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Ponterosso: un bersaglio strategico per i bombardieri alleati

Proprio il giorno in cui riuscivano a spezzare la resistenza tedesca sulla Linea Gustav, il 18 maggio 1944, gli Alleati, in vista dell’imminente risalita dell’Italia centrale, decisero di scatenare una violenta offensiva aerea contro lo snodo stradale e ferroviario di Ponterosso, piccola frazione versiliese a metà strada fra Pietrasanta (Lu) e Querceta (Seravezza, Lu). In questo preciso punto, infatti, le principali vie di comunicazione della costa toscana settentrionale, la via Aurelia e la linea ferroviaria Genova-Pisa, attraversavano il fiume Versilia a pochi metri l’una dall’altra: considerate anche le scarse difese antiaeree della zona, per i comandi angloamericani si trattava dunque di un’occasione più che propizia per riuscire ad infliggere un duro colpo alla mobilità dei rifornimenti nazisti diretti a sud. Data la rilevanza strategica dell’obiettivo, nei mesi successivi gli aviatori alleati avrebbero tentato altre 14 volte di abbattere i due ponti, in un susseguirsi di massicce incursioni che si sarebbe protratto fino alla tarda estate del ’44, riportando sempre, tuttavia, inspiegabili insuccessi. La furia delle bombe, anzi, finì per accanirsi contro le popolose borgate vicine al bersaglio, distruggendo stalle, campi e canali d’irrigazione, devastando edifici pubblici, compresa la vecchia chiesa paesana di San Bartolomeo, e moltissime abitazioni civili, distanti anche diversi chilometri dall’obiettivo. Soprattutto, però, le incursioni alleate lasciarono sul campo numerosi morti e feriti versiliesi. La particolare posizione delle strutture da colpire, poste a ridosso delle ripide montagne retrostanti la piana, contribuì sicuramente al fallimento delle varie missioni. Ad inficiarne il risultato, tuttavia, furono anche le pressanti condizioni di stress psicologico in cui si ritrovarono a dover operare i piloti americani nell’ultima parte del conflitto, oltre, naturalmente, ai limiti oggettivi delle strumentazioni di tiro dell’epoca, che non permettevano certo di condurre operazioni di tipo “chirurgico”. A tal proposito, si pensi che i comandi alleati del tempo erano soliti considerare come “ottimo”, e dunque particolarmente riuscito, un bombardamento in cui il 50% degli ordigni fosse caduto entro un raggio di 1000 piedi (305 metri) dall’obiettivo designato. Per tutta la Versilia storica, il bombardamento di Ponterosso del 18 maggio 1944 rappresentò un vero e proprio shock, l’ingresso in una fase nuova del conflitto: dal 10 giugno 1940, infatti, era la prima volta che la guerra arrivava a coinvolgere direttamente e pesantemente il territorio, entrando letteralmente nelle case dei versiliesi. Nel giro di pochi minuti, i civili ebbero modo di realizzare non soltanto la totale vulnerabilità della zona agli attacchi aerei angloamericani, ma anche il preoccupante grado di pericolo cui la popolazione finiva per essere esposta in simili frangenti. Di fronte a minacce sempre più reali, che in un prossimo futuro si sarebbero certamente aggravate, alcune famiglie decisero di costruirsi un rifugio di fortuna nell’orto dietro casa, altre, al contrario, scelsero di raccogliere le cose più importanti e di abbandonare la propria casa, per cercare poi una sistemazione più sicura su per le montagne. Erano i primi sfollati versiliesi.




Pian d’Albero

Casolare Cavicchi Pian d'AlberoQuello di Pian d’Albero è un casolare su un altipiano isolato nei boschi fra il Valdarno e il Chianti. Qui dal 1939 viveva  la famiglia Cavicchi. La loro è una famiglia numerosa di mezzadri contadini come tante in Toscana. Ma dall’ottobre del 1943, caduto il fascismo, hanno fatto una scelta: appoggiare la resistenza che iniziava ad organizzarsi.  Prima ospitano un piccolo gruppo di 12 uomini comandante partigiano Gino Garavaglia. Poi, con i mesi, il loro impegno cresce e arrivano a dar rifugio fino a un centinaio di persone. Pian d’Albero diventa una delle basi della XXII bis Brigata Garibaldi “Sinigaglia”, una formazione di matrice comunista che prende il suo nome da Alessandro Sinigaglia, “Vittorio”, il gappista fiorentino ucciso a febbraio del 1944.

