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La rivoluzione non è che un sentimento. Venti interviste a vent’anni dal G8 di Genova, presentazione a Pisa del libro a cura di Archivi della Resistenza

Presso la stazione Leopolda di Pisa, giovedì 16 Settembre alle 17 si è svolta la presentazione del libro La rivoluzione non è che un sentimento. Venti interviste a vent’anni dal G8 di Genova, a cura di Archivi della Resistenza, uscito per la collana Verba manent, racconti di vita e storia orale, diretta da Alessio Giannanti e Filippo Colombara -di cui è il terzo volume- con bellissima illustrazione in copertina di Sofia Figliè. Dal libro è stato tratto lo spettacolo teatrale, tenutosi il medesimo giorno alle ore 21,  Venti da Genova, messo in scena da Teatro dell’Assedio (regia di Michelangelo Ricci, con Alessio Lega e Davide Giromini, sonorizzazioni Rocco Marchi) canto teatrale per coro, due guardie e un clown.  Questo spettacolo di teatro-canzone trae ispirazione anche dalle testimonianze, quelle di Michelangelo Ricci, il cineoperatore che riprende la morte di Carlo Giuliani (alla presentazione egli definisce i fatti di Genova “un tentativo maldestro di colpo di stato”) e Alessio Lega, cantautore anarchico, poi diventato la “voce cantante” dei tragici eventi del G8, che paragona Genova 2001 al Cile 1973, ricordando i rivoli di sangue per le strade quando i poliziotti lavavano i manganelli. D’altro canto a Bolzaneto gli aguzzini cantavano “uno, due, tre viva Pinochet, quattro, cinque, sei morte agli ebrei, sette, otto, nove il negretto non commuove”.

Pur essendo il libro e lo spettacolo due oggetti culturali autonomi, sono in realtà fortemente intrecciati.

I curatori hanno indagato, insieme alla cronaca di quei giorni, le istanze politiche del movimento, le violenze di piazza, la repressione e la lunga ed estenuante ricerca di verità e giustizia. Non si sono però fermati alla sola dimensione fattuale, ma sono risaliti fino alle ragioni ideali, ai sentimenti e alle storie di vita che stanno dietro a quella moltitudine di uomini e donne, di diverse generazioni, provenienze e sensibiltà, che manifestò a Genova, nella comune convinzione che «un altro mondo è possibile». Giuseppe Lo Castro, docente di letteratura italiana all’Università di Cosenza, che modera la presentazione del libro definisce Genova “la più grande aggregazione dal dopoguerra . In tutto il mondo hanno aderito oltre 900 associazioni. Questo dà l’idea anche di quella che era diventata una presenza pulviscolare di persone che credevano che “un altro mondo è possibile”. È stato il primo movimento internazionale che si contrapponeva a un potere Global, da Seattle nel 1999, a Napoli nel marzo 2001, a Genova nel luglio di quello stesso anno. Il movimento portava avanti un nuovo lessico, un nuovo linguaggio, un nuovo modo di elaborazione politica”. “A Genova il sistema si scuote, si aprono certe fessure, si incontrano persone che non si sarebbero potute trovare” aggiunge il Professor Prosperi.

Simona Mussini, una delle curatrici, così descrive il libro: “è una raccolta di microstorie che ci aiutano a capire la macrostoria. È un documento di resistenza ai fascismi. È un libro collettivo, fatto da più mani e da più teste, anche quelle di chi nel 2001 nasceva, non solo dei soci fondatori del collettivo Archivi della Resistenza. È un tentativo di rappresentare l’ampiezza del movimento di Genova, non un racconto puntuale e preciso dell’evento, ma la narrazione di scorcio di un evento collettivo dal punto di vista del singolo. Per questo è un libro composito”. Alessio Giannanti, l’altro curatore, spiega la genesi del libro: “è frutto di tre-quattro mesi di videointerviste. Abbiamo cercato di ricreare i colori, gli odori (sangue e cordite), i rumori (manganelli e elicotteri) di Genova, tentando di evitare la retorica del vittimismo, del reducismo” . Il titolo del libro- spiega- è una citazione di Pasolini. Il Professore emerito  Adriano Prosperi, intervenendo alla presentazione, si è chiesto “la rivoluzione è solo sentimento? Marx dissentirebbe, lui che ha detto: la rivoluzione non è un pranzo di gala. Invece sì, la rivoluzione è il sentimento che questo mondo non va bene!”.

Il libro è frutto di una campagna di interviste sul movimento No Global e, in particolare, sulle manifestazioni di Genova del luglio 2001. La scelta dei testimoni non è casuale, ma è stata indirizzata dalla volontà di avere un gruppo il più possibile rappresentativo delle varie tipologie di manifestanti e delle culture politiche in campo: portavoci di associazioni e militanti dei centri sociali, anarchici e pacifisti, giornalisti e scrittori, mediattivisti e video-operatori, legali e infermieri, studenti e giovani dei centri sociali, religiosi, uomini e donne processati, vittime dei pestaggi, delle torture, dei diritti violati.  Per la stessa esigenza, la campagna delle interviste ha coinvolto deliberatamente sia personaggi più o meno famosi, sia attivisti comuni, che mai prima di oggi avevano raccontato quelle esperienze in pubblico. Le interviste non seguono una struttura fissa o una narrazione limitata alla cronaca dei tre giorni, poiché è stato adottato un baricentro variabile per ogni storia, ora più sbilanciato sull’infanzia e le pregresse esperienze politiche, ora più spostato sulla ricostruzione del prosieguo politico e dell’impegno attuale. Genova ha rappresentato per tutti gli intervistati un giro di boa nei propri sentimenti politici, c’è per tutti loro, un prima e un dopo Genova, una specie di perdita dell’innocenza, la fine di una lunga adolescenza politica.

Così dice Alessio Lega alla presentazione: “sono andato a Genova perché ero un militante ed un cantautore. Ne sono uscito diventando un’altra cosa, più antica, un cantastorie.  Ho voluto riflettere sul tema del potere, ricostruire quella avventura del dolore, attraverso un racconto in musica”.

Le ragioni sono evidenti: i fatti del G8 con il loro portato di delusione e ingiustizia rappresentano per molti un trauma che ha spesso i connotati della sconfitta, se non dell’annichilimento. E hanno segnato la fine di un sogno, quello di un fiero movimento pacifista ed ecologista che diceva “no” alla concentrazione delle risorse nelle mani di un ristretto gruppo di potenti neoliberisti. “La repressione ha dato inizio ad una delega delle libertà democratiche nei confronti dei grandi poteri economici globali”, interviene il Professor Lo Castro, anche lui presente a Genova in quei tre drammatici giorni. Il Professor  Prosperi ha parole vibranti contro la violenta repressione da parte delle forze dell’ordine condotta e guidata da esponenti di governo: “Il potere ebbe paura di questo movimento che affermava che un altro mondo è possibile, tanto da organizzare una repressione rimasta impunita con la scusa che in Italia non esisteva il reato di tortura”.

