisti di Coltano, lo svuoterà a tempo di record dei 32.000 internati “con la liberazione – scrive ancora Forti – di quasi tutti i prigionieri”[11].

Come se non bastasse, all’inizio del 1945 il prefetto Peruzzo nomina Arnaldo Dello Sbarba anche presidente del neo-istituito “Comitato provinciale per la ricostruzione”, con l’incarico di fare “la ricognizione dei danni e le opportune proposte da sottoporre al governo per chiedere aiuti adeguati”. Il comitato ha un ruolo vitale per la ripresa economica e sociale della provincia pisana. Ma è anche uno schiaffo al sindaco Bargagna, che “senza un preventivo concerto tra noi – dice Peruzzo – aveva pure pensato di costituire una commissione”. Per Peruzzo, però, è dal prefetto e non dal Comune che devono passare le relazioni con Roma.

L’incarico per la ricostruzione offre ad Arnaldo Dello Sbarba la possibilità di dire la sua sulle scelte della città. Lo fa grazie a compiacenti interviste sul «Tirreno» diretto dal suo vecchio amico Athos Gastone Banti. Banti nel 1924 dirigeva a Firenze il «Nuovo Giornale» e aveva tentato di promuovere la candidatura di Dello Sbarba nel “Listone” fascista con una intensa campagna di stampa. Arnaldo lo compensò con due assegni da 5.000 lire firmati dal direttore della Solvay di Rosignano, generosa finanziatrice della sua carriera politica. Adesso, sul «Tirreno» di Livorno, Dello Sbarba può vantarsi della sua intimità col ministro dei Lavori Pubblici Meuccio Ruini, suo compagno di partito: “Sono mesi che io faccio la spola tra Pisa e Roma!”[12].

Oltre a Pisa c’è Volterra. Arnaldo la considera città “sua”. Ma Volterra è il baluardo della 23a Brigata bis Garibaldi “G. Boscaglia” e i partigiani pretendono l’epurazione radicale degli ex fascisti. A Volterra è forte il Partito d’azione, il più determinato a chiedere un cambio netto di classe dirigente. Presidente del CLN è l’intellettuale azionista Umberto Borgna, innovatore nell’arte dell’alabastro. Azionisti sono Giovanni Salghetti Drioli, dirigente del CLN nell’ufficio tecnico del Comune, e lo scrittore Carlo Cassola, direttore del settimanale «Volterra Libera». Membri del CLN nel giorno della liberazione sono anche il socialista Amedeo Meini, i comunisti Mario Giustarini e Fernando Frattini e il democristiano Aldo Tozzi. Ma il personale disponibile scarseggia. Così nella Giunta comunale ricorrono gli stessi nomi, ma a parti scambiate: Meini sindaco e Borgna vice, oltre a due comunisti e due socialisti come assessori e un agrario “apolitico” come unica concessione agli Alleati. In città si sono concentrati gli uomini della Brigata Garibaldi. E il governatore alleato Clive Robinson ha in linea di massima avvallato le nomine del CLN.
La più importante delle quali è il consiglio di amministrazione del grande ospedale psichiatrico che, con oltre 4.500 pazienti e centinaia di sanitari, è il maggior datore di lavoro della città. Presidente è Mario Basile del Partito d’azione (anche direttore del carcere), membri sono Amedeo Meini (anche sindaco), Mario Giustarini e Aldo Tozzi (anche assessori comunali) e Alfredo Zoppi (anche presidente della bonifica)[13].

Arnaldo Dello Sbarba considera però l’ospedale psichiatrico una propria creatura. Per diversi anni aveva infatti presieduto la “Congregazione di carità”, ente giuridico dell’istituto, in un sodalizio sempre più stretto col geniale direttore Luigi Scabia, che aveva fatto del “Frenocomio di San Girolamo” un modello d’avanguardia della psichiatria europea[14]. Da allora Scabia era diventato l’appassionato sostenitore dell’ascesa politica di Arnaldo e Arnaldo lo strenuo difensore di Scabia dagli attacchi dei fascisti. Arnaldo considerava insomma gli amministratori nominati dal CLN come spine nel fianco. E si era messo in moto.

Il 13 novembre 1944, i partiti liberale, democristiano e demo-laburista volterrani inviano una lettera di fuoco al prefetto e al questore di Pisa. Attaccano violentemente il CLN volterrano, invocano “il ritorno alla normalità” e denunciano, nell’ordine: “arbìtri (incitamento alla rivolta, detenzione abusiva di armi, minacce ecc.), accentramento di cariche, illegalità della costituzione del CDA dell’Ospedale psichiatrico”[15].
Detto, fatto. Il 23 novembre il prefetto Vincenzo Peruzzo dispone lo scioglimento del CDA e nomina un commissario prefettizio “fino alla ricostituzione dell’ordinaria rappresentanza”[16] .
La reazione del CLN volterrano è immediata. Dietro l’azione – mette a verbale il 26 novembre – c’è un ristretto gruppo “risultato chiaramente far capo ad Arnaldo Dello Sbarba, che viene aspramente giudicato per la slealtà”. I commissariamenti – ricorda il CLN – li usavano i fascisti contro Scabia. Lo stesso sistema è ora invocato da “ben individuati gruppetti reazionari e fascistoidi” a colpi di ”anonima delazione e intrighi di corridoio”[17]. Il CLN di Volterra chiede l’immediato ritiro del commissario e un incontro urgente col Prefetto.

Ma prima che la delegazione guidata da Borgna e Meini riesca a farsi ricevere dal Prefetto, un’altra tegola “sbarbiana” cade sulla testa del CLN volterrano. Il 3 dicembre 1944 l’avvocato Arnaldo Frattini, membro comunista del CLN provinciale, porta da Pisa la notizia di “una probabile ammissione dell’avv. Arnaldo Dello Sbarba in seno al CLN provinciale” in rappresentanza del Partito demo-laburista. Per i volterrani è il colmo. In una seduta straordinaria in cui i democristiani sono “assenti perché non invitati”, vista la loro posizione sull’ospedale psichiatrico, comunisti, socialisti e azionisti redigono “una relazione sulla figura morale e politica del Dello Sbarba, stilata dai presenti in base a documentazioni potute raccogliere e firmata dal presidente Borgna“, da inviare ai CLN provinciale, regionale e nazionale, nonché agli organi periferici e centrali dei partiti della sinistra[18].

La relazione è durissima. “Il Dello Sbarba – accusa Borgna – che ama presentarsi come ex deputato antifascista, sin dalle origini del fascismo collaborò con questo, riuscendo ad esservi ammesso dopo il 1935”.
A prova della compromissione di Arnaldo, Borgna cita la sua candidatura nel 1921 come capolista del “Blocco nazionale” di Giolitti, che comprendeva anche i fascisti. “Dura ancora nella memoria del popolo di Volterra – scrive – il ricordo della triste giornata di violenze esperite dalle squadre del fascio volterrano il 7 Maggio 1921 dopo il comizio elettorale tenuto al teatro Persio Flacco dal Dello Sbarba, nel quale egli rivolse infiammate parole ai fascisti”.
Quella giornata fu un vero shock per la città. Quel giorno, scriverà un testimone oculare, l’alabastraio socialista Arnaldo Fratini, “Arnaldo Dello Sbarba scese l’ultimo gradino della sua carriera politica. Durante il corteo che si svolse per le vie della città, i fascisti al suo seguito distribuirono diversi pattoni a chi, al loro passaggio, non si toglieva il cappello. Giunti all’altezza della trattoria di Balosce, di fronte al Cinema Centrale, vi entrarono spaccando tutto e picchiando tutti coloro che vi si trovavano”[19].
Nella risposta a quello che con disprezzo chiamò “Libello Borgna”, Arnaldo minimizzerà il ruolo dei fascisti quel giorno. Ma la cronaca pubblicata dal «Corazziere», giornale monarchico e conservatore cittadino, conferma che tra gli oratori ufficiali in teatro ci fu anche “il fascista signor Davino Volterrani”, che il corteo si svolse “tra canti e inni patriottici” e che di seguito il PSI affisse un manifesto che diceva: “Chi vota per Arnaldo Dello Sbarba vota per il fascismo contro il socialismo”[20].
Questo per il passato. Sul presente, Borgna cita il commissariamento dell’ospedale psichiatrico, provocato da Dello Sbarba con “l’intensa opera disgregatrice e diffamatoria che ha svolto presso la Prefettura di Pisa dove purtroppo le sue parole sembrano ancora trovare credito”. La relazione si conclude con l’appello al CLN provinciale “di respingere la richiesta d’ammissione nel suo seno dell’avv. Arnaldo Dello Sbarba”.

Arnaldo viene avvertito della relazione Borgna prima a voce da Tito Cangini, poi per lettera da Mario Piccioli, rappresentante del PDL nel CLN pisano: “Ottenni il rinvio della discussione. È opportuno che Lei prepari una esauriente risposta”. La risposta non arriva subito. Prima arrivano, firmate dai segretari volterrani di DC, PLI e PDL, tre lettere di protesta per le “violente accuse contro l’avv. Arnaldo Dello Sbarba”. Le tre lettere sono opera di una stessa mano: tra le carte private di Arnaldo se ne trova la minuta scritta con la sua inconfondibile calligrafia[21].

Il 27 dicembre arriva finalmente l’autodifesa di Arnaldo Dello Sbarba: “È venuta l’ora di gridare basta!” scrive l’accusato. “Il libello Borgna non è che la continuazione di quella caccia all’uomo, di marca squisitamente fascista, di cui sono vittima da vent’anni”[22]. Nella sua abile autodifesa Arnaldo sfrutta il vantaggio che ha, su avversari che conoscono poco della sua vera vita, per dire mezze verità – e pure qualche non verità – senza tema di smentita.
La tessera fascista ad esempio non la nega, ma la minimizza: “La conferì Ettore Muti a tutti gli ex combattenti” e lui, che non l’aveva chiesta, l’accettò. Ma “anche con quella bella tessera le diffidenze contro di me non cessarono”. E soprattutto: “nessuno mi ha mai visto né in montura, né in adunate, né in collaborazioni dirette o indirette”[23].
Arnaldo elenca invece con precisione “le persecuzioni fasciste” che ha patito: la devastazione di casa e l’ufficio sul Lungarno a Pisa; l’assedio a sua madre a Volterra; il divieto di esercitare la professione nella città della Torre pendente; l’incendio di un suo rifugio a Pietrasanta; l’aggressione degli squadristi della “banda Buffarini” alla stazione di Pisa; l’esilio a Roma; la vigilanza di polizia subita dal 1925 al 1929; il mandato di cattura spiccato dal prefetto repubblichino Adami nell’ottobre 1943 e infine la latitanza nella campagna senese.
Tutto vero. Ma sulle cruciali elezioni politiche del 1924, che segnarono la rottura del fascismo pisano con l’ex ministro, Arnaldo è molto più reticente. Scrive che i fascisti intransigenti gli impedirono “di far parte di quella lista di minoranza che la legge elettorale consentiva per i NON ADERENTI AL FASCISMO” (il maiuscolo è suo). E qui mente.
Gli archivi documentano tutt’altra verità. Raccontano cioè i tentativi da lui fatti per oltre un anno di ottenere una candidatura non di minoranza, ma direttamente nel “Listone” di Mussolini, con l’appoggio dello stesso Duce e del suo braccio destro Cesare Rossi, che elogiava “il suo contributo di affiancatore del movimento fascista in varie sue fasi”[24]. L’adesione a una lista di minoranza Arnaldo Dello Sbarba la considerò solo per qualche ora, il giorno in cui la sua candidatura coi fascisti saltò. Tentazione fugace e subito accantonata. A sera assicurò a Mussolini il suo pubblico appello a votare comunque la lista fascista come “mio disinteressato aiuto alla forte battaglia che Tu combatti con pugno sicuro”[25].

Anni ’30, Arnaldo Dello Sbarba avvocato d’affari a Roma

Sugli anni dell’esilio romano di Arnaldo, il CLN e l’opinione pubblica pisana erano ancora meno informati. L’odio fascista per Dello Sbarba era infatti concentrato a Pisa. A Roma poteva invece frequentare i palazzi del potere e diventare un avvocato d’affari di successo, salvo fare attenzione a mantenersi “indifferente” verso il regime, come segnalavano nel 1927 le autorità romane di polizia che lo sorvegliavano[26].
A proposito d’affari, dalle ricerche svolte presso l’Archivio centrale dello Stato di Roma sono emerse delle carte davvero sorprendenti. Nel 1926 Arnaldo Dello Sbarba entra in società addirittura con Marcello Piacentini, l’architetto di Mussolini, e Angelo Rossellini, grande impresario edile (e padre del futuro regista Roberto). I tre si uniscono nell’A.P.I.S. “Anonima Per le Industrie Stabili”, allo scopo di riedificare completamente l’area tra Piazza Barberini e Piazza S. Bernardo[27]. Per alcuni anni Arnaldo ha il suo studio di avvocato nella sede dell’A.P.I.S. in via S. Niccolò da Tolentino, in area Barberini. Piacentini – che presiede la società – si occupa di progettazione, Rossellini di costruzioni e Arnaldo di finanza, cioè di reperire i capitali necessari per realizzare le opere.
In questo Arnaldo ci sapeva fare, era versatile, efficiente, instancabile. Da ex Ministro al lavoro e alla previdenza sociale sapeva come attrarre gli investimenti dei grandi istituti di previdenza, delle banche pubbliche e para-pubbliche, delle assicurazioni sociali. Quello di Arnaldo era un ruolo chiave per Piacentini, diventato l’architetto prediletto dal Duce proprio per l’abilità con cui riusciva a portare a termine progetti smisurati.
Partiti i lavori nel 1926, Mussolini visitò il cantiere nel settembre del 1930 e – racconta Paolo Nicoloso nella sua biografia di Piacentini – ne rimase compiaciuto. Definì la nuova via Barberini “un’arteria di grande respiro”, ammirò “le linee architettoniche dei palazzi (…) e il nuovo cinematografo” che era stato da poco inaugurato e fu per l’epoca un’opera avveniristica[28].
Nel 1934 l’A.P.I.S. aveva già concluso la sua missione e Arnaldo ne era potuto uscire “con qualche cosa alla mano – scrisse al fratello Bruno – che vedrò come impiegare utilmente”[29].

