Hill 366: una storia da raccontare

Il 7 ottobre 2017, il Comune di Carrara e la Pro Loco di Fontia hanno promosso un’iniziativa per onorare la memoria di due uomini: Don Dario Fazzi e il Lieutenant-Colonel John James Phelan. L’evento, celebrato in occasione del 73° Anniversario dell’incendio di Fontia, rientra nel programma di iniziative inserite nel progetto “In cammino verso la Costituzione (1948-2018)” a cura del Gruppo di lavoro del Comune di Carrara per le celebrazioni e la promozione della memoria della Resistenza e dei principi della Costituzione.

La commemorazione a cui ha aderito Angel Matos, Direttore del Florence American Cemetery (American Battle Monuments Commission), ha visto la partecipazione del partigiano carrarese Giorgio Mori e ha avuto il riconoscimento del veterano di guerra britannico Harry Shindler (96 anni, militare sulla Linea Gotica), che ha scritto un discorso di cui è stata data lettura durante la manifestazione.

Durante la Seconda guerra mondiale, Fontia rappresentava un centro strategicamente importante per la Wehrmacht. Su ordine del Feldmaresciallo Albert Kesselring la zona rientrava nella Linea Gotica, il sistema difensivo realizzato dai tedeschi per fronteggiare l’avanzata degli Alleati. L’Organizzazione TODT costruì diverse postazioni tobruk, bunker e trincee, tuttora visibili.

03A Santa Lucia si trovava l’osservatorio tedesco da cui venivano diramati ordini per i cannoni a lunga gittata presenti sul promontorio di Punta Bianca. Proprio per questo Fontia e Santa Lucia furono teatro di aspre battaglie durante l’avanzata della Quinta Armata USA che battezzò quel luogo “Hill 366”. Tra i militari caduti per la liberazione dell’Italia nel territorio carrarese c’è stato il Lieutenant-Colonel John James Phelan, decorato della Silver Star, caduto nei combattimenti svoltisi per la conquista dell’osservatorio tedesco di Santa Lucia.

L’iniziativa ha avuto inizio con gli onori al cippo che ricorda l’incendio del paese e ha visto la partecipazione degli studenti delle scuole del territorio (Scuola Media “A. Dazzi” e ITC “D. Zaccagna”). La giornata del 7 ottobre è stata l’occasione per ricordare non solo l’incendio del borgo, ma per raccontare, attraverso una mostra, allestita nei locali della Pubblica Assistenza di Fontia, gli importanti avvenimenti e combattimenti svoltisi per la liberazione del paese durante la Seconda guerra mondiale.

E’ stata riaperta al pubblico la Cappella di Don Dario Fazzi, il coraggioso parroco di Fontia che difese la popolazione del paese durante i 20 terribili mesi dell’occupazione nazi-fascista, sulla cui lapide il Sindaco di Carrara Francesco De Pasquale ha deposto una corona.

Dopo la Messa in suffragio delle vittime della guerra, celebrata nel vicino Santuario di Santa Lucia, si sono svolti gli interventi delle autorità . Dopo il saluto del Sindaco, sono intervenuti: la senatrice Laura Bottici, il consigliere regionale Giacomo Bugliani e il segretario ANPI della sezione di Carrara Ferdinando Sanguinetti. Toccante la testimonianza della sig.ra Eda Corsini, che nel 1944 era una bambina, ha ricordato Don Dario Fazzi, che rischiò la vita pur di salvare i suoi paesani. Il Presidente della Pro Loco di Fontia Cristiano Corsini ha letto una lettera che Don Fazzi scrisse nel 1970 a Dusseldorf in occasione dell’incontro dei reduci della 148ª Divisione di fanteria tedesca. Don Fazzi dopo la guerra si impegnò² nella ricostruzione della Chiesa di Santa Lucia, distrutta dai bombardamenti, con il progetto di fare di quel colle dove si erano scontrati uomini di diverse nazionalità, un luogo dedicato alla pace. L’orazione ufficiale è stata affidata al Dott. Pierpaolo Ianni che ha ricordato l’importanza della Resistenza e ha tratteggiato il profilo di Don Fazzi e del Lieutenant-Colonel Phelan. Nel suo intervento ha inoltre descritto quanto emerge dal diario della 473rd United States Infantry, che costituisce una fonte essenziale per ricostruire quanto avvenne in quei drammatici giorni del 1945 tra Fontia e Santa Lucia. La giornata si è conclusa con il discorso di Angel Matos, Direttore del Florence American Cemetery, e lo scoprimento di una targa in marmo in memoria del Lieutenant-Colonel John James Phelan (1914-1945).

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2017.




San Francesco… da Fiesole

«La I.C.S.A. ha il suo Stabilimento a pochi chilometri da Firenze ai piedi delle suggestive colline di Fiesole. Lo Stabilimento ha un’estensione di mq. 50.000 completamente cintati. Il nuovo Teatro di posa copre la superficie di oltre mq. 18000; il secondo Teatro, attualmente in costruzione, coprirà i 3.200 mq. […] Nelle vaste estensioni di terreno rimanenti, sono le ricostruzioni di gran parte della vecchia Assisi, fra le quali sotto la vigile ed intelligentissima direzione del Conte Giulio Antamoro, stanno svolgendosi le azioni del film». Così «L’Eco del Cinema. Periodico cinematografico mensile», diretto dal produttore Carlo J. Bassoli, presentava nel «Numero speciale francescano», dell’ottobre 1926 lo scenario in cui si stava girando il primo vero e proprio kolossal italiano su una figura di un santo nella storia del cinema italiano. Il Frate Francesco, uscito nel 1927 e diretto da Giulio Antamoro, fu dunque un evento eccezionale per l’epoca, connesso alle grandi celebrazioni che i vertici ecclesiastici e lo Stato italiano vollero dedicare al VII centenario della nascita di San Francesco d’Assisi. Per l’occasione venne dunque ricostruita quasi per intero un’Assisi medievale alle porte di Firenze, per quella che giornali e riviste dell’epoca descrissero come un’impresa cinematografica «senza alcun dubbio destinata a varcare tutti i confini ed a spargersi per tutto il mondo» e «un’opera concreta di risorgimento dell’Industria Nazionale a fini economici e di utilità generale».

18277441283_cc18e08809L’evento centenario francescano giungeva in un frangente particolare sia per la storia delle relazioni tra Stato e Chiesa sia per la storia del cinema italiano. Ecco perché questo film si presta meglio di altri a chiarire le articolate dinamiche che governarono la rappresentazione dei santi sugli schermi fascisti in un quadro di reciproche strumentalizzazioni tra Chiesa e regime. Nel numero speciale de «L’Eco del Cinema» sopra menzionato, il direttore Bassoli, dopo aver magnificato il ruolo del «magnifico Duce del fascismo» nel «glorificare la sublime opera francescana», fece notate che la produzione cinematografica dell’Italia fascista, in tutte le sue varie componenti, si era assunta «il compito nobilissimo» di «diffondere l’idea francescana»:

Industriali intelligenti, uomini preclari della politica, della nobiltà e del commercio – scrisse Bassoli – superando sacrifici e contrarietà d’ogni genere, si sono raccolti volenterosi per la realizzazione della vicenda del Poverello di Dio, in una iconografia grandiosa che affermerà al mondo ancora una volta l’inesauribile vitalità del genio italico e la decisa affermazione di una nuova vita della Industria Cinematografica italiana.