Ciò che colpì di più Michelangelo Ricci, testimone intervenuto alla presentazione, è che “il potere è riuscito in una costruzione del terrore organizzata, mettendo una città sotto assedio, carcerandola, creando una serie di imbottigliamenti e trappole. Tutto si filmava, tutto si vedeva in un gioco di specchi. Non un pestaggio segreto, come accade ancora nelle questure, ma un pestaggio in diretta. Eppure di fronte a tutta quella violenza non è successo niente”.

Eppure questo libro cerca di dimostrare che la storia non può finire e che lo spirito di Genova attraversa carsicamente il tempo per poter riemergere, oggi o domani, in ogni nuovo anelito di speranza, nella tenace volontà di trasformare lo stato presente delle cose.

Ciccio Auletta, all’epoca leader del movimento studentesco pisano, altro testimone intervenuto alla presentazione, ha ancora qualche parola di fiducia e celebra lo slancio di quei giorni, parlandone al presente e non al passato: “Genova è frutto di un percorso e di un’esperienza collettivi. Genova è tante cose in contemporanea (migranti, piazze , biotecnologie, brevetti, questione contadina), Genova è carsica, Genova è comunicazione (ad esempio la creazione di radio gap), Genova è espressione della dicotomia tra conflitto e consenso. Lo spirito di Genova è stare nelle piazze, mettere insieme esperienze e intelligenze”.

Il libro si interroga su cosa oggi si può ancora imparare dai fatti del G8, da questa educazione genovese che ha folgorato diverse generazioni di idealisti. Da allora sono passati vent’anni, che sono in realtà pochi ma sembrano un’enormità per come il mondo è cambiato nel frattempo. È venuto forse il momento di fare dei bilanci e continuare a raccontare quanto è successo a chi non era presente allora e a chi non era ancora nato. Per tutti questi motivi, La rivoluzione non è che un sentimento vuole essere sia un atto di denuncia nei confronti di quanto accaduto, sia un libro di progetto, rivolto al futuro e alle nuove generazioni, perché tra le righe di questi racconti si può leggere la storia sentimentale e politica dei nostri ultimi vent’anni.




La presentazione pisana del libro “I partigiani della Wehrmacht”.

Presso la Domus mazziniana, a Pisa, martedì 6 settembre alle ore 18, si è tenuta la presentazione del libro I partigiani della Wehrmacht. Disertori tedeschi nella Resistenza italiana, a cura di Mirco Carrattieri e Iara Meloni, Piacenza, Le piccole pagine, 2021, alla presenza dei curatori.

 Il libro è una raccolta di saggi, frutto di un lavoro collettivo di 16 ricercatori fra Italia e Germania, che hanno ricostruito tredici storie di diserzione individuale o collettiva: uomini che si unirono ai partigiani per convinzione, per stanchezza o per reazione alle stragi commesse dai nazisti.

L’iniziativa si svolge sotto il patrocinio di Domus Mazziniana, ANPI, Istituto per la Storia della Resistenza e l’Età Contemporanea di Lucca e Istituto Nazionale Ferruccio Parri.

Introduce l’evento Pietro Finelli, Direttore della Domus mazziniana, che presenta il libro, sottolineando già come il titolo sembri quasi un ossimoro. Bruno Possenti, in rappresentanza dell’ANPI, evidenzia come l’argomento trattato sia una pagina poco conosciuta della storia della seconda guerra mondiale ed un tema ancora poco discusso: “se pensiamo ai partigiani ci vengono in mente quelli delle bande”.

Francesco Fusi, collaboratore dell’ISRT, sottolinea che “il libro raccoglie la sensibilità di una tradizione storiografica recente, mettendo in luce come la Resistenza in Italia non fu un fenomeno esclusivamente nazionale”.

Modera il pomeriggio di studio Andrea Ventura, direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Lucca, il quale ricorda che la bibliografia sui soldati tedeschi che scelgono di combattere per la libertà dell’Italia è scarsa e anche nella letteratura e nel cinema i tedeschi sono rappresentati come i “cattivi” per antonomasia, come il “nemico assoluto”. Chiede poi alla curatrice Iara Meloni chi fossero i partigiani della Wehrmacht. “È difficile tracciare un quadro generale, perché chi diserta non vuole lasciare traccia. Su un milione di soldati tedeschi in Italia circa 10000 subiscono processi per diserzione e di questi circa 1000 si uniscono ai partigiani, alcuni perché già prima di partire per la campagna di Italia avevano maturato posizioni antinaziste, altri per motivazioni religiose, altri ancora perché stanchi della vita militare, qualcuno anche perché aveva conosciuto una donna e voleva trascorrere una vita in pace con lei”. “Quasi nessuno di loro ha ottenuto onorificenze e attestati da partigiano, vuoi per la difficoltà, anche linguistica, della procedura per ottenerla, vuoi perché, una volta tornati in patria, non volevano mettere in luce la loro militanza con il nemico. Così la maggior parte dei Tedeschi che aveva scelto di fare il partigiano han chiuso le sue memorie nel cassetto, e sono solo i figli che le hanno tirate fuori”. “Chi di loro, tornato in patria ha parlato della esperienza partigiana, ha ammesso che essa sia stata importante e fondante per la propria vita successiva. Molti dei disertori tedeschi sono infatti rimasti in Italia e tanti vi sono morti.

La parola passa poi a Martina Mengoni, autrice di uno dei saggi, in cui è ricostruita la vicenda biografica di Heinz Riedt che è partigiano a Padova con la brigata trentina, noto in Italia perché ha curato la traduzione in tedesco nel 1959 di Se questo è un uomo, per la casa editrice Fischer di Francoforte. Lungo e ricco è il suo carteggio con Primo Levi. I documenti della sua storia partigiana sono stati causalmente rinvenuti in biblioteca a Padova. Riedt, di padre tedesco e madre francese, vive l’infanzia in Italia come figlio di un diplomatico tedesco. Tornato in Baviera nel 1939, viene arruolato dalla Wehrmacht e lavora in un campo di prigionieri in Alsazia come interprete. Chiamato come traduttore nella stesura del trattato di resa della Francia, non se la sente e, connivente un medico, si fa riformare. Nel 1942 arriva a Padova come studente universitario ed entra fra i partigiani con il nome di battaglia Marino, svolgendo mansioni di controspionaggio. Dopo la guerra, sceglie di vivere a Berlino est lavorando come traduttore di opere letterarie e di film e collaborando con Brecht.

