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Storie lontane, echi vicini

C’è Giovanni Bottai, un ex maresciallo dei Carabinieri che muore, anziano, dopo una breve malattia. C’è una vecchia lettera, ritrovata in fondo a una scatola, da cui si capisce che quest’uomo, durante la guerra in servizio a San Marcello Pistoiese, ha fatto qualcosa di terribile e che poi, in seguito all’amnistia, non ha mai scontato la sua pena. C’è Sara, sua nipote, giovane laureanda in filologia, assai legata al nonno e determinata a conoscere la verità su quegli anni ormai lontani. Questo è il punto di partenza per un romanzo, “Echi lontani” (ed. Portoseguro), scritto a quattro mani da Francesca Banchini e Silvia Mannelli, due insegnanti di lettere di una scuola secondaria di primo grado di Pistoia, di cui si parlerà all’ultimo incontro di “Communitas. Conversazioni di prossima cittadinanza”, organizzato dall’ISRT per mercoledì 3 giugno a partire dalle ore 17:00. Durante la conferenza si parlerà di didattica della storia nella scuola secondaria e verranno illustrate alcune proposte laboratoriali, anche con l’intervento della prof.ssa Giulia Barontini, docente di storia.

I personaggi del romanzo sono frutto della fantasia delle scrittrici, così come l’intreccio degli eventi. La vicenda narrata, però, si fonda su un’attenta ricostruzione storica che le autrici hanno condotto. Durante la Seconda Guerra Mondiale, sulla montagna pistoiese, erano presenti alcune famiglie di origine ebraica. Non esisteva una vera e propria comunità di residenti, si trattava piuttosto di famiglie sfollate da altre città italiane, soprattutto da Livorno, in seguito ai bombardamenti degli Alleati, oppure di persone in fuga da Paesi europei soggetti all’occupazione tedesca, giunte nel territorio montano dopo varie vicissitudini. La condizione di queste persone, ovviamente già precaria e difficile, subì un drastico peggioramento in seguito all’emanazione del Decreto Buffarini Guidi il 30 novembre 1943: si ordinava l’immediato arresto degli ebrei che si fossero trovati sul territorio della Repubblica di Salò nonché il sequestro di tutti i loro beni. Anche per le poche famiglie ebree che in quei mesi erano sfollate a Cutigliano, Prunetta e nelle altre località della montagna pistoiese ciò ebbe conseguenze terribili: molti furono traditi, denunciati, deportati e pochissimi riuscirono a tornare dai campi di concentramento[1].

La storia narrata in “Echi lontani” descrive una di queste vicende, unendo elementi veramente accaduti ad altri ricostruiti con verosimiglianza grazie al lavoro di ricerca che le due autrici hanno condotto. La protagonista, Sara, non si rassegna a credere che suo nonno sia stato davvero un collaborazionista né che abbia mandato a morte persone che si fidavano di lui e, anche se suo padre le consiglia di lasciar perdere quelle vecchie storie perché “chi scava non sa poi cosa trova”, decide comunque di approfondire. Attraverso le azioni della ragazza il lettore si trova immerso in una vera e propria ricerca storica, partendo dai documenti che si possono realmente consultare nei faldoni dell’Archivio di Stato: denunce, testimonianze, verbali, sentenze. I documenti citati nel libro sono infatti stati scritti dalle autrici tenendo come modello gli originali che hanno consultato in Archivio.

Nella narrazione i piani temporali si intrecciano e alle vicende che avvengono nel presente si alternano quelle successe durante la guerra, riviste perlopiù attraverso gli occhi di un personaggio un po’ strano e misterioso che appare, all’inizio quasi in punta di piedi, fra un capitolo e l’altro. E’ un vecchio, vive a Roma, rimane senza identità quasi fino alla fine del libro, ma i suoi ricordi e i suoi pensieri diventano piano piano fondamentali perché il lettore possa capire la verità di quanto accaduto tanti anni prima. Il vecchio cammina tra i monumenti di Roma mentre ripensa alla sua giovinezza, vissuta durante il fascismo: il lettore è quindi anche portato a comprendere cosa volesse dire frequentare la scuola nel Ventennio e come il Duce costruisse il consenso intorno a sé, prima che con la violenza, con il controllo delle menti e delle coscienze, controllo che avveniva anche nelle aule scolastiche. “I tempi in cui vivi non cambiano la persona che sei”, così un’amica di Sara, Alice, la rimprovera dei dubbi che nutre verso il nonno: chi è una persona perbene lo è sempre, indipendentemente dai momenti storici in cui si trova a vivere. Ma è vero? E’ vero sempre? O piuttosto il contesto in cui viviamo e in cui ci formiamo, la scuola, è fondamentale per lasciare un’impronta indelebile nella persona che poi diventeremo?

Sappiamo bene che la grande Storia è fatta da tante, piccole, spesso quasi invisibili, piccole storie; da scelte, intrecci, casualità, decisioni, responsabilità che apparentemente non hanno rilevanza ma che nel loro insieme imprimono il corso agli eventi. Il romanzo, con i suoi numerosi agganci alle vicende veramente accadute, ruota proprio attorno a questa convinzione: tutti siamo responsabili di quel che avviene, tutti abbiamo un ruolo da protagonisti nella storia, anche quando siamo convinti di essere solo degli inconsapevoli e innocenti spettatori. Sono passati più di settant’anni da quegli anni drammatici e violenti e il tempo che scorre porta con sé due rischi, entrambi pericolosi: da un lato la dimenticanza di quanto accaduto e in particolare l’oblio del ruolo attivo che gli italiani hanno avuto nella Shoah e dall’altro la retorica nel rappresentare la Resistenza.

La lettura di “Echi lontani” aiuta a stare lontani da entrambi questi rischi, soprattutto se tale lettura viene inserita in un percorso didattico, certamente possibile con alunni della scuola secondaria di primo e di secondo grado, come le autrici, affiancate dalla prof.ssa Barontini, illustreranno durante l’incontro organizzato dall’ISRT per il 3 giugno, incontro intitolato “La memoria del territorio”. La ricostruzione storica degli anni della guerra, in particolare dei mesi in cui il fronte scivolava verso Nord attraverso gli Appennini, vuole essere accurata, senza risultare didascalica e quindi respingente per i ragazzi; allo stesso modo uno spazio importante è dato al ruolo avuto dagli italiani nelle persecuzioni. D’altro canto la Resistenza non è presentata tanto come un atto eroico, solo ideale, riservato a pochi coraggiosi e quindi lontano dal sentire dei giovani di oggi, ma è descritta per quel che in fondo è stata: la scelta di chi, in un tempo folle, ha dovuto decidere da che parte stare a partire da questioni molto semplici e quotidiane.

La storia di Giovanni Bottai, maresciallo mai esistito di un’Arma dei Carabinieri che in Salvo D’Acquisto ha il simbolo di chi ha saputo scegliere la via giusta, può coinvolgere giovani e meno giovani nella conoscenza delle storie vere, vissute da persone che hanno camminato sulle stesse strade su cui camminiamo noi, che hanno visto le stesse montagne all’orizzonte che guardiamo noi e che hanno compiuto scelte da cui tutti noi proveniamo.