Anni ’30, Arnaldo Dello Sbarba avvocato d’affari a Roma

Ma perfino a Pisa Arnaldo Dello Sbarba riuscì a operare nonostante l’esilio. San Giuliano Terme è un borgo termale appena fuori Pisa. Il 20 giugno del 1923, nello studio dell’avvocato Gino Sossi sul Lungarno Mediceo, venne fondata la società anonima “Regie Terme di San Giuliano” e firmato il contratto di gestione dei bagni per sessant’anni, un canone basso e l’impegno di forti investimenti. “Il perno della compagine societaria – scrive Mirella Scardozzi nella sua storia dei “Bagni di Pisa” – non era un imprenditore nel senso comune del termine, ma un personaggio politico di notevole rilievo locale e nazionale, l’avvocato Arnaldo Dello Sbarba”[30]. Come sappiamo, Sossi era cognato di Arnaldo e della società era socio anche il fratello Bruno.
Da Ministro alla previdenza, Arnaldo si era occupato intensamente di termalismo e per le “Regie Terme” il suo risiedere a Roma si rivelò vitale. Quando la crisi del 1929 farà crollare il turismo termale di lusso, sarà infatti grazie alle convenzioni con la Cassa Nazionale delle Assicurazioni Sociali che Arnaldo riuscirà a tappare i buchi nel bilancio. E quando neppure questo basterà, e le “Regie Terme”, a un passo dal fallimento, verranno accusate di inadempienza negli investimenti, sarà proprio all’Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale che Arnaldo riuscirà a vendere sia la società che gli stabilimenti – e non in una, ma in ben tre cessioni frazionate, l’ultima nel luglio 1939. Grazie a questo, scrive Mirella Scardozzi, “i 16 anni di vita della società non si rivelarono per i suoi azionisti così negativi come farebbero pensare i bilanci sempre in rosso”.

Ma torniamo al dicembre 1944 e al “libello Borgna”. Non fu la diatriba sul suo passato a far vincere Arnaldo Dello Sbarba, ma due semplici argomentazioni giuridiche della sua autodifesa. E cioè: primo, le regole istitutive dei CLN non prevedono “il diritto di sindacazione politica sulle persone delegate dai rispettivi partiti a rappresentarle”. E, secondo: il “Libello Borgna” è nullo, poiché approvato escludendo a priori una parte del CLN. Sulla questione il CLN provinciale vota infine il 29 dicembre 1944: “A maggioranza di voti si ammette l’on. Dello Sbarba in seno al CLN di Pisa”[31].
La decisione fa probabilmente parte di un unico pacchetto. Il giorno prima infatti era stato chiuso anche il conflitto sull’ospedale psichiatrico. Il prefetto Vincenzo Peruzzo era salito a Volterra e aveva negoziato col CLN un nuovo consiglio di amministrazione. Del vecchio erano rimasti in due, il presidente Mario Basile e Mario Giustarini. Tutti gli altri erano nuovi: l’ingegner Giovanni Salghetti Drioli, Emilio Vanni e un colonnello, Piero Ricci. La composizione era gradita al Prefetto, il commissario fu ritirato[32].
La questione politica invece restò aperta. Il CLN volterrano venne tartassato per mesi di domande dal CLN nazionale e dal governo Bonomi. Se la sua composizione fosse regolare, perché a Volterra PLI e PDL non fossero ammessi, quando e da chi fosse stato approvato il “Libello Borgna” e così via. I volterrani da accusatori erano diventati imputati[33].

La situazione precipita nell’aprile 1945. Il 10 il CLN di Volterra, a conclusione di una vasta raccolta di informazioni, vuole finalmente deliberare sull’epurazione degli ex fascisti. E comincia dall’assemblea dei soci della Cassa di Risparmio di Volterra. I democristiani propongono di delegare il compito alla Cassa stessa, ma la sinistra fa muro: “non è logico che gli epurandi possano decidere sulla loro stessa epurazione!”. La lista viene approvata, contiene 14 nomi, su 6 la DC vota contro. Ci sono cognomi che contano: Ciapetti, Guidi, Lagorio, Inghirami, Ginori. C’è anche Arnaldo Dello Sbarba – quella è la sua “banca di casa”. È un azzardo.
Il giorno dopo Borgna e compagni vengono convocati d’urgenza dal Governatore alleato. Si tratta delle misure contro gli ex fascisti. La seduta è drammatica. Riferendosi ad arresti di fascisti in zona, il governatore dice che “non si può trattenere una persona verso la quale non vi siano denunce specifiche”. Borgna ribatte: “i maggiormente responsabili ed in special modo i sovvenzionatori ed i sostenitori del fascismo” hanno sempre agito nell’ombra. Coi criteri del Governatore “non potranno mai essere arrestati né colpiti“. Il Governatore non cede. Cede il CLN, riservandosi di raccogliere denunce più circonstanziate e intanto di spiegare alla popolazione “la ragione dei mancati arresti”[34].
Ma non basta. In base a due successive circolari del CLN provinciale, il CLN di Volterra prima è costretto ad accogliere il PLI, poi a fare marcia indietro sull’epurazione. Va delegata agli enti interessati: proprio quel che pochi giorni prima era stato giudicato “illogico”.
Alla fine – ed è il 24 aprile, proprio alla vigilia della Liberazione – Umberto Borgna si dimette dal CLN. Si dimettono anche Amedeo Meini, il sindaco, e Mario Basile, il presidente dell’ospedale. Formalmente perché l’ennesima circolare da Pisa vieta il cumulo delle cariche.
Ma la realtà è diversa. Umberto Borgna mette a verbale una sua emozionata dichiarazione. “Lascio il CLN con molto dolore – dice Borgna – non voglio né posso continuare la lotta sleale fatta di questioni personali, di piccole, grette ambizioni. Non sono uomo politico. Rimpiango il lungo e snervante periodo della lotta clandestina. Lo rimpiango per quello spirito di fraternità che tutti ci animava”. Ribadisce che per lui, azionista, i CLN sono “la base della futura politica italiana, la più pura espressione del popolo antifascista, del popolo italiano di domani”. Un popolo “che ha veramente sofferto e che è buono e deve essere aiutato, amato, sorretto nella dura lotta di ricostruzione materiale e morale”.
Quella di Borgna non è però una rinuncia: “Ho altre responsabilità cittadine – dichiara – alle quali debbo doverosamente portare tutto il mio massimo contributo”. Intende innanzitutto la giunta comunale, di cui è il vicesindaco. La scelta è lungimirante. Sarà infatti proprio attraverso le istituzioni cittadine che, negli anni a venire, potranno fruttificare le istanze antifasciste, con il partigiano comunista Mario Giustarini sindaco amatissimo di Volterra per ben 34 anni, dal 1946 al 1980[35].

Anni ’50, Arnaldo Dello Sbarba a Pisa

Ma nell’aprile del 1945 nemmeno l’uscita di Borgna basta a calmare le acque attorno al CLN volterrano. Tra il maggio e il giugno 1945 Tito Cangini, presidente del tribunale di Pisa, accusa «Volterra Libera» di parlare di “magistratura reazionaria”. Cangini respinge “le ingiurie di questo fogliuccio volterrano” e annuncia querele contro “il professor Cassola” se non viene sconfessato. A luglio il CLN provinciale sconfessa Cassola e “deplora l’attacco di Volterra Libera contro la magistratura”[36].
La guerra a mezzo stampa contro «Volterra Libera» e il CLN riprende in agosto con l’uscita del «Il Porcellino», quindicinale ispirato, finanziato e in parte scritto da Arnaldo Dello Sbarba. Nelle carte private di Arnaldo si trovano lunghi manoscritti su presunte malversazioni del “trio Borgna-Meini-Salghetti”. Uno è indirizzato al prefetto Peruzzo. Non si sa se gliel’abbia spedito[37].
In parallelo l’ascesa di Arnaldo Dello Sbarba continua. Il 25 novembre 1945 viene designato a Roma nella “Commissione di studio per la riorganizzazione dello Stato”, organo della “Consulta nazionale” che fa da parlamento provvisorio. Lì ritrova l’amico prefetto Adalberto Berruti, che per la commissione lavora.
Il 18 aprile 1946 Arnaldo passa da commissario a presidente regolarmente eletto della Cassa di Risparmio di Pisa. Lo rimarrà fino alla fine del 1951. Di qui alla sua morte (1958) diventerà anche presidente dell’ACI, della Croce Rossa, del Gioco del Ponte, degli Istituti riuniti di ricovero ed educazione di Pisa, della Domus Galileiana, del Credito Agrario[38].

Il 2 giugno 1946 viene proclamata la Repubblica. I CLN vengono sciolti, ma la loro esperienza si è logorata da tempo. In seguito al conflitto su epurazione e ruolo dei CLN, tra il dicembre 1944 e il giugno 1945 ha governato a Roma per sette mesi un “Bonomi ter” da cui socialisti e Partito d’azione sono rimasti polemicamente fuori. Sono gli stessi sette mesi in cui si è consumata la resa di conti tra Arnaldo Dello Sbarba e il CLN volterrano.
Siamo all’epilogo. Il 31 luglio 1946 il prefetto Adalberto Berruti lascia il Ministero degli interni. Due mesi dopo anche il prefetto Vincenzo Peruzzo lascia Pisa. Arnaldo gli dedica un pubblico saluto: “Fu il prefetto che fece concorde la nostra discordia“. Missione compiuta.

NOTE

[1] Per questo articolo sono stati consultati i seguenti archivi: Archivio della Biblioteca Guarnacci di Volterra, Fondo A. Dello Sbarba, (d’ora in poi BGV/FAdS); Archivio storico postunitario del comune di Volterra, Fascicolo CLN-Verbali delle adunanze (d’ora in poi ASCV-Postunitario); Archivio di Stato di Pisa, Fondo Comitato di Liberazione Nazionale (d’ora in poi ASPi/CLN); Archivio centrale dello Stato di Roma, Fondo Dello Sbarba Arnaldo (d’ora in poi ACS/FAdS); Ivi, Casellario Politico Centrale, b. 1695 Dello Sbarba Arnaldo, (d’ora in poi ACS/CPC); Archivi privati di famiglia (d’ora in poi AP/AdS). Ringrazio la forte squadra di amici di Volterra per l’infaticabile aiuto: Danilo Cucini, Gian Paolo Debidda e Giovanni Tamburini dell’ANPI; Silvia Trovato, archivista del comune e Elena Dello Sbarba, custode delle memorie familiari.

[2]      ASPi/CLN, Verbale 31 agosto 1944.

[3]      Cfr. C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello stato, Torino, Bollati Boringhieri, 1995. In particolare i cap. 2 e 3. Sullo sfondo storico: C. Pavone, Una guerra civile, Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Borignhieri, 1991. Sulla continuità dello Stato e degli apparati militari: D. Conti, Gli uomini di Mussolini: prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana, Torino, Einaudi, 2017.

[4]      ASPi/CLN, “È venuta l’ora di gridare basta!”, prot. 1000/2-A, 30 dicembre 1944.

[5]      BGV/FAdS, Memoria di Adalberto Berruti per Arnaldo Dello Sbarba, 6 giugno 1948.

[6]      BGV/FAdS, Cartolina di  Adalberto Berruti, 22 agosto 1943.

[7]      Cfr. L’ombra del potere. Biografie di capi di gabinetto e degli uffici legislativi, a cura di G. Tosatti, Società per gli studi di storia delle istituzioni, 2016,  pp. 33-35.

[8]      Per tutte le citazioni del prefetto Peruzzo cfr. Vincenzo Peruzzo, ricordi del primo prefetto di Pisa dopo la Liberazione, a cura di C. Forti, Pisa, Pacini, 2012.

[9]      Cfr. C. Forti, Dopoguerra in provincia, microstorie pisane e lucchesi, 1944-1948, Milano, F. Angeli, 2007, pp. 100-112.

[10]      Cfr. Cangini Tito, in Dizionario di Volterra, a cura di L. Lagorio, Pisa, Pacini, 1984, pp. 926-927.

[11]      Cfr. C. Forti, Dopoguerra in provincia, microstorie pisane e lucchesi, 1944-1948, cit., pp. 72-79. Nel saggio sono riportati i seguenti dati: Il campo di Coltano passò all’amministrazione italiana il 28 agosto 1945. Ospitava 32.229 internati. Il 27 settembre 1945 cominciarono gli interrogatori, che si conclusero il 29 ottobre. Circa 30.000 internati furono subito liberati e 2.700 trattenuti, ma parecchi fuggirono o, trasferiti in un campo presso Arezzo, furono presto liberati. 313 furono prelevati dalle Questure competenti, 45 ufficiali dell’esercito furono trasferiti al Forte Boccea a Roma e 187 ufficiali di Marina al campo di Narni.

[12]      Cfr. Il Tirreno, 25 maggio 1945.

[13]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza del 14 luglio 1944, n. 7. Il “Libro dei verbali del CLN di Volterra, dal 9 luglio 1944 al 4 settembre 1945” è stato conservato da Luigi Riondino e donato all’Archivio del Comune di Volterra il 9 luglio 2024, in occasione dell’80° anniversario della Liberazione della città.

[14]      Cfr. V. Fiorino, Le officine della follia, Il frenocomio di Volterra, Pisa, ETS, 2011.

[15]      BGV/FAdS, Lettera Dc, PLI e PDL del 13 novembre 1944.

[16]      ASPi, Gabinetto del prefetto, Decreto 6973, div. 2/2, del 23 novembre 1944.

[17]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 26 novembre 1944, n. 17.

[18]      ASPi/CLN, b. 1 f. 5, Attività e posizione politica dell’avv. Arnaldo Dello Sbarba, Memoriale del 4 dicembre 1944 del CLN volterrano al CPLN e p.c. al CTLN.

[19]      AP/AdS, A. Fratini, Appunti per una storia del socialismo volterrano, esemplare originale dattiloscritto dell’autore, pp. 58-59.

[20]      Cfr. «Il Corazziere», nn. 1° e 14 maggio 1921.

[21]      BGV/FAdS, Lettere del 23 dicembre 1944 della Dc, del PLI e del PDL e minuta manoscritta non datata.

[22]      ASPi/CLN, “È venuta l’ora di gridare basta!”, cit.

[23]      In BGV/FAdS: Arnaldo Dello Sbarba torna sulla vicenda in una autobiografia in terza persona scritta nel 1948: “Venuto segretario del partito fascista Ettore Muti, il quale dichiarò che la rivoluzione fascista era finita e bisognava rientrare nella costituzionalità e nella legalità, fece appello all’associazione combattenti a collaborare con la di lui opera; molti amici della provincia di Pisa fecero premura all’onorevole Dello Sbarba, ex combattente iscritto, di esaminare se non fosse dovere civico e patriottico di non estraniarsi dall’assecondare il richiamo del Muti. Si recarono a Roma per avere un colloquio con Muti ed avutolo per due volte a distanza in una sala dell’hotel Moderno, Muti confermò le promesse dichiarando che se queste non si fossero verificate egli avrebbe lasciato la sua carica. Scongiurò i combattenti di non fare un secondo Aventino. Allora fu deciso di accogliere l’invito tanto quanto bastava per rendere possibile un’eventuale futura collaborazione per cui fu accettata la tessera. Ma rimasero nell’attesa. Questa tessera è rimasta lettera morta, l’onorevole Dello Sbarba e gli altri rimasero in disparte e in silenzio, delusi ed umiliati di essere stati così ingenui da credere non a Muti, il quale in realtà se ne andò, ma alla possibilità che il fascismo si trasformasse”.

[24]      BGV/FAdS, Lettera di Cesare Rossi al senatore Ginori Conti del 9 dicembre 1923.