La sua biografia è esemplare per chi ha scelto convintamente di combattere contro i compatrioti accecati dall’ideale nazista.

Interviene poi l’altro curatore, Mirco Carrattieri, Direttore dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, il quale sottolinea che le fonti sui disertori e sui partigiani tedeschi sono frammentarie e neppure il Ricompart può fornire dati esaustivi, anche se in esso sono citati circa 100 nomi di partigiani tedeschi e circa 400 di altre nazioni. Altre fonti sono le fotografie: nel libro ne sono state inserite una ventina. Sui disertori fonti utili sono quelle alleate.

La presentazione del libro è affidata a Paolo Pezzino, Presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri: “trovo il libro molto interessante, poiché è il primo che affronta in maniera organica la tematica dei disertori e partigiani tedeschi in Italia, sebbene nella forma di case studies e di raccolta di biografie, che conferiscono al libro una struttura polifonica”. Lutz Klinkhammer, nella prefazione, collega i partigiani della Wehrmacht al fallito colpo di stato contro Hitler del 20 luglio 1944.

Disertare non vuol dire diventare partigiani, che è una scelta estrema che compie l’1% dei soldati tedeschi, ma è comunque una scelta drastica, compiuta dal 10% dei membri della Wehrmacht (anche se il numero pare sottostimato), difficile per la comunicazione con le famiglie, per la paura delle ripercussioni su di esse e per le gravi sanzioni a cui loro stessi andavano incontro se ritrovati dagli ex commilitoni. Pavone sostiene in Una guerra civile che la diserzione per i tedeschi fosse l’unica strada di salvazione. Ma non sempre la diserzione è una scelta politica. A volte lo si fa per stanchezza della guerra, a volte anche per caso o per le circostanze, a volte per discriminazione da parte dei commilitoni. Talvolta i disertori hanno fatto anche il doppio gioco, infiltrandosi fra i partigiani. Quindi erano guardati con diffidenza.

Il libro contribuisce a far luce su una storia dimenticata e a smantellare gli stereotipi nazionali della memoria pubblica che si è rifiutata a lungo di riconoscere la presenza dei disertori nelle file della Resistenza anche perché smentisce la tendenza a demonizzare il “cattivo tedesco” utile ad assolvere il “bravo italiano”, per usare le parole di Filippo Focardi.




Presentato a Pisa “Il tempo senza Storia” di Prosperi.

Alle ore 18 di venerdì 3 settembre, presso il circolo Arci Pisanova, a Pisa, si è tenuta la presentazione dell’ultimo libro di Adriano Prosperi, Il tempo senza storia Torino, Einaudi, 2021.
Introduce Franco Bertolucci -direttore scientifico della BFS-, modera Stefano Gallo -ricercatore CNR- intervengono l’autore Adriano Prosperi – professore emerito di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e Paolo Pezzino -presidente dell’Istituto Nazionale F. Parri-.
Il pubblico, molto numeroso, si è mostrato attento fino alla fine, con una evidente soddisfazione di poter riprendere questi incontri in presenza, avendo a disposizione un ampio spazio all’aperto che ha consentito il distanziamento.
L’iniziativa segna quello che Gallo definisce il “nuovo corso” di vita della Biblioteca Franco Serrantini, diventata Istituto di storia sociale, della Resistenza e dell’età contemporanea, alla sua prima iniziativa come associato all’Istituto nazionale “Ferruccio Parri”, Rete degli Istituti storici della Resistenza dell’età contemporanea.
Dopo i saluti, prende la parola Gallo che, parlando del libro di Prosperi, afferma “interpreta il senso di fare storia”. Prosperi spiega che questo suo ultimo libro è la trascrizione di una conferenza tenuta a Genova di fronte al Palazzo Ducale, quasi due anni fa (la pubblicazione ha subito ritardi a causa del covid) mentre persone affogavano nel Mediterraneo nella totale noncuranza. “A me questo ha fatto venire in mente la Shoah (confronto improprio, lo so) in cui tutti sapevano ma non vedevano e non sentivano”. Da qui il bisogno di interrogarsi sul senso della storia della memoria nella realtà contemporanea.
Gallo poi propone dei punti di riflessione: il primo è il rapporto fra storia e memoria.
A tale proposito Pezzino ribadisce l’ovvia distinzione fra storia e memoria, riprendendo una frase del saggio di Prosperi “la prima è conoscenza accertata del passato, la seconda funzione psichica, viva e palpitante, finestra mentale più aperta all’errore e alla falsificazione”. Aggiunge poi “le memorie dei protagonisti sono fondamentali per ricostruire l’elaborazione del passato ma di quel passato ci dicono appunto quello che il soggetto ricorda dopo anni e anni di rielaborazione E non possono essere utilizzate per ricostruire in maniera solida i fatti di cui si porta ricordo”. La memoria, infatti, è selettiva e più sottoposta all’oblio.
Prosperi concorda: “Io sono nato, direbbe Orazio, Benito consule, ma non oserei raccontare i miei ricordi, perché la memoria è influenzata dal contesto sociale, dalla coscienza civile ed è fatalmente labile, falsificabile. Basti pensare che gli Italiani hanno mistificato di essere stati nella stragande maggioranza fascisti!”.
Il secondo spunto è “la storia come legittimazione del potere politico”.
Pezzino afferma che il primo condizionamento sta già nella selezione dei dati da ricordare. “Anche la storia è selettiva. Lo dimostra, ad esempio, la cancellazione e la sostituzione della storia delle popolazioni conquistate, come quella dei nativi Americani o delle civiltà precolombiane”. E continua: “Nel corso dei secoli si è elaborato un metodo storico che basa l’interpretazione sulla documentazione e su un’analisi critica di tutte le fonti disponibili ed è questo metodo che oggi può fare dello storico un decostruttore delle falsificazioni del potere. Davanti alla falsificazione della storia voluta dal potere politico e diffusa dai mass media, il nostro lavoro di storici, di verifica e di rimando ai dati essenziali e di contestazione appare debole. Ma la sedimentazione di ciò che noi cerchiamo io spero che prima o poi dia i suoi frutti, altrimenti dovremmo ritenere che il lavoro dello storico è del tutto inutile”. E Prosperi aggiunge: “la storia significa etimologicamente ricerca, chi fa questo mestiere non lo deve dimenticare”.
L’ultimo spunto di riflessione, sollevato dalle parole in apertura di Prosperi sulla Shoah, riguarda la celebrazione della Giornata della Memoria.
Pezzino sostiene che la celebrazione “forzata” ed eterodiretta di essa abbia banalizzato la Shoah. “Già la definizione italiana di Giornata della Memoria è discutibile: lascia fuori alcune categorie di vittime, inserisce gli Italiani buoni che hanno salvato”. Ecco il testo: La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.
Critica poi la definizione ufficiale di antisemitismo proposta dall’IHRA e ripresa da molti governi tra i quali quello italiano, non tanto per il testo in sé (“L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”), quanto per gli esempi contemporanei di antisemitismo nella vita pubblica, nei mezzi di comunicazione, nelle scuole, al posto di lavoro e nella sfera religiosa, che vengono citati dopo tale definizione, che danno un preponderante peso alle critiche verso la politica israeliana.
A proposito dell’importanza di ricordare la Shoah, Prosperi cita, prendendone le distanze, un articolo di Berardelli in cui si afferma “non è necessario ricordare la Shoah, bisogna andare avanti. Le stragi e le distruzioni di popoli sono ricorrenti nella storia”. Confronta poi questa affermazione con quelle di uno storico cattolico di grande fama che, sul più letto giornale tedesco, proprio negli stessi giorni in cui è uscito il suo libro, ha scritto: “la storia è anche dimenticare, non si può collegare per sempre l’Olocausto al popolo tedesco”, mostrando la pervicace tendenza di questo popolo di prendere le distanze dal passato nazista.
La shoah è il punto massimo dell’evoluzione culturale, scientifica e tecnica del mondo moderno”. Conclude Prosperi “e per questo non possiamo lasciarcela alle spalle”.
A conclusione dell’incontro, entrambi gli studiosi concordano sul fatto che è in atto un “attacco alla storia” e che le responsabilità sono da ricercarsi nello scarso peso data ad essa nella scuola, nella crisi delle biblioteche e degli archivi italiani, quasi sempre chiuse le prime, allo sfascio i secondi. “Ma la storia si fa sui documenti!” inveisce Prosperi, “se i giovani studiosi non possono accedere agli archivi che ricerca fanno?”.
Amareggiato conclude il suo intervento così: “Per un paese che non investe in scuola, luoghi di cultura, ospedali e carceri io non sono ottimista”.




