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«…tutto era cambiato, ma come fosse cambiato era tutto assolutamente da vedere…»

Con questa intervista a Giuseppe Matulli, Presidente dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze, si apre su Toscana Novecento la nuova rubrica dedicata alla Storia e alla Memoria della “caduta del Muro” (https://www.toscananovecento.it/custom_type/una-nuova-rubrica-di-toscananovecento/). Un percorso di approfondimento e riflessione pensato in occasione del trentesimo anniversario del crollo del Muro di Berlino che proseguirà nei prossimi mesi con la pubblicazione di altre interviste a personalità politiche, sindacali, culturali toscane che di quell’evento furono testimoni e, nei loro contesti di riferimento, a loro modo protagonisti.

 

[Avvertenza: nel trascrivere l’intervista si è cercato di mantenere il più possibile inalterato nei suoi aspetti formali ed espressivi il discorso parlato. Ove necessario, a scopo di chiarificazione si sono inseriti fra parentesi quadre brevi indicazioni e aggiunte al testo, rinviando invece ulteriori interventi di commento o spiegazione nelle note a piè di pagina. L’intervista è stata registrata il giorno 26 novembre 2019 presso l’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze]

D. Presidente Matulli, può dirci intanto brevemente, lei che ruolo aveva nel 1989? Quali attività professionali e politiche svolgeva o aveva svolto sino ad allora?

R. Io mi sono occupato di politica fin da giovanissimo, militando nelle file della Democrazia Cristiana. Ero già stato vicesindaco del mio comune, Marradi, e consigliere regionale, eletto nel 1970 nella prima legislatura regionale. Fui poi eletto in Parlamento, nel 1987, dove sono rimasto fino al 1994. Dunque, nel 1989 ero parlamentare della DC[1].

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Giuseppe Matulli al tempo della sua deputazione parlamentare per la DC nella X e XI Legislatura (fonte:Wikipedia)

D. Presidente, come ha vissuto gli eventi che hanno portato alla caduta del Muro, il 9 novembre 1989? Aveva la percezione che qualcosa di quella portata potesse accadere? O invece è stato qualcosa di inatteso? Che emozioni e riflessioni le ha suscitato quell’evento? E inoltre, che tipo di impatto quei fatti ebbero sul piano politico, rispetto al suo ruolo e al partito cui apparteneva, ma anche nel suo contesto territoriale di riferimento?

R. La caduta del muro…quell’evento in realtà ci prese di sorpresa. Cioè, si capiva benissimo in quel periodo che la situazione si andava trasformando…sotto gli effetti della Glasnost’ e della Perestrojka avviate da Michail Gorbačëv[2]…ma il tipo di evento, per la sua portata e significato, lasciò scioccati tutti…c’è un episodio a tal riguardo particolarmente rivelatorio, che mi ricordo…quando De Mita era Presidente del Consiglio e fece un viaggio in Russia[3] prima della caduta del muro, si ebbero alcuni cenni di tensione con il nostro ambasciatore a Mosca, Sergio Romano, perché – almeno così pare – questi non ravvisava concretamente il segno di una radicale trasformazione in corso…riteneva che si trattasse [in riferimento alle politiche di ristrutturazione di Gorbačëv] prevalentemente di propaganda, senza nulla di sostanziale sotto…e quando De Mita gli chiese da cosa traeva queste conclusioni gli rispose che era la storia della Russia che gli faceva capire queste cose qui…evidentemente non aveva capito granché…le cose poi avrebbero rivelato tutt’altro…ma ciò è significativo del fatto che allora c’era questo processo difficile da decifrare…quali sarebbero state le conseguenze…

…certo qualcosa di nuovo c’era rispetto…non dico a Brežnev, ma anche rispetto ad Andropov o al suo successore[4]…ma non si riusciva a capire come si sarebbe risolto…quindi, la caduta del muro fu una sorpresa…che fu una sorpresa allora poi lo si vede anche nelle ricostruzioni del tempo…si pensi alla famosa domanda che il giornalista dell’Ansa rivolse alle autorità di Berlino est: “se è possibile [attraversare la frontiera], ma allora da quando è possibile?”…la risposta data dalle autorità fu addirittura sorprendente: “ci risulterebbe fin da questo momento”[5]…fu lì che esplose tutto, di fronte alle autorità tedesche dell’Est che praticamente dichiaravano il muro non più esistente, comunque non più una frontiera…

Ma come la vivemmo noi, in Italia…come un fatto che, in parte, era la conseguenza logica di quello che stava avvenendo con la presidenza di Gorbačëv…ma era una conseguenza logica difficile da prevedere, perché se era logico il movimento che veniva fuori…era difficile prevedere che le cose andassero così…erano movimenti, come dire, misteriosi, in un mondo altrettanto misterioso in cui si era visto di tutto…si era visto la Primavera di Praga, poi si era visto l’invasione…eran tutti colpi di scena che non consentivano, o almeno a noi, non consentivano di fare una valutazione…e quindi…si rimase così…sicuramente però fu un fatto enorme.

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12 novembre 1989. Achille Occhetto, segretario generale del PCI, intervenendo al rione Bolognina annuncia la “svolta” del partito che porterà poi nel febbraio 1991 al suo scioglimento (fonte: Wikipedia)

Naturalmente, cosa significava qui da noi, a livello locale, la caduta del muro…a livello locale, allora, il rapporto fra parlamentare e territorio era molto stretto, era difficilissimo passare un fine settimana senza avere un paio di incontri…ed era molto interessante andare a riflettere con la gente di questi avvenimenti, con tutte le incertezze…era sicuramente un fatto molto importante, talmente importante che poi qualche giorno dopo arrivò la Bolognina[6]….e ricordo che in Parlamento, una volta, mentre partecipavo ai lavori di una commissione, mentre si stava organizzando il calendario, dissi rivolgendomi a un collega: “voi del gruppo comunista…”. “Ma come” [mi sentii rispondere] “ma ci chiami ancora comunisti?!”…ma erano passati appena pochi giorni [dalla Bolognina]!!…[ilarità]…ecco c’era questa sensazione stranissima, ma non era una sensazione, che so io, che avesse dei connotati precisi…era una sensazione che tutto era cambiato, ma come fosse cambiato era assolutamente tutto da vedere…naturalmente, in periferia e in questi incontri, appunto…era molto interessante seguire i dibattiti, non solo per quanto mi riguarda nelle sezioni locali della DC, ma io ricordo di aver dibattuto molto con il segretario [regionale toscano del Partito Comunista Italiano], anche lui deputato, [Giulio] Quercini[7]…e gli dissi “d’accordo avete cambiato nome, ma avete aspettato che crollasse l’Unione Sovietica, o almeno che crollasse il muro”…sì, è vero…c’era questa sensazione di grande cambiamento…

Le conseguenze erano sicuramente rilevanti…io ricordo, come una mia impressione…non so se in occasione di una qualche ricorrenza della caduta del muro o di lì a poco nei primi anni Novanta…a me fece in qualche modo sorridere che la DC tirò fuori in quella particolare occasione un manifesto, facendo riferimento alla battaglia politica del 1948, un manifesto titolato “18 aprile 1948 dalla parte giusta” che era il modo più stupido di fare una cosa di questo genere[8]…che nel 1948 tu fossi stato dalla parte giusta lo dimostra ancora il fatto che ai primi anni Novanta eri ancora lì…ma non è che nei primi anni Novanta puoi avere vantaggio da una scelta fatta cinquant’anni prima…dà la sensazione di gente che pensava a una continuità che non ci poteva più essere…ma ecco, a parte questo, la percezione che non poteva più esserci la continuità, nel 1989, c’era…al punto tale che io qualche anno dopo partecipai a un seminario che fece a Berlino la Fondazione Adenauer sul processo di unificazione tedesca… qui siamo già successivamente al 1989, quando prese corpo il processo di unificazione tedesca….ma anche la partecipazione a questo seminario mi fece toccare con mano cose imprevedibili…

mi ricordo, a parte l’interesse di andare a vedere cosa accadeva là……ci portarono a vedere le vecchie zone della Germania dell’Est, Berlino Est…ma la cosa che mi fece più impressione, e che credo sia un fatto piuttosto significativo, è che…intanto la sensazione che si dice anche adesso, ma che non poteva essere che così…è stata un’unificazione o è stata un’annessione? Non poteva che essere un’annessione, perché la forza di quell’altra parte era crollata e quindi era inevitabile che succedesse questo…ma, tipico dei tedeschi – [perché] noi non saremmo mai riusciti a fare una cosa di questo genere – noi andammo a vedere l’esercito…l’unificazione dell’esercito era emblematica del sistema…tutti i corpi avevano il doppio comando…dall’inizio fu fatto così…un battaglione, una divisione eccetera era governato non da uno ma da due generali, uno di qua e uno di là [uno della Germania Ovest e uno della Germania Est]…due colonnelli…era tutto doppio, io rimasi allibito…è proprio la razionalità tedesca, per un certo periodo…non si fa la rivoluzione ma si fa l’unione, così si mettono tutti e due…vanno avanti alcuni mesi, dopodiché quelli della Germania dell’Est, ovviamente, vengono mandati in pensione, non è che vengono degradati o puniti…ecco…il fatto di vedere queste cose, in cui si vedevano due colonnelli che parlavano dell’unificazione delle forze armate era un fatto…che faceva un certo effetto.

Io per come la ricordo ora, almeno, fu proprio la sensazione di un enorme cambiamento, di questa vicenda incredibile dell’unificazione tedesca…anche un certo entusiasmo, il fatto che lo si considerava un fatto molto positivo…era la fine della guerra…la vera fine del dopoguerra…peraltro metteva in luce…la famosa battuta di Andreotti “ho tanta simpatia per la Germania che ne preferisco vedere due”[9]…che è una battuta…ma questo è un discorso che faccio ora naturalmente, e che non facevo allora…ma è una battuta significativa…a me viene in mente [per contrasto] Alcide De Gasperi…parlo di lui perché, per l’appunto, ho avuto recentemente la possibilità di studiarne aspetti di questo tipo[10]…quando De Gasperi è Presidente del Consiglio in Italia nel 1945…naturalmente il paese allora era del tutto isolato…lui approfitta immediatamente del fatto che i francesi, i quali erano e si consideravano – per certi aspetti anche meritoriamente nonostante il fatto che [nel 1940] fossero stati spazzati via immediatamente dai tedeschi – loro si consideravano gli unici vincitori continentali…e cosa succede, quando gli americani si organizzano con la cortina di ferro, si organizzano nel punto che loro ritenevano più delicato, cioè la barriera tedesca, e quindi…allora i francesi avevano tutto l’interesse per dire…guardate che la cortina di ferro arriva fino all’Italia…e quindi avere un fronte meridionale che fosse un po’ più importante…dunque dicevo, agevolato anche dal fatto che De Gasperi era persona stimata, peraltro era molto amico di Bidault[11] sul piano personale, e allora fecero subito…perché il primo uomo di stato che venne in Italia nel 1948 fu Bidault, il primo accordo internazionale che fece l’Italia fu l’unione doganale con la Francia, che non era cosa banale per rimettersi in moto…però…De Gasperi aveva anche questa caratteristica, un po’ perché era realista e sapeva che l’Italia non poteva andare a dettar legge in Europa…e quindi quando i francesi lo cercavano non gli pareva il vero…ma quando però i francesi gli dicono “si può fare tutto quel che si vuole [dell’Europa] ma i tedeschi vanno tenuti fuori”…e lui [De Gasperi] ha il coraggio di dire fin dall’inizio “finché i tedeschi non avranno riacquistato la sovranità piena il dopoguerra non sarà finito”…e il dopoguerra finiva di fatto, appunto, con l’unificazione tedesca…come dicevo prima, il dopoguerra finiva con il crollo del muro…e da lì in poi infatti cambia tutta la politica…

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Il diario di Giuseppe Matulli dei suoi due viaggi compiuti a Praga nel marzo 1989 e nel gennaio 1990, prima e dopo la caduta del Muro di Berlino.