È fuor di dubbio che gli anni del fascismo rappresentino il periodo in cui anche nella cinematografia italiana  fu più evidente lo sforzo di proporre una legame che congiungesse in modo singolare l’Italia ad alcune specifiche figure canonizzate dalla Chiesa. Nel caso del film su san Francesco d’Assisi, tutta l’architettura promozionale dell’evento cinematografico fu centrata sull’appellativo coniato da Gabriele D’Annunzio nella celebre orazione tenuta in Campidoglio nel 1919: «il più italiano dei santi, il più santo degli italiani». Gli scopi del fascismo furono duplici: non solo utilizzare il potere sempre più pervasivo del mezzo cinematografico per promuovere una coniugazione del culto a san Francesco che assecondasse la celebrazione della nazione, tra i cardini  della cultura politica fascista; ma anche impiegare la fama internazionale di un «grande italiano» per rialzare le sorti di una industria nazionale del cinema giunta al suo punto più basso dopo i fasti degli anni Dieci.

Un’iniziativa che fu sposata senza troppe riluttanze anche dalle gerarchie della Chiesa, in un momento di rimodulazione dei canoni su cui informare le tattiche di promozione dei santi in un periodo in cui era in atto un’accelerazione del percorso che avrebbe condotto alla Conciliazione tra l’Italia e la Santa Sede. La stampa evidenziò non solo l’«appassionata ed entusiastica collaborazione morale» dei francescani, ma anche che il soggetto cinematografico aveva ottenuto l’imprimatur del Vicariato romano, il che era «indice di sicura adesione da parte della Santa Sede». Corrispondenze evidenti che tuttavia non impedirono che risaltassero tra i cattolici i pericoli collegati a questa forma innovativa di divulgazione della santità: ad accendere le ire del danese Johannes Jørgensen, coinvolto direttamente nella sceneggiatura e autore nel 1911 del fortunatissimo volume la Vita di S. Francesco, fu l’ammiccante inserimento nel film di una sottotrama rosa – «l’avventura di Arnaldo di Sassorosso e della sua amante Misia di Leros» – tributo al mainstream hollywoodiano.

* Gianluca della Maggiore è assegnista di ricerca in Storia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2017.




19 luglio 1944: gli alleati liberano Livorno, “città fantasma”

«L’opposizione e la resistenza [sono] costrette dentro un fazzoletto di terra a ridosso di una città morta ed impraticabile»; questa frase, scritta da Cesare Ciano, rende meglio di tante descrizioni le terribili condizioni in cui si trovava Livorno nel 1944. Parole simili si ritrovano nella descrizione fornita da un soldato americano, al suo ingresso in città: «a ghost town, lying in ruins, pulverised by Allied bombing» («una città fantasma, che cade a pezzi, polverizzata dai bombardamenti alleati»). Non è un caso se quando Luigi Comencini diresse il film Tutti a casa, nel 1960, molte scene furono girate a Livorno, che ancora in pieno boom economico era lo scenario adatto per fingere di essere ancora in guerra.

Il 1943 era stato un anno particolarmente funesto per la città: luogo di imbarco per il materiale bellico che doveva servire all’esercito italiano e a quello tedesco per sostenere le battaglie contro gli Alleati nell’Africa settentrionale, oltre che principale centro logistico per gli spostamenti delle truppe da e per la Corsica e la Sardegna, il porto di Livorno fu sottoposto a una serie di bombardamenti devastanti per l’intera città, in particolare quello del 28 maggio. Le vicende successive non fecero che aggravare la situazione: i combattimenti successivi all’8 settembre con il tentativo di resistenza all’occupazione tedesca da parte delle truppe italiane (e l’uccisione tra gli altri del maggiore Gamerra a Stagno), così come l’istituzione da parte dei comandi nazisti della “Zona nera” il 12 novembre, che imponeva per decreto lo sgombero completo del porto e del centro urbano, contribuirono ad annichilire la vita nella città portuale. La strategia militare degli Alleati mirava a far mantenere sulla costa toscana un grande quantitativo di truppe tedesche, facendo credere all’imminenza di uno sbarco navale che avvenne invece ad Anzio, nel gennaio 1944. I bombardamenti continui nell’area labronica si devono spiegare anche con questa funzione di ‘diversivi’, per quanto la cosa possa suonare paradossale.

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Piazza Grande, un cumulo di macerie (Raccolta Giancarlo Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

Quando poi si realizzò l’avanzata di terra, tra il giugno e il luglio 1944, i combattimenti furono durissimi. Mentre procedeva l’avanzata alleata, l’importanza della Resistenza divenne sempre più evidente: i partigiani furono decisivi nelle azioni di contrasto ai tedeschi e nel mostrare il territorio alle truppe alleate per accelerare il processo di liberazione. Dopo la battaglia di Rosignano del 12 luglio, l’obiettivo per gli angloamericani divenne Livorno, la cui liberazione fu preceduta da un accerchiamento della corona di paesi che vanno dal Castellaccio a Collesalvetti. Il contributo alla liberazione di Livorno venne proprio dai partigiani del 10º Distaccamento: dopo aver fatto alcuni sopralluoghi nei giorni precedenti, il 19 luglio 1944 entrarono a Livorno insieme alle truppe americane.

La storia della liberazione di Livorno non può prescindere da questi elementi, dalla vicenda di un tessuto urbano devastato dalle bombe e dalle truppe tedesche. Il valore della Resistenza sta anche in questo, nella capacità di rinascere dalle rovine provocate dal fascismo e dalla tragedia bellica, creando un nuovo tessuto connettivo a partire dai germi diffusi dell’antifascismo. Quest’aspetto si coglie molto bene in un brano scritto da Mario Lenzi, uno dei primi a entrare nella Livorno liberata: «Dall’alto delle Rocce Rosse, sul Castellaccio, mi fermai a guardare Livorno, distrutta dalle bombe americane e dalle mine tedesche, con il cannocchiale che gli americani mi avevano assegnato. Si vedevano distintamente le rovine del porto, decine di navi affondate che emergevano dall’acqua bassa, le macerie della piazza Grande, il Duomo sventrato. Percorsi lentamente tutto il panorama della città morta: via Ricasoli, via Roma, Piazza Magenta. Puntai il cannocchiale dove era Villa Medina, ma la mia scuola non c’era più. […] Forse quel mondo non era mai esistito. E se era esistito, poi era scomparso. Un baratro si era aperto, ingoiando per sempre la scuola, le strade, i miei compagni. Erano andati via tutti e con loro se n’era andato anche il ragazzo che io ero stato. Dalla città che c’era una volta, ora si alzavano pigramente nell’aria colonne di fumo».

*Stefano Gallo è assegnista di ricerca presso l’ISSM-CNR di Napoli. Il suo principale campo di ricerca è la storia delle migrazioni e del lavoro, ma si dedica anche alle vicende della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. Collabora con l’Istoreco di Livorno, per il quale sta conducendo una ricerca sulla storia della Resistenza, ed è socio fondatore della SISLav (Società Italiana di Storia del Lavoro), di cui copre attualmente il ruolo di segretario coordinatore.

Articolo pubblicato nel luglio del 2014.




“Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza”

Figlio unico di un’agiata famiglia cittadina, Carlo Del Bianco nacque a Lucca il 13 gennaio 1913. Studente del prestigioso Liceo classico “Niccolò Machiavelli”, maturò fin da ragazzo forti convinzioni antifasciste, stringendo parallelamente amicizia, fra gli altri, con Nino Russo Perez, Arturo Paoli e Guglielmo Petroni. Iscrittosi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, per alcuni dissapori con il corpo docenti dell’ateneo dovuti al carattere “non allineato” della sua tesi in filosofia della scienza, dovette conseguire la laurea all’Università di Firenze nel 1938. Conclusi gli studi, iniziò ad insegnare come supplente presso vari istituti superiori lucchesi, approdando infine proprio al “Machiavelli”, dove s’impegnò ad educare i suoi alunni all’amore per la giustizia e la libertà. Autore di un volantino contro il regime nel maggio 1942, all’indomani del 25 luglio 1943 Del Bianco organizzò una grossa manifestazione nelle vie di Lucca per festeggiare la caduta del governo Mussolini. Nelle settimane successive all’8 settembre, poi, riuscì a convincere numerosi giovani lucchesi a sottrarsi alla leva della RSI e a radunarsi in Garfagnana, presso il borgo di Campaiana, alle pendici della Pania di Corfino: fu così che Del Bianco dette vita ad una delle prime formazioni partigiane della Provincia di Lucca. Altamente motivato e dotato di grande carisma, in assenza di chiare direttive, si rese conto che non vi erano ancora le condizioni per poter operare in montagna senza far correre eccessivi rischi ai suoi ragazzi: scelse così di smobilitare il gruppo, mentre le forze di sicurezza della GNR raccoglievano informazioni sul suo conto, arrestando e interrogando amici e parenti. Visto che il cerchio attorno al professore si stringeva, il CLN lucchese decise di allontanarlo dalla città per precauzione: accompagnato da Roberto Bartolozzi, operaio della Teti e partigiano comunista, Del Bianco prese dunque il treno per Firenze. Guadagnata la meta, proseguì da solo, intenzionato a raggiungere a Venezia l’amico Nino Russo Perez. Non riuscendo a trovarlo, scelse di prendere il treno in direzione contraria, per tornare indietro: alla stazione di Padova, tuttavia, salirono sul convoglio due SS. Temendo di essere scoperto, Del Bianco si fece coraggio e, all’altezza di Rovigo, decise di lanciarsi dal treno in corsa, rovinando gravemente ferito a fianco ai binari. Prima che giungessero i soccorsi, Carlo riuscì a distruggere alcuni fogli e documenti compromettenti per sé e per i compagni: portato all’ospedale, fu sottoposto all’amputazione di entrambe le gambe e morì poco dopo. Era l’alba del 31 marzo 1944. Oggi, lungo la scalinata che porta al primo piano del Liceo classico “Machiavelli” di Lucca, che vide Del Bianco studente e professore, è presente una lapide, che ricorda a ragazzi e docenti l’opera e il sacrificio di quel maestro generoso e ribelle, «insofferente di ogni servitù», che dette la vita per il riscatto nazionale.

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La copertina della nuova guida “Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza”.

La targa in memoria di Carlo Del Bianco è soltanto uno dei numerosi luoghi della memoria raccolti nella nuova guida “Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza”, terzo ed ultimo tassello del grande progetto di valorizzazione del patrimonio storico provinciale 1943-1945 portato avanti dall’ISREC Lucca nel corso degli ultimi due anni e mezzo di lavori. Logico seguito dei volumi dedicati a Versilia e Mediavalle/Garfagnana, il nuovo libro, pubblicato poche settimane fa per Pezzini Editore di Viareggio, è stato scritto da Luciano Luciani, membro del Consiglio direttivo dell’ISREC e responsabile del semestrale dell’Istituto stesso “Documenti e studi”, e da Armando Sestani, Vicepresidente dell’ISREC ed esperto del confine orientale italiano. Realizzata sotto la supervisione di Gianluca Fulvetti dell’Università di Pisa e grazie al determinante contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, la guida contiene descrizioni dettagliate di fatti, volti e siti storici relativi all’ultimo scorcio di Seconda Guerra Mondiale nella città di Lucca e negli altri comuni della Piana.

Interessante compromesso fra approfondimento storico e fruibilità turistica, il volume propone al visitatore anzitutto un itinerario urbano, un cammino guidato per le vie dell’antica città murata alla scoperta di una Lucca altra rispetto a quella dei “canonici” percorsi di età medievale e moderna: la Lucca del lungo anno di occupazione nazista compreso fra l’8 settembre 1943 e la Liberazione americana. Una pagina intensa e drammatica della millenaria storia lucchese, che vide il capoluogo provinciale soggetto per tredici mesi ai bisogni militari di una potenza, quella tedesca, intenzionata a resistere ad oltranza all’avanzata angloamericana verso nord, e fermamente decisa a sfruttare fino all’ultimo le risorse umane ed economiche messe a disposizione dalla città e dalla tranquilla campagna circostante, gettando parallelamente le basi per una futura ritirata in sicurezza sulle vicine postazioni della Linea Gotica. Un periodo certo buio, costellato di rastrellamenti, delazioni, cacce all’uomo, uccisioni e stragi sparse, finalizzate a cancellare ogni tentativo di opposizione popolare ai disegni degli invasori, ma pure un capitolo di notevole fermento politico, grandi speranze per l’avvenire e nobili gesti di solidarietà, portati a termine da studenti ed insegnanti “non allineati”, professionisti ed operai di fabbrica, così come da una vasta rete di assistenza ecclesiastica alle varie categorie di perseguitati dal Nuovo Ordine nazionalsocialista (oppositori politici, ebrei, renitenti alla leva, prigionieri di guerra alleati).

Durante l’occupazione nazista di Lucca, dai locali della Pia Casa di Beneficienza di via Santa Chiara transitarono più di 70000 rastrellati civili.

Durante l’occupazione nazista della città di Lucca, dai locali della Pia Casa di Beneficienza in via Santa Chiara transitarono più di 70000 rastrellati civili.

Affianco ai centri di potere e repressione della Repubblica Sociale Italiana, come Palazzo Ducale, al tempo sede della Prefettura, il temuto carcere di via San Giorgio, il convento di Sant’Agostino, all’epoca base del Comando provinciale della GNR, o la Pia Casa di Beneficienza in via Santa Chiara, «vero e proprio campo di concentramento in piena città», dai cui locali in tutto l’anno di occupazione transitarono più di 70000 rastrellati civili provenienti da tutta la Provincia e da quelle vicine, destinati al lavoro coatto per l’Organizzazione Todt in Italia o alla deportazione in Germania, nella nuova guida troviamo così anche angoli di città che videro l’aggregazione spontanea di spiriti liberi e ribelli, come il Liceo classico “Machiavelli” di Del Bianco, lo studio del medico repubblicano Frediano Francesconi in piazza dei Cocomeri, o, in piazza San Giovanni, l’abitazione dell’azionista Aldo Muston, professore di latino e storia all’Istituto magistrale “Paladini”: proprio in casa sua, il 4 settembre 1944, il CLN lucchese tenne la decisiva riunione che preparò ed anticipò la Liberazione di Lucca, avvenuta il giorno successivo per mano dei soldati afroamericani della 92° Divisione “Buffalo”.

Lucca, via Santa Croce: la targa in memoria dell’operaio della Teti Roberto Bartolozzi, partigiano comunista caduto il 29 giugno 1944 in un tentativo di sabotaggio ai danni di alcune caserme di Carabinieri Reali.

Oltre alle storie di patrioti caduti in città nel corso di attacchi contro le forze nazifasciste o in operazioni di tutela del patrimonio industriale nel delicatissimo momento della ritirata tedesca, come l’operaio comunista Roberto Bartolozzi (1914-1944), il finanziere Gaetano Lamberti (1907-1944) o il giovanissimo Pietrino Piegaia (1930-1944), nel volume trovano quindi posto biografie di lucchesi che condussero la propria Resistenza attiva lontano dalla città murata, come l’intellettuale Guglielmo Petroni (1911-1993), che, trasferitosi a Roma nei tardi anni Trenta per dirigere alcune riviste antifasciste, dopo l’8 settembre prese le armi e quasi finì giustiziato a Regina Coeli, o come Alfredo Sebastiani (1920-1944), giovane impiegato della Manifattura Tabacchi che, richiamato alle armi nel 1940, dopo l’Armistizio del 1943 partecipò con valore alla lotta per la Liberazione dell’Albania, sacrificando infine la propria vita e ricevendo per questo due alte onorificenze alla memoria dal governo di Tirana.

Lucca, Stazione: la targa in memoria del duro bombardamento americano del 6 gennaio 1944.

Lucca, Stazione: la lapide in memoria del duro bombardamento americano del 6 gennaio 1944.