A Pian d’Albero stazionano partigiani effettivi, feriti, ma soprattuto nuove reclute della brigata appena arrivate o ancora inesperte. Il quindicenne Aronne Cavicchi gli fa da sentinella. È un pastore e ad ogni movimento sospetto manda in fuga le sue pecore come segnale di pericolo. Ma con il suo carattere sveglio e loquace è anche la mascotte della brigata. Il 79enne Giuseppe Cavicchi, carattere forte e austero, è invece il “capoccia”, il vecchio che tutti temono, ed ammirano.

Il 19 giugno 1944 in seguito ad uno scontro a fuoco nei pressi di San Martino un tedesco viene ucciso e un altro riesce a fuggire, la fiat Topolino su cui viaggiavano i soldati viene sequestrata e portata a sera a Pian d’Albero. All’alba del mattino successivo, il 20 giugno, un reparto di paracadutisti tedeschi  giunge sul luogo dello scontro seguendo le tracce lasciate dalla Topolino sul terreno bagnato per le piogge dei giorni precedenti. Gli abitanti del luogo vengono sequestrati e minacciati, uno viene ucciso. Un piccolo gruppo viene obbligato ad accompagnare i tedeschi sul luogo del nascondiglio partigiano. Complice anche la nebbia, che ne nascondeva i movimenti, i soldati tedeschi riescono a salire lungo Carpignano, dividersi in due reparti e sistemarsi nei ridossi di Pian d’Albero uno alla sinistra e uno alla destra del casolare.

Quel mattino nel casolare dei Cavicchi ci sono quasi cento partigiani, ma quasi tutti sono nuove reclute. Solo quattordici fra i partigiani sono armati, ma non possono niente contro i paracadutisti tedeschi che sono in numero nettamente superiore e vengono immediatamente uccisi. Viene ucciso anche il vecchio Giuseppe Cavicchi. Sorpresi durante il sonno in pochi fra i partigiani riescono a fuggire e sono catturati. Vengono presi prigionieri anche Aronne ed il padre Norberto.  Solo le donne della famiglia Cavicchi e la piccola Giuseppina riescono a salvarsi.

Cosa ne è stato di tutto il sistema difensivo partigiano acquartierato intorno a Pian d’Albero? Sicuramente tutti vennero colti di sorpresa. Il commissario politico della brigata Sirio Ungherelli racconta di come in molti temettero che quello fosse solo l’inizio di una più vasta operazione di rappresaglia. Alla sorpresa e alla paura si aggiunse quel mattino, fra le file dei partigiani, anche la mancanza di comunicazioni a far si che si tardasse ad organizzare una pronta risposta. Solo una piccola squadra riesce  ad arrivare in tempo a Pian d’Albero. Sono sovietici, ex prigionieri di guerra nazisti, che si sono uniti alla Resistenza toscana. Cercano di spezzare il cerchio nazista intorno ai prigionieri e farne fuggire il maggior numero possibile. Ma il loro tentativo non riesce. I tedeschi scendono a valle con i prigionieri. Hanno fretta, sanno che quello potrebbe essere solo il primo di altri attacchi. Infatti poco oltre vengono intercettati dalla compagnia “Faliero Pucci” detta “Stella Rossa”. Nello scontro alcuni fra i prigionieri riescono a fuggire. Altri restano immobili terrorizzati.  Gli attacchi e le imboscate da parte delle compagnie partigiane si susseguono nel tentativo di far fuggire il maggior numero di prigionieri. Alla fine in mano dei tedeschi restano diciotto uomini. Dopo un processo farsa vengono impiccati uno a uno sugli alberi all’incrocio delle strade a S. Andrea di Campiglia. Non viene risparmiato neanche Norberto Cavicchi, né il giovane Aronne che viene impiccato, sembra, di fronte agli occhi del padre.