[25]      BGV/FAdS, Lettera di Arnaldo Dello Sbarba a Benito Mussolini del 20 febbraio 1924. Sulle lotte interne al fascismo pisano e la tentata candidatura di Arnaldo Dello Sbarba nel “Listone” fascista del 1924, cfr. R. Dello Sbarba, Arnaldo Dello Sbarba: anatomia di una caduta, in «ToscanaNovecento», portale di storia contemporanea. https://www.toscananovecento.it/custom_type/arnaldo-dello-sbarba-anatomia-duna-caduta/?print=print

[26]      Cfr ACS/CPC, Segnalazione del 7 luglio 1927 del Prefetto di Roma Paolo D’Ancona al Ministero dell’Interno, Direzione generale di P.S., Divisione affari generali e riservati: “Pregioimi comunicare che l’ex deputato Dello Sbarba avv. Arnaldo abitante in via Viminale 43 e con studio in via Pie’ di Marmo 18, da vari anni non risulta che esplichi alcuna attività politica e serba regolare condotta. Nei riguardi dell’attuale regime fascista dimostrasi indifferente”.

[27]      Cfr. ACS, Guida Monaci, Guida commerciale, scientifica e artistica della città di Roma, aa. dal 1926 al 1946.

[28]      Cfr. P. Nicoloso, Marcello Piacentini. Architettura e potere: una biografia, Udine, Gaspari, 2018, pp. 121-122.

[29]      BGV/FAdS, Lettera di Arnaldo al fratello Bruno Dello Sbarba del 16 aprile 1933.

[30]      Cfr. M. Scardozzi, Un paese intorno alle terme, da Bagni di Pisa a San Giuliano Terme, 1742-1935, Pisa, ETS, 2014.

[31]      ASPi/CLN, Verbale della seduta del 29 dicembre 1944.

[32]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 28 dicembre 1944, n. 20.

[33]      ASPi/CLN, Corrispondenza tra CPLN, CCLN, CLN Volterra, Gabinetto governo Bonomi, Uffici centrali e periferici di PLI e PDL, tra il 1° gennaio e il 30 marzo 1945.

[34]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 11 aprile 1945, n. 21.

[35]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 24.04.45, n. 32. Su Mario Giustarini si v. M. Bacchiet, Giustarini Mario, in Dizionario biografico online delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa, Biblioteca Franco Serantini, Istituto di storia sociale, della Resistenza e dell’età contemporanea. https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16112-giustarini-mario?i=10

[36]      ASPi/CLN, Corrispondenza tra CPLN e Tito Cangini dal 15 maggio 1945 al 29 luglio 1945.

[37]      BGV/FAdS, diverse memorie stilate da Arnaldo Dello Sbarba tra il 1944 e il 1945, tra cui un intero “Blocco di appunti”.

[38]          Cfr. E. Dello Sbarba e S. Trovato, Inventario dell’archivio di Arnaldo Dello Sbarba, «Rassegna volterrana», a. 90, 2013.




L’odissea della famiglia Nasibù

Ad oltre vent’anni dall’ultima impresa coloniale compiuta da un paese europeo, il 3 ottobre 1935 le armate italiane invasero l’Etiopia, violando l’indipendenza dell’unico stato africano riuscito a scampare al colonialismo europeo di fine Ottocento e inizio Novecento. Intenzionato a voler raggiungere un successo che gli avrebbe garantito di poter accrescere il consenso interno ed affermare internazionalmente l’immagine del paese, Mussolini mise in piedi un apparato bellico che non aveva precedenti nella storia dell’espansionismo occidentale: nel corso del conflitto venne inviato in Etiopia oltre mezzo milione di soldati coadiuvati nella loro azione dalla presenza di numerosi mezzi motorizzati e dal sostegno dell’aviazione e dell’artiglieria. Malgrado l’evidente vantaggio nei confronti dell’avversario gli italiani riuscirono a rendersi protagonisti di terribili episodi, come l’utilizzo di armi internazionalmente proibite come l’iprite o di deliberate violenze nei confronti dei civili. Nel giro di sette mesi l’esercito dell’imperatore Hailé Selassié venne annientato dalla travolgente superiorità delle forze messe in campo da Mussolini; grazie a tale vantaggio gli uomini guidati da Badoglio riuscirono a sconfiggere l’esercito etiope dopo una serie di battaglie campali che si combatterono nella prima metà del 1936[1].

Con l’ingresso ad Addis Abeba il 5 maggio 1936 e la successiva proclamazione dell’impero, il regime dichiarò ufficialmente concluso il conflitto italo-etiopico. La fuga dell’imperatore e l’entrata dell’esercito italiano nella capitale avevano fornito a Mussolini la possibilità di poter dichiarare formalmente conclusa la guerra. Tuttavia la fine delle ostilità era lontana, sia perché erano ancora presenti nel paese numerosi soldati sopravvissuti al conflitto, sia perché ampie porzioni del territorio rimanevano ancora inesplorate considerata la celerità con la quale Badoglio e Graziani avevano proceduto verso Addis Abeba. Tale incertezza non si limitò al periodo immediatamente successivo alla conquista, ma si protrasse per l’intero arco della presenza italiana in Etiopia fino all’abbandono della colonia nel 1941[2].

Fra i militari etiopi il degiac[3] Nasibù Zamanuel, comandante in capo delle forze armate del fronte sud, fu certamente il generale che si distinse maggiormente nel corso del conflitto. Rispetto agli altri graduati di rango elevato il degiac era stato l’unico fra i generali ad esser stato nominato da Hailé Selassié per le sue capacità militari e per le doti che aveva evidenziato nel corso della sua carriera politica come console ad Asmara, Governatore di Addis Abeba e direttore del Ministero della guerra. Pur disponendo di un numero inferiore di soldati e di armamenti obsoleti, Nasibù riuscì a tener testa alle truppe guidate da Rodolfo Graziani, responsabile italiano delle operazioni sul fronte sud. Oltre allo svantaggio numerico e tecnologico il generale dovette fronteggiare le modalità di combattimento adottate dal comandante italiano che prima di compiere un’avanzata era solito bombardare le posizioni nemiche per poi irrorarle di iprite, ma, nonostante ciò, gli uomini guidati da Nasibù Zamanuel riuscirono a rallentare l’avanzata delle truppe italiane.

A pochi giorni dalla conclusione del conflitto, il generale raggiunse l’imperatore a Gibuti per accompagnarlo nel suo esilio europeo. Sfortunatamente nel corso della guerra i gas utilizzati da Graziani avevano causato danni irreparabili ai polmoni di Nasibù, che si spense in una clinica svizzera il 16 ottobre 1936. Poco prima di morire il degiac recò l’ultimo servigio ad Hailé Selassié, preparando il famoso discorso che l’imperatore tenne alla Società delle Nazioni per denunciare l’aggressione fascista ad uno stato indipendente: “Rappresentanti del mondo, sono venuto a Ginevra per adempiere, presso di voi, al più ingrato fra i doveri di un capo di Stato. Quale risposta dovrò riferire al mio Popolo?”[4].

 

Atzede Babitcheff e il degiac Nasibù Zamanuel pochi mesi dopo il loro matrimonio

 

La notizia della scomparsa raggiunse la famiglia che era rimasta in Etiopia. La perdita del capofamiglia gettò nello sconforto i suoi cari, aumentando l’incertezza che ormai da tempo accompagnava la loro esistenza. Malgrado il lutto la vedova Atzede Babitcheff reagì con sorprendente lucidità e con una forte dose di coraggio; intimorita dalle inquietanti notizie riguardanti le violenze compiute ai danni dei civili, decise di giocare d’anticipo e di chiedere a Graziani il trasferimento in Italia della famiglia. Oltre alla paura per le potenziali ripercussioni che i figli avrebbero potuto subire, in quanto membri di una famiglia che si era apertamente opposta all’invasione, Atzede era spinta dalla volontà di voler garantire loro un’adeguata educazione e un ambiente consono alla loro crescita. Graziani acconsentì favorevolmente alla proposta, ben lieto di poter allontanare dalla colonia una famiglia che un giorno avrebbe potuto congiurare contro l’Italia o costituire un punto di appoggio per i ribelli, ed approvò perfino la richiesta di Atzede di poter ricevere mensilmente i soldi provenienti dall’affitto della residenza familiare, che sarebbero risultati fondamentali per il pagamento dell’istruzione dei figli[5].

 

Atzede Babitcheff insieme alle figlie Martha e Amaretch

 

Il trasferimento in Italia dei Nasibù non rappresentò però un caso isolato, ma fu l’anticipazione di un fenomeno che nei mesi successivi avrebbe assunto dimensioni maggiori. Inseguito all’attentato compiuto nel febbraio 1937 ai danni di Graziani, divenuto nel frattempo la principale carica presente in colonia, vennero deportati nella penisola circa 400 etiopi appartenenti alla nobiltà e alla classe dirigente. Le autorità coloniali decisero di allontanare dal paese gli elementi ritenuti politicamente più pericolosi con l’intento di fiaccare la lotta armata privandola del potenziale sostegno delle figure più eminenti del paese. Deportati dal marzo 1937 i confinati vennero inizialmente trasferiti nell’isola dell’Asinara (Sassari) per poi essere successivamente destinati in altre località della penisola a seconda del loro livello di pericolosità: gli “irriducibili” vennero condotti a Longobucco (Cosenza) dove furono soggetti ad un regime detentivo più duro e severo, mentre coloro che erano considerati maggiormente collaborativi vennero trasferiti a Tivoli e Mercogliano (Avellino), in cui poterono usufruire di un trattamento meno rigido. Generalmente la presenza in Italia dei confinati non si estese a lungo e la maggioranza di essi poté rientrare in patria dall’estate del 1938, eccetto gli etiopi considerati pericolosi che tornarono nel loro paese solamente alla fine del 1943[6].

Per diverse ragioni la storia della famiglia Nasibù non può essere accostata alla vicenda degli altri confinati presenti in Italia, rappresentando semmai una singolare anomalia. In primo luogo, il trasferimento in Italia dei familiari del defunto degiac non fu un’imposizione delle autorità coloniali, ma fu una decisione seguita alla proposta di Atzede Babitcheff di voler allontanare i propri figli dalla spirale di violenza che aveva invaso il paese. In secondo luogo, rispetto agli altri confinati, i Nasibù vennero trasferiti da un luogo all’altro del paese senza che vi fosse un’apparente motivazione dietro a tali spostamenti, ma piuttosto la volontà di voler infierire su un gruppo di persone ormai divenute innocue. Nel corso di otto anni la famiglia affrontò numerosi spostamenti che la portarono nelle più disparate località, dal caos di Napoli alla pace delle Dolomiti, dal capoluogo toscano alla campagna aretina, giungendo persino per qualche breve periodo a Tripoli e Rodi.

Il 5 dicembre 1936 la famiglia salpò da Gibuti in direzione dell’Italia[7]. A bordo della nave ebbero modo di familiarizzare con alcuni aspetti che avrebbero caratterizzato il loro confino, come la presenza degli agenti di sicurezza che ironicamente chiamavano “angeli custodi” e l’impossibilità di potersi avvicinare ai passeggeri italiani. Dopo poco più di una settimana di viaggio giunsero a Napoli dove vennero sistemati in un appartamento sul lungomare di via Caracciolo. La permanenza nel capoluogo campano non durò a lungo visto che dopo appena due mesi la famiglia venne inspiegabilmente trasferita in Libia, per poi essere nuovamente riportata in Italia.

 

I figli di Nasibù fotografati a Napoli. Da sinistra: in alto un amichetto italiano e Fassil; in basso Amaretch, Brahanou e Martha

 

Amaretch, Brahanou e Martha affacciati sul balcone dell’appartamento in via Caracciolo a Napoli

 

Nei primi tre anni di confino i Nasibù vennero spostati in rapida sequenza da un luogo all’altro, subendo complessivamente sette trasferimenti (Napoli – Tripoli – Napoli- Rodi – Napoli – Tripoli – Vigo di Fassa)[8].

Alla fine dell’estate del 1940 la famiglia ottenne l’autorizzazione per essere trasferita da Vigo di Fassa a Firenze. Arrivati nel capoluogo toscano poterono ricongiungersi con lo zio Vittorio, che nel frattempo era giunto in Toscana con qualche mese d’anticipo, trovando ospitalità presso i Solari, e grazie all’aiuto di questa nobile famiglia fiorentina trovarono una sistemazione in un appartamento di via Borgo Pinti 92. Poco dopo il loro arrivo a Firenze iniziarono i primi segnali dell’entrata in guerra, come il coprifuoco e il razionamento dei beni alimentari[9].

Dopo che la famiglia trovò sistemazione, Atzede si premurò di garantire ai propri figli la possibilità di poter proseguire gli studi: Martha e la sorella vennero iscritte all’internato del Sacro Cuore, che già avevano avuto modo di frequentare durante il confino napoletano, mentre Fassil venne ammesso per il tempo necessario a sostenere gli esami di riparazione come esterno al collegio Cicognini di Prato, dopo esser stato rifiutato dal Liceo Michelangelo di Firenze per motivi razziali. Secondo quanto affermato da Martha, durante la breve presenza al Cicognini, il fratello fu protagonista di un episodio che rischiò di compromettere ulteriormente la già precaria posizione della famiglia: chiamato in modo irriguardoso e volontariamente discriminatorio da parte di un professore, il giovane etiope aggredì fisicamente quest’ultimo incappando in una denuncia e nell’espulsione dalla scuola. Fortunatamente l’incidente non provocò nessun provvedimento, risolvendosi con il richiamo da parte del Federale di Firenze affinché un caso del genere non si ripetesse[10].

L’istruzione dei figli era per la signora Atzede di primaria importanza e lungo tutta la loro tormentata permanenza nella penisola – dal 1936 fino al 1945 – si impegnò costantemente nella ricerca di scuole che accettassero i propri figli: «La mamma, ovunque si andasse, ci iscriveva a nuove scuole». Ma a causa delle leggi razziali tale intenzione si rivelò particolarmente difficoltosa, se non impossibile da realizzare nelle scuole pubbliche, mentre Atzede riuscì a far ricevere un’educazione ai propri figli negli istituti religiosi. È probabile che in questo caso il regime chiudesse un occhio, e come ipotizzato da alcuni studiosi, il Pontificio collegio etiopico e padre Gaudenzio Barlassina, un missionario italiano che aveva operato in Etiopia per diversi anni, si fossero impegnati in favore della famiglia e avessero contattato le scuole religiose per favorire la loro iscrizione.

Il 5 maggio 1941, cinque anni dopo l’ingresso di Badoglio ad Addis Abeba, l’imperatore Hailé Selassié poté ritornare nella capitale dopo aver sconfitto, grazie al supporto degli inglesi, le ultime forze italiane presenti sul territorio. La perdita dell’Etiopia determinò un generale allentamento delle misure restrittive nei confronti di tutti i confinati etiopi presenti nella penisola: Atzede, ad esempio, doveva recarsi a segnalare la propria presenza in Questura solamente una volta alla settimana, mentre i confinati considerati più pericolosi iniziarono ad avere maggior libertà di movimento[11]. Ma il caos seguito all’allontanamento degli italiani comportò l’interruzione del pagamento degli affitti delle case appartenute al defunto degiac, denaro destinato al pagamento delle rette delle scuole che Amaretch, Martha, Fassil e Brahanou frequentavano. Così Atzede si trovò costretta a dover fronteggiare una situazione complicata: prima decise di vendere i pochi gioielli che ancora possedeva, dopodiché scelse di iscrivere i figli a scuole meno costose, le ragazze iniziarono ad andare dalle suore di Santa Reparata, mentre i ragazzi frequentarono il Collegio Cavour[12].