Non mancano naturalmente i riferimenti alla “guerra guerreggiata”, com’è il caso della stazione ferroviaria di Lucca, duramente colpita il 6 gennaio 1944 da un bombardamento americano diretto contro alcuni fabbricati industriali del quartiere di San Concordio, che tolse invece la vita a 25 civili del posto, o, appena fuori città in direzione sud, il cippo in località Ponte dei Frati sul canale Ozzeri, a memoria della spedizione partigiana di Guglielmo Bini, Giuseppe Lenzi, Alberto Mencacci ed Alfonso Pardini, che, la sera del 3 settembre 1944, facendosi largo fra le pattuglie naziste di retroguardia, riuscì a raggiungere il colonnello dell’artiglieria alleata J.T. Sherman, schierato con i propri pezzi nei pressi di Guamo, e a scongiurare l’imminente distruzione del capoluogo, avvisandolo che ormai, in città, non vi erano più tedeschi da colpire.

Particolare rilevanza, nella guida, assume la trattazione della rete di assistenza religiosa a poveri, sfollati e perseguitati, che in città trovò negli Oblati del Volto Santo il proprio punto di riferimento e un instancabile operatore di pace. Oltre a gestire una “Mensa del povero” nella loro sede di via del Giardino Botanico, in aiuto a una popolazione stremata da anni di lutti e privazioni, nell’estate 1944 gli Oblati s’incaricarono di portare un minimo di sollievo anche alle migliaia di rastrellati civili della Pia Casa, costretti in terribili condizioni igienico-sanitarie, e ai profughi raccolti nel Real Collegio presso San Frediano, impegnandosi parallelamente a proteggere e fornire documenti falsi ad un gran numero di ebrei, in collaborazione con la rete Delasem del pisano Giorgio Nissim e con quella fiorentina del cardinale Elia Dalla Costa e del rabbino David Cassuto.

Il borgo di Nozzano Castello, a sud-ovest di Lucca, occupato dalle SS nel luglio 1944.

Il borgo di Nozzano Castello nell’Oltreserchio, a sud-ovest di Lucca, occupato dalle SS nel luglio 1944.

Arricchito da mappe di facile lettura per una rapida collocazione “sul campo” dei luoghi della memoria trattati, il volume si sposta poi sui dintorni di Lucca, passando per una curiosa e affascinante tratteggiatura di alcuni volti della squadra calcistica Lucchese, che, nella massima serie del campionato 1936/1937, sotto la guida dell’allenatore ungherese di origini ebraiche Ernö Erbstein (1898-1949), si ritrovò casualmente in formazione diversi talentuosi titolari antifascisti, come il mediano sinistro Bruno Neri, poi partigiano, il centromediano comunista Bruno Scher e il portiere “ribelle” Aldo Olivieri. Proseguendo l’esplorazione storica della Piana Lucchese, ci addentriamo dunque nell’Oltreserchio, a ponente del capoluogo, dove, presso le scuole elementari di Nozzano Castello, il 24 luglio 1944 i soldati della 16° Divisione Waffen-SS del generale Max Simon (1899-1961) posero il carcere e il tribunale militare del reparto, tetro luogo di detenzione e tortura per moltissimi civili considerati politicamente ostili e quindi arrestati per vere o presunte attività antitedesche: fra di essi, un gran numero di religiosi poi giustiziati in stragi sparse dalla Provincia di Pisa a quella di Massa-Carrara, come Angelo Unti (1875-1944) e Giorgio Bigongiari (1912-1944), rispettivamente pievano e cappellano della parrocchia di Lunata di Capannori, Libero Raglianti (1914-1944), parroco di Valdicastello di Pietrasanta, e don Giuseppe Del Fiorentino (1881-1944), parroco di Bargecchia di Camaiore.

Veduta aerea della splendida Certosa di Farneta, teatro, nella notte fra il 1 e il 2 settembre 1944, di un feroce rastrellamento di profughi e religiosi che nei giorni successivi sarebbe costato la vita a più di 40 persone.

Veduta aerea della splendida Certosa di Farneta, teatro, nella notte fra il 1 e il 2 settembre 1944, di un feroce rastrellamento nazista di profughi e religiosi che nei giorni successivi sarebbe costato la vita a più di 40 persone.

Altro luogo della memoria di grande importanza per l’Oltreserchio è la trecentesca Certosa dello Spirito Santo di Farneta, nell’estate del 1944 trasformatasi in un generoso centro di accoglienza per un centinaio di sbandati, sfollati, ex-militari, partigiani ed ebrei: proprio qua, nella notte tra il 1 e il 2 settembre 1944, le SS del sergente Eduard Florin scatenarono un vasto rastrellamento, fermando tutti gli occupanti e razziando le scorte alimentari del convento. Nei giorni successivi, in una dolorosa scia di sangue che seguì la lenta ritirata nazista sulle Alpi Apuane, trovarono la morte 12 monaci e 32 civili catturati alla certosa, fra cui il padre superiore Martino Brinz (1879-1944) e monsignor Salvador Montes De Oca (1895-1944), assassinati il 7 settembre 1944 in località Pioppetti di Camaiore, il procuratore padre Gabriele Maria Costa di Ravenna (1898-1944) ed un altro ospite di rilievo della struttura, il medico lucchese Guglielmo Lippi Francesconi (1898-1944), già direttore dell’Ospedale psichiatrico di Maggiano, uccisi tre giorni dopo nei dintorni di Massa.

Facendo anche affidamento su un vasto apparato fotografico, la guida completa poi la trattazione dei principali luoghi della memoria della Piana lucchese soffermandosi sulla zona dei Monti Pisani, dove nell’estate del 1944 fu attiva la piccola formazione partigiana “Nevilio Casarosa”, quindi su Monte San Quirico, Capannori e le alture delle Pizzorne, teatro di numerosi scontri fra le truppe nazifasciste e i combattenti del Gruppo Patrioti STS (Sant’Andrea in Caprile – Tofori – San Gennaro).

La chiesa di San Pietro Apostolo a Fiano di Pescaglia, dove, fino all’arresto del 2 agosto 1944, svolse il proprio servizio don Aldo Mei (in alto a destra).

La chiesa di San Pietro a Fiano di Pescaglia, dove, fino all’arresto del 2 agosto 1944, assolse generosamente alle proprie funzioni il parroco don Aldo Mei (in alto a destra), poi fucilato a Lucca fuori Porta Elisa.

A chiudere la nuova guida, corredata da una ricca bibliografia di riferimento e dalle sintetiche biografie degli autori, una descrizione essenziale delle vicende e dei siti storici più rilevanti della Val Freddana, a nord-ovest del capoluogo: fra tutti, merita un riferimento particolare la chiesa di San Pietro a Fiano di Pescaglia, dove, fin dal 1935, operò con dedizione il parroco Aldo Mei (1912-1944), probabilmente il profilo più alto della Resistenza ecclesiastica in Lucchesia. Nativo di Ruota di Capannori, fermamente antifascista, aderì agli Oblati di Lucca e negli anni della guerra si prodigò per accogliere ed accudire nella sua parrocchia un gran numero di sfollati, disertori, partigiani feriti ed ebrei. Arrestato il 2 agosto 1944 durante un rastrellamento tedesco nella zona di Loppeglia, venne trasferito alla Pia Casa di Lucca ed infine condannato a morte con un processo farsa: a nulla valsero gli sforzi dell’arcivescovo di Lucca monsignor Antonio Torrini (1878-1973) per ottenerne la liberazione. La sera del 4 agosto, condotto fuori Porta Elisa, costretto a scavarsi la fossa, venne infine fucilato da un plotone della Wehrmacht. Prima di morire, ebbe parole di perdono per i suoi assassini:

Muoio travolto dalla tenebrosa bufera dell’odio, io che non ho voluto vivere che per l’amore! Deus Charitas est e Dio non muore. Non muore l’amore! Muoio pregando per coloro stessi che mi uccidono. Ho già sofferto un poco per loro… È l’ora del grande perdono di Dio! Desidero aver misericordia: per questo abbraccio l’intero mondo rovinato dal peccato, in uno spirituale abbraccio di misericordia. Che il Signore accetti il sacrificio di questa piccola insignificante vita di riparazione di tanti peccati.