Monumento Pian d'AlberoA testimonianza della tragedia rimane il monumento ai caduti di Pian d’Albero, lungo la strada odierna che porta a Ponte agli Stolli, ai piedi dei gelsi usati allora per l’impiccagione. Rimane il casolare di Pian d’Albero visitabile percorrendo un sentiero CAI che parte da S.Martino. Quel casolare, è stato deciso nel Marzo 2008 con una bella iniziativa della Regione Toscana, diventerà un parco della Resistenza sul modello del Museo Cervi di Reggio Emilia.




Villa Triste

Oggi elegante condominio di un’ambita e tranquilla zona residenziale cittadina, la palazzina posta al n. 67 di via Bolognese dietro l’austerità dei suoi volumi e l’essenzialità tipica del razionalismo architettonico fascista cela ancora in parte le tracce di una pagina greve della storia nazionale e cittadina. Al tempo dell’occupazione tedesca e della Repubblica Sociale Italiana, questo fabbricato situato all’angolo tra via Bolognese e via Trieste servì infatti dal marzo 1944 sino alla liberazione di Firenze come sede della temibile SS-Sicherheintdienst, la polizia politica nazista, ma anche del comando della Banda Carità, il Reparto Servizi Speciali fascista agli ordini del comandante Mario Carità passato alla storia per l’efferatezza dei suoi metodi di interrogatorio. “Villa Triste” fu per l’appunto l’epiteto che la memoria antifascista assegnò a questo luogo, tetro scenario di torture e violenze a danni di resistenti e antifascisti cittadini.

20140319_100115 defIl gruppo di aguzzini diretto dal Carità, prima, e dal suo braccio destro Giuseppe Bernasconi, poi, dal settembre 1943 aveva cambiato più volte sede: una villetta requisita a una famiglia israelita al n. 22 di via Benedetto Varchi, la villa Malatesta di via Ugo Foscolo e dal dicembre 1943 alcune stanze di Villa Loria, proprietà confiscata ad un cittadino ebreo posta al n. 88 di via Bolognese. Fu da quest’ultima sede che nel marzo 1944 il Carità trasferì il proprio reparto al vicino numero civico 67 della stessa via, prendendo possesso di due appartamenti posti al piano terreno e degli scantinati del fabbricato, trasformati in celle detentive. Fu questa tra tutte la più nota “Villa Triste” fiorentina. Nei suoi locali furono condotti e interrogati esponenti di spicco dell’antifascismo fiorentino, perseguitati politici ed ebrei. Molti tra questi subirono violenze e sevizie: percosse fisiche, umiliazioni corporali, vere e proprie torture. Nel giugno 1944 i componenti il gruppo di radio CORA, emittente clandestina antifascista sgominata dagli uomini del Carità, furono portati al n. 67 di via Bolognese dove subirono efferati supplizi. Tra questi, Enrico Bocci e Italo Piccagli resistettero coraggiosamente alle sofferenze inflitte loro da tedeschi e fascisti, assumendosi la responsabilità dell’organizzazione e non lasciando trapelare informazione alcuna. Simile destino era toccato poco prima ad Anna Maria Enriques Agnoletti, giovane antifascista fiorentina, sottoposta a Villa Triste a torture fisiche e psicologiche: fu tenuta sveglia per una settimana intera senza possibilità di dormire e costretta a stare in piedi per ore ed ore. Tradotta in seguito agli interrogatori nelle carceri di Santa Verdiana, il 12 giugno 1944 sarebbe stata fucilata dai tedeschi in località Cercina assieme ai patrioti di radio CORA.

Ma nel lungo elenco dei torturati di Villa Triste va ricordato soprattutto il nome di Bruno Fanciullacci, gappista fiorentino protagonista di ardite azioni partigiane e al centro della discussa uccisione del filosofo Giovanni Gentile. Brutalmente torturato una prima volta dagli uomini del Carità, il Fanciullacci, dopo aver riconquistato la libertà, fu però di nuovo catturato il 4 luglio 1944. Condotto a Villa Triste, nel rocambolesco tentativo di darsi alla fuga Fanciullacci si gettò da una finestra del secondo piano sulla strada antistante, morendo l’indomani a seguito dei traumi riportati nella caduta.