Malgrado questi accorgimenti la situazione economica non migliorava e dopo varie sollecitazioni di Atzede, il 14 novembre 1941, il Ministero dell’Africa Italiana (MAI) approvò lo stanziamento di 2.000 lire mensili per il sostentamento dei Nasibù, ma era una cifra ancora troppo bassa per la sopravvivenza di una numerosa famiglia costretta a dover fare i conti con il caroprezzi dovuto alla guerra. Più il conflitto si prolungava e maggiori divenivano le difficoltà che erano costretti ad affrontare, ma Atzede non si diede per vinta e continuò a scrivere alle più alte cariche fasciste, finché un giorno il Prefetto di Firenze si attivò in loro favore facendo salire il sussidio mensile a 4.000 lire. E non appena la signora Babitcheff poté ritirare il denaro lo stanziò immediatamente all’istruzione dei propri figli iscrivendo i ragazzi al collegio Domengi Rossi e le ragazze al Sacro Cuore[13].

Nell’estate del 1942 l’intensificarsi dei bombardamenti portò Atzede ad optare per un temporaneo trasferimento della famiglia nella campagna toscana. Analogamente a molti italiani che abitavano in importanti città della penisola, i Nasibù decisero di abbandonare Firenze e di sfollare a San Giustino, un piccolo paese nella provincia di Arezzo. Il cambio di località si rivelò ideale, catapultando la famiglia in uno scenario ancora lontano dagli effetti della guerra. Se nel capoluogo toscano il passaggio degli aerei era sinonimo di bombardamenti e di terrore, nella campagna aretina la loro comparsa provocava l’effetto opposto, costituendo una fonte di curiosità e di divertimento per la popolazione del piccolo borgo. Al rombo dei motori gli abitanti erano soliti precipitarsi fuori dalle loro abitazioni ipotizzando verso quali mete fossero diretti, mentre i più piccoli, affascinati da quegli oggetti di metallo che sfrecciavano fra le nuvole, esplodevano in grida d’emozione e canti sfrenati. Nel periodo di permanenza nel piccolo paese i Nasibù poterono constatare che, rispetto alle grandi realtà urbane come Firenze e Napoli, nelle campagne la popolazione era caratterizzata da una maggiore spontaneità e dall’assenza di pregiudizi: gli abitanti del borgo aiutarono in diverse occasioni i nuovi arrivati, mentre i ragazzi non faticarono a crearsi una rete di amicizie, inserendosi rapidamente tra i loro coetanei[14].

Sebbene la vita a San Giustino procedesse tranquillamente e non fosse ancora turbata dalla presenza della guerra, l’istruzione continuò a ricoprire per Atzede un ruolo cruciale, rappresentando il motivo principale dei loro spostamenti, cosicché i Nasibù tornarono dopo pochi mesi ad abitare in quell’appartamento di via Borgo Pinti a Firenze. Il secondo soggiorno fiorentino, dalla fine del 1942 all’autunno dell’anno successivo, rappresentò uno dei periodi più complicati della loro permanenza in Italia, a causa della fame e degli stenti che la famiglia era ormai costretta a subire giornalmente. In questa situazione Atzede mise da parte l’educazione dei figli e pose naturalmente al primo posto il loro sostentamento e il loro benessere fisico. Agli inizi del 1943 la vedova riuscì ad ottenere dal Prefetto di Firenze il trasferimento per la seconda volta nelle Dolomiti, luogo indubbiamente più tranquillo per la crescita spensierata dei ragazzi lontano dai venti di guerra e soprattutto luogo in cui non si pativa la fame.

Alla notizia della liberazione di Roma (4 giugno 1944) Atzede con i propri figli partirono immediatamente verso Firenze, certi che di lì a poco anche il capoluogo toscano sarebbe stato liberato.

Giunti a Firenze, dopo un viaggio non privo di incidenti con il convoglio costretto a fermarsi a causa dei bombardamenti, i Nasibù ebbero la sorpresa di trovare il loro appartamento di via Borgo Pinti occupato da famiglie di sfollati. Privi di un’abitazione vennero indirizzati verso una casa in via Atto Vannucci, vicino all’attuale Stazione ferroviaria in via dello Statuto. L’appartamento era ampio e spazioso, ma dopo pochi giorni dalla loro sistemazione scoprirono che il quartiere era in gran parte abbandonato per la presenza nelle vicinanze di un deposito di munizioni, obbiettivo di possibili bombardamenti. Colta dal panico la famiglia si rifugiò nella casa degli amici Solari in via del Sole.

Dopo la liberazione di Firenze i Nasibù si spostarono a Roma intenzionati a far ritorno in Etiopia. L’arrivo nella capitale sancì la conclusione delle loro tribolazioni, “finalmente la vita si riprendeva i suoi diritti sulla morte, la gioia sulla tristezza, l’entusiasmo sull’afflizione. Liberi da ogni tipo di vigilanza, liberi di vivere come ci piaceva, eravamo sommersi dall’eccitazione[15]. In un turbinio di emozioni la famiglia passò nel giro di pochi giorni dalle sirene che preannunciavano i bombardamenti alla possibilità di poter essere ricevuta dal principe Umberto di Savoia e da papa Pio XII.

Dopo un breve periodo a Roma gli etiopi vennero trasportati insieme ad altri rifugiati al campo di concentramento di Bari, da dove salparono nel gennaio 1945 in direzione di Port Said. E dopo una breve permanenza in Egitto la famiglia intraprese l’ultima tappa del viaggio giungendo ad Addis Abeba nell’aprile 1945, otto anni dopo la partenza da Gibuti.

Con la sua scelta coraggiosa Atzede era riuscita a proteggere i suoi figli e in qualche modo a far sì che non interrompessero il loro percorso di crescita sul piano dell’istruzione.

 

Note:

[1] Cfr. A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. La conquista dell’Impero, Laterza, Roma-Bari 1979.

[2] Cfr. M. Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1935-1941, Laterza, Roma-Bari 2008.

[3] Titolo nobiliare etiope corrispondente a quello di conte.

[4] Citato in A. Del Boca, Il negus. Vita e morte dell’ultimo re dei re, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 179.

[5] M. Nasibù, Memorie di una principessa etiope, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 13-14.

[6] Cfr. P. Borruso, L’Africa al confino. La deportazione etiopica in Italia (1937-39), Lacaita, Manduria-Bari 2004.

[7] Il gruppo era composto da undici elementi, la vedova Atzede, i cinque figli Fassil, Amaretch, Brahanou, Martha e Theodros, il nonno materno Ivan e i suoi figli Haregue, Helena e Vittorio ed infine la governante Enkoyé.

[8] M. Nasibù, Memorie di una principessa etiope, cit., pp.146-147.

[9] Ivi, p. 184.

[10] Ivi, pp. 185-187.

[11] G. Ferraro, Una liberazione “diversa” e le lettere “amhariche” degli anni di confino dei deportati etiopi, in «Rivista Calabrese di Storia del ‘900», n. 2, 2013, pp. 240-242.

[12] M. Nasibù, Memorie di una principessa etiope, cit., pp. 189-190.

[13] Ivi, pp. 195-196.

[14] Ivi, pp. 197-201.

[15] Ivi, p. 222.

 

Articolo pubblicato nel maggio 2025.




Resistenze, femminile plurale – 50 partigiane toscane

 

 

🔸Batazzi Messina

Messina Batazzi

🔸Benetti Osmana

Osmana Benetti

🔸Benveduti Turziani Eleonora (detta Noretta)

Eleonora Benveduti Turziani

🔸Borghigiani Aida

Aida Borghigiani

🔸Cecchi Lina

Lina Cecchi

🔸Cecchi Liliana

Liliana Cecchi

🔸Cerquetti Virginia

Virginia Cerquetti

🔸Cipolli Primetta

Primetta Cipolli

🔸Cremoni Erminia

Erminia Cremoni

🔸Crociani Angiola“Giangia”

Angiola Crociani

🔸Cutini Lea

Lea Cutini

🔸de Jacquier de Rosée Gabrielle-Marie

Gabriella de Rosée

🔸Del Freo Assunta

Assunta Del Freo

🔸Enriques Agnoletti Anna Maria

Anna Maria Enriques Agnoletti

🔸Fantini Alberta

Alberta Fantini

🔸Fiorineschi Fiorenza

Fiorenza Fiorineschi

🔸Fondi Anna

Anna Fonti

🔸Gattavecchi Valchiria

Valchiria Gattavecchi

🔸Gereschi Livia

Livia Gereschi

🔸Giugni Ofelia

Giugni Ofelia

🔸Gori Mariella

Mariella Gori

🔸Guaita Maria Luigia

Maria Luigia Guaita

🔸Lenzini Cristina

Cristina Lenzini

Cristina Lenzini

🔸Lorenzoni Maria Assunta (detta Tina)

Tina Lorenzoni

🔸Machetti Cordara “Lucciola”

Cordara Machetti

🔸Marchetti Nara

Nara Marchetti

🔸Maria Moriconi

Maria Moriconi

🔸Marrocchesi Natalina

Natalina Marrocchesi

🔸Martini Anna

Anna Martini

🔸Martini Tosca

Tosca Martini

🔸Mattei Teresa

Teresa Mattei

🔸Menconi Mercede

Mercede Menconi

🔸Modesti Rossana

Rossana Modesti

🔸Montemaggi Walma

Walma Montemaggi

🔸Pannocchia Ubaldina

Ubaldina Pannocchia

🔸Parenti Norma

Norma Parenti

🔸Parracciani Wanda

Wanda Parracciani

🔸Pelliccia Walkiria

Walkiria Pelliccia

🔸Pillitteri Guelfi Giuseppina (detta Unica)

Giuseppina Pillitteri

🔸Rola Francesca

Francesca Rola

🔸Rossi Modesta

Modesta Rossi

🔸Sandroni Bruna

Bruna Sandroni

🔸Seghettini Laura

Laura Seghettini

🔸Talluri Bruna

Bruna Talluri

🔸Toniolo Teresa

Teresa Toniolo

🔸Tozzi Lina

Lina Tozzi

🔸Valsuani Emilia

Emilia Valsuani

🔸Vannucchi Suor Cecilia

Suor Cecilia Vannucchi

🔸Vassalle Vera

Vera Vassalle




Beatrice Giglioli, una donna sulla linea del fronte

1. I Giglioli di Pisa
Beatrice Elena Giglioli nasce a Portici (NA) il 5 febbraio 1892 da Italo[1] e Costanza Stocker[2]. I suoi due nomi richiamano due persone della storia della famiglia, uno per quella materna e uno per quella paterna. Grazie al Book IV. 1 dei Family Memorials of the Giglioli-Casella, scritte ad uso della famiglia da Maria Elena Casella (1888-1959), si apprende che Beatrice aveva una zia materna con lo stesso nome, Beatrice Alicia Ramsay Stocker[3], che nell’anno della nascita della nipote si imbarca per gli Stati Uniti per unirsi alle tribù dei Sioux come missionaria presbiteriana. Il secondo nome ricorre con continuità nel succedersi delle generazioni e si riferisce alla nonna paterna, Ellen Hillyer, per la devozione nei suoi confronti da parte di Italo, padre di Beatrice Elena[4].
La famiglia discende da Giuseppe Giglioli (1804-1865), figlio di Domenico (1775-1848) e Maria Luigia Palmerini (?-1862), patriota, membro della Giovine Italia e amico personale di G. Mazzini. Esule in Inghilterra, G. Giglioli aveva sposato Ellen Hillyer (1819-1894) e dalla loro unione erano nati cinque figli: Enrico (1845-1909), Augusto (1846-1901), Alfredo (1847-1897), Italo (1852-1920) e Elena (1858-1941).

Beatrice Giglioli nei primi anni venti. [Archivio Biblioteca Serantini]

Nel 1903 in seguito al trasferimento del padre Italo – già direttore alla Scuola superiore di agricoltura di Portici –, tutta la famiglia si stabilisce a Roma e dove Beatrice inizia gli studi superiori nel liceo ginnasio T. Tasso. Il suo percorso liceale si completerà al liceo classico G. Galilei di Pisa, perché nel 1904 il padre verrà nominato docente di chimica agraria alla locale Scuola superiore di agraria. Iscrittasi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa nell’ottobre del 1912, nel novembre 1913 sostiene l’esame al concorso per un posto di alunna aggregata senza sussidio alla Scuola Normale Superiore, classe di lettere e filosofia. La prova scritta di italiano a quell’esame si intitola L’opera di Dante considerata come sussidio alla conoscenza diretta e piena della Commedia. Vince il concorso e successivamente, per il merito dimostrato negli esami sostenuti, viene ammessa come alunna aggregata con sussidio.
Agli inizi della guerra, avendone conseguito il diploma il 6 aprile 1915, presta la propria opera di aiuto-infermiera della Croce Rossa Italiana. Il suo nome è anche nel 1° elenco dei soci del Club Alpino Italiano chiamati alle armi e il suo servizio sui treni ospedali inizia il 10 agosto 1915. Le infermiere volontarie e le aiuto-infermiere della CRI di Pisa svolgono servizio anche presso l’Ospedale militare di riserva, nel Palazzo Arcivescovile, nell’Ospedale succursale Pisa e negli istituti di rieducazione per soldati mutilati. In questo periodo Beatrice intrattiene corrispondenza con ufficiali e sottufficiali al fronte, quasi tutti studenti dell’Università di Pisa. Tra questi c’è Piero Pieri, in seguito tra i maggiori storici italiani della Prima guerra mondiale.
Nel giugno 1917 si laurea in lettere a pieni voti con una tesi su Il problema della decadenza dell’Impero romano negli storici moderni. Il relatore è Vincenzo Costanzi (1863-1929), ordinario di storia antica. Per nomina ministeriale, Beatrice viene incaricata dell’insegnamento di storia, geografia e diritti e doveri per l’anno scolastico 1917-18 nella Scuola tecnica Nicola Pisano di Pisa. Nel maggio 1918, presso l’Università di Pisa, supera l’esame di abilitazione all’insegnamento della lingua inglese per gli istituti d’istruzione media di 2° grado.
Nell’agosto 1918 si trasferisce a Londra, dove, il 26 dello stesso mese, ottiene per esame il posto di traduttrice al War Office (Ministero della guerra), con il compito di tradurre in inglese documenti e opuscoli italiani e francesi concernenti la guerra europea. Poche settimane dopo, il 21 settembre 1918, si dimette dall’incarico in seguito alla nomina ad assistente presso la Facoltà di Italiano dell’Università di Cambridge. Durante la sua permanenza in Inghilterra segue corsi di perfezionamento di filologia e letteratura inglese, tiene conferenze a Londra e a Edimburgo sulla storia e la letteratura italiana. Nel gennaio 1919 e per i due trimestri successivi assume l’incarico di insegnare lingua e letteratura italiana presso la stessa Università di Cambridge, impegno che prosegue fino al luglio successivo, quando è costretta a rientrare in Italia per l’aggravamento delle condizioni di salute del padre.
Nel frattempo, le profonde trasformazioni geo-politiche legate al riassetto seguito alla Prima guerra mondiale, generano tensioni politiche in tutta Europa. Il legame della famiglia Giglioli con la tradizione risorgimentale mazziniana e con il tema dell’autodeterminazione politica delle nazionalità, si manifesta nel sostegno alla spedizione fiumana di D’Annunzio, alle rivendicazioni dell’italianità della Dalmazia e all’indipendenza ceco-slovacca.
Nell’autunno del 1920 Beatrice diviene insegnante supplente di lingua inglese all’Istituto tecnico Antonio Pacinotti di Pisa, dove rimane negli anni scolastici 1920-21 e 1921-22. Vince il concorso generale a cattedre di lingua inglese per gli istituti tecnici e si trasferisce per un anno a Sassari, dove insegna all’Istituto tecnico Alberto Lamarmora. Dall’a.s. 1923-24 e 1924-25 insegna presso l’Istituto tecnico Germano Sommeiller di Torino, nel corso superiore della Sezione commercio e ragioneria. A Torino, nel 1925, per l’editore Paravia traduce dall’inglese la guida pratica di J.E. Russell, Lezioni intorno al terreno. A partire dall’a.s. 1925-26 torna a Pisa, al Liceo ginnasiale G. Galilei dove lei stessa aveva studiato e dove diventerà titolare di lingua e letteratura inglese dall’a.s. 1935-36. Dall’a.a. 1925-1926 è incaricata del lettorato di lingua inglese della Scuola Normale Superiore, incarico riconfermato fino al 1959. Presso la SNS sono conservati i registri delle sue lezioni a partire dall’anno 1932 e tra i testi da lei più utilizzati nei corsi compare Oliver Twist di C. Dickens.
Oltre che sul piano professionale, Beatrice è attiva anche su quello civile: quando il 13 febbraio 1926 viene fondata la Sezione di Pisa del CAI, risulta – insieme ai fratelli Irene e Giorgio, oltre che a Piero Zerboglio – tra i promotori e fondatori[5].
Il 25 febbraio 1933 firma il giuramento di “fedeltà” al Re e al regime fascista. Il verbale del giuramento riporta i nomi dei testimoni, Giovanni Gentile, direttore della SNS, e i docenti Francesco Arnaldi e Giovanni Ricci[6].