La Biblioteca Franco Serantini diventa “Ente Associato” dall’Istituto Nazionale per la Storia della Resistenza

Il Consiglio Generale dell’Istituto Nazionale per la Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea “F. Parri”, ha discusso e accolto la richiesta della Biblioteca Franco Serantini per il riconoscimento di “Ente Associato” all’Istituto Nazionale. La notizia è stata comunicata oggi alla Biblioteca dal prof. Paolo Pezzino presidente d ell’Istitutonazionale “F. Parri”.

Nel ringraziare il Presidente e il Consiglio Generale del “Parri” e tutti coloro, tra i soci e gli amici, che hanno lavorato intensamente in questi anni per raggiungere questo obiettivo, la direzione della Biblioteca F. Serantini sottolinea l’importanza di un riconoscimento che premia il lavoro svolto dalla struttura culturale pisana a partire dal 1979. Inoltre, Pisa e la sua provincia hanno ora finalmente un Istituto storico della resistenza, con una sede adeguata e un importante patrimonio documentario (oltre 60mila volumi e 6mila periodici, 90 fondi archivistici – tra i quali recentissimamente l’archivio della Federazione pisana del PCI – e tanti altri materiali) che può rappresentare degnamente il territorio nell’ambito della Rete nazionale, soprattutto nelle attività di ricerca e didattica sulla storia del Novecento.

L’adesione come “Ente Associato” vincola ora l’Istituto pisano alle finalità statutarie dell’Istituto nazionale,, per l’attuazione di attività coerenti con i suoi indirizzi programmatici, e fornisce la possibilità di partecipare ad iniziative della rete associativa del “Parri” (79 Istituti associati e collegati), per la ricerca ed il dibattito storiografico sull’età contemporanea, segnatamente per la tutela e la divulgazione della storia dell’antifascismo e della Resistenza.

per la Biblioteca F. Serantini
il direttore
Franco Bertolucci

Ghezzano (PI), 27 maggio 2021

[notizia tratta dal sito della Biblioteca]




25 aprile: confronto “virtuale” a Pisa sulla Resistenza.

Virtualmente a Pisa si è svolto il dibattito sul 25 aprile che ha visto coinvolti il sindaco di Sant’Anna di Stazzema, Maurizio Verona, la Professoressa Anna Loretoni, docente ordinaria di filosofia politica presso la  Scuola universitaria superiore Sant’Anna di Pisa, Preside della Classe Accademica di Scienze Sociali, coordinatrice del Phd in “Politics, Human Rights and Sustainability”, il Professore Paolo Pezzino, professore emerito di storia contemporanea all’Università di Pisa e Presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri.

Dapprima è intervenuto il sindaco di Sant’Anna di Stazzema sulla proposta di legge di iniziativa popolare -di cui si è fatto promotore-  contro la propaganda fascista e nazista “Norme contro la propaganda e diffusione di messaggi inneggianti a fascismo e nazismo e la vendita e produzione di oggetti con simboli fascisti e nazisti”.

La nostra proposta è andata ben oltre le aspettative che erano quelle di raccogliere 50.000 firme. E’ straordinario essere riusciti a raccoglierne già 240 mila, oltretutto in una circostanza anomala come quella della pandemia e senza l’aiuto dei media ma solo con quello di tante associazione e di qualche sindacato. Le firme verranno consegnate il 29 aprile al Parlamento, sperando che non facciano la fine delle carte chiuse nell’armadio della vergogna, che hanno procrastinato di 60 anni il processo per la strage di Sant’Anna di Stazzema”.

Il sindaco sottolinea poi che la creazione della anagrafe antifascista è una iniziativa non politica ma del popolo come fu il movimento partigiano.

Prende poi la parola il Professor Pezzino dicendo che la Resistenza è un fenomeno così complesso che è meglio parlare di resistenze al plurale, perché non ci sono solo i partigiani combattenti la “guerra di guerriglia” ma ci sono state anche resistenze civili, le resistenze senza armi, come quella dei 600.000 IMI, come quella delle donne che Anna Bravo ha chiamato “manutentrici della vita”, gli antifascisti politici, i sacerdoti (basti pensare al parroco di Sant’Anna di Stazzema o ai monaci della Certosa di Farneta) i deportati razziali, i partecipanti agli scioperi del ‘44.