 

[1]Per approfondire l’argomento si vedano, ad esempio, questi contributi: https://www.toscananovecento.it/custom_type/persecuzione-e-deportazione-degli-ebrei-sulla-montagna-pistoiese/ ; https://www.toscananovecento.it/custom_type/la-persecuzione-fascista-contro-gli-ebrei-nel-pistoiese/ ; https://www.toscananovecento.it/custom_type/michele-baruch-behor-da-cutigliano-ad-auschwitz/.




San Francesco “made in Pistoia”

Chi volesse conoscere la storia di San Francesco d’Assisi attraverso dei film non ha che l’imbarazzo della scelta: “Francesco giullare di Dio” di Rossellini e “Fratello Sole, sorella Luna” di Zeffirelli sono sicuramente fra i più famosi. L’ultima trasposizione cinematografica risale al 2016, si intitola “Il sogno di Francesco” ed ha come protagonista il giovane Elio Germano.

Pochi sanno che ancora prima prima che il celebre regista pistoiese Bolognini calcasse le scene, provò a raccontare la vita del santo in un film muto anche il suo concittadino Mario Corsi.

Questi, che in gioventù era stato anche autore di alcune raccolte di poesie, una volta tornato parzialmente invalido dalla prima guerra mondiale, era stato attirato dalla nascente industria cinematografica. Come lo stesso Corsi ricordava: “…Anch’io mi sentii attratto, come parecchi altri scrittori e giornalisti dal cinematografo e per due anni scrissi scenari su scenari, alcuni dei quali ebbero una certa fortuna“.

Sull’onda dei primi successi il giovane pistoiese venne chiamato dal commediografo Ugo Folena e dall’avvocato e critico musicale Eugenio Sacerdoti per realizzare un film sul santo d’Assisi che, era chiaro sin dall’inizio, per ottenere il bene placet della Chiesa doveva essere “storicamente e religiosamente inattaccabile“.

Felice per la proposta Corsi si mise immediatamente al lavoro consultando in poche settimane l’intera bibliografia francescana ed in modo particolare i Fioretti e gli scritti di frà Leone e frà Celoro. Comprese subito che le difficoltà incontrate sarebbero state enormi. Anni dopo Corsi sosteneva infatti che: “Solo allora compresi a quale impresa ardita e pericolosa m’ero impegnato e mi tornarono allora in mente le parole dette qualche anno prima da Ferdinando Martini, in una conferenza, a proposito della Francesca da Rimini di D’Annunzio: “A cercare di elevarsi fino a così alte figurazioni, come quella cantata nel sommo Poeta, c’è da correre il rischio di ruzzolare molto in basso“.

Superata la paura iniziale il giovane cineasta si diede da fare per illustrare la vita del Santo attraverso alcuni episodi storici (Il bacio del lebbroso, Sulle orme del poverello d’Assisi, Il tempo, Le stigmate) capaci di rappresentare anche il suo progressivo distacco dalle cose del mondo.

Gli interpreti principali del film furono individuati nell’attore drammatico Uberto Palmarini (san Francesco), Silvia Malinverni (Chiara degli Scifi), Rina Calabria, nel ruolo di sua sorella Agnese, la ballerina Lucienne Myosa, nella parte di una cortigiana che si pente, Bruno Emanuel Palmi, in quella di Frate Elia. Accanto agli attori professionisti apparvero nel film come comparse dei frati francescani. Le riprese furono effettuate fra Assisi, Gubbio, Perugia e il lago Trasimeno.

Per almeno un mese“, raccontava lo stesso regista, “Assisi e Gubbio offrirono il più bizzarro degli spettacoli, tra la viva e chiassosa curiosità degli abitanti e ancor più dei forestieri, che si stropicciavano sbalorditi gli occhi nel veder passare per le strade e le piazze ed entrare ed uscire dai templi inaspettati personaggi in costumi pittoreschi del 1200, e suore e fraticelli al braccio di soldatacci di ventura…”. I “veri” francescani e le suore di santa Chiara aiutarono la troupe fornendo anche alcuni paramenti sacri per le riprese. Le suore di clausura, visto che faceva molto caldo, fecero distribuire agli attori delle bevande fresche e dei biscotti.

Una volta ultimata l’opera fu presentata il 7 giugno 1918 in prima visione all’Augusteo di Roma come “restituzione francescana in quattro canti di M. Corsi con poema sacro per orchestra e cori (dal vivo nda) di Luigi Mancinelli“. L’elemento caratteristico della realizzazione fu senza dubbio il ruolo giocato dalla musica. Per la prima volta questa entrava in un film come elemento integrativo. Mentre nel primo grande film religioso realizzato in Italia, “Christus”, la musica si era aggiunta alla parte cinematografica, accompagnandola come un commento, nel Frate Sole divenne parte essenziale dello spettacolo. Il film, scrisse in un lungo articolo il critico Gasco, “segna indubbiamente una data nell’evoluzione del poema musicale cinematografico, al quale arriderà forse un avvenire mirifico“.

La proiezione fu un vero e proprio evento ed ebbe come spettatori Principi di casa Savoia, ministri del Regno, prelati della Santa Sede, intellettuali. Il regista annotava con fierezza: “Ricordo che dopo la proiezione i Cardinali e gli altri eminenti Monsignori vollero esprimere il loro vivo compiacimento al maestro Mancinelli, a Ugo Falena e a me, e dissero che dal cinematografo la Chiesa poteva aspettarsi, come l’Arte, grandi nobilissime cose”.

A coronare il successo di Frate Sole arrivò poco dopo il riconoscimento ufficiale del Vaticano, con una rappresentazione del film nell’aula magna del Palazzo della Cancelleria, davanti ad una decina di Cardinali e a molti Arcivescovi, Prelati e dignitari della Corte pontificia.

Il successo del film e della musica furono, anche al di fuori dell’ambito religioso, grandissimi. La stampa italiana, che ancora non si occupava di film se non come pubblicità a pagamento, fece uno strappo alla regola e dedicò a Frate Sole colonne intere, firmate dai maggiori critici.

In “La Cine-Gazetta” del maggio 1918 così si scriveva dell’opera: “La Tespi-film, la giovane e celebrata casa romana, e per essa Eugenio Sacerdoti (…), mettendo in scena ‘Frate Sole’, grandiosa vicenda francescana, non soltanto ha inteso di portare il suo prezioso contributo alla propaganda degli studi francescani che tanto interessano l’intellettualità internazionale, ma ha voluto dimostrare a quali altezze possa assurgere la cinematografia considerata espressione di arte (…). Ispirandosi a questi concetti di assoluta nobiltà, (…) Mario Corsi, ideando e tratteggiando il suo scenario, ha compiuto un vero e proprio poema drammatico. Infatti, se ‘Frate Sole’, per le sue linee generali, semplici e gradiose, per obiettiva e serena ricostruzione della figura del ‘poverello d’Assisi’, per la rievocazione dei momenti più salienti della sua vita, per aver saputo quei momenti inquadrare con occhio accorto e vivace nell’ambiente tumultuoso del Duecento, vivifica una schietta e suggestiva restituzione francescana, s’eleva a vera dignità di poesia per aver saputo costringere, nel relativo breve spazio di tempo di uno spettacolo, senza diminuirlo, anzi rendendolo chiaro e tangibile, il senso divino dell’idea francescana (..)” .