Ingresso Villa dei Giglioli, 1938 [Archivio Biblioteca Serantini]

Quella di Beatrice al fascismo non è un’adesione ideologico-politica, è invece un’adesione solo formale, dovuta alla necessità di rimanere come insegnante alla SNS, per poter continuare a provvedere a sé stessa e all’anziana madre. La sua precedente attività di volontaria della CRI nella Prima guerra mondiale e la partecipazione, insieme al padre, alla campagna a favore dell’indipendenza ceco-slovacca nel 1920, sono impegni pubblici di tipo “patriottico” nel segno della tradizione mazziniana, ma negli anni che vanno dal 1922 al 1933 non c’è nessuna sua presa di posizione in senso nazionalista. Del resto, nel libro sulla storia dei Giglioli scritto dalla madre di Beatrice e pubblicato nel 1935, benché l’argomento riguardi la tradizione risorgimentale della famiglia, non vi è traccia di alcun accenno al fascismo e al suo leader, in cui evidentemente l’autrice non riconosceva alcuna continuità con la storia del mazzinianesimo[7].
Dall’anno scolastico 1935-1936, oltre che al Liceo ginnasio G. Galilei, è nominata titolare di lingua e letteratura inglese anche alla scuola media R. Fucini di Pisa. Nel 1935 pubblica per R. Pironti di Napoli la traduzione di Much ado about nothing di W. Shakspeare.

2. Sulla linea del fronte: 31 agosto 1943-1° gennaio 1945
Durante gli anni di guerra con meticolosa puntualità Beatrice Giglioli annota su piccole agendine gli avvenimenti familiari e locali. Con la sorella Irene, Beatrice ha vissuto a Cisanello, sobborgo di Pisa, per gran parte del Novecento. Oltre alle notizie sugli eventi quotidiani, nelle sue agendine registra alcune dinamiche relazionali e sociali, che vengono alla luce, paradossalmente, per effetto dei bombardamenti su Pisa, che iniziano il 31 agosto 1943 e proseguono a lungo. Alla dimensione verticale delle bombe che cadono dall’alto e che producono morte e distruzione, subentra quella orizzontale degli effetti generati dalle esplosioni, a partire dai comportamenti di chi, sopravvissuto, si trova ad agire in una realtà fisica (edifici, ponti, strade) e umana (morti, feriti) drammaticamente colpita e dove la vita, per continuare, deve affrontare difficoltà inedite in una situazione che è mutata profondamente. Nella vita civile niente è più come prima: provvedere alle cure mediche per i malati e ora anche per i feriti, spostarsi da un luogo all’altro della città, a piedi, in bicicletta o con qualche altro mezzo, procurarsi cibo e rifornirsi di provviste, dare e avere notizie sulle persone care o conosciute, poter continuare o meno a svolgere il proprio lavoro, poter contare o meno sul funzionamento delle istituzioni, dei servizi postali, dei trasporti ferroviari e delle infrastrutture in genere, ecc. Le bombe, inoltre, producono anche un elevato numero di sfollati, le cui sorti sono esposte a grave rischio, costretti come sono a cercare ospitalità, un alloggio o almeno un riparo.

Bombardamento di Pisa, dicembre 1943 [The U.S. National Archives and Record Administration (NARA)]

Pochi giorni dopo il primo bombardamento, inoltre, in seguito all’armistizio con gli Alleati annunciato l’8 settembre, si determina un ulteriore cambiamento, che ha ripercussioni notevoli sulla società civile e rende ancora più precaria la situazione di Pisa e che peggiora con l’arrivo delle truppe d’occupazione naziste, alle quali gli uomini della RSI, sorta nel frattempo, sono del tutto subalterni.
Di tutto ciò si trova ampia traccia nei diari di Beatrice[8]. Quella che si raccoglieva nella villa di Cisanello prima dei bombardamenti era una fitta rete di rapporti fatta di legami parentali, amicali, professionali e culturali, sostenuta da una rete altrettanto fitta di vicini di casa, affittuari, conoscenti e persone provenienti per lo più dal territorio circostante per le collaborazioni domestiche (cucina, pulizie e lavori di casa) e per la fornitura di servizi (materie prime, cibo, servizi di manutenzione della casa, ecc.). A questi va aggiunta la cura dei numerosi animali (cani, gatti, galline, conigli, capre, api), e il conforto rappresentato dal giardino, con l’attenzione esperta ai fiori, alle verdure e alle piante da frutto, esito evidente delle competenze di Italo Giglioli trasmesse alle figlie. Dopo il bombardamento di Pisa, le sorelle Giglioli vogliono subito vederne gli effetti per valutarne la portata e si attivano per far fronte a tutto, a partire dal fatto che accorrono subito presso le macerie della casa degli amici Zerboglio, colpita in pieno da una bomba sul Lungarno Regio (odierno Lungarno Pacinotti), per mettere in salvo la maggior quantità possibile dell’archivio e dei numerosissimi libri che vi erano raccolti. La rete dei rapporti d’amicizia è un bene prezioso, che va tenuta attiva nei momenti difficili, come si vede quando il 23 settembre 1943, dopo aver saputo che l’amico Aldo Visalberghi (1919-2007) era stato ferito nella difesa di Roma, Beatrice Giglioli si affretta a informarne gli amici comuni della famiglia Barletta. La rete di solidarietà si manifesta accogliendo in casa sfollati, curando gli esseri umani e gli animali, continuando ad avere la stessa attenzione di prima anche per il giardino e ospitando amici e parenti a pranzo, a cena, per la notte o anche solo per il tè, cercando, procurando e distribuendo risorse alimentari e facendo di necessità virtù con quelle disponibili. Le sorelle Giglioli intendono in ogni momento ricostituire una comunità di fraternità e integrazione civile, il che rappresenta, per i loro interlocutori, una risorsa preziosa su cui contare. Fra gli amici ospitati più frequentemente a casa Giglioli ci sono persone di differente appartenenza religiosa, come anglicani e valdesi (il pastore Attilio Arias o l’insegnante e collega Laura Revel), o ebrei (alcuni esponenti della famiglia De Cori, Giulia Letizia Aghib, l’insegnante e collega Maria Sacerdotti), nonostante fossero in vigore le leggi razziali fasciste emanate nel 1938 e la persecuzione anti-ebraica si fosse inasprita dopo la nascita della RSI. È la storia stessa della famiglia Giglioli, con il suo ramo protestante inglese degli Hillyer e degli Stocker, a fornire esempio vissuto di costruzione comunitaria. Le Giglioli, del resto, non si fanno intimidire nemmeno dall’arrivo delle truppe tedesche nella loro casa, una prima volta ad aprile 1944 e poi altre due volte tra luglio e agosto.
Gli interlocutori delle sorelle Giglioli sono soprattutto insegnanti, colleghi di Irene e di Beatrice, la quale, insegnando sia nelle scuole secondarie che alla SNS, si trova a contatto con molti dei più noti intellettuali e scienziati attivi a Pisa (G. Gentile, L. Tonelli, L. Russo, S. Timpanaro sr. ecc.). Tra questi ci sono anche alcuni medici molto noti in città, come Francesco Niosi o Silvio Luschi, che prestano cure alle sorelle, amici e vicini. Nelle pagine di Beatrice si coglie bene anche il pesante impatto della guerra sulla vita della scuola. Il lavoro di Beatrice presso la SNS l’ha portata a essere insegnante di molti studenti poi noti nell’ambito delle professioni e che, come nel caso di Visalberghi, sono diventati anche amici. Alla costruzione di questa parte dei rapporti delle sorelle Giglioli con il mondo universitario ha anche contribuito la precedente attività di docente a Pisa del padre Italo, la cui amicizia con Adolfo Zerboglio, per esempio, ha portato all’amicizia fraterna tra le figlie di Giglioli e il figlio di Zerboglio, Piero, importante figura dell’antifascismo azionista toscano, il cui nome ricorre molto frequentemente nelle pagine del Diario. In effetti, dal Diario traspare la posizione antifascista delle Giglioli, tanto che la loro casa, oltre che un riferimento sicuro per Zerboglio, lo è anche per un altro esponente azionista, Carlo Ricci, frequente ospite a Cisanello, così come accadeva anche per altri antifascisti.

Arrivo soldati a Pisa settembre 1944 [The U.S. National Archives and Record Administration (NARA)]

Non sono solo le numerose presenze di persone e cose a caratterizzare il Diario, ma anche alcune assenze. Può sembrare strano che in quelle pagine, così attente ad annotare tutto ciò che va dalla minuta vita quotidiana ai grandi avvenimenti politici e militari, manchino due fatti di grande rilievo. In effetti, non c’è alcuna citazione dell’uccisione di Giovanni Gentile, avvenuta a Firenze il 15 aprile 1944, e nemmeno dell’eccidio per mano nazista avvenuto a Pisa il 1° agosto 1944 in casa di Giuseppe Pardo Roques, presidente della comunità ebraica pisana, che era stato amico di Italo Giglioli. È probabilmente la gravità dei due fatti a indurre in Beatrice un’evidente auto-censura a scopo precauzionale. È nella corrispondenza con la sorella Lilia, svolta attraverso scambi realizzati fuori dal circuito postale grazie a mani amiche, che i due fatti vengono citati e commentati.

Negli anni della guerra Beatrice Giglioli continua a lavorare come insegnante al Liceo G. Galilei e come lettrice alla SNS, dove la conferma del suo incarico giunge anche per l’a.a. 1943-44 da parte del nuovo direttore, Leonida Tonelli, rinnovato anche da Luigi Russo[9]. Dall’anno accademico 1942-1943 fino al 1948-1949 è docente incaricata di lingua e letteratura inglese all’Università di Pisa. A causa delle vicende belliche nell’a.a. 1943-44 inizia le lezioni il 1° febbraio 1944 e può tenere solo lezioni saltuarie fino ad aprile.
Dopo la fase dell’occupazione tedesca della città e i mesi di guerra dell’estate del 1944, riprenderà l’insegnamento alla SNS il 25 gennaio 1945. Uno dei suoi interlocutori è il meridionalista Giuseppe Isnardi (1886-1965), collaboratore dell’Animi, che dal 1928 al 1934 insegna al Liceo classico Carducci-Ricasoli di Grosseto e dal 1934 al 1951 a Pisa, dove insegna lettere al ginnasio G. Galilei, collega di Beatrice, insieme a G. Raniolo e a Ildebrando Imberciadori, che insegna lettere al triennio liceale.
Sull’esempio della madre, Beatrice si dedica alla cura dell’archivio di famiglia con l’aiuto della sorella Irene e della cugina Maria Elena Casella. Il ruolo di Beatrice nel conservare l’archivio di famiglia è ricordato proprio dalla Casella in alcuni passi delle sue Family Memorials: «The passage was marked by Italo Giglioli in the book found for me by Beatrice Giglioli at Cisanello, in September 1958» (p. 80); «I once found by chance, in Beatrice’s study, a notebook with some notes jotted down by Italo Giglioli» (p. 150).
Beatrice muore a Pisa il 7 febbraio 1988. Le ceneri per sua volontà sono state collocate nel cimitero di Pisa accanto a quelle delle sorelle Irene e Lilia. L’archivio è lasciato ad Antonio Ricci, che lo ha donato alla Biblioteca F. Serantini.