Articolo pubblicato nel marzo del 2017.




Squadrismo toscano in Dalmazia

Se solo negli ultimi anni il mito del “bono ‘taliano” ha iniziato lentamente ad essere scalfito da una storiografia sempre più attenta allo scacchiere balcanico, molto resta ancora da fare per conoscere e comprendere appieno la particolare «guerra ai civili» condotta dalle truppe italiane nei territori orientali, occupati all’indomani dello smembramento della Jugoslavia nel 1941.
Da queste pagine di storia per troppo tempo rimosse emergono anche vicende locali che possono aiutarci a far luce su un’occupazione ben presto contraddistinta da una tenace resistenza armata affrontata con forme repressive sempre più estreme.
L’eruzione di un fenomeno partigiano dalla chiara matrice comunista fu infatti occasione, per le autorità fasciste nazionali e locali, per spingere verso la formazione di veri e propri reparti organici di squadristi, nella convinzione che l’esperienza maturata negli anni delle “squadre” potesse ora rivelarsi preziosa per affrontare il fenomeno comunista riaffacciatosi nei territori annessi al di là dell’Adriatico.

Tra il 1941 e il 1942 vedevano quindi la luce 6 battaglioni squadristi organizzati dalla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, uno dei quali sorto proprio nella «fascistissima» Toscana; il 20 gennaio 1942 veniva infatti mobilitato il 1° (68°) battaglione squadristi “Toscano”, interamente costituito da volontari accorsi da tutta la regione in numero perfino superiore alle aspettative; allo zoccolo duro dei fascisti della prima ora (stime non verificabili indicavano in circa il 50% i partecipanti alla marcia su Roma), si affiancavano i numerosi reduci delle campagne africane o spagnola, al comando del forlivese, ma fiorentino d’adozione, 1° seniore (tenente colonnello) Pietro Montesi Righetti.
Con un’età media di circa 40 anni, il reparto si componeva di oltre 600 camicie nere, organizzate su 4 compagnie più il comando; accasermata a Montecatini Terme, l’unità completava nei 3 mesi successivi il proprio organico e l’addestramento, lasciando la Toscana il 15 aprile.
Dietro interessamento del Governatore della Dalmazia Giuseppe Bastianini, massima autorità civile nel territorio annesso delle provincie di Zara, Spalato e Cattaro, il “Toscano” raggiungeva il litorale dalmato il 26 aprile, scaglionandosi lungo il settore costiero tra Traù (sede del comando) e Spalato e ponendosi alle dirette dipendenze operative di Bastianini.

"In questi giorni i battaglioni squadristi sono inviati in altri teatri operativi. Hanno avuto numerosi scontri con le bande partigiane e bolsceviche nei Balcani. Ecco un reparto di camicie nere in un angolo dei Balcani, durante una purga [Sipho] 8.VI.1943".

“In questi giorni i battaglioni squadristi sono inviati in altri teatri operativi. Hanno avuto numerosi scontri con le bande partigiane e bolsceviche nei Balcani. Ecco un reparto di camicie nere in un angolo dei Balcani, durante una purga [Sipho] 8.VI.1943”.

Parallelamente all’ordinaria attività di presidio ed ordine pubblico, si scatenava fin dai primi giorni una vera e propria attività squadrista fatta di bastonature, sevizie e perfino omicidi di sospetti fiancheggiatori dei partigiani, condotta con il supporto dei fascisti locali e l’acquiescenza delle autorità civili.
L’incontrollabile violenza di una truppa di per sé particolarmente indisciplinata (e politicizzata) trovava però il suo apice il 12 giugno 1942, assumendo un virulento carattere antisemita: prendendo a pretesto una presunta provocazione da parte di alcuni ebrei, diverse decine di militi del “Toscano” e fascisti della locale Federazione assaltavano la storica sinagoga di Spalato, malmenando i presenti e devastandone locali ed arredi, mentre altre camicie nere saccheggiavano alcuni vicini negozi di proprietari ebrei. Il pogrom spalatino e successivi episodi di minacce verso militari e carabinieri scatenavano infine la dura reazione delle locali autorità militari, già in cattivi rapporti col Governatore Bastianini, costringendo quest’ultimo a ritirare gli squadristi in servizio a Spalato.
Particolarmente cruenta si sarebbe rivelata anche l’attività “ordinaria” del battaglione, spesso affiancata da elementi del Regio Esercito: oltre a fornire elementi per il plotone di esecuzione del Tribunale Speciale della Dalmazia (nella sola giornata del 22 maggio venivano fucilati 26 condannati a morte), il “Toscano” avrebbe condotto nei mesi a seguire numerosi rastrellamenti dell’immediato entroterra spalatino, sempre più minacciato dalla montante attività partigiana: negli scontri verificatisi nel corso dell’estate e la prima metà dell’autunno trovavano la morte alcune decine di partigiani o presunti tali (in un’azione del 28 giugno ne rimanevano 14 sul terreno), in un crescendo di violenze favorito dall’opacizzarsi della distinzione tra partigiani e popolazione civile.
Nella prima metà di novembre iniziava il trasferimento verso Vodice, nella parte meridionale della limitrofa provincia di Zara, area già sconvolta dalle durissime operazioni di rastrellamenti dei mesi precedenti.
Parallelamente alla continua opera di rastrellamento, nel corso delle prime settimane del 1943 lo stesso centro di Vodice veniva trasformato in una sorta di campo di concentramento a cielo aperto, con l’inasprimento di un coprifuoco duramente imposto: numerosi sarebbero stati i civili, tra cui molte donne, sorpresi fuori dal centro abitato e fucilati sul posto dagli squadristi del “Toscano” impegnati nella sorveglianza della zona.
Il 16 maggio il reparto abbandonava definitivamente la Dalmazia, a stretto giro seguito dagli altri battaglioni squadristi a loro volta schierati lungo il litorale dalmato: seppur ridotti in organico ed efficienza, non è da escludere che il rimpatrio fosse in parte dettato dai concomitanti (eppur infruttuosi) tentativi di puntellamento del regime condotti da parte del partito e, soprattutto, della milizia stessa. Truppa certamente fidata e pur sempre dotata di una certa “massa critica”, i 6 battaglioni squadristi trovavano accantonamento in varie sedi dell’Emilia Romagna, col “Toscano” riunito a Vergato, sull’Appennino bolognese.
La defenestrazione di Mussolini coglieva però impreparati i vertici della milizia e l’opera dello stesso Capo di Stato Maggiore Galbiati facilitava un pressoché indolore passaggio di consegne nelle mani di Armellini, generale fedele a Badoglio. Anche i reparti squadristi non opponevano particolare resistenza al cambiamento di regime, avviandosi, in un’atmosfera di smarrimento e rassegnazione, verso la fine della propria esperienza. Nell’impossibilità di disarmare o comunque ridimensionare la milizia, ancora presente in forze in praticamente tutti i teatri bellici, i vertici militari procedettero però a disinnescarne le maggiori criticità: tra i provvedimenti adottati rientrava anche il definitivo scioglimento dei battaglioni «già squadristi», posto in essere attraverso il congedo o il trasferimento dei militi verso altri reparti. Se a fine agosto il “Toscano” cessava di esistere, molte delle sue camicie nere avrebbero dimostrato la propria “coerenza” continuando, nei mesi a seguire, la guerra sotto le insegne della R.S.I.

Lorenzo Pera, laureato in “Storia e Civiltà” presso l’Università di Pisa, si interessa di storia militare della seconda guerra mondiale, con particolare riguardo vero i crimini di guerra compiuti dalle truppe italiane.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2017.




“Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza”

In una notte di giugno del 1944, una squadra di giovani partigiani penetra nel buio di una galleria della linea ferroviaria Lucca-Piazza al Serchio, tra Ponte a Moriano e Borgo a Mozzano: l’obiettivo è il ponte che si trova proprio all’uscita del tunnel, e i guerriglieri, per ostacolare i movimenti delle truppe naziste lungo la valle, si accingono a farlo saltare con gli esplosivi. A guidare i ragazzi, tutti di origini sarde, è il ventottenne Pietro Pistis, nativo di Lanusei (Ogliastra): fino all’8 settembre 1943 sergente del genio guastatori del Regio Esercito, combatte adesso per la formazione “Baroni”, operativa in Lucchesia. Senza fare rumore, la formazione avanza nella galleria a gruppi di tre, in coda due muli e i conducenti per il trasporto degli ordigni. Il gruppo è già piuttosto avanti nel tunnel, quando Pistis fa cenno con le braccia ai compagni di fermarsi e guardare verso l’uscita: all’imbocco opposto della galleria, si riconoscono infatti le ombre di alcune sentinelle tedesche che si muovono da una parte all’altra della volta. Consapevoli del rischio, i partigiani decidono di proseguire comunque, strisciando ai lati dei binari nel massimo silenzio. D’un tratto, tuttavia, i tedeschi si accorgono di qualcosa ed aprono il fuoco: i giovani si mettono subito al riparo, e, non appena la sparatoria dà un attimo di tregua, avanzano verso il caposquadra per fargli intendere che la missione è fallita, che l’unica scelta, oramai, è la ritirata. Nel buio più totale, bersagliati dai proiettili nazisti, due ragazzi raggiungono il comandante, rimasto indietro: dal momento che non reagisce, decidono di toccarlo, per spingerlo a fuggire quanto prima. Ma Pistis non dà segni di vita: colpito al cuore, è morto senza fare rumore. Devastati dalla perdita dell’amico, i compagni arretrano e, coprendosi l’uno con l’altro, riescono tutti a mettersi in salvo fuori dalla galleria. Sul luogo del sacrificio di Pistis, proprio nelle vicinanze del tunnel che lo vide morire, in un vasto piazzale affianco alla via Ludovica appena prima di entrare nel paese di Borgo a Mozzano provenendo da Lucca, nell’ottobre 1992 il comune e le associazioni combattentistiche e patriottiche vollero erigere un piccolo monumento.

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La copertina della nuova guida “Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza”, scritta da Feliciano Bechelli per Pezzini Editore.

Il cippo in memoria di Pistis in località “Madonnina di Mao” è soltanto uno dei molti luoghi della memoria contenuti nella nuova guida “Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza” (Pezzini Editore), secondo tassello del grande progetto tripartito di valorizzazione del patrimonio storico provinciale del tempo di guerra portato avanti dall’Isrec Lucca nel corso degli ultimi due anni di lavori. Scritta dal lucchese Feliciano Bechelli, giornalista pubblicista e membro del Consiglio direttivo dell’Istituto stesso, direttore responsabile, fra l’altro, della rivista semestrale di approfondimento storico dell’Isrec “Documenti e studi”, la pubblicazione fa seguito al primo volume della serie, dedicato alla Versilia, uscito poche settimane fa, parimenti completato con la supervisione scientifica del prof. Gianluca Fulvetti dell’Università di Pisa e reso possibile dal sostegno economico della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca: adottando un efficace taglio divulgativo, adatto ad un pubblico variegato, il libro raccoglie e presenta un gran numero di siti, vicende e personaggi altamente significativi, capaci di restituire il racconto corale dell’esperienza comunitaria delle genti del Serchio nell’ultimo, terribile anno e mezzo di guerra.

Avvalendosi di mappe, documenti d’epoca ed immagini di oggi e di ieri, Bechelli guida il lettore alla scoperta (o alla ri-scoperta) degli avvenimenti che sconvolsero Mediavalle e Garfagnana fra il settembre 1943 e l’aprile 1945, un territorio caratterizzato dall’ingombrante presenza della Linea Gotica e da quasi quotidiani scontri fra formazioni partigiane e reparti nazifascisti.

La tetra struttura dell'ex-albergo "Le Terme" ai Bagni Caldi di bagni di Lucca, convertita nei mesi dell'occupazione a campo di controvento provinciale per ebrei.

L’ex-albergo “Le Terme” a Bagni di Lucca, convertito nei mesi dell’occupazione in campo di concentramento provinciale per ebrei.

Suddivisa in capitoli dedicati ai singoli paesi e ai rispettivi dintorni, di cui l’autore tratteggia anche la storia nelle epoche precedenti ed evidenzia con apposite schede attrazioni turistiche ed eventi “da visitare”, la narrazione affronta così tutti i principali aspetti del conflitto nel suo scorcio più cruento, di volta in volta condensati in “punti caldi” di grande rilevanza per la memoria locale: dal lavoro coatto per la costruzione della Gotica, esemplarmente rappresentato dal campo tedesco di Socciglia, presso Borgo a Mozzano, ai bombardamenti angloamericani, capillari in tutta la valle del Serchio, ma in particolar modo a Castelnuovo di Garfagnana, dalle stragi naziste, come nel caso delle uccisioni compiute dalla Wehrmacht a Montefegatesi e Ponte a Serraglio (presso Bagni di Lucca) fra il 14 ed il 18 luglio 1944, alle persecuzioni antiebraiche, tristemente identificabili nell’ex-albergo “Le Terme” a Bagni di Lucca, trasformato nei mesi dell’occupazione in campo di concentramento provinciale per ebrei, da cui il 30 gennaio 1944 partì un treno destinato ad Auschwitz con 97 persone, di cui soltanto cinque riuscirono a fare ritorno a guerra conclusa.

Non mancano poi dettagliate ricostruzioni delle principali operazioni di guerriglia delle squadre partigiane locali, come la sanguinosa battaglia del monte Rovaio, presso l’Alpe di Sant’Antonio, nel comune di Molazzana, che, il 29 agosto 1944, vide coinvolto il Gruppo Valanga del gallicanese Leandro Puccetti (1922-1944) contro truppe tedesche e reparti della GNR: anche in questo caso, il dato storico è accompagnato dalle immagini e dalle indicazioni pratiche per la visita ai luoghi e ai sentieri che fecero da sfondo ai combattimenti.

La vetta del monte Rovaio, presso Molazzana, teatro della sanguinosa battaglia fra i partigiani del Gruppo Valanga di Leandro Puccetti e nutriti reparti della Wehrmacht e della GNR, il 29 agosto 1944.

La vetta del monte Rovaio, presso Molazzana, teatro della sanguinosa battaglia del 29 agosto 1944 fra i partigiani del Gruppo Valanga di Leandro Puccetti e nutriti reparti della Wehrmacht e della GNR garfagnina.

Affianco alle iniziative di indomiti resistenti rimasti impressi nel racconto corale della guerra in Valdiserchio, come Giovanni Battista Bertagni, comandante del Battaglione “Casino” della Brigata Garfagnana della Divisione Garibaldi Lunense, e Manrico “Pippo” Ducceschi, a capo dell’XI Zona Patrioti, attiva fra la montagna pistoiese e la Mediavalle, rivivono quindi i giorni della “guerra guerreggiata” lungo la Linea Gotica fra le truppe nazifasciste e gli uomini della 92° Divisione “Buffalo” afroamericana, impegnati in un logorante scontro di posizione dall’autunno del 1944 alla primavera dell’anno successivo: a tal proposito, di grande interesse è il capitolo dedicato a Sommocolonia, borghetto d’altura vicino a Barga, che fu teatro della devastante battaglia di Natale del 25, 26 e 27 dicembre 1944 (nome in codice tedesco: “Wintergewitter Aktion”), ultimo, vano tentativo germanico di spezzare il fronte alleato in direzione sud, conclusosi con intensissimi bombardamenti e vaste distruzioni in tutta la valle.