…quanto ci fosse la consapevolezza allora di questo cambio di paradigma, io dubito molto…devo dire a livello personale…dopo che il  Partito Comunista Italiano era diventato PDS…[anche] la DC si trasformò…ritornò ad assumere il nome di Partito Popolare…ecco, quella era una finzione, perché le forze politiche rimanevano le stesse, ma si sentivano talmente inadeguate al loro tempo che cambiavano nome, però era una presa in giro…di se stessi, della storia, dell’opinione pubblica…perché rimanevano sempre quelli…io non partecipai, nonostante allora fossi sottosegretario alla pubblica istruzione, quando durante questo periodo ci fu la formazione del Partito Popolare Italiano, perché la cosa non mi convinceva per due motivi…il primo perché, nonostante il processo fosse guidato da un personaggio che godeva di stima universale quale Martinazzoli[12], il fatto di scegliere il 18 gennaio [1994] come data di fondazione, la stessa data in cui nel 1919 era stato fondato il Partito Popolare, era una cosa ridicola…il fatto poi che il partito era nato nel 1919 dall’appello agli “uomini liberi e forti” di Sturzo[13]….Martinazzoli aveva fatto un appello simile….cioè era uno scimmiottamento di una cosa avvenuta settant’anni prima che aveva del ridicolo, non aveva il senso della storia…naturalmente guardavano al passato…non aveva senso…e questo valeva anche per le trasformazioni del PCI…nelle sue varie metamorfosi…PDS, DS ecc. ecc…sia nell’uno che nell’altro caso, tutto fu fatto sulla base della caduta delle ragioni di contrapposizione fra due formazioni politiche che avevano cambiato nome…fu un processo tutto rivolto a guardare al passato, nel senso però di come rimediare al passato, senza però avere il coraggio di guardare al futuro…c’era quindi sempre questa sensazione che tutto era cambiato, ma che si faceva fatica a capire il cambiamento…

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La delegazione italiana a Praga è ricevuta dal dissidente ceco Jiří Hájek (al centro). Matulli è il primo sulla sinistra (fonte: G. Matulli, Praga prima e dopo…p.8)

Fu più o meno in contemporanea a questo processo che feci l’esperienza di un viaggio oltrecortina, a Praga[14]… l’idea del viaggio fu di Agrusti[15] di approfittare della vacanza del Parlamento per il congresso del PCI[16], siamo nel marzo del 1989, per andare a Praga al processo di appello al drammaturgo Havel[17] e prendere contatto con gli esponenti del movimento di “Charta 77”[18]. Jiří Pelikán che era in Italia[19] e Gilberto Bonalumi[20], un nostro amico ci davano una mano molto preziosa nella preparazione. Andiamo là e…mi ricordo cosa ci disse Hájek[21] che ci ricevette a Praga…ancora non era crollato il muro di Berlino ma era successo quello che era successo anche in tutti gli altri paesi del blocco sovietico…e Hájek ci disse; “certo che avverrà anche qui…[Matulli legge un passo del suo diario]…”sui marciapiedi della via lungo la Moldava dove abitava Havel, Hájek ci dice di non essere pessimista, ma, aggiunge: nei tempi della storia non in quelli della cronaca”…e questo in risposta alle nostre domande che gli chiedevamo cosa stesse succedendo….era significativo…dopo quando lo ritrovammo per il nostro secondo viaggio a Praga [vedi nota a piè di pagina numero 14] e gli ricordammo “ma lei ci aveva detto così…” [alludendo alla previsione rivelatasi sbagliata di  Hájek]…risultò chiaro che era perché nessuno, neppure Hájek poteva immaginare che lo Stato fosse praticamente un castello di carta e che bastasse dire “si vorrebbe” perché crollasse…quindi…io ho vissuto  questa esperienza…

…tutte queste novità, sì, ma si viveva in un’atmosfera talmente diversa che non si riusciva a dire che cosa sarebbe successo…c’era questa grande sorpresa e questa grande difficoltà che ancora oggi stiamo pagando…della incapacità di capire cos’era successo…forse oggi si ha la sensazione che buona parte…anzi…addirittura…noi lo capimmo solo quando si stava per andar via da Praga, per tornare in Italia… persino Jiří Pelikán e il nostro ambasciatore a Praga [Giovanni Castellani Pastoris], che pure tenevano rapporti con Dubček[22] e con Hájek, avevano cioè rapporti col movimento di dissenso al regime…nemmeno loro lo capivano, solo alla fine…cioè che i dissenzienti, che noi nel nostro viaggio a Praga andavamo a trovare nascosti nelle loro case, facendo finta di niente e non dicendo nulla a nessuno [per timore del regime]…e invece noi ci dimostrammo fuori dal mondo, dei “deficienti”…perché loro avrebbero voluto che noi…tre parlamentari italiani, certo non chissà quali autorità, ma comunque…loro avrebbero voluto che noi che si arrivava nella Praga di allora (prima cioè della caduta del muro) avessimo fatto una conferenza stampa con loro…perché questo significava dare forza a loro, far vedere che non erano dimenticati…e invece noi…non avevamo capito assolutamente niente di quello che succedeva là…è una riflessione che ho fatto dopo naturalmente[23]. Al punto tale che poi, al ritorno in Italia, qualcuno che si occupava di politica estera ci aveva detto che questi dissidenti erano velleitari, tanto che si ventilava la possibilità di accordi col regime di Husák, perché questi dissidenti erano dei velleitari…li chiamavano poi infatti “i poeti”…dopodiché, dopo tornati in Italia, i “poeti” invece avevano fatto la rivoluzione e avevano vinto…in questa rivoluzione….che però loro non volevano, giustamente, che si chiamasse “di velluto”…lo sapevano loro che cosa essa aveva significato…sacrifici…in tal senso ci sono anche molti aneddoti che ci raccontarono alcuni intellettuali…ci sono episodi anche carini, simpatici per così dire…ce ne è uno in particolare favoloso…[Matulli si prodiga a ritrovare l’esempio che vuol raccontare nelle pagine del suo diario del viaggio]…c’erano intellettuali che venivano posti [dal regime] a fare lavori non intellettuali perché sennò potevano essere pericolosi…e sicché, c’è il racconto…ecco…[Matulli cerca di ritrovare nel proprio diario il punto in cui si rievocano i casi dei due dissidenti Voclav Benda e Martin Paulosh, entrambi laureati in scienze e filosofia, ma costretti dal regime comunista cecoslovacco a lavorare come fuochisti di una caldaia, non trovandolo cerca di rievocare a mente le parole di Paulosh]: “…per mandare avanti una caldaia eravamo in tre ed avevamo cinque lauree”[24]…è bellissima questa…

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23 marzo 1989: Alexander Dubček (al centro) incontra la delegazione italiana. Matulli è alla sinistra di Dubček mentre alla destra vi sono Agrusti e Castagnetti (fonte: G. Matulli, Praga prima e dopo…p.31)

D. Presidente Matulli, so che lei ha fatto altri viaggi oltrecortina, in Polonia se non erro. Che ricordo ne ha, anche rispetto al ruolo che ebbe in quel contesto il cattolicesimo rispetto ai movimenti dissidenti?

R. Questo è un discorso a mio avviso molto difficile…perché, dunque io sono stato due volte in Polonia, la prima volta mi pare nel 1966 o 1967, poi dopo ci sono tornato qualche anno dopo…e in Polonia, intanto c’è un dato pacifico…la Polonia era un paese cattolico per un fatto nazionale…la religione era più importante della lingua, di tutto, perché si distingueva dagli ortodossi russi e dai protestanti tedeschi…un polacco non poteva che essere cattolico…questo dato identitario ha un’importanza enorme nella gestione del mondo comunista, perché il partito comunista anche nel periodo del potere stalinista non poteva fare a meno di tenere rapporti di un certo tipo con la Chiesa. La cosa singolare è che nella società polacca, e forse non solo nella società polacca, ma almeno lì il dato era evidente, c’erano divisioni…tre gruppi almeno di cattolici polacchi…io ne ricordo almeno due di posizioni più radicali…un gruppo che era praticamente collaborazionista col partito comunista e l’altro, che si chiamava Znac, “Il segno” in polacco…questo gruppo, associazione, pubblicava una rivista dal titolo Tygodnika Powszechnego, in italiano “Settimanale Universale” con sede a Cracovia…a Cracovia io incontrai il direttore Jerzy Turowicz[25] un intellettuale non da ridere, il quale, pur non avendo mai studiato l’italiano ma avendo studiato il francese e lo spagnolo parlava correttamente anche l’italiano…Turowicz, ci diceva che…la censura allora non scherzava…Turowicz…ecco purtroppo questa è una cosa che non si può più accertare…ma Turowicz era molto amico di Papa Wojtyla [Giovanni Paolo II] che allora era arcivescovo di Cracovia…ma Turowicz era un uomo di una laicità straordinaria, tanto è vero che durante il Concilio [Concilio Vaticano II, 1962-65] lui venne a Roma e io lo portai a Firenze, dove fece una conferenza…poi andò a parlare con La Pira [Giorgio La Pira] e quando lo riportai a Roma in macchina lui mi parlò dell’integralismo di La Pira, in termini…cioè, con molto rispetto perché La Pira è La Pira…ma La Pira aveva una visione che era più profetica che politica e quindi…poi La Pira lo dice addirittura nell’intervento alla Costituente, che lo Stato laico non ha nessun senso…e lui invece [Turowicz] era profondamente laico e quindi da questo punto di vista era abbastanza diverso anche da Wojtyla…

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Giiovanni Paolo II durante il suo primo viaggio in Polonia nel 1979 (foto di Barbara Bartkowiak, via Wikipedia Commons – CC)

…io non lo so, l’ho sempre sentito dire…tutti celebrano il peso determinante del papato di Wojtyla [nella caduta del comunismo]…dunque, però io, lo dico molto sinceramente, confesso di non averlo capito questo tipo di meccanismo…certo capisco benissimo che uno va…poi va in Polonia…in Polonia succede quel che succede[26]…ma Solidarnoś[27] succede per effetto del Papa oppure succede per effetto della Storia che crea questo…questa specie di bolla per cui si può essere al massimo cattolici e comunisti, ma non si può essere comunisti…?…cioè…la posizione del comunista anticattolico [in Polonia] è una minoranza estrema, insomma…per cui non lo so…io vedo più il crollo della capacità di [tenuta dell’Unione Sovietica]…

…perché l’Unione Sovietica secondo me…c’è una continuità storica impressionante nella storia della Russia…recentemente ho letto uno studio sui Gulag…i Gulag non sono niente di nuovo, cioè sono quelli che c’erano ai tempi dello Zar…la politica estera, al di là di tutte le affermazioni della Russia come stato guida del comunismo internazionale eccetera…ma anche nella diatriba interna al comunismo sovietico tra Stalin e Trockij… Trockij voleva predicare il comunismo in tutti i paesi del mondo e Stalin fa la politica di potenza, fin da quel momento, e la fa…e tutti gli avvenimenti gli consentono di fare esattamente quello che avrebbe fatto lo Zar…ed è esattamente quello che sta facendo ora Putin…cioè c’è una continuità impressionante…ed è in questa continuità che fallisce…cioè fallisce…ha fatto anche troppo devo dire [Stalin]…ha fatto anche troppo a reggere fin quanto ha retto…però alla fine, gli si è disgregato in mano tutto quanto….quindi in conclusione io credo che sia molto più la inconsistenza delle politiche sovietiche [la ragione del crollo del muro]…anche perché, la Russia è un paese ricco e il comunismo era riuscito a impoverirlo…