Sul ruolo delle donne nella Resistenza interviene anche la Professoressa Loretoni dicendo “nella resistenza sono diventate cittadine ancora prima di acquisire diritto di voto !”. Poi afferma che le partigiane hanno iniziato tardi a raccontare la loro esperienza, ad esempio che il loro ruolo di combattenti non sempre era ben visto, perché rompeva lo stereotipo della donna come “angelo del focolare”, quindi erano spesso relegate al ruolo di staffetta, o attive nella “cura della vita”, ma anche nella vita,  ad esempio lavorando nelle fabbriche.

Riprende poi la parola Pezzino dicendo che il merito della Resistenza è anche quello di aver mostrato che vi erano degli italiani disposti a rischiare la vita per la liberazione del proprio paese. Basti pensare al fatto che molte città furono liberate prima dei partigiani che dagli alleati.

Quanto ai nemici della Resistenza, sono stato in primis i fascisti repubblicani e poi coloro che si sono rinchiusi nella sfera privata rinchiusi nella “indifferenza” di cui tanto parla anche la senatrice Liliana Segre.

Abbiamo avuto tanti indifferenti anche nel ’38 di fronte alle leggi razziali, firmate proprio qui a Pisa, a San Rossore. Anche le autorità accademiche pisane di fronte alle leggi razziali, che espellevano studenti e docenti ebrei, hanno spesso avuto un comportamento indifferente se non deplorevole , e non solo non hanno solidarizzato con i colleghi ebrei espulsi, ma si sono spartite le loro cattedre e dopo la guerra non hanno agevolato rientro dei loro colleghi. Per fortuna a Pisa fra Scuola Normale Superiore e Università vi sono stati docenti come Calogero e Capitini, che hanno cercato comunque di influire sulle coscienze degli studenti. “E poi dobbiamo ricordare Cesare Salvestroni, che nel ‘27 è stato cacciato dall’Università di Pisa perché si era rifiutato di prendere la tessera del PNF. Avrebbe contribuito inseguito alla fondazione del Partito d’Azione in quella città e fatto parte del CLN. Venne arrestato l’11 marzo ’44 e rinchiuso nel carcere di Firenze dove sostenne numerosi interrogatori e torture, senza rivelare notizie compromettenti per la Resistenza. Fu perciò inviato prima nel lager di Mauthausen e successivamente in quello di Ebensee dove morì il 2 marzo ’45 a seguito dei maltrattamenti subiti”.

La professoressa Loretoni sottolinea come nel partecipare alla Resistenza ci sia stata una scelta soggettiva e personale, e cita il discorso di Aldo Moro a Bari nel 1975, in occasione del trentennale della Resistenza, da cui emerge la consapevolezza che la resistenza fu lo scatto di un popolo ribelle che volle riprendersi la sua libertà.

Purtroppo oggi la democrazia, ancora più di 10 – 20 anni fa, è sottoposta a tante sfide che ne minano le stesse radici, così come espresse dalla Costituente, perché la democrazia non è solo una forma di governo.

Prendiamo ad esempio il populismo che sfida l’istituzione del Parlamento e il concetto della democrazia rappresentativa”. Si nota una regressione nella valorizzazione delle differenze e del pluralismo; e questo non solo in Italia ma anche in Europa, basti pensare alla Ungheria di Orban e alla sua teorizzazione di una “democrazia autoritaria” e a molti paesi del gruppo di Visegrad. Adesso ls democrazia è in pericolo in molti paesi, apparentemente democratici, del mondo: la Russia, la Cina, la Turchia, l’India.

E ciò che più preoccupa è che i modelli che sfidano la democrazia fanno molta presa suoi giovani, che preferiscono  governi autoritari che non garantiscono diritti politici e ritengono ormai desueto andare a votare e mettere con una matita una croce su una scheda di carta”.

Pezzino aggiunge che oggi i nemici della Resistenza sono tutti coloro che si oppongono  al 25 aprile, considerandolo una data divisiva. Ma non è così. “La Resistenza è la festa di tutti, tanto che ha dato la possibilità di parola anche a coloro che ora denigrano il 25 aprile o non la riconoscono e non la vogliono celebrare”.

Ma proprio su questa conclusione si collega Bruno Possenti, Presidente provinciale della ANPI di Pisa, a dare una grave notizia che arriva come un cazzotto al ventre della democrazia e uno sputo in faccia alla libertà.

Come già nel 2017, lo stesso giorno , cioè il 23 di aprile, è stato divelto il primo dei pannelli di  “vialibera”, un percorso di 27 pannelli, creato a Pisa, nella memoria dell’antifascismo, della Resistenza, della liberazione e della ricostruzione.

Uno sfregio mirato ad orologeria”, lo definisce Possenti.

E capiamo ancora di più dopo questo gesto quanto bisogno ci sia ancora del 25 aprile.




A scuola di Europa! Un progetto didattico della Domus mazziniana

La Domus Mazziniana è un organismo pubblico di ricerca appartenente alla Rete degli Istituti Storici Nazionali, coordinata dalla Giunta Centrale per gli Studi Storici e svolge la propria attività didattica e formativa, in stretta collaborazione con l’Università di Pisa e il Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca. A partire dall’anno scolastico 2018/2019 è operativo un Protocollo d’Intesa specifico tra la Domus Mazziniana e l’Ufficio Scolastico regionale della Toscana per la realizzazione di attività didattiche e formative su tutto il territorio regionale. L’Istituto svolge la propria attività didattica prevalentemente nell’ambito della Storia contemporanea, dell’Educazione Civica e della metodologia e didattica della storia.

 centrale è l’impegno per promuovere una più consapevole conoscenza dell’Europa e del valore del suo processo di unificazione. Gli sviluppi della recente epidemia di coronavirus hanno evidenziato una volta di più quanto l’Europa sia centrale nella vita di tutte e tutti noi. Eppure quanti cittadini conoscono l’effettivo funzionamento dell’Unione Europea e la storia del processo d’integrazione europeo dalla Giovine Europa e dal Manifesto di Ventotene sino alle recenti crisi che sembrano mettere in discussione le fondamenta stessa dell’UE. Il percorso didattico elaborato dalla Domus propone a partire da una riflessione sul concetto di Europa, una introduzione alle principali fasi del processo di integrazione europeo e del funzionamento delle istituzioni comunitarie.