Giovanni Battista Bertagni, già sottotenente di complemento degli alpini, nell'estate del 1944 fu al comando del Battaglione "Casino" della Brigata Garfagnana della Divisione Garibaldi Lunense.

Giovanni Battista Bertagni, già sottotenente di complemento degli alpini, nell’estate del 1944 fu al comando del Battaglione “Casino” della Brigata Garfagnana della Divisione Garibaldi Lunense.

Oltre a trattare gli eventi della “grande storia” sul territorio, la nuova pubblicazione dell’Isrec di Lucca parla anche di Resistenza civile, di solidarietà umana e cristiana, soffermandosi sulle scelte della gente comune e di non pochi sacerdoti, che, di fronte alla spietata caccia all’uomo scatenata dalle forze nazifasciste contro oppositori politici, ebrei e renitenti alla leva, seppero reagire con decisione, offrendo spontaneamente rifugio, cibo e protezione ad un gran numero di perseguitati: è il caso, ad esempio, di Giuseppe Lombardi e don Gino Bachini a Colognora di Pescaglia, che salvarono la famiglia dell’ebreo viareggino Renato Pieri, di don Giovan Maria Torre, che, oltre ad assistere molti ricercati, s’impegnò a trasferire le attrezzature dell’ospedale bombardato ed inagibile di Castelnuovo nella canonica della propria chiesa, ad Antisciana, per non parlare di don Guglielmo Sessi, parroco di Sillico (nel comune di Pieve Fosciana), che, più volte arrestato dai fascisti e quindi tornato in libertà, s’impegnò fino alla fine del conflitto nell’assistenza agli ebrei e ai prigionieri di guerra alleati in fuga verso le proprie linee.

Utile strumento per una vasta diffusione della conoscenza storica del territorio nel periodo 1943-1945, certamente di grande validità anche a scopi didattici, la guida “Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e Resistenza” sarà a breve seguita dal terzo ed ultimo capitolo del grande progetto “Luoghi della memoria” dell’Isrec, dedicato al capoluogo provinciale ed alla Piana di Lucca.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2016.




“La Versilia tra antifascismo, guerra e Resistenza”

Percorrendo l’antica “via di Marina” (oggi Strada Provinciale 9) che dal Pontile di Forte dei Marmi conduce ai bacini marmiferi di Arni di Stazzema, all’ingresso del paese di Seravezza, in corrispondenza del bivio che porta alla piccola frazione di Riomagno sul torrente Serra, incontriamo il ponte del Pratale: proprio in questo luogo, il 29 luglio 1944, militari tedeschi delle SS, datisi alla rappresaglia dopo l’esplosione di un colpo d’arma da fuoco contro il comando nazista di villa Pilli/Henraux – appena superato il ponte sulla sinistra -, impiccarono con il filo spinato Uria Viti (44 anni) e Virgilio Furi (53 anni), sommariamente catturati sul fianco della montagna antistante la residenza e quindi torturati. Gli altri due uomini arrestati nel corso del rastrellamento, Demetrio Bardini (42 anni) e Filiberto Tardelli (38 anni), anch’essi estranei ai fatti, seviziati per ore allo scopo di ottenere informazioni sui partigiani presenti in zona, furono parimenti condotti al ponte del Pratale e costretti a scavarsi la fossa con le proprie mani ai piedi dei loro compagni: fucilati, vennero sepolti sotto uno strato di scaglie di marmo.

Il ponte del Pratale è soltanto uno dei molti siti storici inclusi nella nuova guida “La Versilia tra antifascismo, guerra e Resistenza”, primo volume di un progetto tripartito dell’Isrec di Lucca teso a valorizzare i luoghi della memoria presenti sul territorio provinciale. Testo originale, bilanciato fra approfondimento scientifico e fruibilità turistica, il libro, edito per i tipi di Pezzini Editore di Viareggio (Lu), raccoglie i contributi di Federico Bertozzi, Jonathan Pieri ed Andrea Ventura, giovani storici versiliesi coordinati dal prof. Gianluca Fulvetti dell’Università di Pisa.

La copertina della nuova guida storico-turistica "La Versilia tra antifascismo, guerra e Resistenza", pubblicata da Pezzini Editore di Viareggio (Lu).

La copertina della nuova guida “La Versilia tra antifascismo, guerra e Resistenza”, scritta da Federico Bertozzi, Jonathan Pieri ed Andrea Ventura e pubblicata da Pezzini Editore.

I tre autori, dopo essersi suddivisa la ricca bibliografia di riferimento presente sul tema, hanno effettuato una difficile opera di cernita fra i molti siti esistenti, inserendoli quindi, affianco ad un percorso introduttivo “speciale” dedicato al Parco della Pace di Sant’Anna di Stazzema, in quattro “Percorsi della memoria” principali: percorribili anche in auto, questi tracciati, senza pretese di completezza, hanno tuttavia lo scopo di ricostruire dei contesti spazio-temporali, conducendo il visitatore interessato alla scoperta di fatti puntuali, dinamiche e volti della guerra in Versilia. Aiutato da numerose immagini di oggi e di ieri, assistito da indispensabili mappe per localizzare i vari luoghi e seguire le indicazioni per le mete successive, il lettore interessato, residente o turista che sia, potrà così scegliere fra il Percorso 1 (Forte dei Marmi – Sant’Anna di Stazzema), il Percorso 2 (Strettoia di Pietrasanta – Arni di Stazzema), il Percorso 3 (Massaciuccoli – Valpromaro) ed il Percorso 4 (Città di Viareggio), toccando con mano le case, i ponti, le strade, le storie ed i boschi che composero l’esperienza collettiva della Seconda Guerra Mondiale in Versilia, attraverso le tragedie dell’occupazione nazista, le speranze della Resistenza armata, i drammi dello sfollamento, le angosce dei bombardamenti e dei combattimenti sulla Linea Gotica, le distruzioni del territorio, la gioia della Liberazione angloamericana e lo sforzo corale della ricostruzione postbellica.

Il monumento dei "Pioppetti", posto all'ingresso della Valfreddana nel comune di Camaiore (Lu), incluso nel Percorso Massaciuccoli-Valpromaro, ricorda le decine di vittime civili della strage nazista del 4 settembre 1944.

Il monumento dei “Pioppetti”, posto all’ingresso della Valfreddana nel comune di Camaiore (Lu), incluso nel Percorso Massaciuccoli-Valpromaro, ricorda le decine di vittime civili della strage nazista del 4 settembre 1944.

Realizzata grazie al fondamentale contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, la guida, frutto di un anno e mezzo di lavori, comprende poi, per ogni percorso principale, una serie di “Altri luoghi”, ovvero siti non inclusi nei tracciati primari ma da essi facilmente raggiungibili: pensati per il visitatore più attento, essi vanno a completare le ricostruzioni storiche delle varie micro-aree componenti il territorio versiliese. L’ultima parte dell’opera comprende infine tre “Sentieri della memoria”, semplici tracciati di montagna, studiati con l’assistenza dell’esperto Filippo Fambrini di Valdicastello di Pietrasanta (Lu), per conoscere avvenimenti e protagonisti della Resistenza e della repressione antipartigiana sulle Alpi Apuane. A chiudere la pubblicazione, che sarà seguita a breve dagli altri due “tasselli” del progetto editoriale, ovvero le guide sulla Mediavalle/Garfagnana e sulla Lucchesia, una sintetica bibliografia/sitografia utile al lettore per eventuali approfondimenti. Dopo la prima presentazione tenutasi presso il C.R.O. Darsene di Viareggio lo scorso 30 settembre, la guida versiliese (prezzo di copertina: 10 Euro) tornerà alla ribalta il prossimo venerdì 14 ottobre 2016, quando, alle ore 17:30, verrà nuovamente presentata nella prestigiosa sede di Sala Cosimo I del Palazzo Mediceo di Seravezza (Lu): dopo i saluti del Sindaco di Seravezza Riccardo Tarabella e del Presidente del Consiglio comunale Riccardo Biagi, interverranno il curatore Gianluca Fulvetti e due degli autori, Federico Bertozzi ed Andrea Ventura.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2016.