Frate Sole a distanza di diversi decenni dalla sua ultima rappresentazione è riapparso oggi sul grande schermo grazie al restauro compiuto dalla Fondazione Cineteca Italiana. Nel mese di febbraio è stato rappresentato a Foligno, nell’ambito del progetto “Visioni e musica per San Francesco” realizzato dagli Amici della Musica di Foligno, con l’esecuzione delle musiche al piano da parte del maestro Scolastra e come coro le 120 voci del Corale Frate Sole diretto dal maestro Aldo Cicconofri. Un film, a distanza di più di cento anni dalla sua realizzazione ancora godibile, che meriterebbe di essere riproposto nella città che ha dato i natali al regista.




Ai mondiali noi non tifavamo Unione Sovietica

A Bologna il 12 Novembre 1989 Occhetto annunciò di voler cambiare nome al Partito comunista italiano, lei sapeva che lo avrebbe fatto?

Non sapevo che lo avrebbe fatto a Bologna e in quella circostanza, ma sapevo che avrebbe affrontato radicalmente la questione.

 

Quali furono le sue reazioni? Quali le speranze, quali i timori?

Soprattutto in Toscana e in Emilia il Pci era una forza socialista riformista. A Bologna, per esempio, c’era una delle amministrazioni più progressiste d’Europa, per questo l’idea di andare oltre il nome per me non era un trauma. Anche Berlinguer aveva riconosciuto la fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre. Sentivamo la necessità di andare oltre il Pci per salvare il meglio del suo patrimonio.

Il timore invece era che quegli elettori che avevano vissuto il partito come una forza progressista, che non aveva niente a che vedere con la realtà sovietica, non comprendessero la decisione di cambiare nome. Il problema più grande fu infatti far capire loro che non veniva messo in discussione quello che avevano fatto fino ad allora.

 

Quindi a Pistoia, per esempio, furono organizzate iniziative per spiegare la svolta ai militanti?

Non ci sono state differenze sostanziali tra le città toscane, i dibattiti furono organizzati ovunque. In Toscana ben il 35% degli iscritti non era d’accordo con la svolta. Per esempio, mi ricordo di un confronto che ebbi con Lido Romanelli, un personaggio storico pistoiese che ha costruito la Cooperazione agricola a Lamporecchio. Ci scrivemmo, «L’Unità» pubblicò le due lettere, una di fronte all’altra, e le differenze apparirono tanto chiare quanto nette. Fu un periodo quindi personalmente molto intenso, di scontro duro tra i vari orientamenti, nelle sezioni, tra iscritti e iscritti; però anche bello da un punto di vista politico, perché in Toscana ci fu una partecipazione tesa, ma molto ampia.

 

Cosa pensava chi era contrario al cambio di nome?

I contrari alla svolta pensavano che, cambiando nome, una parte del patrimonio del Pci venisse smarrita. «Se siamo diversi dall’Urss perché dobbiamo cambiare nome?» si chiedevano in molti, ritenendo la svolta come un’autocertificazione dell’omogeneità con l’esperienza sovietica, che invece non era stata la nostra.

 

Come fu gestita la svolta annunciata alla Bolognina?

Il partito non ha saputo darsi un’organizzazione nuova e ha perso del tempo. È venuta meno un’attenzione all’organizzazione che, anche se non può sostituire la politica, la deve accompagnare. Durante il secondo congresso, per esempio non ci si accorse che mancava il numero legale per la votazione del segretario: questo voleva dire aver perso il polso della situazione. Fu deciso di convocare un secondo congresso perché si ritenne il primo insufficiente, passarono così due anni che, sommati ai ritardi di prima, sono stati micidiali, non soltanto per il tempo trascorso, ma perché ci costrinsero a stare a discutere sul tema del nome, anziché discutere di quale progetto di società cercavamo, di quale organizzazione del partito volevamo. Fu clamoroso quando Occhetto propose di parlare di una carta di intenti del nuovo partito, ma non ne fu discusso perché tutto ormai era inchiodato solo sul nome.

E questa fu una responsabilità di chi era contrario alla svolta. Questi ritenevano infatti che la loro posizione si mantenesse più forte fintantoché si fosse rimasti a parlare solo del nome. Invece, se si fosse discusso dei valori, delle alleanze internazionali, dell’Europa, del progetto di società, la contrapposizione sul nome sarebbe stata superabile.

 

Il problema era quindi il rapporto con l’Unione Sovietica. Lei fu sindaco dopo Renzo Bardelli che già nel 1981 aveva rilasciato un’importante intervista a «La Repubblica» dove criticava duramente la situazione in Urss. Lei cosa pensò di quella presa di posizione pubblica?

La critica all’Unione Sovietica era giusta, forse però avrebbe potuto trovare parole diverse. Con Bardelli avevamo una diversa concezione della politica: lui riteneva giusto condurre una battaglia personale, convinto che gli altri avrebbero seguito; io pensavo invece che fosse necessario costruire un percorso per portare dalla nostra parte quante più persone possibili. La differenza tra noi due risiedeva in questo e non sulle posizioni che lui aveva esplicitato nell’intervista (anche se penso che di quell’articolo molto sia stato frutto della penna di Giampaolo Pansa che lo intervistava).

 

Esistevano quindi delle questioni aperte nel rapporto con l’Unione Sovietica?

La questione del rapporto con l’Unione Sovietica è stata sottovalutata: mi ricordo per esempio quando ero ragazzino che, nel paese de Le Grazie, dove sono cresciuto, durante i mondiali di calcio noi tifavamo Italia, ma alla Casa del Popolo eravamo solo due o tre, i ragazzi, la parte più matura invece, non quella di 80 anni, ma di 40, tifava Unione Sovietica.

Questo è stato il limite della nostra generazione. Per noi l’Unione Sovietica non era un problema, non era né un limite né un modello, per noi non esisteva. Quindi non avvertivamo la pesantezza di questo problema perché non si poneva. E questo è stato un grande errore di sottovalutazione.

A un certo punto ci siamo resi conto che ciò che per noi non era un problema, in realtà lo era, e che quella sovietica era una famiglia che condizionava la nostra credibilità nei confronti degli altri. Era un peso vero e bisognava affrontarlo. Ci rendevamo tutti conto che i paesi sovietici, oltre a non essere un modello, erano diventati qualcosa di profondamente negativo. Quando i carri armati entrarono a Praga ero entrato da pochi mesi nella direzione provinciale del Pci a Pistoia e, se non ci fosse stata una presa di distanza chiara, mi sarei dimesso. La presa di posizione ci fu, e fu quindi diverso rispetto al ‘56, ma, col senno di poi, anche quella del ‘68 non fu sufficiente. Il partito prese posizione ma non ruppe definitamente il vincolo con l’Urss.

 

È possibile dire che è stato anche un problema di “tempi”?

Si. Il momento giusto per prendere definitivamente le distanze dall’Unione Sovietica, per fare una forza unica di sinistra in Italia, era stato il 1956. Quello è stato l’errore più grande del gruppo dirigente di Togliatti.