Note

  1. Italo nasce a Genova il 1° maggio 1852 da Giuseppe e Ellen Hillyer. Si laurea in agraria al Royal Agricultural College di Cirencester, contea di Gloucestershire. Muore a Pisa il 1° ottobre 1920.
  2. Costanza nasce a Roma il 2 ottobre 1856 dal reverendo anglicano Edward Seymour Stocker (1828-1900) e da Jean Hamilton Dunbar (1829-1862). Nel 1885 incontra Italo Giglioli e sarà suo padre Edward, il 26 agosto 1886, a celebrare il loro matrimonio a Londra. Oltre alla cura dei figli, Costanza coltiva le sue passioni e, grazie alla vicinanza del marito e alla conoscenza della storia della famiglia Giglioli, si interessa alle vicende del Risorgimento italiano, in particolare alle avanguardie democratiche e giacobine attive a Napoli tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Da questi studi nasce il volume dedicato alla rivoluzione napoletana del 1799, pubblicato in Inghilterra nel 1903.
  3. Nata a Roma il 13 marzo 1858, Beatrice A.R. Stocker muore il 23 febbraio 1935 a Sonoma, in California, dov’è sepolta. Tracce molto interessanti della sua esperienza di missionaria si ritrovano in alcune lettere da lei inviate alla sorella Constance Giglioli Stocker, cfr. A Doorkeeper in the House of God: The Letters of Beatrice A. R. Stocker, Missionary to the Sioux, 1892-1893, a cura di A.M. Baker, «South Dakota History», vol. 22, n. 1, 24 marzo 1992, pp. 38-63.
  4. L’ultima figlia di Ellen Hillyer è stata chiamata Elena, così come quest’ultima ha voluto chiamare Maria Elena la sua unica figlia. Beatrice Elena non ha fatto a tempo a conoscere la nonna Ellen, morta nel 1894 in Abruzzo, a Chieti, dove risiedeva presso la famiglia del genero Raffaello Casella, marito di Elena Giglioli.
  5. «Notiziario» CAI – Sezione di Pisa, a. xxxvii, n. 1, 2017.
  6. SNS, Centro archivistico, fasc. Giglioli Beatrice. Dal fascicolo risulta che Beatrice Giglioli è iscritta al Pnf dal 31 luglio 1933, tessera n. 671151, e all’Afs (Associazione fascista della Scuola) dal 1934, tessera n. 022270.
  7. C. Giglioli Stocker, Una famiglia di patrioti emiliani. I Giglioli di Brescello, con appendice di 26 lettere inedite di patrioti del tempo, Milano [etc.], Società editrice Dante Alighieri, 1935.
  8. B. Giglioli, Diario 21 agosto 1943 – 1° gennaio 1945. Ricordi dell’estate 1944 di Antonio Ricci, a cura di F. Bertolucci, B. Cattaneo e G. Mangini, Ghezzano (PI), BFS edizioni, 2025.
  9. SNS, Centro archivistico, fasc. Giglioli Beatrice. L’incarico alla sns termina nell’a. a. 1959-60.



FIRENZE, 1° SETTEMBRE 1944

Terminata la battaglia per la liberazione, Firenze si sveglia non più oppressa dal macigno dell’occupazione nazifascista ma con una serie di problemi da risolvere nel breve periodo, al punto che la gioia di assaporare quel senso di libertà anelato da tanto tempo viene in parte strozzata da una realtà fatta di macerie, dove tutto è da ricostruire, e da una popolazione stremata che necessita nell’immediato dei bisogni primari. Case, strade, ponti che non esistono più, uomini, donne e bambini sfollati che hanno bisogno di un tetto e di piatti caldi quotidiani, e che per bere e lavarsi spesso sono costretti a stazionare in lunghe file davanti alle poche fontane funzionanti.

Una città che versava in condizioni critiche sotto il profilo annonario, igienico e abitativo, oltre che dal punto di vista della sicurezza e dell’ordine pubblico. L’emergenza annonaria era la più drammatica come risulta dai rapporti ufficiali britannici e dal diario di guerra della XIV armata germanica, i tedeschi avevano lasciato ai fiorentini il 9 agosto 1944 scorte alimentari per 22 giorni, più precisamente 125 tonnellate di farina, 25 di riso, 10 di pasta e 25 di pane, oltre ad una tonnellata e mezzo di latte condensato per il sostentamento delle madri e dei malati[1]. Si trattava di una minima parte di quanto i militari tedeschi, rimasti di fatto gli unici padroni della città, dopo la fuga delle autorità civili fasciste, avevano requisito e in molti casi razziato nelle ultime settimane. Ad ogni modo con queste scorte modeste ma provvidenziali la città riuscì a sopravvivere fino alla fine del mese. Con l’arrivo delle truppe alleate i benefici sperati furono disattesi, infatti la situazione annonaria nell’autunno-inverno ‘44 non migliorò, e nonostante le promesse delle autorità alleate gli alimenti base continuavano a mancare o a essere reperibili solo alla borsa nera.

Un problema altrettanto grave era costituito dall’emergenza abitativa, Firenze pur non avendo subito ferite paragonabili a quelle inflitte in altre città italiane, per il rispetto tributato al suo patrimonio artistico, per l’assenza di strategiche concentrazioni industriali o perché la guerra era finita otto mesi prima che al Nord, aveva avuto danni al suo tessuto urbano niente affatto trascurabili.

Dopo la liberazione la popolazione fiorentina, che era salita in poco tempo da 350.000 a 500.000 abitanti, trovò rifugio un po’ dovunque, in particolare nelle case requisite ai fascisti e nei centri per sfollati, organizzati nelle parrocchie, nelle case del popolo, nei locali del comune e soprattutto nelle scuole[2]. In accordo con gli alleati furono riorganizzate le strutture di accoglienza, e in molti si riversarono soprattutto presso l’Ente comunale di Assistenza, uno dei più attivi in città, che a fronte di questa situazione di estrema precarietà fu chiamato a rispondere con urgenza ed efficacia. Grazie all’opera del direttore Luigi Rondoni, del presidente Giorgio La Pira, e all’aiuto economico e logistico degli alleati, una delle prime azioni dell’Ente fu la riapertura delle mense già adibite in passato alla distribuzione dei “ranci del popolo” e la distribuzione di generi di prima necessità alla popolazione. Come refettori furono utilizzati i locali delle parrocchie, che crearono una rete capillare e diffusa in città, a cui si aggiunsero centri assistenziali, case del popolo e molte altre strutture di fortuna.

Dal punto di vista amministrativo, già nel pieno della battaglia, l’11 agosto, la guida della città fu subito assunta da una giunta comunale nominata direttamente dal Comitato toscano di liberazione nazionale (Ctln). Vi fu un lungo braccio di ferro con le forze alleate per la definizione dell’organico amministrativo, ma il Ctln ebbe la meglio e riuscì ad imporre alla carica un medico socialista, Gaetano Pieraccini, mentre alla carica di vicesindaco furono designati il democristiano Adone Zoli e il comunista Mario Fabiani. La scelta di Pieraccini non fu la più gradita agli Alleati, che avrebbero preferito come primo cittadino non un rappresentante del partito storico della sinistra, ma altri uomini come il conte Paolo Guicciardini, esponenti liberali come Dino Philipson e l’avvocato Gaetano Casoni, o anche Piero Calamandrei del Partito d’Azione. Alla base della loro opposizione vi era la consapevolezza del valore simbolico della figura del primo cittadino che avrebbe rappresentato Firenze a livello nazionale e mondiale; ma gli Alleati preferirono giustificare diplomaticamente le loro riserve con l’età avanzata del medico fiorentino[3]. Alla fine nonostante le infondate obiezioni sull’età, la scelta di Pieraccini risultò la più adatta “per un sindaco della Liberazione” che era sempre stato un tenace oppositore del regime, oltre che uno dei padri nobili del socialismo toscano[4].

Il problema dei profughi in una nuova legge governativa. Un provvedimento che non potrà risolvere i problemi di 2700 ospiti dei vari centri fiorentini, «La Nazione», 7 ottobre 1948.

Giunto alla guida della città quasi ottantenne, Gaetano Pieraccini fu chiamato a risolvere problemi di assoluta emergenza, con i quali nessun sindaco del capoluogo toscano si era mai dovuto misurare, come quel problema sorto a termine della guerra – ma che esisteva sia pure in misura ridotta dallo scoppio delle ostilità – dei profughi di guerra e dei sinistrati dai bombardamenti, che Firenze, al pari delle altre città italiane, si trovò ad accogliere, sistemare e sfamare. Fu un’emergenza abitativa che continuò per diversi anni e rappresentò uno dei problemi più drammatici dell’intera storia della città[5].

In città subito dopo la liberazione esistevano soprattutto due categorie di persone che dovevano essere assistite perché prive di vitto e alloggio: gli sfollati residenti in altri comuni d’Italia che avevano dovuto abbandonare la propria casa per la guerra e i sinistrati fiorentini a cui era stata distrutta o lesionata la propria abitazione. Molti di loro avevano trovato rifugio temporaneo in Palazzo Pitti e nell’adiacente Giardino di Boboli quando Firenze nella notte fra il 3 e il 4 agosto fu trasformata in un “teatro di paura e distruzione” da parte delle truppe tedesche in ritirata. Per rallentare l’avanzata degli alleati, che stavano risalendo la penisola, i tedeschi distrussero dietro di loro tutte le vie di comunicazione, compresi tutti i ponti ad eccezione del Ponte Vecchio.

A molti sinistrati successivamente fu trovata una sistemazione soprattutto nelle scuole dell’area fiorentina che velocemente furono adibite allo scopo, mentre molti altri sfollati trovarono rifugio soprattutto presso la caserma Cavani ex Genio di via della Scala, dove poterono rimanere fin quando non arrivarono migliaia di profughi provenienti da vari paesi, in particolar modo dalle ex colonie africane e dai territori esteri quali la Grecia, l’Albania e la Tunisia, che alla fine del ’45 si abbatterono come una valanga nel Centro stravolgendo quella già precaria sistemazione che avevano trovato gli sfollati ed i sinistrati fiorentini[6].

 

Archivio Storico del Comune di Firenze, Fondo Eca, Filza n. 7, Categoria IV, Inserto n. 22, Centro sinistrati e sfrattati, anno 1945 e seguenti.

 

Da quel momento in poi le Istituzioni si mobilitarono costantemente per trovare nuovi locali adatti ad accogliere tutti coloro che avevano bisogno di un tetto, soprattutto quando si sarebbe aggiunto quel nuovo flusso di esuli, provenienti dall’Istria e dalla Dalmazia, conseguente alla stipula del Trattato di Pace, del 10 febbraio 1947, che segnò una rinuncia definitiva alla sovranità italiana sui territori del confine orientale. Dal febbraio di quell’anno giunsero a Firenze, come in molte altre località della penisola, cittadini italiani, indotti ad abbandonare i luoghi nativi dal sentimento di appartenenza alla madrepatria, dalla politica persecutoria praticata dal regime titino nei confronti dell’elemento italiano, e in molti casi anche dal rifiuto di vivere sotto un regime comunista.

Firenze fu meta di un ampio flusso migratorio dal litorale adriatico e come nel resto d’Italia, l’esodo coinvolse esponenti di tutti i ceti sociali, «dal professionista e dal pubblico funzionario alla “sigaraia di Pola”, accomunati dal desiderio di tenere fede alla propria italianità anche a costo di abbandonare i loro beni»[7].

Come avvenuto per i territori della Venezia Giulia passati alla Jugoslavia, il Trattato di Parigi consentiva agli italiani residenti nel Dodecaneso la possibilità di esercitare il diritto di opzione. Iniziarono così i rimpatri di quanti avevano scelto la nazionalità italiana, e alcuni di essi, sbarcati a Bari, giunsero a Firenze e si sommarono ai “greci”, arrivati nel novembre del ’45, provenienti da Patrasso (la maggior parte), da Atene, Corfù e Salonicco.

I primi sintomi della gravità del problema si verificarono quando si cominciò a cercare i locali per sistemarli, in quanto quelli disponibili erano già tutti occupati dagli sfollati e dai sinistrati fiorentini. Furono individuati come edifici adatti ad ospitarli alcune scuole, alcune abitazioni private e soprattutto la caserma di via della Scala, la caserma Laugier, in via di Tripoli e il convento sconsacrato di Sant’Orsola in via Guelfa. Ma l’emergenza abitativa apparve presto evidente e le condizioni di questi italiani privati delle loro terre, delle loro case e dei loro beni dalla sconfitta militare si rivelarono drammatiche anche in un’epoca di privazioni generalizzate. Questi centri di raccolta rappresentavano una detenzione ingiusta e pesante per coloro che erano obbligati a subirla e al contempo costituivano un problema sociale per Firenze che doveva “sopportarli e in parte supportarli[8].

 

Archivio Storico del Comune di Firenze , Fondo ECA, Filza n. 7, Categoria IV, Atti e carteggio vario con l’ufficio provinciale per l’assistenza post-bellica, 1945 e seguenti.

 

I profughi giuliano-dalmati, appena arrivati alla stazione, ha raccontato la signora Liana Di Giorgi Sossi, esule da Pola[9], furono accolti da un signore che si era già stabilito a Firenze e sistemati nel fatiscente complesso dell’ex convento di Sant’Orsola, che accolse circa 580 istriani[10], nelle cui stanze vennero ricavati 272 ambienti familiari, senza il diritto ad un minimo di vita privata, con gli spazi riservati a ciascun nucleo familiare delimitati da semplici coperte appese ad un filo. Ma nonostante gli spazi ristretti e la promiscuità esistente erano riusciti a creare una sorta di Kibbutz con all’interno una scuola, uno studio medico, e addirittura avevano formato una squadra di pallavolo maschile e femminile e un’orchestra che si esibiva durante le feste. Liana Di Giorgi Sossi, allora bambina, in un’intervista ha raccontato alcuni episodi della sua infanzia:

Ricordo che, mentre stavo al campo ho fatto la prima comunione nella chiesa di Santa Reparata: è stato bello. Però noi lì eravamo isolati. Eravamo nel centro e uscivamo solo per andare a scuola oppure a lavorare[11].

 

Il Centro Raccolta Profughi di Via Guelfa, presso la ex Manifattura Tabacchi e, prima ancora, Monastero di Sant’Orsola. Fotografia di Elio Varutti.

 

Sant’Orsola, Firenze, Centro di accoglienza degli esuli istriani, fiumani e dalmati, Pasqua 1947 (archivio Liana Di Giorgi Sossi).

 

Firenze, CRP ex Manifattura Tabacchi, Comunione e Cresima, 15 giugno 1948.

 

Non tutti i profughi giuliano-dalmati passarono attraverso il Centro di Sant’Orsola, i più fortunati, che avevano trovato un lavoro, poterono contare sull’ospitalità di parenti o riuscirono ad ottenere un tetto dal Commissariato Alloggi, evitando così il passaggio dal campo profughi.

Una settantina di altri esuli adriatici invece trovarono posto nei locali di via della Pegola, che negli ultimi tempi erano stati utilizzati come magazzini dall’Università: «Il Genio civile, l’associazione degli industriali e il centro italiano femminile, hanno fatto il possibile per rendere abitabili e confortevoli i nuovi ambienti»[12]. Le 22 famiglie che compongono la piccola comunità hanno così trovato ospitalità in questa specie di “centro profughi”.

L’accoglienza che incontrarono gli esuli giuliano-dalmati ha rappresentato una brutta pagina della storia fiorentina, specie se paragonata all’atteggiamento molto più aperto di realtà locali spesso più povere, come la Sardegna, che ospitarono, con assai maggiore disponibilità i profughi. In molti casi pesò su di loro il pregiudizio che fossero “fascisti”:

C’era una gran malinconia, una tristezza diffusa nei nostri genitori, per il fatto di non essere accettati dagli altri, dai fiorentini, che ci consideravano fascisti e stranieri solo perché eravamo fuggiti da Pola. Per un periodo di tempo il controllo su di noi fu talmente forte che venne addirittura installato un corpo di guardia della Celere nella portineria e gli adulti dovevano esibire sempre un documento per entrare[13].

Solo a partire dalla metà degli anni Cinquanta i profughi scappati da Tito avrebbero raggiunto migliori condizioni di vita ottenendo l’assegnazione di case popolari di recente realizzazione, all’Isolotto, a Bellariva, in via Fanfani, o accedendo all’affitto di abitazioni realizzate nel 1953 per loro e per altri profughi nei complessi di via Niccolò da Tolentino (via delle Gore) e in via di Caciolle.