…ma forse anche questo è un elemento di continuità…un paese ricco, lo Zar lo gestiva con una mano di ferro da far paura, violentissima…tutta la gestione precedente della storia russa è violentissima…e quindi, cosa faceva [Stalin]…faceva quello che avevano fatto gli altri prima di lui…quel che facevano prima, lui [Stalin] lo faceva in nome del popolo invece che in nome della nazione, dello Stato ecc.…dopodiché, vedere in questo quadro un paese [la Polonia] che emerge all’attenzione mondiale, perché, prima il Papa…e questo Papa che ha anche un suo successo…certo, che si tratta di un fatto psicologicamente, simbolicamente enorme…ma insomma, quando va in Polonia…è un fatto che sicuramente contribuisce, ma contribuisce in una situazione che era già pregiudicata…ma comunque, tornando a Turowicz, questo intellettuale molto avanzato…lui diceva molto chiaramente, il cattolicesimo polacco è stato rinforzato dal comunismo…ma comunque il cattolicesimo polacco è anzitutto un fatto identitario nazionale…lo si vede anche oggi, come si è saldato di nuovo al nazionalismo in quel paese…ma io credo che le ragioni del crollo [del comunismo] siano assai più complesse di quelle legate a questo solo aspetto religioso…

[…]

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[1] Giuseppe Matulli (Marradi, 5 dicembre 1938), laureato in economia e commercio presso l’Università degli Studi di Firenze, ha svolto per lunghi anni attività amministrativa e politica, rivestendo importanti incarichi sia a livello locale che nazionale. Assessore e vicesindaco del proprio comune di nascita (Marradi) e Presidente della Comunità Montana dell’Alto Mugello, è stato consigliere regionale della Toscana dal 1970 sino al 1987. Sindaco di Marradi dal 1985 al 2002 è stato anche vicesindaco di Firenze dal 2002 al 2009. Esponente della Democrazia Cristiana, ne è stato segretario regionale per la Toscana dal 1983 al 1987. Eletto alla Camera dei Deputati nel 1987 per la X Legislatura e poi riconfermato sempre nelle file della DC alle successive elezioni del 1992, ha rivestito l’incarico di sottosegretario della Pubblica Istruzione nei governi Amato e Ciampi. Nel marzo 2019 è stato eletto Presidente dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze.

[2] Glasnost’ (convenzionalmente, “trasparenza”) e Perestrojka (“ricostruzione”) indicano come noto l’insieme di riforme che caratterizzarono il nuovo corso politico di Mikhail Gorbačëv, ultimo segretario generale del Partito Comunista Sovietico, e che innescarono la catena di eventi che portò alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

[3] Ciriaco De Mita, politico, segretario nazionale della DC e Presidente del Consiglio dal 13 aprile 1988 al 22 luglio 1989. Nell’ottobre del 1988 De Mita, assieme al Ministro degli Esteri italiano Giulio Andreotti, si recò a Mosca in visita ufficiale a Michail Gorbačëv.

[4] Leonid Brežnev, Jurij Andropov e Konstantin Ustinovič Ĉernenko, in ordine i tre segretari generali del Partito Comunista Sovietico prima di Mikhail Gorbačëv.

[5] Matulli si riferisce qui alla famosa domanda che il giornalista italiano dell’ANSA Riccardo Ehrman pose il 9 novembre 1989 nel corso di una conferenza stampa a Berlino Est a Günter Schabowski, portavoce del governo della DDR circa l’entrata in vigore del nuovo regolamento di transito tra le due Germanie; regolamento dibattuto nei giorni precedenti dalle autorità tedesche orientali e nel quale erano contemplate graduali aperture nella legge che impediva l’espatrio ai cittadini della DDR. Al quesito di Ehrman, se cioè il regolamento valesse anche per il transito da Berlino Est a Berlino Ovest e se sì da quando, Schabowski rispose inavvertitamente “a quanto ne so, da subito”. La notizia, rilanciata da tutta la stampa, fu letta come il preavviso della decisione delle autorità della Germania dell’Est di aprire il confine tedesco e spinse un ingente numero di persone a radunarsi presso il muro

[6] Il 12 novembre 1989, il segretario del Partito Comunista Italiano Achille Occhetto durante la commemorazione del 45° anniversario della battaglia di Porta Lame tenutasi a Bologna nella sala comunale di via Pellegrino Tibaldi, nel rione della Bolognina del quartiere Navile, annunciò l’apertura (da cui, la “svolta della Bolognina”) del processo politico che porterà il 3 febbraio 1991 allo scioglimento del Partito.

[7] Giulio Quercini (Siena, 16 dicembre 1941), consigliere regionale dal 1980 al 1987, segretario federale toscano del Partito Comunista italiano e deputato alla X Legislatura.

[8] Matulli qui allude al cartello-manifesto che aprì il Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana del 18 aprile 1990 nel quale campeggiava accanto alla foto di De Gasperi e sopra lo scudo crociato la scritta: “18  APRILE 1948 18 APRILE 1990 DALLA PARTE GIUSTA”

[9] Matulli allude alla famosa frase pronunciata in occasione della riunificazione tedesca da Andreotti: “Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due”

[10] Giuseppe Matulli, Alcide De Gasperi: quando la politica credeva nell’Europa e nella democrazia, Prefazione di Enrico Letta, Clichy, Firenze 2018.

[11] Georges Bidault, Presidente del Governo provvisorio della Repubblica francese dal giugno 1946 al dicembre 1946 e poi Presidente del Consiglio francese dall’ottobre 1949 al giugno 1950

[12] Mino Martinazzoli, l’ultimo segretario nazionale della Democrazia Cristiana e promotore della fondazione, il 18 gennaio 1994, del nuovo Partito Popolare Italiano di cui divenne Segretario generale.

[13] Si allude al manifesto (L’Appello ai liberi e forti) redatto nel 1919 dalla Commissione provvisoria guidata da Don Luigi Sturzo al momento della fondazione del Partito Popolare Italiano

[14] Tra il 19 e il 24 marzo 1989, Matulli, assieme ai colleghi parlamentari Luigi Castagnetti e Michelangelo Agrusti, compì un viaggio oltrecortina a Praga, dove ebbe la possibilità di entrare in contatto con alcuni dei principali dissidenti storici del regime comunista cecoslovacco, tra i quali Alexander Dubček, Václav Havel e Jiří Hájek. Successivamente, compì un secondo viaggio a Praga tra il 2 e il 5 gennaio 1990, dopo cioè la caduta del Muro di Berlino, incontrando nuovamente i dissidenti, protagonisti nel frattempo della “Rivoluzione di velluto” che tra il novembre e il dicembre 1989 aveva portato alla dissoluzione del regime comunista cecoslovacco. Di entrambi questi viaggi, Matulli pubblicò un breve diario, cfr. G. Matulli, Praga prima e dopo. Diario di un viaggio in due stagioni, Centro Toscano di Documentazione Politica, supplemento gratuito, A. IV, n. 3, marzo 1990.

[15] Michelangelo Agrusti, politico e parlamentare DC

[16] XVIII Congresso nazionale del PCI che si svolse a Roma tra il 12 e il 22 marzo 1989.

[17] Václav Havel, politico e drammaturgo ceco, dissidente e perseguitato politico sotto il governo comunista della Cecoslovacchia. Dopo la “Rivoluzione di velluto” fu tra il 1989 e il 1992 l’ultimo Presidente della Cecoslovacchia e nel 1993 primo Presidente della neocostituita Repubblica Ceca.

[18] Movimento di dissenso  costituito in Cecoslovacchia nel 1977 da alcuni eminenti esponenti dell’intellettualità e della cultura, tra cui lo stesso Václav Havel, il diplomatico Jiří Hájek, il filosofo Jan Patočka, il drammaturgo e poeta Pavel Kohout

[19] Jiří Pelikán attivista cecoslovacco, tra i sostenitori e promotori della “Primavera di Praga”, dopo la repressione sovietica del governo di Dubček trovò riparo in Italia.

[20] Gilberto Bonalumi, giornalista e parlamentare DC

[21] Jiří Hájek, diplomatico ceco e ministro degli Esteri di Dubček durante la Primavera di Praga, denuciò all’ONU l’invasione sovietica del paese e per questo fu arrestato e incarcerato. Tra i fondatori del movimento di dissenso “Charta 77”, Hájek nel marzo 1989 ricevette la delegazione italiana di cui faceva parte Matulli, facendo loro da interprete. Come appuntò nel suo diario lo stesso Matulli, Hájek, professore di storia contemporanea e di diritto internazionale “parla correttamente russo, francese, inglese, tedesco, italiano, spagnolo”, cfr. B. Matulli, Praga prima e dopo, cit., p. 7.

[22] Alexander Dubček, segretario del Partito Comunista cecoslovacco e artefice all’inizio del 1968 del tentativo di riforma e di liberalizzazione del sistema politico cecoslovacco (“Primavera di Praga”) poi brutalmente represso nell’agosto successivo dall’intervento delle forze armate sovietiche.

[23] Ma già nel suo diario Matulli aveva però annotato la delusione del dissidente Voclav Benda, raggiunto nel suo piccolo appartamento praghese, che gli aveva confessato: “sentiamo l’Italia lontana, la più lontana fra tutti i paesi europei. Vi siamo grati per questa visita ma l’incontro sarebbe stato più significativo se si fosse svolto nella ufficialità dell’ambasciata (come ha fatto Mitterand)”, cfr. G. Matulli, Praga prima e dopo, cit., p. 20.

[24] “Attorno alla stessa caldaia eravamo tre ed avevamo cinque lauree”, si può leggere in effetti nel diario di Matulli, cfr. Id., Praga prima e dopo, cit., p. 20. Rafforza il concetto anche un’ulteriore annotazione dell’incontro col dissidente Benda al quale – ricorda Matulli – “attualmente gli è impedito anche il lavoro manuale, per cui dice, sorridente e ironico, che la sua attuale professione è quella di “donna di casa”, ibidem.

[25] (1912-1999) Giornalista cattolico polacco, editore di numerose testate polacche, in particolare diresse dal 1945 sino alla sua morte nel 1999 il settimanale di cultura cattolica Tygodnika Powszechnego. Il periodico era stato sospeso nel 1953 per non aver voluto pubblicare il necrologio di Stalin, riprendendo le pubblicazioni a partire dal 1956.

[26] Matulli allude al primo viaggio in Polonia compiuto nel giugno 1979 da Giovanni Paolo II, il cui successo parve assestare un colpo durissimo al governo comunista polacco.

[27] Il sindacato autonomo nato nel settembre 1980 in seguito agli scioperi dei lavoratori dei cantieri navali di Danzica e guidato dal futuro Premio Nobel per la Pace Lech Wałsa, artefice del processo di dissoluzione del regime comunista in Polonia.




Una nuova rubrica di ToscanaNovecento

È la sera del 9 novembre 1989; Günter Schabowski, funzionario del partito di unità socialista della Germania, durante una conferenza stampa in diretta Tv, incalzato dal corrispondente dell’ANSA, Riccardo Ehrman, sui tempi della concessione dei permessi di viaggio ai tedeschi dell’Est, risponde con solo due parole: “Ab sofort”: da subito.Ci si è interrogati sulle ragioni di queste parole: sfuggite in un clima di incertezza e confusione o scelta consapevole?L’effetto è, prevedibilmente, immediato: i berlinesi si riversano in massa nei pressi del muro; le guardie, spiazzate e senza chiari ordini in merito, aprono i varchi per evitare episodi di disordine.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

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Dalla tv entrano nelle case di tutto il mondo le immagini festanti dei tedeschi di entrambe le parti, ora di nuovo insieme, degli abbracci e della commozione di un popolo separato per 28 anni, delle prime picconate al muro.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

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La caduta del muro di Berlino ha una carica e un valore simbolico tali da essere indiscutibilmente collocata tra i grandi eventi del Novecento. Barbara icona della Guerra Fredda, emblema della contrapposizione politica, ideologica, economica e militare tra Usa e Urss, ma anche garanzia di stabilità e di equilibrio tra i due blocchi in Europa, in una notte il muro diventa, con la sua caduta, simbolo dell’implosione di regimi fondati sull’ideologia comunista. Con il muro viene giù un mondo. Il processo è iniziato da tempo e non si concluderà la sera del 9 novembre ma quell’evento resta nell’immaginario collettivo quale simbolo visibile e tangibile del fallimento della via sovietica al socialismo. Di lì a poco inizierà lo smottamento degli altri regimi comunisti e la crisi di quei partiti che, pur con distinguo, criticità e declinazioni diverse, erano parte della galassia del comunismo europeo. Tutto ciò, non senza contraccolpi su tutto l’universo della sinistra.