Noi più giovani abbiamo la responsabilità di non aver percepito il problema e di aver pensato che non fosse un problema. Su questo aveva ragione Renzo Bardelli: già dalle vicende di Praga ci rendemmo conto del peso negativo, ma ci è voluto troppo tempo per rompere il vincolo con l’Urss, perché dal ‘68 all’89 son trascorsi vent’anni. Occhetto già percepiva il problema: «attenzione – diceva – il fallimento dei paesi dell’Unione Sovietica riguarda innanzitutto quei partiti che ne sono stati protagonisti, ma tocca anche noi che ci chiamiamo così, pur non avendo quelle responsabilità, e toccherà anche tutte le forze della sinistra europea». Durante quegli anni di passaggio sono stato convinto di due cose: bisognava andare oltre e la campana suonava per tutti.

 

Vannino Chiti, nato a Pistoia nel 1947, è entrato nel Pci a vent’anni. Nel 1989 era consigliere regionale del Pci, già sindaco di Pistoia dal 1982 al 1985, e futuro presidente della Regione Toscana dal 1992 al 2000. Eletto deputato nel 2001, è stato Ministro per le riforme istituzionali e i rapporti con il Parlamento dal 2006 al 2008. È stato eletto senatore nel 2008 ha ricoperto la carica di vicepresidente del Senato dal 2012 al 2013.

 

Francesca Perugi collabora da anni con l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia e ha appena concluso un dottorato in storia del cristianesimo contemporaneo presso l’Università Cattolica di Milano. Si è occupata di storia repubblicana italiana e pistoiese. Tra le sue pubblicazioni: Racconti di vita e di lotta. Storie di mezzadri pistoiesi, in S. Bartolini, La mezzadria nel Novecento, Settegiorni 2015 e “Si può essere buoni cattolici e disubbidire apertamente ai vescovi?” Il mondo cattolico pistoiese di fronte al referendum per l’abrogazione del divorzio, in «QF. ​Quaderni di Farestoria», I.S.R.Pt Editore, Pistoia, Anno XVI, n. 3, settembre-dicembre 2014,​ pp. 43-50​​.

 




La Linea Gotica in Toscana

Con l’avvio della campagna Alleata in Italia nel luglio 1943, l’8 settembre, e la lenta risalita delle truppe angloamericane nel sud della penisola, la strategia difensiva adottata dai tedeschi diviene quella della “ritirata aggressiva”. Essa presuppone un lento ripiegamento dal sud al nord della penisola su successive linee difensive fino a un tracciato fortificato principale individuato sugli Appennini centro-settentrionali. Questa è la Linea Gotica (ribattezzata poi Linea Verde), pensata dai nazisti per arrestare il più possibile l’avanzata Alleata e alleggerire la pressione militare su altri fronti di guerra. Inoltre, questo tracciato serve per sfruttare il più a lungo possibile il bacino padano ricco di fabbriche, risorse agricole, macchinari e capi bestiame.

I lavori per costruire la linea difensiva tra Massa (sul Tirreno) e Pesaro (sull’Adriatico), circa 300 km di fortificazioni che si inerpicano tra le Alpi Apuane e l’Appennino (per una profondità che varia tra i 15 e i 40 km), iniziano tuttavia solo nel febbraio 1944.

I tedeschi affidano la realizzazione della Gotica all’organizzazione TODT che arriverà a mobilitare 75.000 operai italiani. Nelle opere di costruzione della Gotica vengono impiegati prigionieri e lavoratori coatti, ma anche volontari: lavorare alle fortificazioni significa disporre di un reddito, poter accedere alle mense e alle infermerie e non essere deportati in Germania.

Lungo la Gotica vengono allestiti dei campi di lavoro per la TODT o sotto il controllo diretto della Wehrmacht: nell’estate del 1944 ne esistono ad esempio a Castelnuovo Magra (La Spezia), ad Anchiano (Borgo a Mozzano, Lucca) alla Futa ed a Traversa nel Comune di Firenzuola (Firenze), a Sasso Marconi (Bologna). Diversi rastrellati toscani sono condotti a Monzuno, Pianoro, Loiano e Medicina in provincia di Bologna, mentre a Nord della Gotica e nell’area del Po, oltre a una serie di campi mobili, fra le principali destinazioni fra agosto e settembre si contano Sala Baganza (Parma) e Vigarano Mainarda (Forlì).

Nonostante gli sforzi tedeschi i lavori procedono a rilento e, a metà di luglio del 1944, la Gotica non è ancora pronta: per questo le operazioni di approntamento si fanno frenetiche e il paesaggio diviene un campo di battaglia attraversato da carri armati e soldati, disseminato di campi minati, sbarramenti anticarro, postazioni in cemento per mitragliatrici, bunker e fortini.

Lo spazio appenninico e apuano preesistente alla costruzione della Gotica è caratterizzato dal mondo dei contadini di montagna e scandito dal lento e circolare ciclo delle stagioni, delle consuetudini e delle abitudini secolari. E’, in sintesi, un paesaggio fisico e culturale che viene violentato e trasformato dalla costruzione della Gotica. Le comunità vengono investite, quasi sorprese, dall’arrivo dei reparti tedeschi. La guerra, il fronte e il nazismo irrompono in casa.

Agli inizi di agosto 1944 gli Alleati hanno raggiunto la linea dell’Arno e, sull’Adriatico, Pesaro. A partire dalla metà del mese le operazioni si spostano così sulla Gotica.

Il settore orientale (romagnolo e marchigiano) e quello centrale (tra Firenze e Bologna) dell’ultimo baluardo tedesco in Italia sono teatro di dure battaglie. Il settore occidentale tirrenico, invece, viene ritenuto meno importante da entrambi i contendenti.

Il 25 agosto del 1944 ha inizio l’operazione Olive, l’offensiva Alleata che si concentra sul settore orientale del fronte. Per quanto riguarda la Toscana una della più importanti battaglie in questo periodo è quella del passo del Giogo (Firenze), vinta dagli Alleati il 18 settembre dopo ingenti perdite.

Tuttavia, l’avanzata delle divisioni britanniche e statunitensi viene bloccata dal terreno sfavorevole, dal maltempo, dall’ostinata resistenza tedesca e soprattutto dalla scelte strategiche dei vertici politico-militari Alleati che preferiscono concentrarsi sul fronte francese. L’attacco termina così alle porte di Bologna e, a fine ottobre, il fronte si arresta. Nel frattempo molte zone della Toscana occidentale rimangono in mano ai tedeschi: l’Alta Versilia, la Garfagnana e Apuania (Massa Carrara).

Il punto di svolta per quest’area toscana giunge solo dopo un altro durissimo inverno, nell’aprile del 1945, in concomitanza con lo sfondamento finale su tutto il fronte: il 10 è liberata Massa, l’11 Carrara e il 27 Pontremoli.

Lo spazio della Gotica non è solo uno spazio di scontro tra eserciti: l’attività delle formazioni partigiane, soprattutto a partire dall’estate del 1944, è un serio pericolo militare e politico per i nazisti e i collaborazionisti fascisti.

