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Articolo: conosci - ToscanaNovecento1

La liberazione di Siena

Il mattino del 3 luglio 1944 i soldati del corpo di spedizione francese entrarono a Siena da Porta S. Marco, mentre gli ultimi reparti tedeschi uscivano, in direzione opposta, da porta Camollia. Paolo Cesarini, giornalista e letterato, se ne accorse affacciandosi alla finestra della sua abitazione su Piazza del Campo. Da lì, in un silenzio quasi irreale, vide una camionetta tedesca allontanarsi e, poco dopo, una jeep alleata arrivare. Paolo Goretti , un ragazzo che abitava a pochi passi da Piazza Salimbeni, percepì che qualcosa era cambiato sentendo passare per strada una fila di soldati le cui calzature non faceva quasi rumore, a differenza degli scarponi chiodati della Wehrmacht.

Quella di Siena fu dunque una liberazione dolce, senza scoppio di cannonate, crepitio di mitragliatrici, fucilate di cecchini. Ciò dipese da almeno tre fattori. I tedeschi decisero di non difendere la città, perché inadatta a costituire il perno di una delle linee di contrasto che predisposero laddove la topografia le consigliava, dall’Amiata al torrente Farma, dal fiume Merse ai Monti del Chianti. Il CLN, nel quale prevalse la componente favorevole ad un compromesso con le autorità fasciste – il podestà Luigi Socini Guelfi promosse, con il CLN, la costituzione di una guardia civica – contrastò l’ipotesi di un’insurrezione, peraltro inficiata da un forte rastrellamento germanico nella zona di Tegoia ai danni di un distaccamento della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini che aveva ricevuto l’ordine di avvicinarsi al capoluogo. Infine, la ventura volle che il comandante delle truppe francesi che si apprestavano all’assalto fosse un estimatore del gotico senese e desse ai suoi subalterni l’ordine impossibile di tirare cannonate soltanto al di là del XVIII secolo, confortato, in questa sua decisione, da un ufficiale del Raggruppamento patrioti Monte Amiata, il quale, attraversate le linee, lo informò che i tedeschi se ne stavano andando.

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Il 3 luglio 1944 a Siena (Archivio ISRSEC)

Ma questo epilogo della guerra a Siena – peraltro in linea con una lotta antifascista sfociata in azioni armate molto tardi, nella seconda metà di giugno, con la liberazione dei prigionieri politici del carcere di S. Spirito, l’uccisione di alcuni fascisti e uno sfortunato attacco alle retroguardie tedesche proprio nella giornata del 3 luglio – non deve trarre in inganno. Anche Siena aveva infatti conosciuto la sua parte di violenze: la deportazione di cittadini ebrei catturati dai fascisti locali, il processo e la fucilazioni di alcuni partigiani, la distruzione di infrastrutture civili e il saccheggio di negozi per mano dei soldati germanici. Neppure i bombardamenti aerei le erano stati risparmiati – il tentativo del capo della provincia Giorgio Alberto Chiurco e dell’arcivescovo Mario Toccabelli di farla dichiarare città aperta, in virtù dei suoi numerosi ospedali, non aveva avuto esito presso gli alleati perché tedeschi e fascisti non avevano proceduto alla sua completa smilitarizzazione – e soltanto l’ubicazione periferica della stazione ferroviaria, obiettivo principale delle incursioni aeree, bastevolmente distante dagli insediamenti più densamente abitati, aveva fatto sì che il numero di vittime civili fosse stato inferiore rispetto ad altre città toscane.

Se nel capoluogo l’attività partigiana combattente fu esile, robusta e intensa si manifestò invece nel territorio provinciale, evidenziando un marcato dualismo città-campagna su cui la storiografia ha riflettuto a lungo. Nel corso di nove mesi di lotta, a partire dall’8 settembre del 1943, i partigiani combattenti nel senese arrivarono ad oltre millecinquecento e ad oltre mille i patrioti della rete informativa e logistica. Di essi, più di trecento rimasero uccisi in centinaia di azioni, fra sabotaggi, agguati, occupazioni temporanee di centri abitati, combattimenti e rastrellamenti. Sul fronte opposto, i morti fra i fascisti superarono i duecento e anche le perdite tedesche furono consistenti.

Protagoniste di una guerriglia così diffusa furono numerose bande che, superando spontaneità e isolamento, vennero man mano inquadrate nella Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini, nella Brigata Garibaldi Guido Boscaglia, nel Raggruppamento patrioti Monte Amiata e nella SiMar, quattro grosse formazioni di differente orientamento politico – comuniste le prime due, monarchiche le altre due – che operarono a cavallo con le province di Grosseto, Pisa, Arezzo, Perugia.

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Soldati alleati sotto il monumento della Lupa a Siena (Archivio ISRSEC)

L’apporto militare della Resistenza senese, tutt’altro che trascurabile, accelerò il collasso dell’apparato militare e politico fascista – già nel mese di aprile il questore annotava che la GNR non aveva più il controllo di molte zone -, impegnò forze fasciste e tedesche che avrebbero potuto confluire al fronte, favorì in vario modo un’avanzata degli alleati per nulla agevole.

Truppe sudafricane dell’esercito inglese, truppe algerine e marocchine del corpo di spedizione francese e truppe americane si affacciarono ai confini meridionali della provincia di Siena alla metà di giugno. Schierate rispettivamente ad est, al centro e ad ovest, si mossero verso i centri abitati della Val di Chiana con direzione Chianti, verso quelli dell’Amiata, Val d’Orcia, Val d’Arbia con direzione Siena e verso quelli delle Colline Metallifere con direzione alta Val d’Elsa. Il contrasto tedesco, spesso così forte da originare sanguinosi combattimenti di più giorni – Radicofani, Chiusi, Brolio, per limitarsi a tre soli esempi -, fu causa di una nutrita serie di cannoneggiamenti in cui rimase pesantemente coinvolta la popolazione civile. I primi comuni liberati furono Piancastagnaio e Abbadia S. Salvatore, il 18 giugno, l’ultimo Radda in Chianti, il 20 luglio. Più di un mese fu dunque necessario agli alleati per coprire una distanza di poco superiore ai cento chilometri, a ulteriore dimostrazione dell’asprezza dei combattimenti.

La fine dei quali non segnò tuttavia il termine della lotta per oltre ottocento partigiani, i quali si arruolarono nei gruppi di combattimento del rinato esercito italiano – in maggioranza nel Cremona – per continuare la guerra al di là della linea Gotica.

 




Leggere i manifesti di Oriano Niccolai

La Federazione del Partito comunista di Livorno aveva un grande grafico. Anzi un grandissimo grafico, Oriano Niccolai. L’Istoreco di Livorno gli ha dedicato, nel 2013 e poi di nuovo nel 2014, una bellissima Mostra con un altrettanto significativo Catalogo, dal titolo Rosso creativo.[1]  Le intenzioni dell’autrice di questo brano sono di cominciare, con questo intervento in rete, una sequenza di approfondimenti per raccontare come una visione politica si possa rappresentare graficamente e come si possa proporre una lettura della storia politica dell’Italia a partire dai colori, come suggerisce Maurizio Ridolfi [2], dalle scelte grafiche, dal testo che le accompagna. Perché i manifesti politici utilizzano una modalità polisemica per veicolare il loro messaggio. Parlano attraverso il colore, l’impaginazione, la grafica, le parole, la loro stessa dimensione e la tecnica di realizzazione.

Sez.2_18_0345Per favorire la comprensione di questa affermazione utilizzerò alcune esemplificazioni concrete, collocabili in un tempo ed uno spazio preciso, a partire dal manifesto del 1961 in occasione della vittoria di Castro a Cuba. Il manifesto è firmato lateralmente con un rinvio al committente, che è il Pci ma in particolare la Federazione giovanile comunista di Livorno. E noi sappiamo che per i manifesti della Fgci Oriano, come tutti gli altri grafici comunisti, aveva più libertà d’azione rispetto invece alle direttive che si ricevevano dalla direzione del Partito per quelli, in qualche modo, più ufficiali. Il colore che domina è il bianco dello sfondo. Secondo la lettura più ortodossa in cima al manifesto trionfa una scritta dove si ricorda che ha vinto non il leader, ma il “popolo” di Cuba che si è liberato del dittatore Fulgencio Battista. Poi il manifesto prosegue richiamando Castro e subito dopo ancora la rivoluzione cubana, ma aggiungendo a chiusura un richiamo alla pace. Qual è l’aspetto più significativo di questa comunicazione, della sua realizzazione grafica? Sicuramente festeggiare l’avvenuta presa del potere da parte di Castro. Quale l’intenzione che ci sta dietro? Allacciarsi al tema dell’internazionalismo in una cornice nella quale questo tema appassionava ancora milioni di uomini e di donne. Aver utilizzato l’immagine della bandiera cubana spezzata a cosa rinvia? Spezzata perché i cubani si sono liberati di un dittatore? Può darsi. Ma a mio parere ancora di più perché la bandiera cubana, ironia della sorte, è costruita con strisce blu su sfondo bianco e con una stella su sfondo rosso. Ricorda quasi in modo automatico la bandiera statunitense. Ed allora averla impaginata in questo modo, con le strisce “esplose” è un rinvio alla sconfitta degli Usa che in questa partita giocarono un ruolo decisivo ma pur sempre perdente. Non aver caricato il manifesto di “rosso” evita alla comunicazione di presentarsi come conforme ad una ortodossia comunista ancora molto forte agli inizi del decennio Sessanta, permette alla comunicazione di rimanere su un registro più “leggero”.