A trent’anni di distanza il rumore del crollo del muro, prima, e dell’Unione Sovietica, poi, arriva fino a noi, riecheggia nella ritrovata unità della Germania, nei nuovi assetti geopolitici che l’Europa si è data a partire dagli anni Novanta con l’accelerazione del processo dell’integrazione europea e l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Est; ma risuona anche nei conflitti che hanno squarciato l’ormai ex Jugoslavia, nell’attacco russo in Georgia del 2008, nell’ostilità, ora aperta, ora celata, fra Stati Uniti e Russia dal 2014 in Ucraina.

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

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La redazione di ToscanaNovecento ritiene utile aprire uno spazio di riflessione e conoscenza sulle trasformazioni che l’evento simbolico “caduta del muro” ha prodotto, sulle conseguenze che esso ha avuto non solo da un punto di vista geopolitico ma anche sul modo di pensarsi e (auto)rappresentarsi della politica e del potere in Italia: lutto per alcuni, liberazione per altri, la fine della contrapposizione tra blocchi ha messo in discussione i riferimenti di chi, nato e vissuto in un mondo bipolare, forse fatica ancora oggi ad elaborarne la portata e il significato. Quello che proponiamo, e che andrà avanti con almeno un appuntamento al mese per l’ultimo scorcio del 2019 e per tutto il 2020, è un esperimento per questo portale: non articoli su singoli episodi storici di rilevanza locale o generale, ma una serie di interviste a personalità politiche, sindacali, culturali toscane sulle conseguenze della caduta del muro, sui significati di questo evento epocale, sia su un piano strettamente personale, sia sul piano pubblico dei rapporti e degli schieramenti politici.

Ci muoveremo in un “terreno accidentato tra memorie individuali e ricordi collettivi” (Passerini, 2003), ben consapevoli della differenza tra storia e memoria, quest’ultima “permanentemente in evoluzione, aperta alla dialettica del ricordo e dell’amnesia, inconsapevole delle sue deformazioni successive, soggetta a tutte le utilizzazioni e manipolazioni, suscettibile di lunghe latenze e improvvisi risvegli” (Nora, 1984). Ma ci sembra un percorso necessario per comprendere il recente passato e il presente.

Il primo appuntamento con la nuova rubrica del portale è per il mese di dicembre.




Sui luoghi della memoria o la memoria dei luoghi

L’espressione ripresa da Pierre Nora, e subito fraintesa, come ebbe a scrivere lo stesso autore, doveva facilitare un approccio critico al problema dei luoghi, ma si trasformò da subito in una espressione autocelebrativa.

A distanza di molti anni dall’opera di Nora, la situazione non è migliorata, anzi è profondamente peggiorata. Prima però di fare alcune riflessioni legate soprattutto, come mi pare corretto, all’esperienza maturata all’interno delle attività dell’Istoreco di Livorno e del territorio della sua provincia e, in parte, della provincia di Pisa, vorrei fissare l’attenzione sul titolo che dichiara da subito come si debba dividere la problematica in due diverse concettualizzazioni. Un conto è ragionare sui “luoghi della memoria” e un conto è ragionare sulla “memoria dei luoghi”. Mentre i secondi, a mio parere sono quelli che, con maggiore spontaneità, attraverso gli anni, sono diventati dei veri e propri topos che condensano alcuni significati importanti per gli abitanti che vivono su quello spazio o nei suoi pressi, o, forse è più corretto ipotizzare, per una parte dei suoi abitanti. Faccio un esempio chiaro per la consapevolezza di un italiano medio, perlomeno lo spero. Il luogo dell’attentato a Falcone, alla moglie e alla scorta sulla strada che dall’aeroporto di Palermo arriva nel capoluogo siciliano.

Ci passai molti anni fa, perlomeno 18-20 anni fa (era quindi l’anno 2001 o 1999). A ricordare cosa era accaduto lì, il 23 maggio 1992, c’era solo la vernice rossa che una qualche mano pietosa ed onesta (penso qualcuno dei lavoratori che rifecero il guard rail) aveva steso per attirare l’attenzione degli autisti che si trovavano a passare di lì. Lì era accaduto qualcosa di grosso, di veramente esorbitante, cosa nostra aveva fatto saltare uno dei simboli alla lotta alla mafia, e l’aveva fatto provocando un cratere degno di una guerra. Erano passati già diversi anni da quell’attentato ma l’erezione di un cippo commemorativo avvenne solo nel 2004. Dodici anni dopo la strage! Siamo sempre stati un Paese lento nel prendere coscienza, e qualche volta manco la prendiamo.

Ma dal punto di vista del significato, quella semplice rudimentale mano di vernice, suscitava un grande impatto e segnalava l’accaduto e nello stesso tempo denunciava la negligenza dello Stato. Quella poca vernice aveva assunto il valore di prendere su di sé la responsabilità e la scelta di dichiarare quel luogo, un luogo della memoria civile e democratica del nostro paese. La politica e lo Stato arrivarono dopo, molto dopo. Quel segno costituiva come un codice per la comprensione e la lettura, era un invito a schierarsi contro i mafiosi e chi li proteggeva. Un invito che non portava firma, anonimo. Occorre però aggiungere che nessuno aveva osato cancellare quella vernice. Quindi per genesi spontanea la coscienza di una parte degli italiani aveva decretato che quel punto dell’autostrada doveva essere sottolineato a ricordo del sacrificio di Falcone, della moglie e della scorta, trucidati da una quantità di tritolo spaventosa.

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La lapide che ricorda la nascita del PCI a Livorno

Qualcosa di simile è accaduto ed accade per altri luoghi della nostra storia democratica. Altre volte si sviluppano dei percorsi più tortuosi come quello che ha riguardato la città labronica. A Livorno, c’è un luogo, in via Borra, dove prima si ergeva il teatro San Marco, il teatro dove si riunirono gli scissionisti del Congresso del Psi nel 1921 per fondare il Partito comunista, e a ricordarlo era stata collocata nel dopoguerra una lapide. Con gli anni sia il luogo che la lapide avevano perso parte del loro smalto, del resto la lapide è posta in alto e occorre alzare gli occhi per vederla e il testo appare oggi per i giovani praticamente incomprensibile. Il profilo dell’edificio dell’ex teatro, oggi sede di un asilo, è profondamente cambiato e al di là di pochi fiori collocati da mani sconosciute per gli anniversari della nascita del Pci, mani forse cariche di nostalgia e di mitologia, pareva un luogo dimenticato. Ma quella lapide subì spontaneamente una nuova semantizzazione quando la ministra Gelmini dell’allora governo Berlusconi, dopo le proteste per il simbolo della Lega in una scuola del nord del paese, inviò un ispettore ministeriale per verificare se i bambini dell’asilo erano sottoposti alla fascinazione della falce e martello.

L’ispezione ci fu e non poté scattare nessuna reprimenda per il Comune di Livorno perché quel luogo storico, che tale è, e come tale va preservato, non esercitava nessuna persuasione occulta nei confronti dell’infanzia, anche perché, semplicemente, i bambini dell’asilo entrano dalla parte opposta. Una parte degli abitanti di città però non gradì questa minaccia e, immediatamente, la lapide che ricorda la nascita del Partito comunista, beneficiò per un periodo, anche abbastanza lungo, di attenzioni particolari: fiori freschi, scritte di solidarietà. Così la lapide e quello che vi è inciso ripresero vivacità e attenzione, e molti di quelli che si trovavano a passare da quelle parti, alzarono gli occhi alla segnalazione marmorea. L’Istoreco di Livorno l’ha sempre inserita nel percorso del trekking urbano che rivolge alle scolaresche sul Novecento, e alla spiegazione del significato del testo e della sua comprensione storica, adesso aggiunge la nuova vita che quella lapide ha assunto nello scontro politico attuale. Come si comprende bene due episodi molto diversi nelle dinamiche e nel significato ma che vedono entrambi scattare una specie di presa in carico da parte di cittadini sconosciuti di un luogo che viene letto come luogo deputato a rappresentare qualcosa che ci appartiene, che in qualche modo sta dentro la costruzione della nostra identità.

Ma la risemantizzazione di un luogo indica che si è potuto ricostruire la condivisione di un’emozione e questo ha permesso di rivitalizzarlo attraverso una ri-narrazione. Come scrive Antonella Tarpino la memoria come traccia “non è più un atto diretto, come nel caso del testimone, ma un atto vicario: un osservare davvero, si potrebbe dire, per conto terzi.“

L'ossario di S. Anna di Stazzema

L’ossario di S. Anna di Stazzema

E quando soggetti come gli Istituti storici accompagnati e sostenuti in questa operazione dalle amministrazioni pubbliche anche perché l’intervento è quasi sempre sopra uno spazio pubblico, decidono di segnare uno spazio, di riperimetrarlo, decidono cioè di proporre per quello spazio una narrazione che lo indichi come luogo, luogo di memoria fanno su una base solida di conoscenze, una operazione di narrazione, che è anche una ri-narrazione, una aggiunta, un addendum segnalato con una qualche modalità visiva. Ma affinché l’operazione funzioni occorre che ci sia qualcuno pronta ad accoglierla. Ed è qui che si rivelano spesso le fragilità. Mentre tutti i segni che contraddistinguono un luogo come Monte Sole così come Sant’Anna di Stazzema, sono quasi immediatamente percepiti e compresi perché luoghi di pellegrinaggi, perché luoghi diventati mete scolastiche, altre emergenze pur raffinate e pur dense di significato, non riescono a condensare senso e memoria condivisa, o se lo fanno, ciò accade in modo diverso e spesso opposto a quello auspicato.

Rinvio ad esempio all’esperienza del progetto Luoghi della memoria del mio istituto che, a pochi anni dalla sua realizzazione, risulta molto meno efficace e meno ricco di quella che i suoi ideatori ed io stessa auspicavamo. La novità del QRcode quando fu adottata sembrò ricca di potenzialità ma poiché adesso il rinvio ad altro, di solito un approfondimento, tramite il QRcode è anche sulle confezioni dei fazzoletti, la forza comunicativa si è persa. Non solo. Il sito ha bisogno di manutenzione mentre il pannello in materiale non biodegradabile alle intemperie ha retto negli anni. Questo alla fine è quello che è rimasto. Una tappa in un trekking urbano sulla memoria del Novecento. Un appiglio visivo per un passante poco distratto, una percezione momentanea e forse stimolante. Credo niente di più. Può darsi comunque che non sia poco.