Gli Internati Militari Italiani di Cinigiano. La storia di una scelta

Un’altra Resistenza venne combattuta da oltre seicentomila Italiani. Fu quella amara e difficile degli Internati Militari Italiani. Fu una Resistenza senza gloria, dimenticata, lontana, nella Germania dei lager, combattuta tra freddo, fame, stenti, malattie. Li hanno definiti “Schiavi di Hitler” perché lavoravano nelle fabbriche della guerra senza salario, senza cibo a sufficienza, lavoravano nelle officine, nelle campagne e a sera tornavano nei campi di concentramento per dormire. A guerra finita ebbero un lungo e difficile ritorno. Non raccontarono allora, perché preferirono costruirsi una vita, nella consapevolezza che nessuno forse avrebbe creduto e capito. Perché la loro era stata una scelta, una scelta in piena regola.

Ma chi erano gli schiavi di Hitler? Erano giovani italiani, che dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43 si trovarono con una divisa addosso e che nella dissoluzione dell’esercito vennero inghiottiti dagli ingranaggi dalla follia nazista e fatti prigionieri.

Allora erano ragazzi Pasquale Cherubini, Zeno Aluigi e Aladino Dari, i testimoni che hanno accettato di ricordare quei momenti drammatici della loro vita. È per salvare questo tesoro di memorie, infatti, che l’Amministrazione comunale di Cinigiano ha voluto finanziare un’iniziativa importantissima di raccolta e conservazione delle testimonianze orali, commissionando all’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea una serie di videointerviste ai protagonisti della seconda guerra mondiale presenti sul territorio. Così, è stato realizzato un lavoro di ricognizione dei testimoni cinigianesi, scaturito dall’esigenza di consegnare al futuro tutto un patrimonio di esperienze individuali e di vissuti che si sono legati alle sorti della grande storia europea.

ultimato_1589I testimoni hanno raccontato le storie di giovani di campagna, forti lavoratori leali ai valori della tradizione, della terra, della famiglia e della comunità, che si trovarono scaraventati in un panorama agghiacciante di guerra, persecuzioni, distruzioni, deportazioni, nel cuore della Germania nazista.

Furono privati dei loro diritti, furono umiliati e sfruttati come schiavi nelle fabbriche di armi, nell’agricoltura e nei servizi tedeschi, sotto la minaccia dei continui bombardamenti alleati, ma non vennero mai meno alla loro dignità di uomini, non si piegarono alla follia e alla barbarie, affermando con coraggio un chiaro e forte “no” alla guerra. Si tratta di tre vivaci signori che hanno acconsentito a mettere i loro ricordi a disposizione di tutti: sia di chi tenta una difficile ricostruzione della storia, che tenga conto dell’incrocio delle fonti orali e documentarie, sia di chi non sa niente e che vuole sapere, come le giovani generazioni, sempre sensibili alle voci calde e dirette di chi narra cose vissute e sofferte, più che alle pagine stampate un po’ lontane e difficili dei libri di storia.

La Storia, poi, quella ufficiale, non ha reso giustizia agli Internati Militari Italiani. Non tutti si ricordano degli 800mila catturati dopo l’8 settembre del 1943, di cui 650mila rifiutarono la fedeltà ad un’alleanza scellerata ed autodistruttiva (mentre 186mila per motivazioni diverse che vanno dall’ideologia alla sopravvivenza si arruolarono nella milizia della Repubblica sociale o nelle SS): ufficiali e soldati furono rinchiusi nei campi di concentramento, ed i soldati semplici trasformati in lavoratori coatti. Non si rispettò per gli italiani la convenzione di Ginevra del 1929 perché considerati traditori, disprezzati e umiliati, non ultimi solo ai russi, e indegni di essere trattati da prigionieri di guerra. Gli italiani erano piuttosto da considerarsi un “bottino”, utili per mandare avanti le fabbriche o per curare campi e bestiame. Così da metà dicembre del ‘43 furono messi a lavorare duramente e nel rigore dell’inverno nordico; malvestiti e peggio nutriti, molti morirono di freddo e di epidemie. Era martellante la propaganda fascista: se si fossero arruolati ed avessero continuato la guerra per la Repubblica sociale o per i nazisti, avrebbero rivisto la patria, avrebbero avuto vesti adeguate e cibo, ma la maggior parte di loro disse no, non cedette.

Ce lo conferma Pasquale Cherubini che ci ha parlato delle continue richieste di arruolamento nei reparti tedeschi:

Un soldato vestito da alpino ci domandava se eravamo fascisti dicendo “l’Italia è stata invasa dalle truppe a colori, sono molto pericolose per le nostre donne” ..ma nessuno si mosse, “allora, da questo momento, siete considerati come prigionieri” allora fecero le squadre, cinquanta per cinquanta ci mandarono a lavoro

 E Zeno Aluigi motiva il suo rifiuto a quei tedeschi che con un interprete italiano, gli chiedevano di arruolarsi:

…devo andà a ammazzà i miei paesani e gli italiani, io, dissi, non ci vengo. Loro insistevano“siete stati sempre legati a noi, perché non ci volete ritornare?” Saremo stati tre o quattrocento: non ce ne fu uno che avesse firmato per andare con loro… e allora ci tartassavano.

 Hanno descritto la durezza della vita da prigionieri, in Germania le braccia da lavoro servivano: la guerra aveva più bisogno di schiavi che di un improbabile esercito. L’unica cosa concreta che riuscì a fare a quel punto la Repubblica sociale italiana fu promuovere la trasformazione degli Internati Militari Italiani in lavoratori civili, nell’estate del ‘44. Ma non sembra che la situazione cambiasse molto per i nostri testimoni.

Aladino Dari ha raccontato:

So’ stato 17 mesi senza sapere niente dei mieisi portava il carbone alle famiglie, ho lavorato così  per 19 mesierano balle da 50 chili di carbone e si portavano nelle case anche al 4° e 5° piano: si rimediava la vita per andare avanti. Poi bisognava sta’ zitti e non parla’ mai perché avevano paura si parlasse male di loro… Io ero 47 chili… In capannoni lunghi 50 per 15 si stava in 50 persone.

 E ancora racconta di continui bombardamenti tutte le notti, addirittura 280, e dove era, ha visto moltissimi prigionieri con la divisa a strisce, gli ebrei.

Anche Zeno Aluigi ha parlato della sua vita nelle baracche di legno “coi castelli uno sotto e uno sopra”, riscaldate da “una stufettina…” e della fatica:

…si faceva 13 ore di lavoro dalla mattina avanti giorno alla sera… venivano 2 guardie ci prendevano e ci portavano a lavoro nelle fabbriche

Pasquale, Zeno e Aladino raccontano episodi drammatici, scene di vita vissuta, affetti, amicizie e poi di un ritorno reso difficile dalla complessità degli accordi tra i liberatori, dalla mancanza di mezzi di trasporto. Ritorno in una terra tutta da ricostruire con la salute minata dagli stenti e dalle fatiche.

Sono stati tre incontri pieni di verità che per il loro intrinseco valore hanno contribuito a ricostruire una parte del grande affresco della storia del rapporto tra la seconda guerra mondiale e il territorio, che ha potuto confluire in un documentario, Fu la loro scelta, fruibile da chiunque sia interessato a non dimenticare.

Articolo pubblicato nell’agosto del 2016.