Non mancarono problemi anche per il rinserimento dei profughi provenienti dalle ex colonie africane e dall’Egitto che, pur non essendo una colonia italiana, aveva accolto, fin dall’Ottocento una folta e qualificata comunità di italiani, sessantaseimila all’inizio del secondo conflitto mondiale.

A Firenze arrivarono anche i rimpatriati provenienti dalla Tunisia e per loro venne requisito l’albergo Cavour in via del Proconsolo per alloggiarvi circa 220 profughi[14]. Un numero minore di “tunisini” trovò posto invece nel Centro profughi di via della Scala ormai quasi completamente occupato dai profughi “greci”.

Non riusciamo a ricavare un numero preciso di profughi che hanno alloggiato a Firenze, ci affidiamo a riguardo al quotidiano “La Nazione” che in data 12 dicembre 1945 riporta un numero di 2700 connazionali dall’estero alloggiati al Centro profughi di via della Scala e che sarebbe presto aumentato con l’arrivo di altri gruppi di profughi. Diventava così fondamentale per gli Enti incaricati di provvedere alla loro accoglienza organizzando nel migliore dei modi le strutture adibite allo scopo per “rendere l’ospitalità non uguale a quella dei lager![15]. E la città di Firenze, con un fragile apparato di emergenza, riunì tutte le forze per attrezzarsi al fine di offrire vitto e alloggio a questi sventurati diventando così un crocevia di razze, dialetti e lingue di tutto il mondo.

Nuovi ragguagli e chiarimenti sulle condizioni del centro profughi, «La Patria», 23 novembre 1945.

In questo movimento continuo di persone accadeva anche che il 23 novembre 1945 arrivasse a Firenze un treno carico di 700 profughi, di ignota provenienza e senza nessun preavviso né da Roma né da alcuna delle stazioni di transito. E neanche al ministero dell’Assistenza post-bellica sapevano dell’esistenza di questo treno in viaggio per Firenze… un vero treno fantasma. E mentre si cercava di correre ai ripari per trovare una sistemazione a queste persone, dalla stazione di Campo di Marte si annunciava l’arrivo di un altro treno: altri vagoni stracolmi di uomini donne e bambini che viaggiavano con il solo bagaglio della propria sofferenza, «senza neppure farli precedere da quell’avviso che si usava per le merci!»[16]. Fu avvisata dell’arrivo di questi treni la direzione del Centro profughi per provvedere all’accoglienza, ma in via della Scala tutti i locali disponibili erano già al completo. Lo sconforto e la rabbia di coloro che avevano viaggiato per giorni stipati all’interno di un vagone esplose quando, arrivati a destinazione, vennero a sapere che nessuno li aspettava, che lì non vi era posto per loro. Risolutivo fu l’intervento del direttore del Centro, che giunto alla stazione con gli addetti della mensa popolare ed un carico di buone pietanze alimentari, riuscì a calmare gli animi e convincerli ad accettare di rimettersi in viaggio verso Bologna (città da cui, di lì a poco, sarebbero tornati a Firenze!)[17].

Questo clima di caos e di incertezza, tipico di una situazione al collasso, era causato anche da difficoltà di comunicazione con gli organi centrali e dalla confusione creata dai movimenti degli eserciti insieme agli intralci provocati dagli organismi di controllo degli Alleati.

L’afflusso di profughi proseguì per tutto il 1945, soprattutto furono numerosi i rimpatri dalla Grecia (il nucleo più consistente di profughi a Firenze alloggiati nella ex caserma di via della Scala) che giunsero ininterrottamente per tutto il mese di novembre e l’inizio di dicembre, poi iniziò l’arrivo degli istriani che proseguì anche negli anni Cinquanta. Mentre il flusso di profughi “africani” nel capoluogo toscano si protrasse fino agli anni Settanta, quando, dopo il colpo di stato nel 1969 del colonnello Gheddafi, fu messa in atto la “cacciata” di tutti gli italiani dal territorio libico. Non solo, Gheddafi per appagare il suo sentimento di vendetta nei confronti dell’Italia, andò oltre ordinando la restituzione dei morti italiani che furono dissotterrati dai cimiteri e imbarcati sulle navi per tornare in patria.

 

NOTE:

[1] Enrico Nistri, La Firenze della Ricostruzione (1944-1957) dall’11 agosto all’anno dei tre ponti, Ibiskos, Empoli 2008, p. 56.

[2] Daniela Poli, Storie di quartiere. La vicenda Ina-Casa nel villaggio Isolotto a Firenze, Edizioni Polistampa, Firenze 2004.

[3] Cfr. Lelio Lagorio, Cronache di lotta socialista a Firenze, in Il socialismo a Firenze dalla Liberazione alla crisi dei partiti 1944-1994, a cura di Luigi Lotti, Polistampa, Firenze 2013, p. 119.

[4] E. Nistri, La Firenze della Ricostruzione (1944-1957), cit., p. 53.

[5] Negli anni ‘60, dopo la realizzazione di molti alloggi, erano ancora in attività 32 centri sfrattati con 779 famiglie alloggiate composte da 2696 persone, in Daniela Poli, Storie di quartiere, cit., p. 84.

[6] Il problema dei profughi in una nuova legge governativa. Un provvedimento che non potrà risolvere i problemi di 2700 ospiti dei vari centri fiorentini, «La Nazione», 7 ottobre 1948.

[7] E. Nistri, La Firenze della Ricostruzione, cit., p. 189.

[8] Elio Varruti, I diritti e le ortiche. Esuli dai campi profughi ai villaggi per rifugiati di firenze-1945-2009, https://eliovarutti.wordpress.com/2020/10/10/

[9] Intervista a Liana di Giorgi Sossi, in Daniela Tartaglia, Sant’Orsola. Fotografie da un monastero, Crowdbooks, 2019.

[10] Il Crp di Sant’Orsola operò dal 1945 al 1955 per i profughi istriani. Vi confluirono con le loro famiglie 580 dipendenti della manifattura tabacchi di Pola assegnate alla manifattura tabacchi di Firenze, che dall’Ottocento fino al 1941 aveva sede proprio a Sant’Orsola (Il Centro continuerà ad essere attivo fino alla fine degli anni Sessanta accogliendo sfrattati o senza tetto).

[11] Ibidem.

[12]Dopo le nostre segnalazioni. I profughi giuliani decentemente sistemati, «La Nazione», 13 marzo 1948.

[13] Intervista a Liana di Giorgi Sossi, in D. Tartaglia, Sant’Orsola, cit.

[14] Il problema dei profughi in una nuova legge governativa, «La Nazione», 7 ottobre 1948.

[15] E. Miletto, In fuga. Assistenza e accoglienza degli italiani di Grecia in Piemonte, in Convegno internazionale “Grecia e Italia 1821-2021: due secoli di storie condivise, Atene 2023, p.716.

[16] Nuovi ragguagli e chiarimenti sulle condizioni del centro profughi, «La Patria», 23 novembre 1945.

[17] Ibidem.

 

Articolo pubblicato nel marzo 2025.




Cattolici e RSI in Toscana (1943-1944)

Il rapporto tra Chiesa cattolica e fascismo è oggetto di una lunga stagione di studi che, culminata nella monografia di L. Ceci (L’interesse superiore, 2013), ha gettato luce sui momenti, i protagonisti e i caratteri essenziali di quella relazione; ciò detto, perfino a ottant’anni dalla Liberazione le conoscenze restano a tratti lacunose.

Uno dei problemi principali concerne quella parte – esigua sul piano numerico ma assai attiva, rumorosa e influente – del laicato e soprattutto del clero che, lungi dal limitarsi all’obbedienza nei confronti delle autorità civili, militari e religiose, aderì con entusiasmo alla RSI. Alcuni esempi sono noti: pensiamo ai cappellani militari, oggetto di un volume fondamentale di M. Franzinelli (1991); oppure a quanti animarono periodici come «Italia e civiltà» (Firenze), «L’Italia cattolica» (Venezia) e soprattutto «Crociata italica» (Cremona), diretta da don Tullio Calcagno e studiata già negli anni Settanta da A. Dordoni. Nel complesso, però, la storiografia, inclusa quella di matrice cattolica, ha mostrato un interesse assai limitato e i contorni del gruppo restano vaghi, rendendo opportune indagini più approfondite.

Per quanto concerne l’area toscana, teatro di episodi tra i più violenti e drammatici della guerra di Liberazione, il caso più eclatante ebbe per protagonista il vescovo di Massa C.A. Terzi, che dopo la Liberazione fu accusato di acquiescenza eccessiva ai tedeschi e finì – unico nell’episcopato italiano – per dimettersi. Che dire però di altri attori, scivolati in parte o del tutto nell’oblio? Al fine di evidenziare il carattere trasversale del consenso alla RSI, capace di interessare le diverse componenti della compagine ecclesiale, questo intervento si soffermerà brevemente su quattro figure di diversa natura: un cappellano militare, un delatore, un parroco di campagna e un intellettuale.

Il cappellano militare

Originario di Bologna, Sergio Baccolini (1913-1997) entrò nell’ordine benedettino vallombrosano con il nome di Gregorio. La notizia della belligeranza lo colse a Roma, nel monastero di S. Prassede, da dove – animato da fervente patriottismo e da profonda ammirazione nei confronti del Duce e del Führer – chiese invano di essere nominato cappellano militare. Trasferito a Pescia e quindi a Firenze, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 funse da collegamento tra le SS e la famigerata Banda Carità e quindi, nell’aprile 1944, ottenne l’agognata nomina a cappellano. Forte della nuova posizione, Baccolini avviò un’intensa opera propagandistica sui fogli della RSI, culminata in un violentissimo articolo contro i chierici “traditori” apparso nel giugno 1944 su «Repubblica» (l’organo del Partito fascista repubblicano a Firenze). All’inizio del luglio 1944, quando la battaglia per la liberazione della città era ormai imminente, l’autore fu assegnato alla Polizia repubblicana di Toscolano Maderno (Brescia), dove continuò a dispiegare lo zelo politico abituale, collaborando con i fogli farinacciani «Crociata italica» e «Il Regime fascista» e riuscendo a farsi ricevere da Mussolini. Baccolini rimase nelle fila della Polizia repubblicana fino alla fine del gennaio 1945, quando a seguito di una denuncia anonima rassegnò le dimissioni da cappellano. La sua vicenda durante gli ultimi, concitatissimi mesi di guerra resta poco chiara; certo è che dopo l’insurrezione generale fu arrestato e internato nel campo di Bresso (Milano), da dove fu liberato nel 1946 grazie anche all’intervento del cardinale-arcivescovo di Milano A.I. Schuster. Sospeso a divinis ed espulso dall’ordine, visse a Milano, aderì alla massoneria e in seguito si convertì all’ortodossia, contribuendo alla realizzazione del primo viaggio di La Pira in URSS (1959). Dopo una serie di spostamenti si stabilì infine a Torino, divenendo una figura di riferimento per la comunità ortodossa locale e nazionale. Nel 1984, a Lisbona, fu consacrato vescovo del capoluogo piemontese dal metropolita Gabriele, della Chiesa ortodossa autonoma del Portogallo, e mantenne l’incarico fino alla morte.

Il delatore

Un altro esponente dell’ordine vallombrosano a Firenze fu il romano Epaminonda Troya, in religione Ildefonso (1915-1984). Da vicario cooperatore della parrocchia di S. Trinita, collaborò per un breve periodo con gli azionisti fiorentini ma nel novembre 1943 fu arrestato dalla Banda Carità e decise di passare dalla parte dei fascisti. La sua carriera di delatore e “confessore” al servizio della Banda Carità fu breve ma le sue azioni restarono impresse nella memoria delle vittime, turbate dalla freddezza, dal sadismo e dal cinismo del frate. Pienamente soddisfatte, nel gennaio 1944 le autorità fasciste gli consentirono di operare a Roma, dove il mese successivo il religioso svolse un ruolo essenziale nell’irruzione della Banda Koch nell’abbazia benedettina di San Paolo fuori le mura, rifugio di decine di ebrei e antifascisti. Sospeso a divinis dai superiori, egli si recò a Milano e quindi a Cremona, con l’incarico di spiare Farinacci e il suo entourage per conto del ministro degli Interni Buffarini Guidi. La missione ebbe successo, al punto che Troya pubblicò su «Crociata italica» diversi articoli in cui difendeva apertamente la delazione come strumento legittimo di lotta politica e religiosa da parte di chierici e laici. Benché screditato agli occhi della S. Sede, egli sfruttò la confusione generale e i contrasti ai vertici dell’Ordinariato militare per divenire, nonostante la sospensione a divinis, tenente cappellano della GNR prima a Trieste (dove ebbe diversi scontri con il vescovo A. Santin) e quindi a Verona. Al termine delle ostilità fu arrestato, processato e condannato insieme ai superstiti della Banda Koch, restando in carcere fino al maggio 1953. Il carcere non ne mutò le idee, come attestano le lettere di protesta scritte ancor dopo la liberazione per protestare contro l’iscrizione al Casellario politico centrale. Dopo il 1962, le tracce dell’ex delatore si perdono: sappiamo solo che visse nel paese natale, in provincia di Roma, e che poco prima di morire fu riammesso al sacerdozio.

Il parroco di campagna

Uomo di pensiero più che d’azione, il parroco della chiesa di S. Lucia a Terzano (una frazione di Bagno a Ripoli) Leone Frosali (1892-1972) è una figura diversa e decisamente meno nota rispetto a Baccolini e Troya. La mancanza di documenti impedisce di gettare luce sulla sua condotta tra l’entrata in guerra dell’Italia e l’armistizio di Cassibile; dopo l’8 settembre, però, egli aderì con convinzione alla repubblica di Mussolini, destando una certa sorpresa tra la popolazione. Tale adesione prese la forma di un’intensa campagna giornalistica, che lo portò a divenire una firma familiare ai lettori di «Repubblica» e «Crociata italica». Nei suoi scritti si ritrovano i capisaldi del discorso portato avanti dall’area ecclesiale incarnata da don T. Calcagno: l’opposizione irriducibile a ebrei, comunisti, protestanti, massoni e “traditori”; lo sprezzo per l’ignavia della maggioranza del clero; il connubio tra fede e patria; la lettura del conflitto in termini apocalittici, come una lotta tra bene e male; e naturalmente la netta scelta di campo in favore della RSI. A colpire è soprattutto la polemica nemmeno tanto implicita con il cardinale-arcivescovo di Firenze E. Dalla Costa, che sul piano pubblico si fece promotore di riconciliazione e su quello riservato si impegnò a fondo nel soccorso agli ebrei perseguitati. Pur senza nominarlo, infatti, Frosali rigettò come insufficienti se non ambigui gli appelli alla concordia lanciati dall’episcopato, stigmatizzando l’anglofilia di larga parte del clero italiano e spingendo tutti a cooperare al successo dell’Asse. La curia vescovile tollerò queste dichiarazioni fino all’aprile 1944, quando (anche per scongiurare ritorsioni partigiane) sollevò Frosali dall’incarico e in seguito gli impedì di pubblicare alcunché senza l’esplicita approvazione dei superiori. Il sacerdote, che nell’ultimo articolo aveva esortato la GNR a incidere il «bubbone cancrenoso» della Resistenza, si dovette rassegnare. A questo punto, le sue tracce si perdono quasi del tutto. Non pare che egli sia stato processato per il sostegno alla RSI, ma esigenze di sicurezza personale indussero i superiori ad allontanarlo dalla regione. Ancora nel 1959, infatti, Frosali era cappellano presso l’ospedale-ricovero “Anacleto Bonora” di S. Pietro in Casale (Bologna). Tornò in Toscana solo più tardi per essere ricoverato presso la Casa cardinale Maffi a Cecina (Pisa) e morì a Firenze.