Ma c’è un altro problema con i luoghi della memoria, specialmente quelli più affardellati dagli anni e dai trascorsi. Proviamo a ragionare sul campo-monumento di Fossoli. Fossoli è un luogo simbolico assai importante nella nostra storia di italiani e di democratici. Immediatamente il campo ci fa scattare la memoria Primo Levi e, subito dopo, specialmente se abitiamo un luogo sede di comunità ebraica, altri nomi di ebrei passati di lì (per Livorno sicuramente Frida Misul della quale ricorre l’anniversario della nascita), ma anche il nome di molti politici. Eppure quel campo, campo di concentramento a pochi chilometri da Carpi, è stato campo di concentramento non solo nel senso legato agli eventi della seconda guerra mondiale. É stato anche molto altro. É un luogo della memoria nel quale è possibile leggere, anche grazie alla cura che ne ha la Fondazione Fossoli, una stratigrafia semantica di significati. Campo per prigionieri di guerra dal 1942 all’ 8 settembre 1943, campo per profughi stranieri, campo della Repubblica sociale italiana per ebrei e politici destinati all’azione di persecuzione delle truppe nazifasciste, campo di prigionia di manodopera coatta per la Germania, centro di raccolta profughi stranieri, campo per i i bambini di don Zeno Saltini fino a quando lui con i suoi ragazzi furono allontanati da Fossoli e don Zeno fu accusato di praticare quello che si chiamava “comunismo evangelico” dal ministro degli Interni Scelba. La sua comunità divenne famosa come la comunità di Nomadelfia. Non furono però gli ultimi ospiti del campo, che si aprì di nuovo per i profughi giuliano-dalmati con il cosiddetto Villaggio San Marco.  Dopo quella data, il campo fu abbandonato all’incuria fino a quando finalmente arrivò una legge ad hoc nel 1984 che solo dopo un periodo lunghissimo di passaggi burocratici portò alla costruzione di Fossoli come luogo di memoria pubblica. Ci sono stata poco tempo fa e ho visto grazie anche a Silvano, un volontario che la lavora con la Fondazione Fossoli che ha sede a Carpi, che ci ha fatto da guida fuori dall’orario di apertura. Insieme a lui abbiamo osservato due mazzolini di fiori collocati lì al cancello di ingresso e sopra un pannello da mani sconosciute, perlomeno per me. Silvano ci ha spiegato che sono alcune donne dell’est che si trovano in zona come badanti, ad aver messo quei mazzolini. Probabilmente qualche loro parente è passato di lì come prigioniero di guerra. E questa è l’ultima ri-semantizzazione di quel posto. Ed è una ri-semantizzazione che rende, a mio parere, quel luogo anche un po’ più europeo di prima, serve ad avvicinare e non a costruire barriere, a rafforzare l’idea di un’Europa unita come unica cornice di pace.

Ma i luoghi, tutti, questo come il mausoleo di Sant’Anna di Stazzema o il monumento su Monte Sole, godono oggi di molta più attenzione rispetto anche ad un passato abbastanza recente perché il “guardare” è diventato preponderante rispetto all’”ascoltare”. Anche per questo credo che occorra da parte nostra manipolare con molta cura questa situazione per non avallare conoscenze frettolose, superficiali, da turismo dell’horror. Per avvicinarsi a questi deposi memoriali occorre sempre utilizzare una guida preparata, fare delle soste lontano dagli stessi prima di entrare dentro a spazi che, nel bene e nel male, risultano comunque monumentalizzati. Proporre per le scolaresche percorsi che abbiano solo come ultima tappa la visita. Quello che si fa ad esempio con il viaggio ad Auschwitz, o nei luoghi del “confine orientale”, con la Regione Toscana.

Il mauseleo a Costanzo Ciano sulle colline di Livorno

Il mauseleo a Costanzo Ciano sulle colline di Livorno

Altrettanta attenzione e sensibilità occorre nell’affrontare i luoghi della memoria della destra. O i luoghi a doppia lettura. Uno per tutti: Piazzale Loreto. Luogo dell’uccisione di 15 partigiani, con un’esecuzione fra le più feroci della guerra. Poco meno di un anno dopo, il 29 aprile 1945 nella stessa piazza forno esposti i corpi di Mussolini, Claretta Petacci, Pavolini ed altri.

Questo luogo è come comprendiamo facilmente, un luogo a doppia valenza. Le nostre ricerche sulle dinamiche di entrambi gli episodi possono essere utilizzati a seconda del vento che tira. E di questo occorre essere consapevoli.

O pensiamo a luoghi come il cimitero di Predappio invaso sempre più spudoratamente da folle inneggianti al Duce. In questo caso forse occorrerebbe domandarsi cosa è stato fatto dalla Repubblica perché questo, nei decenni passati, prima che il partito della Lega di Salvini prendesse il potere in quel municipio, per impedire questa manifestazione di ossequio e riverenza ad un passato tragico e colpevole, quello del ventennio fascista.

Esistono risposte di fronte a queste difficoltà, alla impossibilità di costruire una grammatica narrativa non penso condivisa, ma rispettosa, credo di sì, ma non dentro questo presente dove sempre il sindaco di Predappio ha negato per la prima volta un contributo per il viaggio ad Auschwitz degli studenti affermando che questi viaggi sono sempre a senso unico. Dove pensa che vada costruita la coscienza europea, nei Gulag? O che la storia del “confine orientale” comprensiva della tragedia delle foibe, possa pareggiare con quella dei campi di sterminio e di concentramento? Certo quello che domina è l’ignoranza che insieme alla tracotanza, diventa una miscela molto esplosiva. Proviamo a resistere a questa deriva che ci può far naufragare in un mare molto scuro.




La Guerra Partigiana

A Pistoia, ormai da anni, le storie dei combattenti partigiani entrano, a buon diritto, nelle aule delle scuole elementari e medie della città: questo risultato è reso possibile dal progetto “La guerra partigiana”, promosso da Spi Cgil-Lega “Ugo Schiano” e Fondazione Valore Lavoro. Grazie alla collaborazione di Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia (ISRPt), ANPI sezione “P. Gherardini”, Croce Verde, Sezione Soci Coop, Circoli Arci di Bonelle e “L. Bugiani” e Comune di Pistoia questo progetto ha coinvolto, nell’anno scolastico 2018/2019, un totale di 391 bambini e ragazzi, confermandosi una realtà consolidata al servizio delle scuole pistoiesi.
Scopo del progetto è quello di attivare una vera e propria didattica della storia della Resistenza pistoiese, rivolta agli insegnanti e agli studenti, per intensificare il dialogo con le nuove generazioni e far loro conoscere un passato che, purtroppo, lo scorrere del tempo rischia di rendere sempre più sfumato agli occhi degli alunni di oggi. È Spi-Cgil ad occuparsi degli aspetti organizzativi riguardanti il coinvolgimento delle scuole; la docenza è invece svolta dai ricercatori ISRPt, che diventano per l’occasione “insegnanti per un giorno” allo scopo di rendere partecipi i piccoli studenti della storia della nostra Resistenza. In particolare, per quanto riguarda i bambini della scuola primaria, ognuno dei ricercatori ISRPt “prende in consegna” una classe terza e la accompagna nel suo percorso scolastico fino alla classe quinta: così facendo, oltre a crearsi una benefica continuità nella pratica didattica, si consolida il rapporto del ricercatore con la classe da lui seguita, stimolando un clima reciproco di conoscenza e fiducia fra gli alunni e il ricercatore. Ma come rendere accessibile a bambini e ragazzi un argomento tanto complesso come quello della Resistenza? Grazie alla preziosa collaborazione degli insegnati delle diverse scuole, il tema della Resistenza è introdotto in anticipo nelle classi, in modo tale che gli alunni abbiano un primo approccio alla tematica in oggetto; solo in seguito a questa premessa, i ricercatori ISRPt possono recarsi nelle aule e tenere la loro lezione. Ma, più che delle lezioni, questi incontri diventano dei veri e propri dibattiti: la curiosità degli studenti riguardo alla Resistenza è molta, e i ragazzi non mancano mai, infatti, di porre numerose e molteplici domande di vario genere, alle quali i ricercatori si impegnano a rispondere per soddisfare l’interesse dei giovani studiosi. Le lezioni giungono a parlare ai ragazzi della “guerra partigiana” dopo aver introdotto quegli avvenimenti fondamentali che ne furono i precedenti: questo perché gli studenti possano comprendere il più autonomamente possibile quando e perché essa ebbe luogo. I temi trattati preliminarmente sono quindi la presa del potere da parte di Mussolini e il fascismo, la politica espansionista della Germania hitleriana e lo scoppio della Seconda guerra mondiale, per poi arrivare, infine, alla “guerra partigiana” e ai suoi protagonisti nella zona del pistoiese.
Grazie al supporto di fotografie d’epoca, selezionate dai ricercatori ISRPt, gli alunni entrano in contatto, spesso per la prima volta, con la Resistenza pistoiese e le sue figure (ad esempio il giovane partigiano Silvano Fedi, morto in uno scontro a fuoco con i tedeschi, la cui memoria è ancora ben viva nella città di Pistoia) e con la vita delle popolazioni dell’epoca. La lezione in classe costituisce solo la prima parte del progetto didattico della “guerra partigiana”: a essa fa infatti seguito una vera e propria esplorazione sul campo dei luoghi della memoria pistoiese. In questa esplorazione i ragazzi sono accompagnati dai loro insegnanti e dai ricercatori ISRPt che, novelli ciceroni, conducono gli studenti a vedere con i loro occhi i siti più significativi della Resistenza cittadina. Una delle mete di queste “gite partigiane” è il centro di Pistoia: durante questo tour vengono illustrati agli alunni le lapidi e i cippi commemorativi di cui il centro è punteggiato, e vengono loro spiegate le storie e le vicende che tali monumenti ricordano. Un’altra meta particolarmente evocativa è il Monumento votivo militare brasiliano, sito alla periferia della città: un vero memoriale all’aria aperta (dotato anche di un suo piccolo ma significativo museo) che ricorda le vicende della Força Expedicionária Brasileira, attiva sull’Appennino tosco-emiliano nella primavera 1945 e che si trovò a passare anche da Pistoia. Molto significativa è anche la visita al Passo della Collina sopra Pistoia, dove, nella località del Signorino, si snodava la Linea Gotica: ancora oggi, vi si ritrovano alcune fortificazioni in cemento armato ben conservate, parte del sistema difensivo tedesco a protezione delle vie di accesso al valico.

La terza e ultima parte del progetto della “guerra partigiana” è quella della restituzione: in questa fase conclusiva i ragazzi, assistiti dai loro insegnanti, producono i loro personali elaborati, illustrando nel modo che preferiscono (disegni, interviste, articoli, presentazioni multimediali) ciò che più li ha colpiti ed interessati durante questo “viaggio nella storia”. Questi elaborati diventano poi il centro di una mostra aperta al pubblico cittadino, dove a ognuno degli studenti viene consegnato un attestato di partecipazione: un piccolo omaggio dedicato ai ragazzi per ringraziarli della loro partecipazione attiva a questo progetto didattico sulle tracce della nostra Resistenza. Perché, adoperando le parole di Gabriella Valdesi, curatrice del progetto per Spi-Cgil Lega “Ugo Schiano”, lo scopo finale è quello di ricordare: «Bisogna ricordare e avere rispetto per i sacrifici compiuti da tante persone giovani e non, che hanno dato la vita per un ideale, intensificando il dialogo con le giovani generazioni, per conoscere il passato per costruire il futuro e guardare avanti».




“Un impegno per il presente”. La città di Lucca e l’Istituto storico della Resistenza nel 75° anniversario della liberazione.