punto esclamativoPassiamo adesso ad un altro manifesto di quello stesso periodo, periodo contrassegnato anche dall’impegno militante di tutta la sinistra italiana a favore del popolo vietnamita in lotta contro gli Stati Uniti.  Nel manifesto di nuovo domina il bianco. Sembra impaginato con una disciplina grafica che risponde ad una direttiva artistica del “togliere” e non a quella dell’aggiungere. Il manifesto si può definire minimalista, quasi astratto. Un grosso punto esclamativo che produce un effetto “non centrato” rispetto al foglio, e che a causa di questa sua asimmetricità ha un impatto sul lettore ancora più efficace, produce un richiamo all’attenzione ma nello stesso tempo, e anzi ancora di più, rinvia alla traiettoria di una bomba che cade. La scrittura del testo che accompagna l’immagine, nelle realizzazioni di Niccolai sempre sintetica e mai aggiuntiva o sostitutiva, è collocata a sinistra e a destra della “bomba-punto esclamativo”.  Il messaggio invita ad un’azione di impegno contro la guerra, all’organizzazione di una Marcia della Pace dentro un quartiere periferico, a sud della città, una mobilitazione di quella che oggi potremmo chiamare la “società civile”. Un luogo decentrato nella città, nella sua periferia sud. Noi sappiamo che quel manifesto è uscito dalla Federazione del Partito comunista di Livorno e quindi ha una sua specifica e ben riconoscibile paternità politica, ma sappiamo anche l’originalità di questa composizione che rinvia senza mezzi termini alle avanguardie pittoriche più interessanti e alla migliore grafica italiana. Sappiamo che per Oriano fare il grafico era “l’arte del togliere”, e sappiamo che non l’aveva imparato da Calvino e dalla sua esigenza di leggerezza, ma dal suo maestro, Albe Steiner[3], il più grande e innovativo disegnatore/comunicatore del secondo dopoguerra italiano. E sappiamo[4] anche che quando sceglieva le parole per ogni manifesto, in testa gli giravano sia i racconti di Marcovaldo che le poesie del suo caro amico Gianni Rodari. Quel Rodari che si era ispirato a lui nella filastrocca “Giovannino perdigiorno”, che in primis doveva essere “Orianino perdigiorno[5]”. Perché? Perché Oriano aveva un aspetto minuto, quasi fanciullesco, con un’aria perennemente assorta e riflessiva, sembrava uno un po’ svagato che correva dietro alle nuvole immaginarie che si agitavano nella sua testa.  Chi lo ha frequentato lo ricorda così: concentrato sopra una pagina di giornale, taciturno, quasi assente, eppure Oriano era sempre assai presente, uno capace di ascoltare le richieste, farle proprie per poi trasformarle in un messaggio grafico e linguistico impeccabile, mai superfluo, mai retorico. Con le sue proposte, che difendeva con caparbietà e consapevolezza, riusciva ad interpretare i bisogni della Federazione, del Partito nel suo insieme, o delle singole parti di quella che era una macchina mastodontica, pesante, lenta. Ma nel farlo ogni volta si prendeva lo spazio di affermare la sua scelta grafica, libera e “leggera”, mai monumentale, mai ingombrante. Perché Niccolai metteva la sua capacità a disposizione del Partito non in modo mercenario o opportunista ma da appassionato militante quale si sentiva e voleva essere.

mollettaMolti anni dopo, ancora per un’altra occasione di mobilitazione per la ricerca di pace. Oriano Niccolai disegna un altro manifesto. Siamo nei primi anni Novanta. La guerra stavolta è quella del Golfo. I tempi sono cupi e Niccolai sceglie lo sfondo nero su cui troneggia la data dell’appuntamento politico e sotto, attaccata ad un filo, è sospesa una bomba tenuta ferma soltanto da una molletta per i panni, su un filo pesantemente curvato. La scritta successiva indica il cosa fare e come, rinvia all’appuntamento di una fiaccolata. La manifestazione quindi si fa in notturna e questo può anche aver ispirato Niccolai a fare lo sfondo nero. Ma lo sfondo è nero anche perché siamo entrati in un orizzonte più cupo, il mondo per un vecchio militante comunista non è più così chiaro, c’è già stata la caduta del muro di Berlino e il tentativo di golpe contro Gorbaciov, tutto si è fatto più incerto. Per chi osservava quel manifesto, quel nero e bianco della bomba erano molto più significativi delle tante immagini di orrore che già campeggiavano nella nostra percezione nonostante la volontà di anestetizzare quella guerra da parte dei suoi contendenti. La “bomba” di Oriano non è proprio la bomba “intelligente” della propaganda militarista. È una bomba sospesa che sta per cadere. Che sicuramente cadrà, così come è, appesa ad un filo. L’innocua molletta, oggetto umile, persino casalingo che la trattiene, non la può certo bloccare per molto ancora. Quindi il messaggio implicito ma non troppo è: partecipate numerosi, la pace è in pericolo e forse siamo già in ritardo. Pochi anni fa due giovani artisti livornesi, Valerio Michelucci e Stefano Pilato ispirandosi forse a questa bomba realizzarono una installazione in occasione del 70° bombardamento di Livorno, quello del 28 maggio del 1943, e ne fecero una finta, dipinta di color fucsia magenta, e la attaccarono sospesa ad un palazzo vicino al mercato di Piazza Cavallotti, luogo popolare, deputato a rappresentare la tradizione democratica e pacifista della città. Perché le proposte intelligenti e creative permettono anche questo, di essere riprese e aggiornate e, risultare, nonostante le loro radici nel passato, originali e intelligenti.[6]

[1] Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti (a cura di Margherita Paoletti), Debatte Editore, Livorno, 2013. I manifesti che risultano nel Catalogo corrispondono a quelli della Mostra che fu realizzata a Livorno dall’8 al 22 novembre 2013 presso Villa Henderson e replicata a Pisa l’anno successivo presso il Centro San Michele degli Scalzi. Sono oggi custoditi presso l’archivio dell’Istoreco di Livorno e formano tutti insieme un fondo di circa duemila pezzi.

[2] Maurizio Ridolfi, L’Italia a colori Storia delle passioni politiche dalla caduta del fascismo ad oggi, Le Monnier, Bologna, 2015.

[3] Rosso creativo, cit., p. 15.

[4] L’espressione “noi sappiamo” non è legata a nessuna astuzia retorico-linguistica ma è giustificata dalle decine di ore di interviste e colloqui che prima di fare la Mostra e il Catalogo abbiamo avuto il piacere di realizzare all’interno dell’Istituto. In particolare Margherita Paoletti, che curò tutta l’operazione, costruì con Oriano Niccolai una specie di carta d’identità di ogni manifesto utilizzato.

[5] Rosso creativo, cit., p. 15.

[6] Purtroppo la bomba finta non c’è più. Fu realizzata nel 2013 e mai presa in carico dal Comune di Livorno. Distrutto uno dei fermi che la sostenevano, è stata tolta e mai più reinstallata.




L’addio alla terra

Nei venti anni compresi fra il 1950 e il 1970, nelle campagne senesi come nel resto della Toscana, venne a termine la secolare vita del rapporto di produzione mezzadrile, o di colonia classica come era anche definito.
La mezzadria che intorno all’anno 1947 copriva il 59,2% della superficie produttiva della provincia di Siena, scese al 39,5% nel 1961 e all’11,48% nel 1970, divenendo una sorta di relitto contrattuale. E i mezzadri, che con le loro famiglie patriarcali estese costituivano il 69% della popolazione rurale e il 49% di quella residente, si ridussero a poche unità, costituite in prevalenza da anziani e confinate in genere su piccoli appezzamenti vicini ai centri urbani, la cui produzione serviva ad integrare l’alimentazione e il reddito di nuclei familiari che avevano trovato la loro principale fonte di impiego in settori diversi da quello agricolo.

Scena di lavoro nei campi

Scena di lavoro nei campi

Al tempo stesso anche la grande proprietà, imperniata dall’Ottocento sul sistema di fattoria (numerosi poderi con una direzione e un’amministrazione centralizzata) subì un ridimensionamento ed un rimescolamento – quasi il 60% delle proprietà superiori ai 50 ettari venne messo in vendita, in blocco, oppure per frammentazioni successive – sotto il peso combinato degli effetti causati dal diffuso assenteismo padronale, dai timori di esproprio innescati dalla pur moderata riforma agraria, dal venir meno, anche a causa della vertenzialità sindacale e dell’adesione di gran parte del mondo contadino ai partiti di sinistra, sia delle rigide, tradizionali gerarchie (prima fra tutte quella personale fra padrone e mezzadro), ma anche quelle interne alla famiglia patriarcale contadina fra vecchi e giovani, uomini e donne, dal ridursi della flessibilità del lavoro che aveva costituito il vero “tesoro”, la vera “risorsa segreta” della colonia classica, ed infine, nei casi migliori – in verità non pochi – dalla necessità di razionalizzare e di trovare i capitali da investire per un’agricoltura specializzata sui terreni non venduti.
Il mutamento fu dunque epocale e conobbe tensioni forti e laceranti, prima fra tutte la lunga ed estenuante vertenza contrattuale iniziata subito dopo la fine della guerra e proseguita per anni fra contenziosi sul riparto dei prodotti, sfratti, assedi alle fattorie, manifestazioni nelle aie e nei paesi, cariche della celere e dei carabinieri, difficili trattative condotte dai Consigli di fattoria. Di portata non minore fu la fine dei grandi aggregati familiari che, lasciando i poderi e la campagna per urbanizzarsi o avvicinarsi alle periferie urbane, si frammentarono in famiglie nucleari sotto la spinta delle esigenze di quella modernità – esigenze espresse dai giovani, e dalle femmine prima ancora e più che dai maschi – che offriva la nuova situazione dell’Italia del miracolo economico, nella quale, di fronte al richiamo di un nuovo stile di vita incardinato non più sull’atavico binomio lavoro-sopravvivenza, bensì su un più allettante circuito lavoro-consumo, la condizione di contadino era avvertita come emarginata e emarginante e la terra sembrava ancora più bassa e più dura.
Eppure il segno di questa grandiosa trasformazione, che la distinse dalle migrazioni di massa che caratterizzarono altre regioni, non fu quello di un crollo, di una catastrofe demografica e sociale, bensì di un graduale, per quanto possente, slittamento. Con i mezzadri dei poderi più fertili e più vicini ai centri abitati che per primi si inurbarono per essere rimpiazzati da quelli delle terre più difficili e più isolate, i quali, dopo un po’, seguirono le medesime orme, ma quasi sempre con il supporto di varie opportunità lavorative incontrate per via. E comunque con punti di approdo definitivi che, collocandosi in prevalenza entro i confini provinciali e regionali, consentirono ai giovani di portare con sé, o vicino a sé, molti dei loro anziani.