Innanzitutto, perché la guerriglia partigiana sollecita o provoca la fuga degli operai dai cantieri della TODT ritardando il completamento dei lavori di fortificazione.

In secondo luogo perché proprio a partire dall’estate si moltiplicano sulla Gotica le incursioni contro presidi fascisti e tedeschi, i sabotaggi, gli attacchi contro autocolonne e i convogli ferroviari. L’attività partigiana cresce di intensità anche perché dalle prime bande si passa a raggruppamenti più numerosi e meglio armati, capaci di impegnare militarmente il nemico, come ad esempio riesce a fare nel settore pistoiese e garfagnino della Gotica la formazione XI Zona di Manrico Ducceschi “Pippo”. Questa crescita qualitativa e quantitativa della Resistenza è il frutto di una più efficiente organizzazione in cui i comandi partigiani cercano di coordinarsi tra loro e le diverse bande presenti tendono a unirsi in formazioni più ampie.

Il settore versiliese, apuano e lunigiano vede attive già da prima numerose bande: comuniste, gielliste e anarchiche, ma anche formazioni autonome come i “Patrioti Apuani” di Pietro Del Giudice o il battaglione internazionale di ex prigionieri Alleati guidati dal maggiore inglese Gordon Lett. Nel luglio e nell’agosto del 1944 in queste zone si tenta di unificare alcune formazioni: nascono con questo intento, ad esempio, la Brigata Lunense e la X Bis Garibaldi Gino Lombardi.

La guerriglia partigiana costituisce inoltre un problema per i nazisti e i fascisti perché libera e controlla intere porzioni di territorio strategicamente necessarie alla tenuta della Gotica. L’esempio più noto è quello di Montefiorino, un’area di importanza strategica perché a ridosso degli assi viari di attraversamento degli Appennini (da La Spezia a Reggio Emilia, e da Pisa e Lucca a Modena), cruciali per rifornire le truppe che combattono a sud della Gotica. Montefiorino diviene uno spazio partigiano nel cuore della Gotica: attira centinaia e centinaia di uomini, anche dai territori vicini, dal bolognese e dalla Garfagnana. Ma altri esperimenti di “territorio libero partigiano”, benché più brevi e modesti, si hanno sul settore centrale della Gotica, nei comuni della Romagna Toscana e tra i valichi della Futa e di Casaglia a opera rispettivamente delle Brigate Garibaldi 8° “Romagna” e 36° “Bianconcini”.

In ultimo, i partigiani, i quali stringono rapporti di intesa e di protezione comunitaria con le popolazioni contadine, si presentano a queste come autorità legittima e alternativa ai nazifascisti.

Per tutte queste ragioni, tedeschi e fascisti rispondono alla minaccia partigiana, che opera alle spalle del fronte, con rastrellamenti e operazioni di bonifica del territorio che non risparmiano le popolazioni locali dando luogo lungo la Gotica a una serie di stragi di civili.

Come rilevato da Luca Baldissara, la Gotica è nello stesso tempo «una linea del fronte e di confine» che separa due eserciti (Alleati e nazifascisti), due governi (la RSI e il Regno del Sud) e due sistemi di occupazione (tedesco e Alleato). «Ma che diviene anche uno spazio in sé, dove migliaia di lavoratori faticano alla costruzione delle difese, dove decine di migliaia di soldati si insediano e si preparano al combattimento», dove i fascisti collaborano con i tedeschi e compiono (anche autonomamente) stragi e rastrellamenti, dove i partigiani operano, dove i civili vivono una quotidianità stravolta dalla guerra[1]. La Gotica, in sintesi, è uno spazio che racchiude in sé la storia della seconda guerra mondiale.

Inoltre, qui non si combattono solo statunitensi, inglesi, tedeschi ed italiani, ma uomini in uniforme provenienti dall’Asia, dall’Africa, dall’America Latina e dall’Australia.

«Tanti percorsi si incrociano sulla Gotica e nel suo spazio allargato, dove molti uomini giungono da mondi diversi e lontani, incontrandosi con gli abitanti e i partigiani, trovandosi nemici o alleati in guerra, costretti alla prossimità nei momenti di sospensione del conflitto, in una convivenza più o meno forzata. E’ una grande esperienza collettiva filtrata dalla guerra, che fa della Gotica anche una linea mentale»[2].

[1]L. Baldissara, Gotenstellung. Linea del fronte, linea di confine, linea “mentale”, in M. Carrattieri e A. Preti, Comunità in guerra sull’Appennino. La Linea Gotica tra storia e politiche della memoria, Roma, Viella, 2018, p. 43.
[2]Ivi, p. 60.




La Guerra Partigiana

A Pistoia, ormai da anni, le storie dei combattenti partigiani entrano, a buon diritto, nelle aule delle scuole elementari e medie della città: questo risultato è reso possibile dal progetto “La guerra partigiana”, promosso da Spi Cgil-Lega “Ugo Schiano” e Fondazione Valore Lavoro. Grazie alla collaborazione di Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia (ISRPt), ANPI sezione “P. Gherardini”, Croce Verde, Sezione Soci Coop, Circoli Arci di Bonelle e “L. Bugiani” e Comune di Pistoia questo progetto ha coinvolto, nell’anno scolastico 2018/2019, un totale di 391 bambini e ragazzi, confermandosi una realtà consolidata al servizio delle scuole pistoiesi.
Scopo del progetto è quello di attivare una vera e propria didattica della storia della Resistenza pistoiese, rivolta agli insegnanti e agli studenti, per intensificare il dialogo con le nuove generazioni e far loro conoscere un passato che, purtroppo, lo scorrere del tempo rischia di rendere sempre più sfumato agli occhi degli alunni di oggi. È Spi-Cgil ad occuparsi degli aspetti organizzativi riguardanti il coinvolgimento delle scuole; la docenza è invece svolta dai ricercatori ISRPt, che diventano per l’occasione “insegnanti per un giorno” allo scopo di rendere partecipi i piccoli studenti della storia della nostra Resistenza. In particolare, per quanto riguarda i bambini della scuola primaria, ognuno dei ricercatori ISRPt “prende in consegna” una classe terza e la accompagna nel suo percorso scolastico fino alla classe quinta: così facendo, oltre a crearsi una benefica continuità nella pratica didattica, si consolida il rapporto del ricercatore con la classe da lui seguita, stimolando un clima reciproco di conoscenza e fiducia fra gli alunni e il ricercatore. Ma come rendere accessibile a bambini e ragazzi un argomento tanto complesso come quello della Resistenza? Grazie alla preziosa collaborazione degli insegnati delle diverse scuole, il tema della Resistenza è introdotto in anticipo nelle classi, in modo tale che gli alunni abbiano un primo approccio alla tematica in oggetto; solo in seguito a questa premessa, i ricercatori ISRPt possono recarsi nelle aule e tenere la loro lezione. Ma, più che delle lezioni, questi incontri diventano dei veri e propri dibattiti: la curiosità degli studenti riguardo alla Resistenza è molta, e i ragazzi non mancano mai, infatti, di porre numerose e molteplici domande di vario genere, alle quali i ricercatori si impegnano a rispondere per soddisfare l’interesse dei giovani studiosi. Le lezioni giungono a parlare ai ragazzi della “guerra partigiana” dopo aver introdotto quegli avvenimenti fondamentali che ne furono i precedenti: questo perché gli studenti possano comprendere il più autonomamente possibile quando e perché essa ebbe luogo. I temi trattati preliminarmente sono quindi la presa del potere da parte di Mussolini e il fascismo, la politica espansionista della Germania hitleriana e lo scoppio della Seconda guerra mondiale, per poi arrivare, infine, alla “guerra partigiana” e ai suoi protagonisti nella zona del pistoiese.
Grazie al supporto di fotografie d’epoca, selezionate dai ricercatori ISRPt, gli alunni entrano in contatto, spesso per la prima volta, con la Resistenza pistoiese e le sue figure (ad esempio il giovane partigiano Silvano Fedi, morto in uno scontro a fuoco con i tedeschi, la cui memoria è ancora ben viva nella città di Pistoia) e con la vita delle popolazioni dell’epoca. La lezione in classe costituisce solo la prima parte del progetto didattico della “guerra partigiana”: a essa fa infatti seguito una vera e propria esplorazione sul campo dei luoghi della memoria pistoiese. In questa esplorazione i ragazzi sono accompagnati dai loro insegnanti e dai ricercatori ISRPt che, novelli ciceroni, conducono gli studenti a vedere con i loro occhi i siti più significativi della Resistenza cittadina. Una delle mete di queste “gite partigiane” è il centro di Pistoia: durante questo tour vengono illustrati agli alunni le lapidi e i cippi commemorativi di cui il centro è punteggiato, e vengono loro spiegate le storie e le vicende che tali monumenti ricordano. Un’altra meta particolarmente evocativa è il Monumento votivo militare brasiliano, sito alla periferia della città: un vero memoriale all’aria aperta (dotato anche di un suo piccolo ma significativo museo) che ricorda le vicende della Força Expedicionária Brasileira, attiva sull’Appennino tosco-emiliano nella primavera 1945 e che si trovò a passare anche da Pistoia. Molto significativa è anche la visita al Passo della Collina sopra Pistoia, dove, nella località del Signorino, si snodava la Linea Gotica: ancora oggi, vi si ritrovano alcune fortificazioni in cemento armato ben conservate, parte del sistema difensivo tedesco a protezione delle vie di accesso al valico.