Sono le ore 10.00 della mattina del 5 settembre 1944 quando una pattuglia di soldati americani al comando del capitano Gandy fa il suo ingresso a Lucca, liberata dai partigiani nel corso della notte, dalla cinquecentesca Porta San Pietro, per essere festosamente accolti dalla popolazione civile: se per quei soldati – membri della “mitica” 92° divisione Buffalo, composta in gran parte da afroamericani – il conflitto era ancora lontano dalla sua conclusione, per la città e i suoi abitanti la guerra era finalmente finita. Sono passati ventiquattro anni da quel violento scontro in piazza San Michele tra fascisti e socialisti tante volte ricordato da Arturo Paoli (che all’epoca ha otto anni e assiste personalmente al fatto), ventidue dalla marcia su Roma (cui partecipa anche l’empolese Idreno Utimpergher, dal giugno 1944 a Lucca assieme a Pavolini per riorganizzare le squadre fasciste dopo aver seminato il terrore a Trieste) , e venti dal delitto Matteotti, apparente preludio alla disfatta del fascismo e che invece si traduce nel suo definitivo avvento al potere. Si combatte ancora a dire il vero, i tedeschi tentanto un ultimo attacco quella stessa mattina presso Porta Santa Maria e e Porta Elisa, ma vengono respinti: la guerra nella quale Mussolini ha portato un paese militarmente impreparato è finita per davvero a Lucca, non come il 25 luglio. Sei giorni dopo l’arrivo degli Alleati, l’11 settembre, la formazione Bonacchi viene sciolta: 18 dei suoi effettivi sono caduti nelle ore decisive della liberazione della città, e altrettanti sono i feriti gravi. È davvero finita per il fascismo a Lucca, per il regime che ha perseguitato, emarginato e imprigionato l’anarchico militante Urbano “Ferruccio” Arrighi, (che fu in corrispondenza addirittura con il “padre nobile” dell’anarchismo italiano Errico Malatesta), il popolare Arturo Chelini (tra i fondatori del Ppi lucchese, aggredito nell’agosto 1922 da alcuni squadristi in via Fillungo), l’allenatore della Lucchese Ernesto Erbstein (ebreo ungherese vittima delle leggi razziali), Silvio Laurini (emigrato da bambino in Spagna con la famiglia, combattente per il fronte repubblicano durante la guerra civile nelle brigate internazionali), il comunista Giorgio Ricci (dal 1940 al 1943 al confino a Ventotene) e molti altri ancora. Senza dimenticare il ruolo fondamentale del clero lucchese, protagonista di una straordinaria testimonianza di resistenza civile e assistenza e protezione agli ebrei perseguitati, ai prigionieri in fuga e alle bande partigiane durante la guerra: una resistenza disarmata ma non priva di rischi, che vede numerosi uomini di fede cadere vittime della ferocia nazista, da don Giorgio Bigongiari ai monaci certosini di Farneta fino a don Aldo Mei, fucilato proprio a Lucca un mese prima della liberazione della città.

Conferenza stampa di presentazione del calendario della liberazione a Lucca, 29 agosto 2019 (foto di S. Lazzari)

Tante storie diverse, “storie difficili e dolorose […] ma anche belle” come scrive il sindaco di Lucca Alessandro Tambellini nel suo contributo al volume edito dall’Anpi nel 2014 in occasione delle commemorazioni per il 70° anniversario della liberazione, “storie di gioventù e di buoni maestri, storie di resistenza in armi e di disobbedienze civili, percorsi individuali e gesti di impegno collettivo”. Storie che il comune di Lucca, in sinergia con le istituzioni provinciali e i numerosi enti e associazioni impegnati sul fronte della memoria e della ricerca storica – Anpi, Atvl, Ass. “Linea Gotica”, Fiap, Fivl, Isrec e Istituto storico lucchese – dal 1° settembre al 5 ottobre si impegna una volta di più a valorizzare, in quello che l’assessora alla memoria Ilaria Vietina, nella conferenza stampa a Palazzo Orsetti del 29 agosto, ha definito “un impegno per il presente”, volto a recuperare la consapevolezza di ciò che è stato il periodo bellico per i territori della Lucchesia, riscoprendo le radici della Costituzione, nata dalla Resistenza e dalla negazione del progetto politico nazifascista. Il recupero della memoria passa dalla scelta di servirsi di un linguaggio multimediale che vede il media del libro affiancato dal docufilm (quello sul veterano della Buffalo Ivan J. Houston, presente anche alla proiezione) e dal teatro (“Ich var da”, di e con Amanda Sandrelli e Marco Brinzi, dove troverà spazio anche la fotografia di Oliviero Toscani, che nel 2003 ha ritratto i sopravvissuti all’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, allora soltanto dei bambini). Varie iniziative hanno toccato e toccheranno tutti i territori della Lucchesia con lo scopo, sottolinea ancora Vietina, di dare la voce ai “salvati”, sulla scia degli studi di Anna Bravo: andare oltre la memoria delle vittime – senza che questo significhi sminuirne il ricordo – per restituire una storia che non sia appiattita unicamente sull’aspetto della violenza. Ma il progetto è più ambizioso, guarda oltre le celebrazioni ufficiali nel quadro di quella che potremmo definire una “memoria attiva” per la quotidianità, non legata alla “liturgia” laica degli anniversari: in questo senso è da leggersi l’inaugurazione, che si terrà sabato 21 settembre alle 12.00, della “Casa della Memoria e della Pace” presso il castello di Porta San Donato sulle mura, che si auspica possa diventare un punto di riferimento per tutti quei soggetti impegnati sul fronte della tutela della memoria. Ma quest’ultima ha il suo complemento insostituibile nel rigore scientifico della ricerca storica.

L’intervento di Andrea Ventura a Palazzo Santini il 5 settembre 2019 (foto di S. Lazzari)

L’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in provincia di Lucca, fondato nel 1977, è parte integrante anche quest’anno dei numerosi eventi legati a questo 75° anniversario, tenuti insieme da un filo conduttore che il direttore dell’Isrec, Andrea Ventura, individua nel ritorno alla testimonianza, al vissuto personale dei protagonisti: ma l’importanza di questo aspetto non deve far venire meno l’interesse per il documento, la fonte storica, essa stessa forma di testimonianza che rimanda agli individui che vissero quel periodo cruciale. Ed è proprio questa la via che l’Isrec ha scelto, in continuità con quanto già fatto in passato a partire dal 40° anniversario (1984) e poi ancora nel 60° (2004), pubblicando sulla rivista dell’Istituto – Documenti e Studi – fonti statistiche, relazioni e testimonianze allora inedite sul periodo dell’occupazione e l’attività partigiana nella provincia di Lucca. Un passaggio quindi dalla memoria – con tutti i rischi legati alla selettività della stessa e al rischio di rimozioni – alla storia fondata sui documenti, quelli delle commissioni incaricate di riconoscere ai richiedenti la qualifica di partigiano combattente. Sono queste carte, presentate a Palazzo Santini dal direttore Ventura il 5 settembre, a chiusura della giornata di celebrazioni della liberazione – che ci restituiscono i profili biografici degli uomini della formazione “Bonacchi” (giovani nati e cresciuti sotto il fascismo, privi di una vera educazione politica) e demoliscono il mito revisionista secondo cui “alla liberazione tutti partigiani” (in realtà i criteri di riconoscimento furono piuttosto restrittivi, e circa 71 domande furono respinte). Un lavoro scientifico che – ha sottolineato ancora Ventura nelle conclusioni del suo intervento del 5 settembre – non può essere appiattito su una presunta freddezza dello storico, immaginato come studioso completamente distaccato dall’argomento: al contrario, ogni ricerca non può prescindere da una certa empatia verso i protagonisti delle vicende indagate.




Sant’Anna di Stazzema: il perché di una strage

Sulla strage di Sant’Anna di Stazzema, come su altre stragi, la memoria è ormai trasmessa in centinaia di testimonianze, a volte rilasciate a decenni dagli eventi. E’ necessario quindi un forte richiamo alla conoscenza storica, come elemento fondamentale di comprensione di quanto avvenuto e di formazione delle giovani generazioni. Partendo dalla domanda più importante: il perché della strage.

La strage di Sant’Anna si inquadra in quella particolare fase della situazione bellica che si apre con l’arretramento dell’esercito tedesco sulla così detta Linea Gotica. In zone di grande rilievo strategico, come i monti a ridosso della Versilia, le Alpi Apuane o la Lunigiana, la presenza di numerose formazioni partigiane, di diverso orientamento (dai garibaldini agli autonomi) rappresentava per i tedeschi un effettivo problema. A partire da luglio 1944 si segnala così una radicalizzazione dell’atteggiamento degli occupanti nei confronti della popolazione civile, accusata, a torto o a ragione, di proteggere la guerra partigiana.

Nella zona arrivò in quei giorni la XVI Divisione Panzer-Grenadier delle SS, comandata dal generale Simon, un fanatico nazista, formata di giovani militari, ma con un nucleo di ufficiali e sottufficiali fortemente ideologizzati e temprati da precedenti esperienze nel sistema concentrazionario nazista, o in operazioni belliche, comprensive di azioni di sterminio di ebrei e di civili, nella Polonia occupata.

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Case incendiate in località Vaccareccia

Il 12 agosto 1944, all’alba, salgono a Sant’Anna di Stazzema gli uomini del II Battaglione del 35° Reggimento. Secondo alcuni testimoni, fra di loro, in divisa tedesca, vi erano anche italiani, fascisti versiliesi che, per non farsi riconoscere, portavano un passamontagna, tuttavia il particolare, rilanciato anche da pubblicazioni recenti, deve essere ancora convincentemente provato sul piano storico. Altri militari, appartenenti ad altre formazioni tedesche, circondano l’area. Arrivati sul posto, tutti coloro che vengono trovati, con poche eccezioni, vengono massacrati: per lo più donne, bambini, anziani. La cifra ufficiale parla di 550 morti, in realtà il numero effettivo è minore, anche se non è stato ancora fatto un serio lavoro di ricerca per accertarlo. La memoria locale si è a lungo divisa sulle cause dell’eccidio: molte le accuse ai partigiani, per non aver difeso la comunità, nonostante rassicurazioni in tal senso date precedentemente.

L’eccidio di Sant’Anna si inserisce all’interno di un ciclo operativo di “lotta alle bande” che inizia ai primi di agosto, colpendo con violenze e stragi vari territori del pisano, continua in Versilia, investe quindi, dopo Sant’Anna di Stazzema, le Apuane, per poi proseguire, al di là dell’Appennino, nella “grande” operazione di Monte Sole, contro le popolazioni di tre comuni, Marzabotto, Grizzana e Monzuno, nella quale dal 29 settembre al 5 ottobre, furono uccise circa 770 persone. In questo contesto operativo, la strage di Sant’Anna di Stazzema riacquista il suo tragico significato: si tratta di operazioni sulla carta rivolte contro i partigiani, che si configurano in realtà come azioni terroristiche di ripulitura del territorio, veri e propri massacri di tutti coloro che venivano trovati all’interno dell’area delimitata come quella da “bonificare”, a priori considerati “partigiani”, il cui sterminio, anche se neonati o anziani infermi, era programmato prima della strage.

Girotondo bambini piazza chiesa rid 400 a tagliatoMa proprio questo carattere programmatico, considerato provato dal Tribunale Militare di La Spezia nel 2005 (con sentenza confermata in Cassazione), è stato messo in discussione dalla Procura di Stoccarda (Baden-Württemberg) che nell’ottobre 2012 ha chiesto l’archiviazione del procedimento penale a carico delle SS indagate (alcune delle quali condannate all’ergastolo in maniera definitiva in Italia). Il procuratore tedesco ha ritenuto che non si potesse provare il carattere predeterminato dello sterminio dei civili, che invece i giudici di La Spezia hanno argomentato nella loro sentenza, accogliendo l’impostazione del procuratore italiano Marco de Paolis che, recependo anche l’esito delle più recenti approfondite indagini storiografiche, ha sostenuto che “la partecipazione con un significativo incarico di comando alle operazioni militari che determinarono come effetto finale il massacro di centinaia di persone civili non belligeranti, integra gli estremi di un consapevole concorso alla realizzazione del reato”. Secondo la procura di Stoccarda, invece, questa pianificazione della strage non può essere provata e, nella affermata impossibilità di individuare, a distanza di quasi settanta anni, il ruolo avuto da ciascuno dei singoli imputati, ne ha richiesto il non rinvio a giudizio. Attualmente è ancora pendente il ricorso di Enrico Pieri, uno dei sopravvissuti, presso la Corte d’Appello di Karlsruhe, contro tale archiviazione (confermata invece dalla Procura generale dello Stato).