Operai "a trebbiatura" con la bandiera della pace issata sullo stollo del pagliaio

Operai “a trebbiatura” con la bandiera della pace issata sullo stollo del pagliaio

Un processo “dolce”, dunque, quasi in sintonia con la dolcezza, solcata da asprezze, del paesaggio mezzadrile toscano. A conferma, senza entrare nel merito della questione sul ruolo sociale dei mezzadri una volta che smisero di essere tali – dico solo che nel senese, almeno per vari anni, gli ex mezzadri fornirono mano d’opera salariata e soltanto dopo, magari con la generazione più giovane, alcuni di loro divennero piccoli imprenditori – e senza affrontare l’altra questione del perché soltanto in pochi comprarono le terra con la legge sulla piccola proprietà contadina, mi soffermo su quanti – una minoranza -, magari dopo essersi trasferiti con moglie e figli in un centro urbano, continuarono, in condizione di salariati, a lavorare sui campi, spesso gli stessi che avevano coltivato come mezzadri.
Alcuni proprietari terrieri hanno raccontato che furono proprio costoro, in virtù di conoscenze e di abilità lavorative uniche, ad aiutarli a compiere il difficile passaggio verso un’agricoltura specializzata nel settore del vino e non solo, nonostante che fossero stati, nel periodo precedente, dei duri avversari della classe padronale e rimanessero comunisti convinti.




Voci, silenzi, immagini. Memoria e storia di donne grossetane

La ricerca in archivi pubblici e privati ha confermato un dato già acquisito da ricercatori e ricercatrici, che si sono cimentati con la storia delle donne: l’agire femminile, pur registrato in questi luoghi, non ha lasciato solchi profondi, ma lievi tracce; prezioso risulta l’Archivio fotografico F.lli Gori, dal quale emergono le immagini dell’impegno femminile nei primi venti anni dell’età Repubblicana. La parte più debole della documentazione di questa mostra virtuale è quella relativa all’attività delle donne cattoliche in ragione di una produzione minore, ma anche per una forte dispersione. In parte il vuoto è stato coperto dalla stampa cattolica conservata presso la redazione grossetana di “Toscana Oggi”, i settimanali “Vita Nuova” e “Rinnovamento”, che copre quasi tutti gli anni Settanta. Nuovi possibili ritrovamenti potranno venire dal futuro riordino dell’Archivio Provinciale della Democrazia Cristiana.

I materiali sono stati organizzati seguendo due criteri fondamentali intrecciati tra loro: quello cronologico e quello tematico. Alla prima selezione “oggettiva”, avvenuta in sede di conservazione delle fonti, si è aggiunta la scelta di chi ha curato la mostra, orientata dall’esigenza di offrire l’opportunità di una lettura diretta dei documenti. Le introduzioni che precedono le sezioni, infatti, vogliono essere una semplice e breve guida alla lettura dei documenti, senza gli appesantimenti di commenti analitici o chiavi di lettura, con il preciso obiettivo di lasciare aperta la possibilità di costruire percorsi e relazioni, sia per chi ha interessi di ricerca, sia per chi si avvicina ai documenti per semplice interesse conoscitivo, sia per chi vi ritrova tracce della realtà sociale di cui è stato/a testimone e/o protagonista.

Le sezioni in cui è suddivisa la mostra rispondono tematicamente e cronologicamente ad una periodizzazione generalmente accolta, che ha suggerito di accorpare quello che rientra nell’ambito del periodo della guerra e del lungo dopoguerra, cui seguono le fasi storiche usualmente definite come dell’“emancipazione” e dei “movimenti”. La prospettiva di accessibilità di nuovi archivi pubblici e l’ipotesi di sollecitare qualche curiosità, e dunque il reperimento di nuovi documenti e memorie, conforta l’attesa di ulteriori sviluppi nella ricerca.

 

ANNI QUARANTA E LUNGO DOPOGUERRA

I fili conduttori che legano l’attività dei movimenti femminili grossetani in un periodo critico come quello che va dal passaggio del fronte – che nel territorio grossetano avvenne nel giugno del 1944 – agli inizi degli anni Cinquanta, sono la ricerca di nuove modalità di partecipazione alla sfera pubblica e l’urgenza di far fronte alle necessità scaturite dal periodo bellico, le cui problematiche si protrassero in quello che abbiamo definito “lungo dopoguerra”.

Inizia “l’apprendistato politico” delle donne, sia con la partecipazione alle organizzazioni dei rinati partiti, sia con la partecipazione ai primi Consigli e alle prime Giunte comunali. Ben pochi, però, sono i documenti che testimoniano i primi passi dell’agire politico: qualche relazione di organizzazione dei partiti della sinistra, qualche foto di manifestazioni della Federterra, a testimonianza che la condizione delle donne contadine inizia a farsi sentire in tutta la sua gravità. La maggior parte della documentazione e delle fotografie qui raccolte testimoniano, da un lato, il ruolo giocato dalle organizzazioni femminili – cattoliche e di sinistra – nell’individuazione dei bisogni della popolazione (povertà, emergenza profughi, educazione dei fanciulli, assistenza agli anziani…); dall’altro, le risposte delle Istituzioni per far fronte a tali necessità.

Quello che emerge in tutta evidenza è il tentativo da parte di soggetti femminili di trovare un ruolo, una collocazione politica e sociale in una società dapprima violentata da venti anni di dittatura e dalla guerra, successivamente entrata in una fase di rapida e convulsa trasformazione, cui si doveva far fronte con spirito di adattamento e prontezza nel trovare soluzioni ai problemi della quotidianità. Siamo ancora molto lontani dai temi della specificità femminile, che esploderanno negli anni Settanta. L’agire insieme e l’apparire in pubblico si concretizzeranno ancora per molti anni soprattutto in termini di supporto alla “politica maschile” o di assistenza/solidarietà nei confronti delle categorie sociali più deboli.

Molteplici sono le formazioni cui partecipano le donne. L’Unione donne italiane (UDI) nasce a Roma il 12 settembre 1944 col proposito di rappresentare tutte le donne che si riconoscevano nel valore dell’antifascismo. In breve, tuttavia, si separarono le donne cattoliche, con la fondazione di una nuova associazione nell’ottobre 1944: il Centro Femminile Italiano (CIF). Sebbene distanti in quanto a riferimenti politici – partiti della sinistra, da una parte, e Democrazia Cristiana, dall’altra – sul piano concreto le due associazioni seppero ben presto trovare forme di collaborazione e, qui come altrove, allentare il vincolo – si badi bene, non scioglierlo – che le legava ai partiti per sperimentare nuove forme di partecipazione alla sfera pubblica.

Accanto alle due organizzazioni di massa delle donne, un insieme di formazioni, dall’Azione cattolica alle Dame della Carità, dalla Croce Rossa alle Commissioni femminili di partiti.

 

ANNI CINQUANTA-SESSANTA

Nella Grosseto degli anni Cinquanta-Sessanta, il settore dell’assistenza/solidarietà nei confronti delle categorie sociali più deboli rimane terreno femminile (le motivazioni, legate ai ruoli tradizionali, sono facilmente comprensibili), ma in qualche misura questa primazia è lentamente scalzata dall’organizzazione statale degli aiuti, che a Grosseto è particolarmente efficace.

Gli spazi occupati dalle donne si allargano con l’espansione del lavoro extradomestico ma parallelamente si ridefiniscono – restringendosi – sul terreno del “pubblico”. Questo arretramento è evidente se si guarda a due fenomeni: la riduzione delle presenze femminili nelle Giunte e nei Consigli comunali, quando sarebbe stato lecito aspettarsi che al primo apprendistato politico seguisse un consolidamento dell’esperienza e dunque una sua espansione; la simultanea presenza di donne in più di una formazione, tant’è che nei partiti, nelle Istituzioni, nelle associazioni e nei sindacati si trovano sempre i nomi delle stesse poche, pochissime donne.

Se tra la seconda metà degli anni Quaranta ai primi anni Cinquanta la trasformazione della realtà sociale aveva spinto le donne a ricercare un ruolo pubblico – che fosse in politica o nella società civile -, adesso i problemi delle migrazioni, dell’urbanizzazione, della ridefinizione dei rapporti economici e sociali nelle campagne, dell’apogeo e della crisi dell’industria mineraria, sembrano restringere le possibilità di una partecipazione effettiva nell’indirizzare i cambiamenti. Da qui un’uscita graduale di molte donne dagli spazi faticosamente conquistati.