La terza e ultima parte del progetto della “guerra partigiana” è quella della restituzione: in questa fase conclusiva i ragazzi, assistiti dai loro insegnanti, producono i loro personali elaborati, illustrando nel modo che preferiscono (disegni, interviste, articoli, presentazioni multimediali) ciò che più li ha colpiti ed interessati durante questo “viaggio nella storia”. Questi elaborati diventano poi il centro di una mostra aperta al pubblico cittadino, dove a ognuno degli studenti viene consegnato un attestato di partecipazione: un piccolo omaggio dedicato ai ragazzi per ringraziarli della loro partecipazione attiva a questo progetto didattico sulle tracce della nostra Resistenza. Perché, adoperando le parole di Gabriella Valdesi, curatrice del progetto per Spi-Cgil Lega “Ugo Schiano”, lo scopo finale è quello di ricordare: «Bisogna ricordare e avere rispetto per i sacrifici compiuti da tante persone giovani e non, che hanno dato la vita per un ideale, intensificando il dialogo con le giovani generazioni, per conoscere il passato per costruire il futuro e guardare avanti».




Al tempo di Pistoia capitale della cultura: quale ruolo per la Public History?

25000 turisti nel 2017, il 20% in più rispetto al 2016, 7 milioni circa di ricavi dalle attività turistiche e culturali. E il risultato non si è disperso nel tempo, non è diventato, come direbbero i grecisti, un hapax legomena: anche nel 2018, questo trend si è rafforzato, lasciando la ragionevole speranza che Pistoia possa affermarsi nel panorama turistico-culturale italiano come una delle città d’arte di provincia dove cultura, arte, natura e buon cibo si uniscono e si fondano. Non male per una piccola città di provincia, da sempre poco visibile perché vicinissima a grandi città d’arte come Firenze, Pisa e Lucca. Questi infatti sono stati alcuni dei risultati ottenuti da Pistoia nell’anno della nomina di “Capitale Italiana della cultura” nel 2017.

Che ruolo hanno avuto, in questo successo, la Public History e le numerose mostre storiche organizzate in quest’anno? È un’esperienza di cui, proprio per le sue ricadute, diventa necessario parlare per capire come il connubio tra iniziative culturali, risorse economiche e coinvolgimento istituzionale possa suscitare non solo nuove sinergie tra tessuto sociale, urbano e culturale, ma possa essere la base da cui instaurare un fruttuoso circolo virtuoso tra impegno culturale, esigenze economiche e ricadute sociali. Un impegno che non si esaurisca nell’anno di capitale per la cultura, ma che sia radicato nelle iniziative passate e protenda verso quelle future, dimostrandosi capace di utilizzare tutte le potenzialità di cui dispone una disciplina – quella della Public History – relativamente giovane in Italia e in Europa, ma dotata di un più ampio e riconosciuto pedigree in America e in Gran Bretagna, dove già dalla metà degli anni Settanta si sentiva l’urgenza di rispondere a una domanda di passato con strumenti rigorosi e metodi scientifici.

Una genuina Public History, infatti, è quella che promuove pratiche di cittadinanza attiva e di consapevolezza civica: stimolare una conoscenza del passato non mnemonica ed episodica, ma organica e problematica, che consideri i suoi processi e le sue ricadute sui problemi del tempo presente, permette al visitatore e al cittadino di riappropriarsi in maniera attiva di tutti quegli strumenti critici ed epistemologici che gli consentiranno, quando sarà messo di fronte all’attualità, di analizzare criticamente le posizioni in gioco e di scegliere razionalmente il proprio punto di vista. E questo fine non è in contraddizione con il coinvolgimento emotivo che la scoperta e il racconto di esperienze personali e familiari può indurre; che anzi, proprio il conflitto socio-cognitivo che può scaturire dalla curiosità per le proprie radici può stimolare una maggiore attenzione per quegli accadimenti storici che alle vicende personali hanno fatto da cornice.

Senza andare troppo lontano nel tempo e nello spazio, possiamo ricordare come esempio di Public History la mostra che il nostro Istituto, nell’autunno 2013, allestì per ricostruire i bombardamenti alleati che nella notte del 24 ottobre 1943 devastarono il centro storico della città di Pistoia. Quell’iniziativa, che si avvalse degli strumenti e delle pratiche della mostra diffusa, fu riproposta con successo quando, il 31 luglio 2016, il disinnesco di una bomba inesplosa condusse all’evacuazione per otto ore di più di metà dei residenti nel centro cittadino: l’operazione fu seguita da una diretta TV locale che per l’occasione si avvalse della consulenza di uno storico del nostro Istituto (Stefano Bartolini), mentre la Mostra, allestita nuovamente nei locali della San Giorgio, contribuì ad accrescere la consapevolezza della cittadinanza verso eventi bellici che improvvisamente non apparivano più tanto lontani. E del resto gli Istituti Storici della Resistenza, come ha giustamente sottolineato Claudio Silingardi nel 2017 a Ravenna, non sono nuovi a pratiche di Public History; attività di divulgazione, mostre e iniziative progettate per un pubblico non iniziato agli studi storici esistevano già decenni prima che gli accademici “scoprissero” la storia pubblica come disciplina e pongono i nostri Istituti come gli antesignani della Public History “prima” della Public History.