Il carattere e la consistenza delle argomentazioni riportate nel provvedimento di archiviazione lasciano più che perplessi proprio sul terreno della ricostruzione storica, e dimostrano come in questi casi di giustizia tardiva solo la ricerca storiografica, condotta ovviamente con onestà e rispetto della verità fattuale che è possibile definire in base alla documentazione disponibile, possa sostituirsi ad una verità giudiziaria sempre più difficile da ottenersi, a settanta anni dal massacro.




Gli eroi maledetti. I goumiers e la liberazione del territorio senese (giugno-luglio 1944)

Il 15 giugno 1944, in una calura soffocante, le avanguardie del Corps expéditionnaire français superavano il fiume Paglia entrando nel territorio senese e sferrando l’attacco contro i caposaldi che i tedeschi avevano predisposto per rallentarne l’avanzata.

Gli attaccanti erano gli stessi soldati che, un mese prima grazie a una brillante azione nella valle del Liri, avevano messo in crisi la linea Gustav. Adesso era stata affidata loro una zona secondaria, incuneata tra la direttrice tirrenica, affidata alla V Armata americana, e quella adriatica di competenza dell’VIII Armata britannica. Del resto il fronte senese, povero di ampie vallate, di comode vie di comunicazione e prevalentemente accidentato, permetteva di sfruttare nel migliore dei modi le caratteristiche della fanteria leggera francese che si era rivelata particolarmente abile nelle aree montane.

Il corpo di spedizione transalpino era composto da quattro grandi unità, la I Divisione Francia libera, comandata da Diego Brosset, forte di 15.491 uomini di cui 9.012 europei e il resto di altre nazionalità; la II Divisione di fanteria marocchina, comandata da André Dody, composta da 13.895 uomini di cui 6.578 europei e il resto africani; la III Divisione di fanteria algerina (quella che liberò Siena), comandata da Joseph Goislard De Montsabert e composta da 13.189 effettivi di cui 6.353 europei e 6.835 africani; la IV Divisione marocchina da montagna, comandata da Françoise Sevez, e composta da 19.252 uomini di cui 6.545 europei e 12.707 africani.

Oltre a queste unità, costitutite nel Magreb liberato a partire dal 1943, ben armate e addestrate[1], si aggiungeva una riserva di 29.431 elementi, circa metà europei e metà africani e infine i Goums, in tutto 7.833 uomini, di cui solo 645 europei, comandati dal generale Augustin Guillaume[2].

Furono proprio questi ultimi a rimanere particolarmente impressi nell’immaginario della popolazione senese, sia per il proprio, indubbio, valore sul campo di battaglia che per una serie di violenze contro i civili.

Il termine goumier deriva dalla francesizzazione del sostantivo arabo qawm che significa tribù, gruppo sociale[3]; tali truppe erano infatti inquadrate in compagnie chiamate goums forti di duecento uomini ciascuna; tre o quattro di tali reparti formavano un tabor[4] (reggimento).

Goumier nel territorio senese. Immagine tratta da R. Bardotti, "Attenti a dove sparate.", Siena, Betti editore, 2018

Goumier nel territorio senese. Immagine tratta da R. Bardotti, “Attenti a dove sparate.”, Siena, Betti editore, 2018

Questi gruppi erano sorti nel Marocco francese come milizia territoriale nel 1908 e avrebbero servito il Governo di Parigi fino al 1956 (anno d’indipendenza del Marocco, Paese da cui provenivano la maggioranza dei militi); ogni goum era composto (a parte gli ufficiali, tutti francesi[5]) da nativi della regione montuosa dell’Atlante e si differenziava dalle altre truppe coloniali regolari (gli spahis -la cavalleria- e i tirailleurs -la fanteria-), in quanto contribuiva a formare un corpo di fanteria leggera i cui membri erano legati spesso da vincoli di parentela e venivano reclutati direttamente dal comandante di ogni singolo reparto, ragion per cui si veniva a creare uno strettissimo rapporto con quest’ultimo.

Ogni goum era formato da tre plotoni di fanteria, uno di cavalleria (che, quando era impegnato fuori dall’Africa, si trasformava, di sovente, in fanteria), uno di mitragliatrici, uno di mortai e uno di mulattieri per il trasporto dell’equipaggiamento.

L’insegna dei goumiers era la koumya, ossia il pugnale ricurvo dei berberi e la loro divisa era composta da una lunga veste  in lana grezza a strisce (la djellaba), il turbante ed i sandali ai piedi (questi ultimi sostituiti, in seguito, da antiquati elmetti di tipo brodie e da scarponi d’ordinanza).

I goumier avevano avuto il loro battesimo del fuoco nella Seconda guerra mondiale operando con successo in Tunisia contro i tedeschi e gli italiani, in seguito erano stati impiegati in Sicilia, in Corsica e sul fronte di Cassino per poi arrivare in Toscana sempre agli ordini di Augustin Guillaume[6].

E furono proprio costoro che buona parte della popolazione senese vide, dopo la partenza dei tedeschi, invece dei tanto sospirati americani con le loro sigarette e la cioccolata.

Purtroppo, in molti casi, il primo impatto non fu dei migliori. Nonostante una serie di brillanti successi tattici come l’aggiramento di Montalcino o il superamento del fiume Merse presso il ponte a Macereto le violenze non mancarono. Non si ebbero episodi  diffusi e generalizzati come quelli di  Esperia o Ausonia ma il bilancio fu lo stesso pesantissimo.

Alcuni partigiani della formazione Spartaco Lavagnini riferirono che nella sola cittadina di Abbadia San Salvatore le truppe francesi violentarono sessanta donne, nonché alcuni uomini, senza tener conto dell’età delle vittime; vennero inoltre operati  numerosi saccheggi. Le proteste inoltrate dagli stessi partigiani agli ufficiali transalpini non sortirono alcun effetto.

Gli stupri perpetrati dagli uomini del Corps  expéditionnaire continuarono a San Quirico d’Orcia, Casciano di Murlo, Murlo, Casole d’Elsa, Monteriggioni, Colle val d’Elsa, Poggibonsi (Pian dei Campi)[7] e  Monticiano[8] tuttavia non è facile quantificare il fenomeno per via dello stillicidio di fatti isolati spesso non denunciati dalle vittime a causa della vergogna.

A un certo punto i comandanti americani chiesero ai colleghi francesi di contrastare le violenze delle proprie truppe contro la popolazione locale.

Il generale Guilluame reagì  in modo ufficiale, seppur minimizzandole, ammettendo le violenze che venivano tuttavia attribuite non tanto ai reparti combattenti quanto agli addetti ai servizi di retroguardia[9]. Ufficiosamente però si cominciarono a prendere provvedimenti drastici. A Casal di Pari, in seguito a un certo numero di stupri, cinque goumiers vennero colti in fragrante, fucilati ed i corpi esposti nella piazza del paese dietro ordine dello stesso Guillaume[10].

Nonostante l’esempio la scia di violenze continuò e si ha notizia di ufficiali francesi che procedettero a punizioni cruente ed esecuzioni sommarie[11]. Gli alleati completarono la liberazione del territorio senese nella seconda metà del luglio 1944 e pochi giorni dopo l’intero Corps expéditionnaire français venne richiamato nelle retrovie per partecipare allo sbarco in Provenza che avvenne il 15 agosto dello stesso anno.

[1] GAUJAC P., Le corps expeditionnaire française en Italie 1943-1944, Paris, Histoire e collections, 2003, p. 9 e ss.

[2] Il bilancio delle perdite francesi nel corso della campagna d’Italia fu particolarmente sanguinoso: il Corps

expeditionnaire, tra morti, feriti e dispersi, perse quasi il 30% dei propri effettivi.

Cfr. BISCARINI C., 1944: i francesi e la liberazione di Siena. Storia e immagini delle operazioni militari, Siena, Nuova Immagine, p.108-113.

[3] Cfr. www.cnrtl.fr/definition/goumier.

[4] Parola di origine turca che significa battaglione. Cfr. www.cnrtl.fr/definition/tabor.

[5] Per quanto riguarda i ranghi dei sottufficiali o dei graduati con competenze speciali (autisti, capi mitraglieri e così via),

all’interno di reparti costituiti esclusivamente o quasi da africani, come i goums, l’esercito francese si serviva dei

cosiddetti troncs de figuier e dei pieds noirs, ossia i discendenti di francesi stabilitisi in Marocco (i primi) o in Algeria (i

secondi); costoro parlavano infatti l’arabo. GAUJAC P., Le corps expeditionnaire …, op. cit., p. 33.

[6] Cfr https://goumier.jimdo.com/histoire-des-goumiers/

[7] LUCCIOLI M. – SABATINI D., La ciociara e le altre. Il Corpo di Spedizione Francese in Italia, Roma, ed. Tusculum,

1998, pp. 88 e ss.

[8] MARTINELLI A., Monticiano Racconta. Testimonianze raccolte e trascritte da Alda Martinelli, Siena, Cantagalli,

2010, p.54.

[9] GAUJAC P., Le corps expeditionnaire …, op. cit., p.44.

[10] L’episodio è narrato nel giornale di marcia del capitano Henri Tartaroli del 2° reggimento d’artiglieria coloniale in

GAUJAC P., Le corps expeditionnaire …, op. cit., p. 44-45;  Alessandro Orlandini e Giorgio Venturini, parlando del

medesimo fatto, fanno riferimento ad una sola donna violentata da sei goumiers che vennero  fucilati; cfr ORLANDINI

  1. – VENTURINI G., I giudici e la Resistenza dal fallimento dell’epurazione ai processi contro i partigiani: il caso

Siena, Milano, La pietra, 1983, p.14-15.

[11] BISCARINI C., 1944: i francesi e la liberazione di Siena …, op.cit., p. 84 in nota 5.




2/2 – Per una storia dei movimenti giovanili a Grosseto tra gli anni Sessanta e Settanta (*)

* La prima parte di questo articolo è pubblicata alla pagina QUI

A metà decennio irruppe il femminismo a sconvolgere mentalità, prassi, perfino modalità dei rapporti personali, che sembravano consolidati tra i militanti. Un gruppo forte, a livello nazionale, come Lotta continua ne fu colpito in profondità, tanto da mettere in discussione la propria stessa continuità organizzativa. Sicuramente il femminismo fu uno dei motivi, insieme ad altri ovviamente, che la condusse infine a proclamare a maggioranza l’auto-scioglimento. La storia del femminismo a Grosseto è stata in parte già scritta: ci fu una fase all’interno dell’UDI, quindi la costituzione di un collettivo autonomo che condusse agitazioni e esperienze che derivavano da una cultura antica, ma completamente rinnovata dall’attivismo delle nuove generazioni. Tutte le compagne delle organizzazioni della nuova sinistra, qualcuna anche del PCI [1], fecero parte del collettivo femminista, senza tuttavia lasciare, generalmente, la precedente militanza, che pure generava non di rado opposizione e contrasto.

Più avanti, si diffuse inoltre una nuova consapevolezza ambientalista, che ebbe modo di manifestarsi in occasione delle proteste contro la centrale nucleare di Montalto di Castro (1977/1978), rispetto alle quali la Federazione Giovanile Comunista (FGCI) rimase ancora una volta spiazzata, ma anche la cosiddetta “nuova sinistra” fu costretta a un faticoso inseguimento.