Il caso dell’UDI è forse quello più emblematico: dai 38 circoli intorno alla metà degli anni Cinquanta (di cui 18 di “Amiche della miniera”) scivola lentamente ma progressivamente alla fine degli anni Sessanta in una profonda crisi di partecipazione, tant’è che si dovranno aspettare i primi anni Settanta per un ripresa effettiva delle attività con una vera e propria rifondazione dell’associazione.

Il tema del lavoro si afferma come terreno di lotta e rivendicazione femminile. Se la frequentazione di indirizzi scolastici tradizionalmente ritenuti alieni alle donne aprirà via via nuove possibilità di impiego e quindi di rivendicazione in termini di riconoscimento sociale e retributivo, gli anni Cinquanta si caratterizzano ancora per lotte sindacali a fianco degli uomini.

Simbolico e periodizzante sembra essere il 1954. A maggio lo scoppio della miniera di Ribolla travolge le vite di 43 minatori e crea una frattura insanabile nel movimento femminile che, organizzato nell’associazione “Le Amiche della miniera”, ha lottato a fianco dei mariti, fratelli, figli minatori contro la Montecatini. Il movimento si spezza sulla questione delle vedove dei minatori che accettano il risarcimento della Montecatini, cessando di essere parte civile nel processo. La scelta delle vedove fu valutata all’epoca come un tradimento, il fallimento di un intero paese, che dopo anni di lotte aveva perso l’opportunità di inchiodare la Montecatini alle proprie responsabilità.

Sempre nel 1954, ma ad ottobre, si organizza la conferenza delle donne assegnatarie della Maremma, volta alla preparazione del congresso nazionale a Foggia, che ha all’ordine del giorno la stesura della “Carta della donna assegnataria”. Per comprenderne le reali esigenze il sindacato coinvolge in questionari e inchieste le assegnatarie, che prendono mano a mano coscienza della necessità di muoversi unite per la rivendicazione dei loro diritti. Ne seguirà uno scontro con la dirigenza dell’Ente Maremma.

Iniziano a farsi strada negli anni Sessanta lotte che investono direttamente il lavoro femminile, con un forte coinvolgimento dell’UDI nelle battaglie per la regolamentazione del lavoro a domicilio, determinante perché integrativo del reddito familiare, ma anche suscettibile di forte sfruttamento.

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ANNI SETTANTA

 Gli anni Settanta soffrono della difficoltà di poter raffigurare in un quadro completo e coerente le mille sfaccettature della “stagione dei movimenti”. Una costellazione di organizzazioni attive nel territorio, da quelle ormai strutturate – come CIF e UDI, organizzazioni cattoliche, sindacali e partitiche – a quelle di nuova costituzione – Collettivo femminista, Collettivo di studentesse, Comitato permanente delle donne per il consultorio, gruppi dei movimenti extraparlamentari –, mette a dura prova il compito dello storico nel dipanare i fili delle iniziative e dell’impegno civile, sociale e politico femminile. Con rammarico abbiamo dovuto selezionare solo alcuni dei temi, tralasciandone altri, seppur importanti.

Gli anni Settanta sono il decennio dell’espansione del dibattito sulle forme di gestione sociale: dall’istituzione dei nidi alla necessità di qualificazione del personale, dall’avvio sperimentale del decentramento attraverso i Consigli di quartiere all’istituzione del Consultorio comunale. L’introduzione degli organi collegiali nella scuola, inoltre, contribuisce a far concentrare l’attenzione sui temi dell’educazione. Perdono di vigore le battaglie per il lavoro; i temi caldi – che vedranno l’agire femminile in parte su fronti opposti, in parte in battaglie comuni – diventano sessualità, contraccezione, maternità consapevole, gestione degli asili nido, preparazione psicopedagogica al parto, consultorio, nuovo diritto di famiglia.

La ripresa delle attività del CIF, che dal finire degli anni Sessanta vive una breve stagione di “riflusso”, si ha con il congresso provinciale del 1974; è un sacerdote, Don Franco Cencioni, a guidare il “rilancio” dell’associazione, che si confronterà sempre più spesso con temi delicati: il nuovo diritto di famiglia, le implicazioni rispetto ai ruoli tradizionali di uomini e donne; la necessità di ridefinire quei ruoli secondo la visione cristiana; i consultori e la loro gestione; la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, prima, e il referendum per l’abolizione della 194, poi.

L’UDI, invece, si ricostituisce nel 1971 dopo alcuni anni di inattività. La modernità di pensiero di Miranda Salvadori – che sarà il vero trait d’union tra la “vecchia UDI” e i gruppi femministi che nasceranno nella seconda metà degli anni Settanta – e l’arrivo a Grosseto di Maria Giovanna Zanini – forte di esperienze progressiste in altre parti d’Italia–, nonché l’ingresso di un corposo gruppo di giovani nell’UDI fanno riprendere vigore all’associazione. È dell’ottobre del 1971 un’assemblea dell’UDI su un tema qui inedito: la regolamentazione delle nascite, frutto degli incontri di un gruppo di donne, che dalla condivisione di esperienze di vita passò rapidamente alla rivendicazione politica. E Grosseto si caratterizza rispetto al panorama nazionale per una stagione di grande ascolto da parte delle Amministrazioni, che raccolgono le sollecitazioni delle donne di sinistra e di quelle cattoliche, soprattutto in tema di consultori e asili nido, tanto da arrivare all’istituzione di un Centro pre-matrimoniale e matrimoniale presso gli ambulatori comunali già nell’aprile 1973, due anni prima della legge dello Stato, e quattro rispetto alla legge regionale di istituzione dei Consultori.

Nel febbraio 1976, in dissenso con la linea nazionale dell’associazione, le giovani escono dall’UDI per creare il Collettivo femminista, che di fatto, però, non taglierà mai il cordone ombelicale che lo lega alla madre, in virtù sia della partecipazione ad entrambi i gruppi di Maria Giovanna Zanini e Miranda Salvadori, sia di un terreno di rivendicazioni comuni. Quando, nel gennaio 1977, si costituisce il Comitato permanente delle donne per il Consultorio (il centro prematrimoniale è infatti stato chiuso in breve tempo), entrano a farne parte UDI e Collettivo. La battaglia per la riapertura del consultorio è portata avanti con grande impegno anche dalle donne cattoliche.

La produzione di volantini e documenti, firmati ora UDI, ora Collettivo femminista, ora Collettivo studentesse, ora Comitato permanente delle donne per il Consultorio, oppure a doppia o triplice firma è abbondantissima. Cambiano i nomi dei gruppi ma molto spesso sono composti dalle stesse persone. Non mancano documenti che portano la firma congiunta di UDI e CIF. La rivendicazione unitaria ha un suo primo esito con l’apertura del nuovo Consultorio nel novembre 1978.

Nei collettivi, soprattutto in quello femminista grossetano, si sperimentano il separatismo, la pratica dell’autocoscienza, il selfhelp; si inizia a riflettere sulla necessità di un cambiamento radicale del paradigma dell’uguaglianza in favore della valorizzazione della differenza; “il personale è politico” diventa parola d’ordine.

Nella seconda metà degli anni Settanta, la battaglia per la riapertura del Consultorio cede il passo alla mobilitazione per l’applicazione della legge sull’interruzione di gravidanza, prima, e al movimento in difesa della 194, poi. Sono su fronti opposti donne di sinistra e cattoliche. La documentazione riguardante l’attività delle prime è più corposa e comprende numerosi documenti conservati nell’archivio personale di Maria Palombo, protagonista di una delle vicende di cronaca più dibattute in tema di aborto, episodio che ebbe una grossa eco anche a livello nazionale e portò alla manifestazione del 17 dicembre 1977, la più grande di sole donne mai vista a Grosseto.

Le cattoliche, fatta eccezione per le frange dei cattolici del dissenso, si compattano, come è naturale aspettarsi, contro la liberalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza.

Sul finire degli anni Settanta un nuovo fronte di rivendicazione: la ricerca di uno spazio per le donne. Nasce da questa esigenza l’occupazione nel novembre 1978 da parte del Collettivo Femminista grossetano dell’ex orfanotrofio maschile “G. Garibaldi”, luogo scelto per diventare sede di un centro di aggregazione di tutte le donne, a prescindere dall’orientamento o dall’appartenenza politica, dopo il suo passaggio al Comune di Grosseto. L’idea si concretizzerà nel 1986, non senza aspri confronti e matasse burocratiche da sbrogliare, con l’affidamento da parte del Comune di Grosseto dei locali dell’ex Garibaldi al Centro Donna, associazione costituitasi formalmente l’8 marzo 1986, che vanta quindi una trentennale esperienza.

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La realizzazione della mostra non sarebbe stata possibile senza le opportunità di ricerca e studio che nel corso degli anni sono state portate avanti, e che hanno permesso un profondo scavo negli archivi del territorio provinciale grossetano:

  • la ricerca sulla storia delle donne grossetane tra anni Quaranta e Ottanta portata avanti da Luciana Rocchi dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea (ISGREC) – avviata nel 1999 su impulso della Commissione Pari Opportunità della Provincia di Grosseto, presieduta da Gloria Faragli – che ha portato a due pubblicazioni: L. Rocchi, S. Ulivieri (a cura di), Voci, silenzi, immagini. Memoria e storia di donne grossetane (1940-1980), Carocci 2004; L. Rocchi, C. Pieraccini, B. Solari, S. Ulivieri, Voci, silenzi, immagini. Fonti per una storia delle donne grossetane tra gli anni quaranta e ottanta, Efffigi 2004.
  • il riordino dell’Archivio di proprietà del Centro Donna, finanziato dal Centro Donna e curato da A. Apreda, F. Putrino, B. Solari nel 2005-2006.
  • la ricerca dell’Isgrec sull’Associazione “Le Amiche della Miniera” di Ribolla, finanziata dal Comune di Roccastrada, che ha portato alla pubblicazione di B. Solari, Presenze femminili. Le amiche della miniera da Ribolla, Effigi 2007.
  • il lavoro di ricerca condotto dall’Isgrec sul fondo fotografico dei F.lli Gori, che ha portato alla pubblicazione del volume di M. Baragli, Professione fotografi. L’archivio dei fratelli Gori, Isgrec, Grosseto, 2008.
  • il riordino dell’archivio della Federazione provinciale del PCI/PDS/DS, finanziato dall’associazione La Quercia, portato avanti da F. Putrino e V. Entani.