Su libera e pregevole iniziativa dei rappresentanti degli studenti il liceo Chini-Michelangelo di Lido di Camaiore, coordinati dalla Professoressa Nencioni dalle ore 12 alle ore 13.45 si è tenuta la conferenza del Professore Pietro Finelli, a cui hanno partecipato in webinar 186 studenti, socraticamente consapevoli della loro ignoranza sull’Unione Europea, istituzione tanto fondamentale quanto biasimata e comunque troppo sconosciuta.

 La Prof.ssa Nencioni ha introdotto l’importante relatore: Pietro Finelli. Docente di materie letterarie alle superiori. Direttore della Domus Mazziniana. Ha studiato all’Università di Pisa, alla Scuola Normale Superiore, al Sant’Anna e all’ Ècole des hautes études en sciences sociales a Parigi.   E’membro del comitato scientifico cesue.eu spin off del sant’Anna che si occupa di politiche europee e global governace. Ha svolto attività di ricerca presso il centro studi sul federalismo di Torino. Si occupa di educazione alla cittadinanza europea.

 Il relatore, a dimostrazione dello scarsissimo interesse per l’UE, ha citato un dato del 2013: la famosa trasmissione televisiva Porta a Porta ha dedicato all’UE l’1,3% dei servizi andati in onda, mentre ben il 5,4 % al Mago Otelma!

Ad ulteriore dimostrazione della ignoranza dei giovani (e non solo) nessuno dei 158 studenti connessi nessuno ha saputo riconoscere le foto Charles Michel, Christine Lagarde, Ursula von Der Leyen, Davide Sassoli, cioè le più importanti cariche dell’UE: rispettivamente presente del Consiglio europeo, presidentessa della Banca Centrale Europea, presidentessa della Commissione europea e Presidente del Parlamento europeo.

 Eppure l’Europa è ben viva in mezzo a noi: il 30% delle leggi italiane sono norme approvate dall’UE e quasi i due terzi dei DCPM riguarda direttive o decisioni UE su Giustizia e Affari interni.

 Ma che cosa è l’Europa? Sono state tentate varie definizioni…. Geografia: ma se la continuità fra Europa e Asia è praticamente assoluta? Ma anche la definizione culturale per distinguere l’Europa è valida? NO! E neppure la definizione religiosa, basta sull’ unità cristiana, perché in Europa ci sono popolazioni musulmane, come gli Albanesi, e molti immigrati di varie fedi. Allora definiamo l’Europa la culla dei diritti umani? Ma essi sono universali! Come già sancito dalla della costituzione francese del 1799.

Insomma, qualsiasi definizione è inadeguata per l’Europa! “Une sorte d’ object politique non identifiè” è questa è la risposta del presidente della Commissione europea Jacques Delors nel 1985 che tradotto vuol dire “un oggetto politico non identificato” cioè un UFO.

 Allora, seriamente, possiamo definire l’UE un’istituzione sovrannazionale sui generis. Ha elementi statuali e parastatuali (ed. es. la rappresentanza, la moneta, la rappresentanza)

 L’UE per il PIL è la più grande area economica del mondo; al secondo posto ci sono gli Stati Uniti ma con grandissimi divari economici al suo interno.

 E’ dopo la Seconda Guerra Mondiale che l’idea di Europa diventa un progetto concreto, nato dalla consapevolezza dei precedenti ma recenti fallimenti: quello della Società delle Nazioni, ma pure la sconfitta del Nazismo e Fascismo (ma possiamo anche la precoce fine di Giustizia e Libertà già meno di due anni dopo la Resistenza: perché per combattere contro il fascismo ci vuole unione).

Ed è da queste considerazioni che è nato il Manifesto di Ventotene, di cui adesso ricorrono gli 80 anni. Elaborato e scritto nell’isola di confino a Ventotene da intellettuali dal libero pensiero e per questo invisi al Regime: Spinelli, Colorni, Rossi e anche il futuro Presidente della Repubblica Pertini, che però non lo firmò.

L’idea di fondo è la realizzazione degli “Stati Uniti di Europa”, un’unione politica. Il suo obiettivo “la pace mondiale”.

 Il prof. Finelli mostra un video di circa 3 minuti di Schuman del 9/5/50, data che è divenuta simbolo scelto come Festa dell’Europa. Non a caso siamo nella fase più acuta della guerra fredda. Cosa dice Shumam? Propone di mettere insieme carbone e acciaio, proprio perché sono fonti per l’industria e pesante, quindi una scelta politica (non avere le fonti per fare la guerra) e non economica. Lo dimostra l’adesione del 6 paesi europeo che nel 1953 aderirono alle C.E.C.A., cioè la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio: Benelux, Francia, Germania e l’Italia, non per quantità di queste fonti, perché vuole trasformare un’alleanza franco-tedesca in un progetto europeo.

Per creare la Comunità prima e l’Unione poi Europea c’erano tre vie:

·         la corrente federalista, secondo cui era necessario realizzare una confederazione europea che per essere efficace avesse un carattere federale: ovvero doveva trasferire la politica estera, la difesa, la politica economica e le monete ad istituzioni soprannazionali e quindi a un governo, un parlamento e a una corte di giustizia comuni.

·         La teoria funzionalista dell’integrazione soprannazionale ha in comune con quella federalista l’obiettivo del superamento della sovranità assoluta, ma ritiene che, per superare le resistenze nazionali, occorra scegliere la via dello sviluppo graduale della cooperazione internazionale in settori o funzioni limitati, ma via via più importanti dell’attività statale, in modo da realizzare uno svuotamento progressivo e quasi indolore delle sovranità nazionali.

·         La terza corrente dell’europeismo, nata nel periodo fra il 1914 e il 1948, è rappresentata dal confederalismo. La sua opzione fondamentale è un’Unione Europea fondata su meccanismi di mera cooperazione intergovernativa, che lascino intatta la sovranità statale assoluta, ma permettano ai governi nazionali di raggiungere decisioni concordate in alcune materie riconosciute di comune interesse.

Tra il 1952 e il 2009 abbiamo 7 trattati, di cui 5 fra il 1997 e il 2009. Ciò dimostra che alla fine degli anni ’80 l’UE entra in una fase di fibrillazione. E perché? Perché l’UE si allarga fino a 27 stati, quasi tutti dall’Europa orientale.

 Dal 2007 al 2020 l’UE si è trovata ad attraversare la prima grave crisi economica: quella dei debiti sovrani, per risposta ritardata, per responsabilità non condivisa, per incapacità autoregolativa del mercato, perché la politica comune è stata affrontata in maniera esclusivamente monetaria.