Quello che però è nuovo e inedito è la consapevolezza epistemologica sottesa all’impegno di ricerca, sistematizzazione e condivisione delle proprie scoperte, nella stringente consapevolezza che la conoscenza di queste ultime non può più limitarsi agli angusti limiti del ristretto esoterico dibattito tra studiosi, ma che deve pervenire anche a chi accademico non è. E inoltre, ma, sarebbe forse meglio dire, e soprattutto: la condivisione non deve, non può riguardare soltanto i risultati della ricerca, ma deve investire anche il processo stesso che ha portato a quei risultati e a quelle conclusioni. Comprendere quali fonti il ricercatore ha vagliato, quali ha deciso di usare e come ha prospettato di analizzarle rende visitatori e cittadini partecipi del processo storico, essi stessi capaci, quando posti di fronte alle sfide dell’attualità, di cercare i documenti più appropriati e di esaminarli per formarsi con cura e coscienza una propria ponderata opinione. Ma l’arricchimento è tutto fuorché unilaterale; è stato messo talvolta in luce come la collaborazione con le comunità conduca a un processo di mutuo arricchimento e crescita, sia personale sia professionale. Apprendistato di cittadinanza attiva, pratica di indipendenza mentale e critica; «uscita dallo stato di minorità»; questo è dunque il fine a cui deve puntare, in misura costante e sistematica, l’insieme delle pratiche di Public History.

Questo è stato lo scopo del nostro panel Fare storia a Pistoia capitale della cultura: esperienze e progetti: raccontare esperienze, mostrare che tutto sono state tranne che chiuse e impermeabili alla cittadinanza. Mostrarne le ricadute, culturali mentali e sociali prima che economiche. Coesione sociale, partecipazione, consapevole appropriazione della propria identità procedono, per una volta, in parallelo con la valorizzazione di un patrimonio artistico e culturale poco considerato e con un aumento dei ricavi economici, a dimostrazione che con la cultura non solo ci si mangia, ma ci si mangia proprio bene. Questo fu il caso di Mantova, capitale italiana della cultura nel 2016, e tale è stato anche il caso di Pistoia, che dalla città lombarda ha ereditato il titolo nel 2017.

Chiara Martinelli ha ottenuto all’Università di Firenze nel 2015 il dottorato in storia contemporanea. Nel 2015 ha lavorato al Council for the European Union come redattrice e bibliotecaria. Dal 2017 è membro del Consiglio direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, istituto ai cui corsi di formazione docenti collabora.  E’ membro della redazione della rivista “Farestoria”. Nel 2019 ha pubblicato il volume “Fare i lavoratori? Le scuole industriali e artistico-industriali italiane in età liberale” nella collana scientifica del Cirse (Centro Italiano per la ricerca storico-educativa). 




Caruso a Lastra a Signa

Prima di Pavarotti (1935-2007) c’erano stati tanti cantanti lirici a ribadire il primato dell’Italia a livello internazionale. Non siamo qui a stilare una classifica del Belcanto italiano, peraltro antipatica visto il contributo essenziale che ciascuno di loro seppe dare con la propria personalità. Un nome fra tutti, però, merita di essere ricordato.

Enrico Caruso (1873-1921), napoletano di nascita, americano d’adozione, è diventato un’icona del genere. Complice anche il rilancio dato alla sua figura nel 1986 dalla canzone che porta il suo nome, scritta e interpretata da un inatteso Lucio Dalla.

Il confronto con Pavarotti, nonostante l’inevitabile distanza temporale, sorge spontaneo. Entrambi appartenevano al ceto operaio – il padre di Pavarotti era fornaio a Modena, quello di Caruso meccanico a Napoli –, il che comportò una scalata al successo costellata di notevoli sacrifici e tanta fatica. Entrambi fecero della lirica una forma d’arte indiscussa, ma non persero mai il legame con la musica cosiddetta “leggera”, come dimostrano i tanti brani interpretati da Pavarotti con i principali cantautori italiani e il vasto repertorio proveniente dalla tradizione napoletana che per tutta la sua carriera Caruso non abbandonò mai. A questi aspetti si aggiunga la generosità con cui mettevano a disposizione le loro ugole a sostegno di campagne umanitarie e iniziative di beneficenza.

Caruso non ebbe mai, raggiunta la fama, una fissa dimora. Come molti altri artisti, passava la maggior parte del suo tempo in viaggio, per raggiungere un nuovo palcoscenico. E quando arrivava, poteva trattenersi qualche giorno al massimo prima di ripartire alla volta di una nuova meta. Così fu  in Russia, in Europa, in America Latina, a Cuba. E dal 1903 fino alla fine dei suoi giorni, si esibì ininterrottamente presso il Metropolitan di New York, che era diventato la sua casa, almeno dal punto di vista artistico.

Ma Caruso, nonostante la stima dei colleghi, la benevolenza dei direttori d’orchestra, primo fra tutti Arturo Toscanini, e le lodevoli critiche della stampa dell’epoca, sapeva che il successo, come arriva, se ne va. Forse per questo aveva pensato di porre fine a quella sua esistenza da girovago, da gatto randagio che vaga nella notte. Dove andare? Dove trascorrere gli ultimi anni di una vita che, certo, non si sarebbe potuto immaginare così breve? Bel dilemma. A Napoli? Proprio vero, nessuno è profeta in patria e, per quanto Caruso si fosse adoperato per portare in giro per il mondo la canzone napoletana, il rapporto con la sua città si era in qualche modo guastato. Dove allora?

Il tenore era già proprietario dal 1904 di una villa tra Sesto Fiorentino e Firenze, in zona Le Panche.  Oggi quella villa è stata convertita in Residenza sanitaria assistenziale e porta il nome di Villa Gisella. L’impronta del cantante si ritrova soprattutto negli esterni, in quel vasto giardino all’italiana che volle farsi realizzare per allietare le sue giornate con piacevoli camminate.

Probabilmente non sarebbe stato neppure questo il rifugio della sua vecchiaia. Dopo tanti anni passati in giro per il mondo, frequentando luoghi stracolmi di gente, Caruso dovette avvertire il bisogno di allontanarsi un poco dalle città, ritrovare un angolo di paradiso che fosse a disposizione di lui e di pochi altri.

Fu così che decise di acquistare nel 1906 villa Bellosguardo. La villa, di cui Caruso doveva essersi perdutamente innamorato se addirittura ignorò il parere contrario del suo amministratore che gli sconsigliava di concludere l’affare, si trova oggi su una collinetta a Lastra a Signa. La posizione e la quiete diffusa ne fanno un invidiabile punto panoramico nonché un luogo di pace e di assoluto riposo.