Esuli a Lucca. I profughi istriani, fiumani e dalmati 1947-1956

È una fredda sera quella del 9 febbraio 1947, quando giunge a Lucca il primo contingente di profughi proveniente dalla città di Pola. Si sono imbarcati nel porto della città istriana sulla motonave “Toscana”, insieme alle poche masserizie che sono riusciti a portarsi dietro. Giunti a Venezia, sono stati fatti salire sul treno che li ha portati nella città toscana. Altri profughi, di Pola, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia lasceranno le loro case nei mesi e negli anni successivi, per essere sistemati negli oltre cento campi di accoglienza che verranno allestiti in tutta Italia.

Profughe italiane in partenza da Pola: sullo sfondo, il piroscafo "Toscana".

Profughe italiane in partenza da Pola: sullo sfondo, il piroscafo “Toscana”.

Quando arrivano a Lucca, mancano poche ore alla firma a Parigi del Trattato di Pace che sancisce il passaggio dell’Istria, di Fiume e di Zara alla Jugoslavia, diventata alla fine della guerra uno stato federale socialista guidato dal maresciallo Tito, capo indiscusso della lotta armata contro gli invasori fascisti e nazisti che occuparono lo stato balcanico nella primavera del 1941. Un’occupazione feroce e sanguinaria, che aveva visto le truppe e le camicie nere responsabili di crimini di guerra, in parte riscattati dai numerosi soldati italiani che, dopo l’8 settembre 1943, si erano messi al fianco della Resistenza jugoslava. Finita la guerra, Tito si trova al vertice di uno stato che annette all’interno dei suoi confini i territori che dopo la Prima Guerra Mondiale l’Italia aveva stappato all’ormai agonizzante Impero austro-ungarico: anche Trieste, insieme a Trento simbolo dell’irredentismo e del nazionalismo italiani, viene occupata dai partigiani jugoslavi. Tuttavia, quest’ultima città deve essere abbandonata dagli occupanti e consegnata alle autorità alleate.

Nei giorni e nelle settimane che seguono la fine della guerra, si segnala anche la sparizione di migliaia di italiani, alcuni compromessi con il passato regime fascista, oppressore degli slavi residenti dentro i confini nazionali, altri ancora oppositori delle politiche annessionistiche messe in atto dalle autorità jugoslave. Molte di queste sparizioni si concludono con la morte degli arrestati, o dentro le cavità carsiche chiamate foibe, o nelle marce forzate e nei campi di lavoro e concentramento allestiti in Jugoslavia. A causa dei nuovi confini tracciati dagli Alleati e ratificati a Parigi, la popolazione di lingua, cultura e sentimenti italiani si trova ad essere inglobata nel nuovo stato jugoslavo. La scelta di andarsene ha molte motivazioni: identitarie, politiche, di sicurezza personale e un futuro, rimanendo nelle proprie città, percepito in termini molto incerti. Nei vari campi di raccolta profughi (CRP) allestiti in Italia, i profughi istriani, fiumani e dalmati saranno costretti a vivere, spesso in condizioni pessime, per molti anni (l’ultimo campo profughi chiuderà infatti nel 1963).

Fra 1947 e 1956, l'ex-Real Collegio di Lucca funse da campo raccolta profughi (CRP) per gli esuli giuliano-dalmati.

Fra 1947 e 1956, i locali dell’ex-Real Collegio nel centro storico di Lucca, proprio dietro la basilica di San Frediano, funsero da campo raccolta profughi (CRP) per gli esuli giuliano-dalmati in fuga dalle truppe titine.

A Lucca i profughi sono alloggiati in due luoghi del centro storico: in via del Crocifisso, in uno stabile adiacente la Manifattura Tabacchi di cui molti di loro sono dipendenti, e presso il CRP allestito presso l’ex-Real Collegio dietro la basilica di S. Frediano. In questo ultimo edificio risiede la maggioranza dei circa 1000 profughi che decidono di stabilirsi definitivamente a Lucca. La vita all’interno di queste strutture è molto precaria e la dignità dei profughi è messa a dura prova, tanto che nell’estate del 1953 la stampa locale è costretta a lanciare un grido di allarme. Tuttavia, con l’assegnazione progressiva dei primi alloggi popolari, il CRP di Lucca comincia a svuotarsi, per chiudere definitivamente nel febbraio del 1956.

Questo e molto altro ancora può essere letto nel libro “Esuli a Lucca. I profughi istriani, fiumani e dalmati 1947-1956”, scritto da Armando Sestani (vicepresidente ISREC Lucca) e recentemente pubblicato dall’editore Maria Pacini Fazzi.

In allegato, fra i “Documenti dalle fonti”, sono visionabili alcuni interessanti documenti familiari dell’autore del presente articolo, istriani di Pola rifugiatisi in Toscana a bordo dell’omonimo piroscafo subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. 




Per la cultura e per il bene comune

Professore di lettere comandato dal 1933 presso la Soprintendenza alle Gallerie per le province di Firenze Arezzo e Pistoia, Cesare Fasola è ricordato soprattutto per l’attività svolta durante l’ultima fase della Seconda guerra mondiale a tutela delle opere d’arte che erano state messe in salvo in ville e castelli di varie località toscane. Come testimoniano le sue lettere-diario alla moglie Giusta, presenti nel fondo a lui intitolato conservato presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana, nel momento del passaggio del fronte egli si adopera per sorvegliare e presidiare i depositi di opere d’arte dei musei nella zona della Val di Pesa, a Montagnana, Montegufoni, Poppiano e Uliveto, prima sotto l’occupazione tedesca e poi, dal 27 luglio, sotto gli Alleati. Per questa attività Fasola riceverà nel 1947 la medaglia di bronzo al valore civile.
Da ricordare è anche il suo ruolo di funzionario delle Gallerie incaricato dal soprintendente Giovanni Poggi della tutela artistica dei beni ebraici. In occasione delle requisizioni antisemite Fasola si occupa di valutare se fra gli oggetti portati via si trovino delle opere d’arte da sottrarre ai sequestri, destinandole alla Galleria dell’Accademia secondo quanto disposto dall’Ufficio affari ebraici della Prefettura. Dopo aver cercato di salvare il più possibile dalle razzie nazifasciste, nel dopoguerra collabora attivamente per la ricognizione ed il recupero dei beni requisiti, lavorando anche in contatto con Rodolfo Siviero.