Sintetizzando, quali sono le ragioni della crisi della fiducia nell’Europa?

·         Il complesso della procedura decisionale

·         L’assetto istituzionale composto

·         L’asimmetria economica e sociale




A Calci iniziativa su “Il Porrajmos: il genocidio dimenticato”

Il 27 gennaio si celebra il Giorno della Memoria per ricordare lo sterminio del popolo ebraico, le leggi razziali, la persecuzione dei cittadini ebrei, la deportazione politica, la prigionia militare, la morte. Il legislatore si è dimenticato, però, di commemorare anche i 500mila rom e sinti vittime del genocidio. Uno sterminio sconosciuto e dimenticato anche nelle aule del Parlamento. Così per ricordarlo è stato necessario, in una frammentazione della memoria, cercare una nuova data. L’accordo internazionale ha individuato il 2 agosto perché nella notte fra il 2 e il 3 agosto 1944 2.987 Rom, soprattutto donne, bambini e anziani furono sterminati con il cosiddetto progetto di liquidazione dello ZigeunerLager di Birkenau.

Ma cosa è il Porrajmos? E perché è importante commemorarlo?

Ne parlerà la Professoressa Chiara Nencioni, alla presenza di Emanuele Piave, rappresentante dell’UCRI (Unione comunità romanès in Italia) in un webminar organizzato dal Comune di Calci (Pi).  Per poter seguire l’evento collegarsi il 27 gennaio alle 17.30 al link urly.it39tjg sulla piattaforma zoom.

Letteralmente “inghiottimento”, “grande divoramento” o “devastazione”, Porrajmos è il termine con cui Rom e Sinti e Camminanti hanno denominato la persecuzione da loro subita durante il fascismo e lo sterminio del loro popolo perpetrato dai nazisti e dai loro alleati durante la seconda guerra mondiale. Questo disegno omicida è definito anche con il termine Samudaripen, che significa letteralmente “tutti uccisi”. La stima delle vittime si aggira fra i 220.000 e i 500.000, quindi circa il 25% della popolazione nomade complessiva presente in Europa tra le due guerre, in altre parole, un Rom su quattro.

La conferenza, partendo dallo spiegare chi sono i sinti e i rom, traccia la storia dell’antiziganismo, sin dal Medioevo, la diffidenza e i pregiudizi che hanno indotto tutti i paesi europei moderni ad adottare bandi di espulsione nei confronti degli “zingari”, fino alla programmazione del genocidio da parte nazista. Ma già il regime fascista dal 1926 aveva imposto misure restrittive verso i circa 95.000 rom e sinti allora presenti in Italia e cercato di limitare l’ingresso e la circolazione delle carovane nomadi sul territorio nazionale. Tutti gli appartenenti a queste etnie venivano indistintamente schedati come stranieri e successivamente chiusi fino all’armistizio in campi di concentramento -i tre più importanti: Boiano e Agnone (Molise) e Tossicia (Abruzzo)- in cui le condizioni di vita erano estreme.

In Germania le tracce del porrajmos vanno seguite a partire dal censimento degli “zingari”, voluto in Baviera da Dillmann. I dati raccolti da Dillmann divennero la base per la redazione del ZigeunerBuch che in 344 pagine elenca i dati personali e genealogici di 3350 persone appartenenti all’etnia Rom. Sempre in Baviera, nel 1929 viene creato l’“ufficio centrale per la lotta alla piaga zingara” poi utilizzato dai nazisti per attingere informazioni su rom e sinti in modo da trovare le motivazioni scientifiche attraverso cui sia loro possibile avvalorare la tesi che gli zingari non appartengono alla “razza ariana” e che quindi devono essere catalogati come “razza impura”. Quando Hitler diventa cancelliere, i rom e sinti presenti in Germania ammontano circa a 25.000. Dapprima tutti vengono arrestati per sterilizzarli, perché considerati una popolazione ereditariamente malata di asocialità e del “gene della criminalità e del pericoloso istinto al nomadismo”, poi nel 1935 è emanata una legge che proibisce i matrimoni tra gli “zingari” e gli “ariani” e nel 1936 un’altra che inserisce tutti gli appartenenti alla categoria “zingari” nei campi di sosta forzata sorti alle periferie delle città tedesche per utilizzare queste persone come mano d’opera schiava.

Dopo aver tracciato un quadro della persecuzione dei sinti e rom nei paesi occupati dai nazisti, la Professoressa Nencioni tratterà della “soluzione finale della piaga zingara”, che avviene nel 1942 nello Zigeunerlager di Auschwitz Birkenau. Il registro del campo contava 10.649 femmine e 10.094 maschi tra cui molti bambini. Questo campo era regolato in modo diverso dagli altri: le famiglie non venivano divise come avveniva per gli altri internati e non partecipavano ai gruppi di lavoro. Il campo era completamente lasciato a sé stesso: niente cibo né medici (se non Mengele, il quale prediligeva per i suoi esperimenti bambini rom e sinti per la loro presunta appartenenza alla razza pura degenerata), niente di niente. Finché la notte fra il 2 e il 3 agosto si decise di liquidare il campo, mandando nelle camere a gas tutti i suoi abitanti.

E alla fine della guerra? Nessuno dei medici e degli antropologi, tra cui Robert Ritter ed Eva Justin, che avevano lavorato nei campi per concludere, attraverso ricostruzione di alberi genealogici e misurazioni antropometriche, che l’inferiorità razziale di rom e sinti era dovuta a due caratteri ereditari, l’asocialità e l’istinto al nomadismo, e che erano degenerati per “razza”, sono stati mai condannati per i crimini compiuti e sono tornati indisturbati a lavorare all’interno degli uffici statali. In Svizzera, fino agli anni ’80 il governo ha predisposto per gli Jenische ((i cosiddetti “zingari bianchi” della Svizzera) procedure di allontanamento forzato dalle famiglie, elettroshock, sterilizzazione e l’affidamento dei bambini a istituti psichiatrici o religiosi per essere rieducati. In Germania gli studi di Ritter e Justin passano nelle mani Hermann Arnold che pubblica il saggio dal titolo Die Zigeuner. I suoi studi indirizzarono l’azione dei governi europei (anche quello italiano) che dagli anni Sessanta costruiscono politiche che avrebbero voluto essere per l’inclusione dei rom, ma che hanno prodotto emarginazione. L’emarginazione del campo nomadi è stata dunque creata sulla base dello stereotipo dello zingaro. Stereotipo che è ancora difficile da decostruire: i meccanismi, più o meno inconsci, di discriminazione e xenofobia nei confronti del popolo rom e sinto sono diffusissimi e determinano le politiche di segregazione di cui sono sovente fatti oggetto.