Al suo nome l’amministrazione comunale di Firenze nel 2003 ha intitolato lo slargo antistante Villa Triste. Già dopo la guerra, d’altra parte, una epigrafe dettata da Piero Calamandrei posta sulla facciata dell’edificio aveva elevato questo triste luogo a simbolo dell’antifascismo e della memoria resistenziale cittadina in ricordo di coloro che pur sotto tortura non tradirono la causa della Resistenza: “languire soffrire morire” ma “non tradire” secondo la dedica stessa del Calamandrei.

 




Teatro San Marco di Livorno. Qui nacque il Partito comunista d’Italia

A Livorno c’è una via nel cuore del vecchio quartiere della Venezia che si chiama via San Marco. Prima della guerra lungo il suo percorso sorgeva un teatro, il Teatro San Marco. Ora in quello che resta, dopo la guerra e i bombardamenti, c’è la sede di un asilo. C’è una lapide in quel luogo dove spesso qualcuno, un nostalgico, mette qualche fiore. Tutti però in città sono affezionati a quel luogo e a quella lapide, anche quelli che, e sono tanti, non hanno mai avuto niente a che fare con il comunismo e con il Partito comunista. Ma tutti ne riconoscono il valore storico e testimoniale perché in quei locali si riunirono dopo essersi separati dal Partito socialista, un gruppo minoritario di persone, tra cui Armando Bordiga, Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Angelo Tasca, Palmiro Togliatti, e per i livornesi illustri, Ilio Barontini. Era il 21 gennaio 1921 e lì nacque il Partito comunista d’Italia che di lì a poco entrerà in clandestinità a causa della vittoria del fascismo.

Quel gruppo che si staccò voleva ribadire la sua volontà di restare legato a Mosca e alle direttive del Comintern. I giudizi che gli storici e pure le memorie dei protagonisti di quegli anni e del periodo successivo giunte a noi, sono molto cambiate nel tempo, si sono in qualche modo aggiornate, come è naturale che accada. Le trasformazioni del mondo e le conoscenze sempre più precise e aberranti che sono pervenute sulla realtà sovietica hanno tolto tutto l’alone che la parola “comunismo” poteva suscitare. Resta certo il fatto però che quel gruppo minoritario di militanti seppe poi costruire una resistenza antifascista tra le meglio organizzate e radicate e che riuscì a sopportare il peso del carcere, del confino e dell’esilio tra sofferenze e difficoltà di grande spessore. Fu sia nel suo insieme che singolarmente, nella stragrande maggioranza dei casi, buon esempio per gli altri, in Italia e fuori dall’Italia. E poiché questo non riguarda la città di Livorno ma riguarda tutta la storia politica occidentale, noi pensiamo che quel luogo vada segnalato, difeso e conservato anche se sicuramente oggi, a distanza di così tanti anni da quel lontano1921, l’eredità migliore che si è mantenuta, e che ancora ci può aiutare a capire, viene dai Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, testo analizzato, studiato, tradotto e ristampato ovunque e in particolar modo nel mondo anglosassone.

La lapide sulla facciata di quel che resta del Teatro San Marco fu affissa dai comunisti livornesi nel 1949 e reca questa scritta: “Tra queste mura il 21 gennaio 1921 nacque il Partito comunista italiano avanguardia della classe operaia. Alla testa della democrazia nella trentennale battaglia contro il fascismo popolò dei suoi migliori le carceri e i campi di guerra. Sorretto dalla ideologia di Marx di Engels di Lenin di Stalin dall’esempio di Gramsci sotto la guida di Togliatti prosegue la lotta per rompere le catene di un duro servaggio per la pace e l’indipendenza d’Italia nella realtà del socialismo. I comunisti livornesi”.




La Fortezza di Santa Barbara

Il_ponte_d'accesso_alla_Fortezza_e_la_torre.La Fortezza di Santa Barbara viene costruita nel 1331 da parte dei fiorentini, ampliata per volontà della famiglia dei Medici e su progetto di Nanni Ughero. Nel 1571 Bernardo Buontalenti la collegò alle mura cittadine.
Nel 1734 viene disarmata dal Granduca Pietro Leopoldo per poi essere utilizzata come caserma, carcere militare e distretto.
Il 29 giugno 1849 Attilio Frosini sarà fucilato dagli austriaci. A quasi un secolo di distanza, il 31 marzo 1944 vi saranno fucilati quattro ragazzi rei di essere renitenti alla leva e antifascisti.