Tuttavia c’è un altro aspetto della sua vita che merita di essere raccontato, che va di pari passo con la sua attività culturale, nell’ambito di una concezione ampia di impegno civile e di servizio per il bene comune. Ci riferiamo ovviamente al suo impegno politico, che si realizza a partire dal 1942 con l’iscrizione al Partito d’azione (PdA), per poi proseguire come membro del Comitato di liberazione nazionale (CLN) di Fiesole prima e dopo la Liberazione, e come amministratore comunale dalla seconda metà degli anni ‘40 al 1960. Aspetto riguardo al quale non possiamo avvalerci di molte fonti; le carte del fondo Fasola e quelle del CLN di Fiesole, conservate presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana, integrano in misura piuttosto limitata i documenti della busta intitolata a Fasola e i resoconti delle sedute consiliari e della giunta conservati tra le carte dell’Archivio comunale postunitario di Fiesole.
Dal modulo di iscrizione alla Sezione fiorentina del Partito d’azione, datato 1° settembre 1944, risulta che Fasola – che ricordiamo essere stato sacerdote dalla giovane età fino ai primi anni ’30, sembra con scarsa convinzione – abbia “aderito” al Partito nazionale fascista dal 1927 al 1943, ma anche che sotto il fascismo sia stato “denunciato e sorvegliato”, senza subire provvedimenti di polizia.
Come abbiamo accennato, la sua attività politica vera e propria comincia nel 1942 con l’adesione, insieme alla moglie Giusta, al neonato Partito d’azione. Al suo interno Fasola fa parte del Comitato esecutivo della Sezione di Firenze. Inoltre durante la Resistenza rappresenta il PdA in seno al Comitato toscano di liberazione nazionale e milita nella Divisione Giustizia e libertà di Firenze, che riunisce le formazioni militari azioniste. Secondo un curriculum conservato nell’archivio del PdA fiorentino, presso l’ISRT, “durante il periodo clandestino nel suo recapito di città fece da centro di collegamento per gli emissari delle regioni dell’Italia liberata e occupata in rapporto con le attività antinazifasciste del Partito a Firenze… collaborò per la diffusione della stampa clandestina e alla raccolta di fondi”. Il suo ufficio presso le Gallerie di Firenze diventa un centro di ritrovo clandestino, con tutti i rischi che ne derivano: lo stesso curriculum riporta che Fasola viene denunciato alla famigerata banda Carità per mezzo di lettere anonime, fortunatamente intercettate.
Per l’attività svolta durante la Resistenza nella provincia di Firenze, nel 1950 la Commissione regionale toscana per il riconoscimento della qualifica di partigiano, istituita presso la Presidenza del consiglio dei ministri, dichiarerà Fasola “partigiano combattente” per il periodo che si estende dal 1° ottobre 1943 al 7 settembre 1944, ovvero da poco dopo l’inizio della Resistenza fino allo scioglimento delle formazioni partigiane ad opera degli Alleati. Inoltre sarà decorato della medaglia d’argento e riceverà la croce al merito di guerra.
Anche Giusta durante il periodo clandestino mette gravemente in pericolo la propria vita: nonostante sia stata segnalata e denunciata ai tedeschi, si occupa come il marito del collegamento di gruppi antifascisti, della trasmissione di informazioni e della distribuzione di stampa clandestina a Firenze e fuori città; inoltre è membro del Comitato consultivo del PdA di Firenze e del Comitato esecutivo di emergenza. Anche Giusta riceverà la qualifica di “partigiano combattente” e la croce al merito di guerra.
Venendo al contesto fiesolano, è proprio a casa dei coniugi Fasola che dal settembre 1943 si svolgono le prime riunioni del Comitato di liberazione locale, organismo pentapartitico nel quale i due intellettuali rappresentano il Partito d’azione. Il primo nucleo del CLN si riunisce infatti in via degli Angeli 4, in una casa della famiglia Micheli allora presa in affitto da Cesare e Giusta, dove ancor oggi possiamo vedere, scritte a matita su un lato del caminetto, le firme dei Fasola e di altri antifascisti: Giuseppe Roselli, Enrico Baroncini, Giovanni Ignesti, Aldo Gheri, Mino Labardi e Edoardo Salimbeni. Come gli analoghi CLN formatisi in Italia centro-settentrionale a partire dal settembre 1943, il Comitato fiesolano riveste un ruolo importante non solo nel periodo clandestino, durante il quale svolge principalmente propaganda antinazifascista e assiste le bande partigiane, ma anche dopo la liberazione di Fiesole, quando assume il governo del territorio e si adopera per la ripresa della vita politica, economica, associativa. Il Comitato si occupa del rifornimento di alloggi e di beni di prima necessità, coordina l’attività dei partiti, di cooperative di consumo, di associazioni, incoraggia iniziative di beneficenza e di assistenza, gestisce l’epurazione e tratta problemi inerenti la disoccupazione, il mercato nero, i trasporti.
I documenti dell’archivio del CLN fiesolano attestano l’attiva partecipazione di Fasola e di sua moglie, sempre presenti alle sedute del Comitato; Giusta fra l’altro ricopre la carica di segretaria, occupandosi della convocazione delle riunioni e della conservazione delle carte del CLN stesso. Come dimostrano i verbali delle sedute Cesare interviene su questioni diverse: la necessità dell’assistenza ai reduci di guerra, l’opportunità di schedare i fascisti che rientrano dal nord, la situazione dei CLN per i quali auspica un ruolo più incisivo nella vita politico-istituzionale del Paese.
É stato sottolineato come per molte persone l’attività all’interno dei Comitati di liberazione locali abbia costituito una sorta di palestra politica, la prima fase di un intenso impegno all’interno dei partiti e delle istituzioni comunali. A Fiesole il caso più evidente è quello del socialista Ignesti, presidente del CLN, che sarà sindaco tra il 1958 e il 1964, ma anche quello di Fasola è significativo, in quanto il suo ruolo di membro del Comitato sfocia senza soluzione di continuità in quello di assessore e di consigliere. Già dai primi di settembre 1944, del resto, la prima giunta post-Liberazione, insediata dal CLN e guidata dal socialista Casini, è composta per la maggior parte da membri del CLN stesso. Tra questi Cesare Fasola, nominato assessore in un primo momento con delega all’Assistenza sociale e l’igiene e poi con delega ai Lavori pubblici.
In una situazione drammaticamente caratterizzata dalla distruzione di alloggi, strade, ponti, acquedotti e impianti elettrici, dalla mancanza di mezzi di trasporto, dalla necessità di procedere ad un urgente intervento di sminamento, possiamo immaginare quanto impegnativo sia stato il suo incarico. In giunta Fasola riferisce e avanza proposte in merito alla condizione degli edifici scolastici che hanno subito danni di guerra, alla rimozione delle macerie che ingombrano le strade e a quella delle mine collocate dai tedeschi, alla riattivazione della corrente elettrica, ai danni alla produzione boschiva, e curiosamente alla necessità di provvedere alla fornitura di macchine da scrivere, dopo le razzie effettuate dai tedeschi. In quanto assessore interviene inoltre nella polemica tra il sindaco e monsignor Rodolfo Berti, proposto della Cattedrale, per la mancata partecipazione dell’amministrazione comunale alle cerimonie religiose in onore di S. Romolo, approvando la scelta di Lugi Casini di non aderire ad un’usanza “introdotta dai fascisti e di sapore medievale, come l’offerta del cero”, e biasimando l’affissione sulla porta della Cattedrale della lettera in cui il sindaco declinava l’invito a partecipare alle manifestazioni per la festa del patrono.
Alle elezioni amministrative del 24 marzo 1946 – le prime dopo la caduta del fascismo – Fasola è eletto consigliere comunale per il Blocco democratico della ricostruzione, formato da azionisti, socialisti e comunisti. Nel 1947, dopo la fine del Partito d’azione, come molti suoi ex-compagni aderisce al Partito socialista, e nelle file di questo partito sarà presente in tutte le successive amministrazioni, che lo vedranno di nuovo assessore, questa volta con delega all’istruzione e al turismo, in seguito alle elezioni del 1951, e consigliere in seguito alle elezioni del 1956 e a quelle del 1960.
Nel quindicennio circa che va dal 1946 al 1960, durante il quale prosegue l’opera di ricostruzione da parte delle giunte Casini e Ignesti, Fasola partecipa alla vita politica fiesolana muovendosi prevalentemente nell’ambito dell’istruzione, della cultura e del turismo. Già nel dicembre 1946 presenta un’interpellanza in Consiglio in merito alla riapertura al pubblico del Museo Bandini– “una istituzione che interessa il decoro della nostra Città e che rivolge l’invito al forestiero per essere visitata” – e alla antica Scuola di disegno – a proposito della quale chiede al sindaco “se non sia possibile riprendere una tradizione antica e utile alla cittadinanza”. Da assessore, lavora alla ricerca di contatti per lo svolgimento di spettacoli estivi al Teatro romano, riferisce in giunta in merito alla riattivazione degli scavi nella zona archeologica e ai rapporti con la Soprintendenza, su sollecitazione dell’Ente provinciale per il turismo fa parte di un comitato per la ricostituzione dell’Associazione turistica di Fiesole.
Una questione che lo interessa particolarmente, legata al turismo, è il decoro cittadino: ad esempio nel 1947 presenta un’interpellanza perché i muri fiesolani siano ripuliti da scritte e residui di manifesti, perché “E’ evidente l’interesse che abbiamo a che le nostre vie, che sono visitate da numerosi forestieri, presentino quel carattere di lindura e di proprietà, che mette in risalto la bellezza turistica, che è quasi sola ricchezza che noi possediamo”. In una lettera al sindaco datata 1948 chiede che la strada Vincigliata-Maiano, meta di gite domenicali, e l’area di San Francesco siano ripulite dalla spazzatura e dotate di apposti bidoni. In una lettera del 1954 avverte Luigi Casini del pericolo presentato da un muro in via degli Angeli ancora pericolante per le cannonate subite in guerra, con grave rischio per i passanti.
Un altro problema che sta a cuore a Fasola è il ripristino del servizio filoviario Firenze-Fiesole, la cui interruzione nell’immediato dopoguerra costringe gli operai a recarsi quotidianamente a piedi nel capoluogo, e ancora nel 1947, in mancanza di un collegamento diretto, ad effettuare lunghe soste tra i tratti in cui è suddiviso il percorso. Sempre in merito alla filovia presenta interpellanze in Consiglio e si pronuncia in difesa degli interessi dei lavoratori affinché i biglietti abbiano tariffe più eque.
I suoi interventi in Consiglio comunale tra il 1951 e il 1956 spaziano da questioni squisitamente locali ad altre di più ampio respiro. Si va dal cordoglio per la morte di due lavoratori in un incidente avvenuto a Villa Machiavelli, al problema della formazione dei turni scolastici alla scuola comunale, dovuto alle gravi carenze dell’edilizia scolastica, alla discussa scarcerazione di Francesco Moranino, partigiano medaglia d’oro arrestato per episodi avvenuti durante la guerra di liberazione, ai fatti del 1956 in Ungheria, in Egitto, nel Nord Africa e nel Medio Oriente, riguardo ai quali esprime la propria angoscia per “ciò che sarebbe potuto accadere, e che avrebbe ancora una volta interrotto la marcia del progresso e del proletariato”. Rispetto a questi eventi riesce a far convergere su un unico ordine del giorno i voti di democristiani e comunisti, notando come, nonostante esistano diversità di opinioni (anche tra comunisti e socialisti, come è noto), ci sia “un’unità di intenti, così come esisteva nel tempo della liberazione, quando tutto era chiaro, perché tutti si sapeva dove erano l’oppressione e la tirannia. Oggi è meno chiaro: c’è l’Ungheria, ma ci sono anche Suez, l’Algeria, il Kenia. Condanniamo allora, l’ingiustizia e la violenza, ovunque si trovino”. Nel maggio 1957, quando il Sindaco mette in approvazione un ordine del giorno in cui auspica che il nuovo governo insediato applichi la Costituzione e adotti una politica estera contro gli esperimenti atomici, Fasola interviene sollecitando un’ampia partecipazione su problemi di tale rilievo e di fronte ai quali non può esserci “alcuno spirito di rinunzia o sfiducia”.
Gli interventi di Fasola presentano più di una volta richiami ai valori della Resistenza e allo spirito ciellenistico. In una seduta del Consiglio comunale del dicembre 1957, relativamente ad un ordine del giorno comunista in difesa dei valori della Resistenza in occasione dell’omaggio reso dal Presidente della Repubblica federale tedesca Heuss ai martiri delle Fosse Ardeatine e in vista della traslazione a Firenze delle salme dei fucilati alle Cascine, Fasola ricorda che “è proprio in virtù della Resistenza e del sacrificio di chi vi partecipò” che “questo Consiglio comunale si riunisce, avendo la Resistenza segnato il ritorno alla libera manifestazione della volontà popolare e quello delle rappresentanze elettive del popolo”; anche questa volta, grazie alla sua mediazione, i voti dei democristiani e dei comunisti convergono su un unico ordine del giorno che viene votato all’unanimità. É importante per lui anche la conservazione della memoria resistenziale: iscritto all’ANPI, è tra i soci fondatori dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana, istituito nel 1953, presso il quale si conserva il piccolo fondo personale che è già stato menzionato, e dove nel 1964 – anno successivo alla sua scomparsa – sarà commemorato da Carlo Ludovico Ragghianti.
Vale la pena ricordare anche che nel 1952 Fasola è tra i fondatori dell’Alleanza per la ricreazione popolare, un movimento che riprende in parte le posizioni del vecchio comitato di difesa dell’ENAL (Ente nazionale assistenza lavoratori), e che agisce come organismo di collegamento tra vari circoli e case del popolo: insieme a personalità di varia provenienza culturale e politica – ma soprattutto di sinistra, come Gaetano Pieraccini, Orazio Barbieri e Mario Fabiani – è membro del Comitato direttivo.
Torinese trapiantato a Firenze e poi a Fiesole, Fasola risulta infine ben integrato nel contesto sociale e culturale cittadino. Ad esempio intrattiene rapporti con Charlotte Spinn, vedova di Heinrich Ludolf Verworner, uno dei tanti artisti che avevano scelto il “colle lunato” come luogo d’elezione. Nel 1953 pronuncia un discorso in occasione dello scoprimento della lapide in ricordo di Verworner a villa di Fontelucente; da una cartolina a Charlotte datata Natale 1955 (conservata nel fondo archivistico intitolato a suo marito presso l’Archivio comunale) si intuisce un legame basato non solo su comuni interessi artistici ma anche su stima e affetto.
Il suo ultimo incarico di consigliere comunale, assunto in seguito alle elezioni amministrative del 6 novembre 1960, ha durata brevissima: dopo due anni di malattia, l’8 novembre Giusta viene a mancare e Cesare decide di dimettersi. Il 3 dicembre successivo le sue dimissioni sono discusse e approvate dal Consiglio, che si rammarica per la perdita e lo ringrazia per l’impegno profuso sin dai tempi del CLN.
Dopo la scomparsa della moglie, con cui ha condiviso decenni di impegno politico e culturale – ricordiamo che Giusta era storica dell’arte ben conosciuta, studiosa del Medioevo e del Rinascimento, docente universitaria a Genova – Fasola si trasferisce a Bagno a Ripoli, dove morrà tre anni dopo; ma possiamo immaginare che un legame particolare abbia continuato a unirlo a Fiesole. Secondo il verbale della seduta di insediamento del nuovo Consiglio dopo le elezioni del 1951, Fasola stesso sottolinea che per quanto sia nato altrove, “a Fiesole è giunto nel momento più cruciale ed a Fiesole si sente legato dal più affettuoso attaccamento, poiché qui ha vissuto il periodo più bello della vita”.