Grosseto, manifestazione nazionale del 17 dicembre 1977 in solidarietà a una donna licenziata per tentato aborto

Grosseto, manifestazione nazionale del 17 dicembre 1977 in solidarietà a una donna licenziata per tentato aborto

Si trattava pur sempre di organizzazioni giovanili, che si trovarono tuttavia a affrontare impegni e problematiche che solo qualche anno prima sarebbero state per loro inimmaginabili. Mi riferisco anche alle scadenze elettorali. Non tanto i referendum, che richiesero comunque campagne elettorali defatiganti, quanto piuttosto le elezioni amministrative del 1975 e le politiche del 1976, per le quali fu necessario stabilire alleanze, operare mediazioni, individuare strategie. In particolare, nel 1976 fu costituito un cartello tra le forze esterne al PCI, con la denominazione Democrazia proletaria, che ottenne scarso successo. Subito dopo si avviò un processo di unificazione che localmente coinvolse PDUP e Lega dei comunisti (a livello nazionale anche Avanguardia operaia) e mantenne il nome di Democrazia proletaria, da cui si tenne fuori la componente PDUP proveniente dal Manifesto. Questi processi comportarono spostamenti delle sedi: fenomeno di una certa importanza se si considera che in tutti questi anni le sedi dei gruppi a sinistra del PCI vennero a trovarsi casualmente tutte entro una zona tutto sommato ristretta del centro storico cittadino. Altrettanto casualmente uno dei principali punti di ritrovo in questa zona era un bar (in seguito rilevato da alcuni militanti dell’ex Manifesto) frequentato da vecchi comunisti, talvolta nostalgici stalinisti, in ogni caso poco propensi a seguire il loro partito sulla linea del “compromesso” con la Democrazia cristiana. Il quartiere ne ricevette inevitabilmente per qualche anno una ben definita caratterizzazione. Infine Democrazia proletaria mantenne un’unica sede in via dell’Unione.

Non possono rimanere fuori da questa carrellata, necessariamente sommaria e volutamente soltanto indicativa, due questioni che sopra ho associato a narrazioni semplificatorie e fuorvianti: la presunta fascinazione della lotta armata e l’uso crescente di droghe tra i giovani.

Maratona del Collettivo femminista grossetano per la riapertura del consultorio, 1977

Maratona del Collettivo femminista grossetano per la riapertura del consultorio, 1977

Riguardo alla prima, si può affermare che essa non ebbe a Grosseto alcuno spazio. La presenza rimasta comunque maggioritaria del PCI e l’influenza che il partito mantenne anche tra i giovani tramite la FGCI contribuirono sicuramente, nonostante i dissensi che continuarono a attraversare la base del partito circa la strategia del “compromesso storico”, a tenere lontana ogni influenza dei gruppi terroristici, ribadendo l’irrinunciabilità dell’opzione democratica e costituzionale.  Non si deve tuttavia trascurare il contributo che dette in questo la Lega dei comunisti, che fin dall’inizio della sua attività fece muro contro ogni possibile simpatia verso gruppi del tipo Potere operaio (di Roma, Padova, Firenze: tutt’altra cosa dal Potere operaio pisano ormai da tempo disciolto), che teorizzavano la maturità dell’opzione rivoluzionaria, rimanendo tuttavia sostanzialmente isolati rispetto alle organizzazioni maggiori. L’idea che la “rivoluzione” dovesse avere per protagoniste le masse popolari escludeva, per la parte largamente maggioria del movimento,  ogni scorciatoia terroristica e faceva dei gruppi armati nient’altro che avversari da sconfiggere; così come avversari politici furono, dopo il 1977 (non certo a Grosseto dove non furono presenti se non per qualche isolata simpatia), i gruppi di Autonomia operaia, i quali, pur limitandosi per lo più a inneggiare alla lotta armata senza praticarla, costituirono certamente un terreno di reclutamento per il terrorismo. Se qualche sbandamento può esservi stato negli altri gruppi della sinistra grossetana, non vi furono ripercussioni nelle aree giovanili. Così come non ebbe alcuna ripercussione il fatto che uno degli avvocati nei primi processi contro le B.R. fosse un insegnante di un istituto superiore grossetano e neppure il fatto che uno dei membri del “nucleo storico” delle B.R. avesse vissuto fino al 1968, a Nomadelfia, a due passi dalla città (ovviamente la sua conversione terroristica fu successiva). È la dimostrazione, sia pure nella limitatezza di un’esperienza marginale, che la logica del movimento politico di massa, qual era quello che derivava dal Sessantotto, niente aveva a che fare con la logica delle “avanguardie armate”, autoproclamatesi tali in virtù di elucubrazioni teoriche da esse sole condivise. Non c’è dubbio che la vicenda di Aldo Moro, la stessa tragica discussione tra la “linea della fermezza” e la “linea della trattativa”, costituì per tutti i militanti, sia della sinistra tradizionale che della nuova sinistra, un motivo di riflessione sul valore e, insieme, sulla fragilità dell’ordinamento democratico.

Primavera 1979. Donne del "collettivo": una festa

Primavera 1979. Donne del “collettivo”: una festa

La questione “droga” fu più complessa. C’era stata fin dall’inizio, da parte di tutta la sinistra, un’ampia disponibilità nei confronti dei nuovi modi di vita che si diffondevano tra i giovani, trasmessi in gran parte tramite la musica e lo spettacolo. In seguito alcuni militanti furono coinvolti nell’organizzazione di eventi artistici (Dario Fo, molti cantautori e gruppi rock), fino a fare di questo più tardi la propria professione. Fu aperta anche una radio “libera”, che fu un’iniziativa di rilievo promossa da Lotta continua. Tutti sintomi di un’attenzione e non di rado di una condivisione delle istanze “libertarie” che, come si è visto, erano state all’origine del movimento e che pertanto erano presenti, in diversa misura, in tutte le sue componenti. Non era un mistero che questi nuovi modi di vivere, improntati al superamento di restrizioni e tabù che avevano invece dominato le generazioni precedenti, facilitassero e talvolta perfino implicassero il consumo di droghe; consumo che intanto andava sempre più estendendosi. Si sapeva d’altra parte che la diffusione di ogni genere di droga era stato uno dei fattori decisivi che aveva portato alla dissoluzione, già alla fine degli anni sessanta, del movimento giovanile americano, che pure era stato tanto potente da innescare su scala planetaria la protesta contro la guerra del Vietnam. La FGCI seguì l’azione parlamentare del partito, orientata verso una moderata depenalizzazione. Altri gruppi, nel nome della spontaneità più spinta, accettarono i primi morti per overdose come una fatalità inevitabile. Altri, di fronte a una situazione ogni giorno più grave, posero una netta distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, finendo a volte per attribuire il passaggio dalle une alle altre, che qualcuno, al contrario, dava per ineluttabile, a complotti orditi dal “nemico di classe”, o, meno irrealisticamente, da qualche organizzazione criminale. La Lega dei comunisti, che sempre ebbe una posizione anti-proibizionista, mantenne invece all’interno, nei confronti dei propri militanti, una forte rigidità, prevedendo -e in qualche caso- mettendo in atto, l’espulsione dall’organizzazione.

La differenza tra questi modi diversi di affrontare la questione si manifestò nel corso di una conferenza del sociologo Blumir, tenuta nella sede del PDUP e promossa da alcuni elementi di quel gruppo (ex Manifesto). Da una parte ci fu chi indicò nel consumo di droghe leggere un tratto, se non il tratto, caratterizzante del processo rivoluzionario in atto, in grado di coinvolgere e convincere a uno stile di vita “libertario”, pacificato e pacificante perfino quanti si dichiaravano fascisti. Dall’altra parte c’era chi riproponeva la visione classica della rivoluzione, che avrebbe dovuto risolversi non tanto in un mutamento degli stili di vita, riguardo a cui le preferenze potevano essere oltre tutto le più varie, ma in un rovesciamento dei rapporti economici e politici tra le classi sociali, rispetto a cui qualsiasi “oppiacea” distrazione, perpetrata per di più a vantaggio di un mercato internazionale della merce-droga gestito secondo logiche capitalistiche e imperialistiche, non poteva che fare il gioco dell’avversario. Senza contare che si stava imponendo a livello giovanile un antifascismo militante che era l’opposto di qualsiasi fumosa pacificazione e consisteva piuttosto in scontri aspri, talvolta in violenti tafferugli, davanti alle scuole e nelle vie della città (da ricordare un intervento piuttosto clamoroso al comizio di un esponente di estrema destra durante la campagna elettorale del 1975).

Non ha senso probabilmente stabilire oggi chi avesse ragione, ma forse ha senso capire meglio le ragioni degli uni e degli altri, in un periodo in cui le morti per overdose (in seguito si sarebbe aggiunta la diffusione del virus HIV) stavano decimando una generazione. Credo che sia consentito a chi allora sostenne la seconda delle due posizioni rilevare come l’impegno politico collettivo richiesto a giovani militanti, il confronto quotidiano con i problemi degli studenti, dei lavoratori, delle donne, degli abitanti dei quartieri periferici, lo stesso antifascismo militante, possano aver contrastato la possibilità, purtroppo incombente, di essere risucchiati nel gorgo della tossicodipendenza. Come anche ricordare che alcuni di quei giovani iniziarono proprio in quegli anni un impegno anche professionale nei servizi psichiatrici, acquisendo una diversa responsabilità personale, oltre che una più ampia competenza, nei confronti della malattia e del disagio mentale, che condusse anche a una più profonda comprensione e com-passione verso chi si trovò coinvolto in quel tragico fenomeno sociale.

Mi accorgo di aver perso nella narrazione un filo che invece sarebbe stato da seguire: quello dei giovani fascisti. Non so indicare una documentazione significativa al riguardo, a parte la cronaca locale sulla stampa. L’impressione che ho è che il MSI locale abbia sempre avuto uno stretto controllo sulla sua organizzazione giovanile e abbia quindi tenuto lontane eventuali influenze da parte di organizzazioni apertamente eversive che pure operarono largamente in Italia, godendo, come si sa, di garanzie e protezioni. Lo confermerebbe la presenza documentata di picchiatori grossetani a fianco di Almirante a Roma in un momento in cui il MSI si trovò in forte tensione non solo con il movimento studentesco di sinistra, ma anche con l’organizzazione neo-fascista Avanguardia nazionale [2]. D’altra parte, sembra che non vi sia stato alcun coinvolgimento di organizzazioni grossetane nella vicenda del “golpe Borghese”, benché vi abbiano preso parte, con ruoli di rilievo, alcuni repubblichini locali [3]. Meriterebbe piuttosto indagare le ripercussioni che sicuramente vi furono in quegli ambienti in seguito alla tragica e un po’ misteriosa scomparsa, all’inizio degli anni settanta, di un dirigente che contava qualcosa anche a livello nazionale.

Il fatto è che quei giovani fascisti arrivarono anni dopo, quando ormai non erano più tanto giovani, a conquistare l’amministrazione comunale, governando per anni la vita cittadina insieme a Forza Italia. Quando invece i gruppi della sinistra esterni al PCI non lasciarono tracce, neppure individuali, nella politica e nell’amministrazione locali [4]. Come è potuto accadere? Questa è una delle domande a cui varrebbe la pena tentare di rispondere; forse anche da qui potrebbe aprirsi qualche spiraglio di comprensione sugli anni più recenti, fino a quelli che stiamo ora vivendo.

NOTE:

[1] Fra queste deve essere ricordata Miranda Salvadori, che rappresentò un riferimento importante per le prime femministe.

[2] Mi riferisco agli avvenimenti (16 marzo 1968) successivi alla “Battaglia di Valle Giulia” (1° marzo 1968). Giulio Caradonna, che era presente, riferì dell’intervento di “minatori di Grosseto” (https://forum.termometropolitico.it/564095-il-68-nero-almirante-guido-gli-scontri-all-universita.html). Devono avergli fatto credere che Giovanni Ciaramella, noto repubblichino già condannato nel “processone” del 1946 contro i gerarchi e militi della RSI, riconoscibile nelle foto accanto a Almirante, fosse un minatore in pensione. Anche se non si può escludere che due o tre autentici minatori di Gavorrano o Niccioleta ci siano davvero stati, reclutati magari da qualche caposervizio della Montecatini che non sarebbe difficile identificare.

[3] Se ne trova qualche eco in un libro recente che ha avuto notevole successo: Teresa Ciabatti, La più amata, Mondadori, Milano 2017

[4] Un’analisi diversa dovrebbe essere fatta per i comuni diversi dal capoluogo.