L’intellettuale

Rampollo di una famiglia nobile e benestante di origine veneta, il fiorentino Antonio Marzotto Caotorta (1917-2011) si laureò in Giurisprudenza e combatté con gli Alpini sul fronte greco, restando gravemente ferito e ottenendo una medaglia d’argento al v.m. Congedato dal R. Esercito in quanto mutilato di guerra, tornò all’Università, militando nelle fila dei GUF e laureandosi in Scienze politiche nel 1942. Il profilo intellettuale lo portò a concentrarsi anzitutto sulla scrittura di articoli che, apparsi principalmente sugli organi dei GUF di Forlì («Pattuglia») e Firenze («Rivoluzione»), spiegavano come i principi corporativi avrebbero strutturato la comunità nazionale e internazionale dopo la vittoria dell’Asse. All’indomani dell’8 settembre, egli scelse la RSI, pubblicando una serie di articoli su «Italia e civiltà» – la rivista fiorentina fondata e diretta da Barna Occhini che, sia pure con toni meno virulenti e un taglio più intellettuale rispetto a «Crociata italica», prese nettamente le distanze dalla monarchia sabauda. Qui Marzotto continuò a sviluppare le sue riflessioni sul corporativismo, confermando di ritenerlo uno dei portati essenziali del fascismo. Rispetto al passato, però, il suo discorso si allargò alla difesa del papa e del cattolicesimo da posizioni non solo conservatrici ma intransigenti, rivelate da cenni a De Maistre e soprattutto alla catena degli errori moderni (Riforma protestante, illuminismo, Rivoluzione francese, ecc.) che avrebbero portato all’apostasia del mondo contemporaneo. Alla fine del conflitto, Marzotto non subì arresti né processi ma il clima politico-culturale della Firenze del dopoguerra lo indusse a tenere un profilo basso e a concentrarsi sulla ditta di famiglia fino alla fine degli anni Cinquanta, quando si trasferì a Milano per occuparsi del servizio personale di aziende come la Compagnia generale di elettricità o la Finanziaria Ernesto Breda. Nel capoluogo lombardo egli intraprese una carriera pubblica di grande successo, che lo portò a divenire, tra le altre cose, presidente nazionale di Federtrasporti (1968-1992) e deputato nelle fila della DC (1972-1983). Negli ultimi anni della sua vita tornò a dedicarsi alla scrittura, pubblicando diversi volumi. Morì a Milano in età molto avanzata.

 

Giovanni Cavagnini si è addottorato alla Scuola normale superiore di Pisa e all’École pratique des hautes études di Parigi, ed è attualmente assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Economia e finanza dell’Università di Roma Tor Vergata ed è tra i collaboratori della Biblioteca F. Serantini. I suoi lavori si sono concentrati sul cattolicesimo europeo, la Grande guerra, il colonialismo e, più recentemente, la storia della fisica nel Novecento. 

Articolo pubblicato nel gennaio 2025.




La Resistenza in Valtiberina

La Valtiberina è una zona geografica soprattutto appenninica, soggetta alla provincia aretina, che si estende nella Toscana orientale comprendendo grosso modo l’alta valle del Tevere. L’intera area fu coinvolta nella primavera/estate del 1944 in quel fronte divisorio tra Ancona e Livorno, linea di scontro tra l’esercito anglo-americano che risaliva la penisola e le truppe tedesche costrette alla ritirata. In quella zona i nazisti appoggiati dai fascisti scorrazzavano per lungo e per largo prestandosi però all’insidia clandestina delle formazioni partigiane e conseguentemente mettendo in atto feroci rappresaglie e deportazioni delle popolazioni locali. Ma è proprio sui componenti di queste popolazioni, prevalentemente contadini – in tutta l’area il sostentamento e l’attività lavorativa si fondavano direttamente sulla terra – che la Resistenza ha potuto appoggiarsi per proseguire e portare a termine la Liberazione. Già dalla sera stessa dell’8 settembre, il primo e spontaneo atto di resistenza passiva, ma sostanziale, al tedesco che gettò le premesse dell’azione armata, fu l’assistenza agli sbandati dell’esercito, agli ex prigionieri alleati, agli ebrei, ai politici ricercati dalla polizia ed ai renitenti alla leva. Da quel giorno il ruolo svolto dal mondo contadino durante la Resistenza è stato determinante fino al punto che “…se i contadini non le fossero stati favorevoli, partecipandovi anche attivamente in gran numero, la Resistenza sarebbe stata impossibile[1].

Quando i tedeschi imposero la denuncia e la consegna degli ex prigionieri e l’iscrizione degli sbandati negli uffici comunali per il loro eventuale richiamo, automaticamente costrinsero tutti gli abitanti della campagna, nessun ceto escluso, a schierarsi o con i nazifascisti o contro di essi a favore dei perseguitati. La stragrande maggioranza scelse la seconda soluzione, preparando alla nascente resistenza politica e armata un territorio particolarmente favorevole.

Il Casentino e la Valtiberina come altre zone rurali della Toscana si trasformarono in un grande centro di raccolta, assistenza e transito di decine di migliaia di individui. Fu un’azione che coinvolse tanto i privati quanto il movimento resistenziale organizzato, con l’aiuto di diversi diplomatici stranieri che operavano per conto degli alleati e l’appoggio in denaro e mezzi fornito dal clero. Naturalmente il lavoro di assistenza ai prigionieri alleati e agli sbandati non passò inosservato ai tedeschi e ai collaborazionisti fascisti che fin dal 16 settembre intimarono: “Tutti i prigionieri di guerra dovranno consegnarsi al Comando tedesco… coloro che continueranno a dargli vitto e alloggio… saranno puniti secondo la legge tedesca[2]. Anche il capo della provincia di Arezzo, pensando di far leva su quello che riteneva l’anello più debole, ossia i proprietari terrieri, decretava “il sequestro della proprietà a chi dà ospitalità ad ex prigionieri e sbandati[3]. Ma entrambe le azioni intimidatorie non riuscirono a rompere quel fronte solidale che si era creato attorno alla Resistenza. L’importanza del contributo del mondo contadino alla lotta contro i nazifascisti era già stato manifestato dal “Fronte per la Liberazione Nazionale” di Firenze, futuro CTLN, con un volantino nel settembre del ‘43 quando elogiava i contadini per l’aiuto prestato agli sbandati dell’esercito e ai prigionieri alleati e li incitava a continuare nella lotta, invitandoli, al momento del raccolto, ad evadere gli ammassi per sottrarre il grano ai tedeschi e dare l’aiuto alle formazioni partigiane.

Ma la Resistenza in Valtiberina oltre al contributo di sostanza dato dunque dal mondo contadino, ha potuto contare anche sul forte sostegno della Chiesa caratterizzando la lotta per la Liberazione, in questa zona forse più che in altre, con uno sfondo prevalentemente cattolico. Si deve tener presente, infatti, che in questa vallata il parroco, nel tempo, per una complessità di cause, aveva finito per rappresentare in genere più che altrove l’incontrastata guida della sua gente: consigliere e confessore, uomo di fiducia e punto di riferimento in ogni occasione. In pratica la parrocchia diventava onnicomprensiva, luogo di culto, di riunione e di divertimento, era centro religioso, sociale e non ultimo luogo di istruzione scolastica. Infatti la Valtiberina, incastonata nell’Appennino, presentava diversi nuclei frazionali dispersi fra le montagne e molto disagevoli a raggiungere, cosicché l’istruzione scolastica negli anni era stata lasciata al clero, ed anche il fascismo dopo i Patti Lateranensi col suo programma di alfabetizzazione aveva preferito costituire le “scuole sussidiate” continuando ad affidarle ai parroci. In questo modo al clero montanaro di questa diocesi veniva affidato più dei due terzi dell’insegnamento elementare. Ogni parrocchia aveva la sua scuola dislocata nei locali della canonica, che dipendeva dal Provveditore agli Studi della Provincia, in cui si svolgevano gli stessi programmi, almeno teoricamente, delle elementari comunali[4]. Questo aspetto, non trascurabile, dell’istruzione scolastica lasciato nelle mani della Chiesa si sarebbe poi fatto sentire  più che mai durante la Resistenza tra quei giovani usciti dalle aule parrocchiali, soprattutto perché questi ragazzi, abitanti nella vallata, venivano consegnati all’istruzione scolastica impartita il più delle volte da preti con idee innovative, progressiste che per lo più erano stati inviati nelle zone più disagiate come in una sorta di confino, un po’ simile a ciò che avverrà poi negli anni Cinquanta con don Milani. Nelle diocesi di questo Appennino toscano, per esempio, avevano trovato rifugio vari sacerdoti romagnoli già aderenti alla prima Democrazia Cristiana murriana[5] come don Zanzi (parroco a Usciano) e don Savini (parroco a Palazzo del Pero), o come don Sante Tampieri e don Edoardo Cotignoli nel Montefeltro, o infine come Francesco Mari nella zona di Città di Castello. Anche se non vi era una posizione omogenea concordata preventivamente, perché entravano in gioco temperamenti individuali e altri fattori soggettivi, è possibile riscontrare nei sacerdoti della provincia d’Arezzo un orientamento abbastanza generalizzato e costante verso i valori democratici e di giustizia sociale a giudicare dall’alto prezzo di sangue pagato nei giorni della Resistenza, dove furono ventiquattro le vittime del mondo clericale cadute sotto i colpi dei nazifascisti[6]. Significativo anche il modo: in genere per essersi offerti quali ostaggi volontari per liberare la propria gente come don Fondelli a Meleto o don Lazzeri a Civitella di Chiana o indiscriminatamente rastrellati con la popolazione da cui non intendevano dissociarsi. E i nazifascisti quando se la prendevano con il clero parrocchiale dell’Appennino dimostravano di conoscere molto bene il ruolo dei parroci in queste zone, considerando la loro opera svolta, almeno all’inizio dell’offensiva, la principale se non l’unica guida dell’opposizione. Esisteva un forte legame, espressione di un tessuto comunitario compatto, fra la popolazione e il parroco che si era consolidato negli anni dalla comune convivenza, dalla scuola, dalla partecipazione nelle attività sociali, un legame che proprio nei mesi della Resistenza risultava non necessariamente e solo religioso ma andava oltre fino al punto che spesso era lo stesso parroco ad avvallare le decisioni collettive per l’appoggio alla lotta partigiana. In questa zona nei mesi dopo l’Armistizio del ’43 il parroco interpretava la comunità scegliendo il campo della lotta e implicitamente la comunità lo delegava in ciò a rappresentarla. Ed è per l’appunto questa presenza attiva del clero parrocchiale che va considerata come un fattore essenziale che spiega e qualifica la partecipazione collettiva della popolazione contadina nella Valtiberina in chiave cattolica nella lotta per la liberazione. Inoltre dobbiamo considerare che la diocesi aretina era guidata da Monsignor Emanuele Mignone, l’unico vescovo che in Toscana si era apertamente dichiarato antifascista contravvenendo in parte all’orientamento dettato dal cardinale Elia Dalla Costa, la più alta autorità religiosa toscana, che prevedeva “di rendersi estranei ad ogni competizione politica”, e di fatto obbedienza alla legittima autorità, cooperazione nella tutela dell’ordine pubblico e quindi legittimazione del fascismo…ma con neutralità[7]. Dopo l’8 settembre il Vescovo Mignone si attivò immediatamente nella lotta contro il nazifascismo cooperando con gli oppositori politici ed entrando in contatto con le formazioni partigiane, caso unico nell’alto clero toscano che volutamente ignorava il CTLN e i partigiani perché nutriva fortissime preoccupazioni per l’adesione del popolo all’ideologia comunista. Non è privo di significato, infatti, che il Vescovo Mignone sia stato proclamato cittadino onorario dal CTLN all’indomani della Liberazione, e può essere indicativo anche il fatto che nella diocesi aretina non ci sia stato un solo caso di cappellano militare della Repubblica Sociale Italiana. E non altrimenti si spiega la presenza dei parroci nei Comitati Nazionali di Liberazione (organismi nati dopo l’8 settembre e prima dei CNL) e poi nei Comitati provinciali di liberazione, né si comprenderebbe come il primo nucleo resistente nella zona di Anghiari fosse stato organizzato dal prevosto mons. Nilo Conti. Nella provincia aretina, dunque, un contributo essenziale e determinante, al pari di quello offerto dal mondo contadino, è stato dato dalla Chiesa coinvolgendo nella Resistenza sia i parroci che le cariche ecclesiastiche più alte della diocesi. Così la stragrande maggioranza del clero che prese posizione lo fece quindi a favore della Resistenza politica e spesso non esitò a entrare in quella armata.

 

NOTE:

[1] Lorenzo Bedeschi, La Resistenza in Valtiberina in La Resistenza dei cattolici sulla Linea Gotica, (a cura di) Silvio Tramontin, Edizioni cooperativa culturale “Giorgio La Pira”, Sansepolcro 1983, p. 158.

[2] Iris Origo, Guerra in Valdorcia, Vallecchi, Firenze 1968, pp. 65-67.

[3] Da un manifesto affisso nella Provincia di Arezzo in Libertario Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino. Dalle origini del movimento alla Repubblica: 1900-1946, Contributo per il convegno “Mondo Contadino e Resistenza” Foiano della Chiana, 15 marzo 1975, p. 72.

[4] L. Bedeschi, La Resistenza in Valtiberina, cit., p. 159.

[5] Prende il nome da Romolo Murri, presbitero e politico italiano, tra i fondatori del cristianesimo sociale in Italia, propugnatore di un maggior impegno  politico dei cattolici, agì come voce critica nei confronti del conservatorismo delle gerarchie ecclesiastiche, cercando una conciliazione tra socialismo e dottrina sociale della Chiesa. Egli subì la sospensione a divinis nel 1907 e la scomunica nel 1909, revocata poi nel 1943. Cfr. Giampiero Cappelli, Romolo Murri: contributo per una biografia, Edizioni 5 lune, Roma 1965.

[6] Ivi, p. 160.

[7] L. Guerrini, La Resistenza e il mondo contadino, cit., p. 78.

 

Questo articolo è stato realizzato grazie al contributo del Consiglio regionale della Toscana nell’ambito del progetto per l’80° anniversario della Resistenza promosso e realizzato dall’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea.

Articolo pubblicato nel mese di novembre 2024.