A fronte alta davanti al padrone.

Il 7 novembre 2016 abbiamo avuto un interessante colloquio con Gennaro Meli, responsabile della Federterra di Carmignano negli anni Cinquanta-Sessanta. Proponiamo il testo dell’intervista ai lettori di ToscanaNovecento.

Quando e dove sei nato? Che ricordi conservi della tua infanzia?
Sono nato a Carmignano il 31 gennaio 1922, in una famiglia di mezzadri. I miei genitori lavoravano in un podere che era di proprietà di diversi padroni. La Carmignano di quand’ero ragazzo era un paese che si reggeva sull’agricoltura, dove i rapporti interpersonali erano diversi, molto diversi, da come sono oggi. Rammento ancora quando ci si riuniva, per esempio in occasione della vendemmia: c’era quello che cantava di poesia, quello che suonava, ed il clima era festoso, riuscivamo a scordare, per un momento, le difficoltà della vita. Non c’era, allora, l’individualismo che c’è oggi, la solidarietà, anche quella di classe, non era una parola vuota e questo rappresentava un punto di forza per gli organizzatori, per il movimento contadino.

Come ti sei avvicinato al sindacato e quali cariche hai coperto al suo interno?
Tornato dal servizio militare, fui colpito dall’impegno che, tanto a livello locale quanto a livello nazionale, i dirigenti del Partito comunista e della CGIL mettevano per migliorare le condizioni di vita dei contadini. Fu così che decisi di impegnarmi a mia volta, di cercare di dare il mio contributo. Si trattò di una scelta non facile e non priva di conseguenze perché, allora, chi militava attivamente nel sindacato veniva boicottato dai padroni e spesso non riusciva a trovare lavoro: io ho provato questo sulla mia pelle. In seguito sono diventato responsabile della Federmezzadri di Carmignano che, almeno fino alla fine degli anni Cinquanta, gravitava su Firenze più che su Prato. Io avevo rapporti diretti con Vittorio Magni, segretario della Federmezzadri provinciale, e spesso mi recavo in via dei Servi, dove avevano sede il partito e la Camera del lavoro. Ho pubblicato anche diversi articoli sui problemi dei contadini della mia zona sull’Unità e su Toscana nuova.

Puoi dirci qualcosa sulle condizioni dei contadini del Carmignanese negli anni Cinquanta-Sessanta?
Molto dipendeva dal tipo di podere che il mezzadro coltivava: se il podere dava olio, vino, frutta il contadino stava meglio, ma, in generale, si può parlare di condizioni di vita difficili: in tanti dovevano tirare la cinghia. I carichi di lavoro erano pesantissimi, la meccanizzazione insufficiente, le condizioni delle abitazioni pessime. In molte case i servizi igienici mancavano od erano cattivi, non c’era la corrente elettrica, non c’era l’acqua. Dove abitavo io, ad esempio, per procurarsi l’acqua bisognava fare un chilometro a piedi per arrivare ad una sorgente, portandosi dietro le mezzine. Nella fattoria di proprietà della contessa Lepri, nella zona di Artimino, le case dei contadini erano dei veri tuguri. Ricordo che quando andai a parlare con la contessa per chiederle di far eseguire dei lavori di miglioramento, mi voleva denunciare. “Non vedo l’ora – le dissi –, mi denunci, così poi ci facciamo due risate insieme”.

Quali erano le principali rivendicazioni dei mezzadri di Carmignano?
Oltre al miglioramento delle coloniche, le richieste più importanti riguardavano, come altrove, i contributi unificati, l’imponibile di manodopera, la meccanizzazione ed una modifica del riparto dei prodotti che, tenendo conto degli apporti reali, assegnasse al mezzadro una quota superiore al 50%.
Io avevo organizzato in modo capillare la Federterra, creando più gruppi di dieci-quindici contadini, ognuno con un suo capogruppo, per un totale di circa cinquecento mezzadri. Quando si trattava di fare una riunione, portavo l’avviso ai capigruppo e nelle case di campagna. Per parlare con la controparte, si formava una delegazione. I proprietari, spesso, non si presentavano e le trattative si svolgevano coi fattori, che adottavano una tattica dilatoria, sostenendo di dover riferire al padrone perché non potevano prendere determinate decisioni e così via. Con alcuni proprietari ci furono scontri molto duri, in specie col conte Contini Bonacossi, proprietario della Fattoria di Capezzana, la più grande della zona. Il conte aveva incaricato il fattore, un certo Del Giallo, di discutere con noi la questione dell’addebito ai mezzadri dei contributi unificati. I contadini erano stati costretti a firmare un documento in cui accettavano di pagare i contributi. Io però riuscii a convincerli a ritirare la firma. Si costituì poi una delegazione composta di una ventina di mezzadri e si andò da Del Giallo che, con fare altezzoso, rifiutò di riceverci. Io gli risposi a tono ed alla fine la battaglia fu vinta.

Il sindacato cattolico era forte tra i contadini della zona?
La CISL era forte dove c’erano molti coltivatori diretti, ma fra i mezzadri la sua presenza era una presenza minoritaria. Nel Carmignanese il sindacato cattolico era radicato in certe zone di tradizione bianca, moderata, Era questo il caso di Artimino: rammento che una volta io e Vieri Bongini, responsabile del movimento contadino pratese, giunti ad Artimino per un comizio, ci trovammo di fronte alla piazza completamente vuota. Il comizio però andava fatto perché i contadini conoscessero le nostre idee, le nostre proposte: “Non ti preoccupare – dissi a Vieri –, tanto nelle case ci sentono”. E parlammo lo stesso.

Che giudizio dai oggi della mezzadria e come hai vissuto la sua crisi?
L’istituto mezzadrile era un istituto superato perché non riusciva a soddisfare i bisogni della famiglia colonica, perché non garantiva un reddito soddisfacente ai contadini. Questo è sicuro. Però alla fine della mezzadria non è seguito qualcosa di meglio, è seguito il nulla. Occorreva una riforma agraria strutturale, che desse ai contadini la terra ed i mezzi per lavorarla. Ma questo non è mai avvenuto a causa delle resistenze dei proprietari. Come risultato abbiamo avuto lo spopolamento delle campagne, e questo, certamente, è stato un male.