Celebrare il Porrajmos è un passo avanti nella conoscenza delle discriminazioni di cui il popolo rom è stato a lungo vittima e della feroce persecuzione nell’ottica di pulizia etnica che non trova ancora quasi mai traccia neppure nei manuali di storia. E’ importante conoscere il Porrajmos ancora di più in Italia, dove certamente le politiche sempre più xenofobe e razziste non aiutano e dove si registra ancora adesso il più alto livello di discriminazione nei confronti di queste minoranze etniche, che tuttavia sul territorio nazionale costituiscono soltanto lo 0,02% della popolazione totale. E’ quindi insensato parlare, come si è troppo soliti fare, di invasione rom.

Tuttavia, anziché creare memorie separate e numerose giornate dedicate alla memoria di varie categorie di vittime o martiri, è importante stimolare una memoria comune che si basi su percorsi di conoscenza dei fatti, al di là dei particolarismi etnici o di parte.  È doveroso ricordare il genocidio di rom e sinti in Europa, ma è importante inserirlo nella storia comune delle varie popolazioni, gruppi etnici, categorie sociali e politiche perseguitati dal totalitarismo nazista. E’ perciò importante che si menzioni il porrajmos nella legge nazionale n.211 del 2000 che fa del 27 gennaio «il Giorno della Memoria». La memoria della distruzione e della negazione della vita umana non va perpetuata in nome di riferimenti razziali o attraverso memorie diverse e distinte.

Mi piace concludere con le parole della senatrice a vita Liliana Segre, pronunciate nel 2018: “la Shoah degli ebrei e il Porrajmos dei popoli nomadi sono parte di uno stesso progetto disumano. Io ricordo, perché io c’ero; c’ero in quei campi di sterminio in cui, insieme agli Ebrei, anche altre minoranze vennero annientate. Tra queste, il gruppo più numeroso era proprio quello degli appartenenti alle popolazioni Rom e Sinti”.




Nel centenario del PCI, la Biblioteca Serantini promotrice di un progetto per conservare la storia dei comunisti pisani

La Biblioteca Franco Serantini, archivio e centro di documentazione di storia sociale contemporanea, tra i vari eventi in programma per il 2021, presenta il progetto dedicato al centesimo anniversario della nascita del Partito Comunista Italiano, dal titolo: 100 anni dalla fondazione del Partito comunista (1921-2021): tra memoria e storia. Progetto per la conservazione, la tutela e la divulgazione della storia dei comunisti di Pisa e provincia: documenti, oggetti, testimonianze dei protagonisti.

Il primo obiettivo del progetto è quello di salvaguardare l’archivio della Federazione pisana del PCI, con l’intenzione nel tempo di valorizzarlo e metterlo a disposizione degli studiosi e dei cittadini e con questo rilanciare l’interesse per la storia dei comunisti nel nostro territorio, attraverso una ricostruzione storico/critica delle vicende della Federazione pisana.

Perché occuparsi oggi dell’archivio del PCI e in genere degli archivi dei partiti politici?

Dalla caduta del fascismo agli anni Novanta, il ruolo che i partiti politici hanno svolto nella vita politica ed istituzionale del nostro Paese ci induce ad affermare che essi hanno ricoperto un ruolo fondamentale nella costruzione di una coscienza civica collettiva, che è andata a ridisegnare, sotto l’aspetto morale e politico, un paese distrutto da vent’anni di dittatura.

Si è scritto infatti che la democrazia italiana non poteva nascere, o riprendere il suo cammino, se non come una democrazia segnata dalla partecipazione dei cittadini e dei partiti politici alla vita del Paese. Quest’ultimi, esercitando un ruolo di cerniera fra lo Stato e la società, di vivaio di quadri per il Governo e per il Parlamento, hanno svolto nella storia contemporanea, almeno fino ai primi anni Novanta, un ruolo di importanza crescente, di coscienza critica nella costruzione dell’Italia repubblicana.

Questo ruolo vale ancora di più per la storia del PCI, non solo per gli aspetti istituzionali, ma soprattutto per quelli sociali. È innegabile, infatti, l’azione svolta da quel partito e dai suoi militanti nella lotta per il riscatto e la difesa dei diritti dei lavoratori, come nella rinascita dei sindacati di categoria e nazionali, in un periodo di forte conflittualità sociale. Un ruolo insostituibile, svolto assieme alle altre forze politiche del movimento operaio, nella costruzione della democrazia repubblicana di fronte ai nodi irrisolti dell’Italia nata dalla Resistenza ancora fortemente condizionata dal lascito drammatico del ventennio fascista.

Impegnarsi, dunque, a salvaguardare le fonti documentarie dei partiti, e del partito comunista in particolare, significa impegnarsi a tutelare, con un approccio critico/scientifico, la storia del nostro Paese e a non privarla dei suoi fondamentali punti di riferimento, cercando di comprendere anche la storia della crisi politica che negli ultimi decenni ha travolto i partiti tradizionali; significa anche garantire , nel contempo la trasmissione di questa memoria alle future generazioni.

In secondo luogo, la Biblioteca Franco Serantini ha accolto l’invito di alcuni ex militanti comunisti e ha promosso la costituzione di comitato con lo scopo di coordinare l’iniziativa: ad oggi, hanno aderito a livello personale gli ex militanti e dirigenti del PCI: Gian Mario Cazzaniga, Fabrizio Cerri, Paolo Fontanelli, Carlo Gori, Franco Marmugi, Stefano Pecori, Carlo Scaramuzzino e Cristiana Torti .

È  già stata avviata la raccolta di memorie scritte e orali degli ex militanti di Pisa e della provincia, al fine di ricostruire le loro esperienze politiche e di approfondire il legame tra politica e territorio, per poter meglio comprendere l’evoluzione del partito dall’immediato secondo dopoguerra fino al 1991, anno in cui il PCI deliberò il proprio scioglimento promuovendo contestualmente la costituzione del Partito Democratico della Sinistra..

Si invitano gli ex militanti ad aderire al Comitato promotore e a contattare i suoi componenti, in modo da rilasciare le proprie testimonianze e a mettere a disposizione materiali e documenti per arricchire il fondo documentale e archivistico dedicato alla Federazione comunista pisana.

Per informazioni e contatti: memoriapcipisa@gmail.com