Battista Tettamanti e Teresa Meroni: due vite parallele

Battista Tettamanti e Teresa Meroni, compagni di lotte e nella vita, costituiscono due esempi di un tipo di quadro sindacale largamente diffuso nel periodo a cavallo fra Otto e Novecento. Entrambi di umili origini (il padre di Battista faceva l’ortolano, Teresa era nata in una famiglia di operai), impossibilitati a frequentare studi regolari, trassero dall’esperienza di fabbrica la capacità di riflettere criticamente sulle condizioni di sfruttamento dei lavoratori, trovando nel Partito socialista e nel sindacato dei validi strumenti di formazione, che ne fecero degli organizzatori coraggiosi e concreti.
È grazie agli uomini ed alle donne che, come Battista e Teresa, compirono questo tipo di percorso, affrontando l’ostilità dei padroni e la persecuzione poliziesca, che la classe operaia è passata da “classe in sé” a “classe per sé”, maturando piena coscienza dei propri diritti ed acquisendo la determinazione necessaria per difenderli e per allargarli. È grazie a questo tipo di quadro sindacale che i lavoratori hanno potuto realizzare le conquiste più importanti prima dell’avvento del fascismo. Basta ripercorrere, anche rapidamente, le vite di Battista e di Teresa per rendersene conto.
Nato a Como nel 1879, Tettamanti si iscrisse nel 1896 alla Lega socialista della sua città e – dopo un breve periodo trascorso in Svizzera, dove era stato costretto ad emigrare dalla mancanza di lavoro – si mise subito in luce all’interno del sindacato, diventando nel 1907 segretario della Camera del lavoro comasca e conservando tale carica fino al 1914. Sono rimaste impresse nella memoria collettiva le lotte condotte in quegli anni dagli apparecchiatori, dagli edili (che nel 1908, sotto la sua responsabilità, occuparono i cantieri, anticipando di dodici anni l’esperienza delle occupazione delle fabbriche) e dai contadini della Brianza.
Abbastanza di frequente accadeva che il sindacato inviasse i quadri più sperimentati, formatisi di regola nel triangolo industriale, in zone del Paese dove l’organizzazione era giudicata meno forte. Fu così che nel 1915 Battista si trasferì a Prato per dirigere il movimento cooperativistico della Val di Bisenzio, la Lega laniera di Vaiano ed il settimanale socialista Il lavoro. Sul Lavoro Tettamanti scrisse molti articoli, alcuni dei quali rivelano una notevole capacità di analisi politica (tali sono, ad esempio, i pezzi in cui egli critica la linea dei vertici massimalisti del PSI, oppure quelli in cui, sia pure nel quadro di un’interpretazione abbastanza schematica del fascismo, riesce a cogliere la peculiarità di tale movimento nell’essere la sua base sociale costituita da una massa di piccoli borghesi spostati passati al servizio del capitale).
Durante il “biennio rosso” Battista fu alla testa delle più importanti lotte operaie, a cominciare dal moto del caroviveri del luglio 1919, quando la Valle del Bisenzio assunse l’aspetto di una piccola repubblica sovietica che si estendeva al’incirca da Santa Lucia a Montepiano e che aveva il suo centro a Vaiano. Tettamanti era a capo del Comitato di agitazione che dirigeva il moto: le amministrazioni comunali della Vallata vennero dichiarate decadute e sostituite da “commissari del popolo”, la bandiera rossa innalzata sul balcone del palazzo comunale di Vernio. Una guardia di lavoratori ebbe l’incarico di mantenere l’ordine pubblico. Nelle fattorie e nelle fabbriche furono eseguite requisizioni di generi alimentari e di tessuti che, raccolti presso le sedi sindacali, vennero poi distribuiti alla popolazione col 50% di riduzione sui prezzi correnti.
Passata la bufera del tumulto contro il caroviveri, Prato fu scossa da un imponente sciopero generale degli operai tessili, proclamato nell’ottobre del 1919. Battista fu molto attivo durante tutto il periodo dell’agitazione, e particolarmente significativo, perché indice di un costume davvero superiore, ci sembra il fatto che, pur essendogli state offerte due candidature di sicura riuscita alle politiche del 16 novembre, egli le rifiutasse, ritenendo cosa sconveniente abbandonare i lavoratori in lotta.
Nel gennaio del 1921 – quando, dopo l’occupazione delle fabbriche, i grossi industriali, costretti in un primo tempo a cedere alle richieste degli operai, erano ormai passati al contrattacco finanziando le squadre fasciste, sostenute dall’apparato burocratico e militare dello stato – Tettamanti venne arrestato mentre, alla testa degli edili della ferrovia Direttissima Bologna-Firenze, stava cercando di resistere all’offensiva delle ditte cui il governo aveva appaltato i lavori dopo l’estromissione delle cooperativa operaie.
Scontata la pena di otto mesi inflittagli dal Tribunale di Firenze, venne espulso dalla Toscana con un provvedimento di polizia e si stabilì a Milano, dove fu attivo nell’opposizione clandestina, cosa che gli valse la condanna al confino (trascorso a Favignana, a Lipari ed a Ventotene).
Nel 1924 lasciò il PSI per il Partito comunista d’Italia, nel quale confluì con la frazione terzinternazionalista.
Dopo la caduta del regime Tettamanti partecipò alla Resistenza, tenendosi costantemente in contatto con il Partito comunista e con i partigiani per mezzo di numerose riunioni svoltesi a Como ed a Lecco (dove, nel marzo del 1944, quando un’ondata di scioperi di chiaro significato politico interessò varie località dell’Italia centro-settentrionale, fu tra gli organizzatori della protesta).
Il 26 aprile 1945 Battista riassunse la carica di segretario della Camera del lavoro di Como che tenne fino al 1950, riannodando così, al pari di altri vecchi organizzatori, i fili di un’esperienza avviata in anni lontani.
Successivamente coprì varie cariche di rilievo, restando sulla breccia fino al 1963, quando un collasso cardiaco pose fine ad una vita che può ben dirsi esemplare.
Molti punti di contatto con quella di Tettamanti presenta la biografia di Teresa Meroni.
Nata a Milano nel 1885, Teresa aderì al PSI nel 1905, quando aveva appena vent’anni. Attiva propagandista, si trasferì a Vaiano nel 1915, insieme con Tettamanti, e quando quest’ultimo venne richiamato alle armi lo sostituì al vertice della Lega laniera, di cui divenne segretaria.
In tale veste Teresa fu protagonista di tante vertenze che si svolsero in quel torno di tempo nel Pratese, segnalandosi soprattutto per i suoi sforzi intesi ad organizzare il proletariato femminile. La lucida consapevolezza del fatto che la questione femminile era parte non secondaria di quella sociale, rappresenta l’elemento che più di ogni altro rende interessante la figura della Meroni. Essa si colloca così all’interno di un filone femminista presente nel socialismo italiano (filone che in Anna Kuliscioff ebbe l’esponente di maggior spicco) il cui obiettivo era l’attuazione di un progetto di emancipazione della donna in quanto tale e non solo in quanto operaia.
Un altro elemento che caratterizzò la propaganda della Meroni fu la recisa opposizione alla guerra. A Teresa si deve, con ogni probabilità, un manifesto “alle madri operaie”, pubblicato dal Lavoro il 25 aprile 1915 e sottoscritto da alcune donne vaianesi, che colpisce per la puntuale analisi di classe in esso svolta. Ma a Teresa si deve soprattutto l’organizzazione, nel luglio del 1917, di una memorabile marcia delle donne da Vaiano in direzione di Prato per manifestare, in modo clamoroso, contro il conflitto in corso.
Nel 1918 la Meroni venne internata a Livorno e successivamente a Castelnuovo di Garfagnana, ma anche in quelle località continuò imperterrita a svolgere la sua attività politico-sindacale. Tornò in Val di Bisenzio nel 1919, in tempo per partecipare, con un ruolo da protagonista, al moto del caroviveri.
Costretta a fuggire da Vaiano in seguito all’attacco fascista del 17 aprile 1921, Teresa si trasferì a Milano, prendendo parte attiva all’opposizione clandestina e guadagnandosi una condanna al confino. Nel 1924 aderì al PCd’I.
Rimpatriata nel 1937 per fine periodo, riprese subito l’attività politica antifascista che si saldò con quella da lei svolta successivamente nel periodo resistenziale.
Dopo la guerra si stabilì a Como insieme con Battista e per diversi anni fece parte del comitato centrale della FIOT nazionale. Morì nella città lariana nel 1951.
A questo punto qualcuno potrebbe forse chiedersi perché si sente il bisogno di ricordare oggi personaggi come Tettamanti e la Meroni. A questa domanda credo che si possa fornire una duplice risposta. Innanzitutto va osservato che la ricerca storica non è mai fine a se stessa perché fornisce alla conoscenza degli elementi sempre nuovi, ed è quindi occasione di arricchimento culturale e stimolo alla riflessione critica. Ma in questo caso mi pare di poter dire che essa assume una valenza del tutto particolare, che le conferisce il sapore dell’attualità. L’esempio di Battista e di Teresa è infatti ancor oggi da meditare in quanto essi hanno speso la loro vita battendosi per dei valori fondamentali (quelli della solidarietà, del progresso e dell’uguaglianza) che non hanno affatto perso la loro validità e che vanno anzi recuperati per cercare di ricostruire nel nostro Paese una forza politica autenticamente di sinistra. Questo, a mio avviso, è ciò che dà il senso a questo articolo e che rende l’esempio di Battista e di Teresa tuttora vivo e pieno di significato.