Poteva essere un nido d’amore per Enrico e la moglie Ada Giachetti, ma così non fu. I rapporti tra i due, che si erano conosciuti a Livorno nel 1897, pian piano si deteriorarono, degenerando in una lunga sequela di tradimenti che, nel 1908, avrebbe sancito la definitiva separazione con la fuga rocambolesca di Ada assieme a uno dei domestici.

Fu un duro colpo per Caruso. Rimasto solo con i due figli, la vita agreste a villa Bellosguardo si fece amara e un turbinio di dubbi fece vacillare persino la sua permanenza in Toscana. Alla fine, però, prevalse il buon senso e il tenore, intimamente attaccato a quegli scenari mozzafiato, decise di restare. Anzi, si adoperò affinché la dimora potesse rinnovarsi e, con un nuovo obiettivo che lo tenesse occupato, magari dimenticare a poco a poco l’origine del suo dolore. Nel 1911 approntò un progetto che prevedeva il restauro interno ed esterno della villa, la creazione di un loggiato, il rialzamento dell’edificio e il riordinamento del parco, compresa una vasta opera di recinzione lungo tutto il perimetro. I lavori si conclusero nel 1918, tre anni prima che il proprietario morisse.

Oggi il complesso è di proprietà del comune di Lastra a Signa, aperto al pubblico per buona parte della settimana. Abbiamo visitato la villa un venerdì pomeriggio di fine giugno. Dal vivo non rispecchia per niente l’immagine che ci si può fare guardando le foto su internet. Erba alta, siepi incolte e spirali di arbusti secchi parlano più di decadenza che di splendore.

L’impressione negativa, purtroppo, ci ha accompagnato anche all’interno della villa. Al piano superiore è stato ricavato un museo dotato di attrezzature multimediali che dovrebbero rendere più interattiva la visita. Peccato che quel giorno non funzionassero. L’audioguida, fornita gratuitamente, di sala in sala annunciava filmati sulla vita del tenore e contenuti d’epoca che, avreste potuto attendere una giornata intera, non sarebbero arrivati.

Invano abbiamo sperato di trovare una smentita nell’ultima sala, quella che, a giudicare dal titolo “Caruso e la musica”, dovrebbe costituire il giusto coronamento a un percorso museale che, tra cimeli d’epoca, cartoline, dischi, abiti di scena, basterebbe a lasciare nel visitatore un ricordo piacevole. Eppure, ancora una volta, la volontà di soprendere con mezzi tecnologici ha ottenuto l’esatto contrario. Su una targhetta si invitava ad avvicinarsi ai grammofoni sparsi per la sala; un brano interpretato dal grande Caruso magicamente avrebbe fatto la sua apparizione dal nulla, avvolgendo lo stupefatto visitatore. Peccato che neppure una nota sia uscita da quei prodotti di indubbia bellezza e che il visitatore sia rimasto impalato lì, aspettando un artista troppo timido per far il suo ingresso in sala.

Massimo Vitulano si è laureato in Lingua e letteratura italiana nel 2014. Attualmente insegna italiano all’ITC Marchi di Pescia e tiene un corso di storia della canzone dell’autore presso l’Università dell’età libera di Firenze.




Un paio di scarpe per la vita: il percorso della famiglia Fischer da Prunetta ad Auschwitz

La famiglia ebrea croata Fiser (alla tedesca Fischer) era originaria di Zagabria, città in cui i suoi membri vivevano piuttosto agiatamente grazie ai proventi di una azienda operante nel commercio del legname. Era composta da Teresa, da sua cognata Jelka e dai figli di quest’ultima e cioè Regina, Paolo e Otto, sposati rispettivamente con Mira Weiss e Vera Furst. Con loro vivevano anche Nada e Felicita, sorelle di Regina e loro madre Gisela Heim (Haim) Weiss.

La loro tranquilla esistenza cambiò radicalmente quando nel 1941 la Iugoslavia venne occupata dalle truppe nazi-fasciste. Zagabria e Belgrado caddero di fronte alle truppe tedesche il 10 aprile, Lubiana, Mostar, Dubrovnick, Cetinje nei giorni successivi per mano degli italiani.

I nazionalisti ustascia sotto la guida di da Ante Pavelic, creato il nuovo stato indipendente di Croazia, cominciarono presto la “pulizia etnica” ai danni di serbi, ebrei e rom definiti “i peggiori nemici del popolo croato”. Le loro stragi furono tali che le truppe italiane decisero per evitare di compromettersi di issare più il tricolore davanti ai comandi delle truppe nazionaliste.

Di fronte al pericolo di cadere vittima delle persecuzioni i membri della famiglia Fischer abbandonarono il palazzo di famiglia e fuggirono a Spalato, allora sotto il controllo italiano. La loro intenzione, come quella di molti ebrei iugoslavi e non, era quella di penetrare in territorio italiano, dove le leggi razziali erano, almeno fino a quel momento, applicate in modo meno feroce.

Da Spalato furono poi internati a Prunetta, sulla montagna pistoiese, in quanto appartenenti a una nazione nemica e quindi “capaci di qualsiasi azione deleteria”. Prunetta era con Agliana, Buggiano, Lamporecchio, Larciano, Montecatini, Pistoia città, Ponte Buggianese e Serravalle Pistoiese, una delle zone ad internamento libero presenti sul territorio pistoiese.

Foto panoramica di Cuorgné

Foto panoramica di Cuorgné

L’internamento libero offriva condizioni di vita migliori rispetto a quelle caratterizzanti i campi di concentramento, in particolare una certa libertà di movimento, la possibilità di svolgere varie professoni e di rapportarsi con la popolazione locale.

Da alcuni documenti risulta che alcune donne del gruppo e cioè Gisela, Nada e Felicita prima di giungere in Toscana furono condotte a Cuorgné, all’epoca comune della Val d’Aosta, oggi in provincia di Torino. Facevano parte infatti di un gruppo di una cinquantina di ebrei, in molti casi di origine askenazita o sefardita, che fu ospitato, assai benevolmente secondo molti, nella cittadina per alcuni mesi.

Dalla cittadina valdostana le tre donne furono condotte poi a Prunetta, dove già risiedevano gli altri membri della famiglia. E’ possibile che siano state le donne stesse, per ricongiungersi con i familiari, a chiedere alle autorità di essere spostate.

Da una lettera spedita all’arrivo in Toscana alla famiglia che le ospitò a Cuorgné è possibile dedurre quanto si fossero trovate bene nella cittadina dell’Italia Settentrionale [foto copertina articolo].

La situazione per i Fischer, così come per gli altri ebrei italiani o stranieri presenti nel pistoiese, non fu caratterizzata, almeno inizialmente da episodi drammatici.

Alcuni anziani ancora oggi ricordano la presenza degli ebrei nella piccola località appenninica. Il giornalista Giorgio Andreotti ricorda in particolare che:

“… erano soprattutto donne, una di loro era incinta (Mira ndr). Mia madre lavorava alle Poste e mi raccontava che spesso alcune di loro si recavano all’ufficio postale per spedire lettere e cartoline…

La situazione per la famiglia purtroppo mutò radicalmente dopo l’8 settembre 1943.

In realtà un primo evento drammatico si era già verificato nei mesi precedenti l’armistizio. Il 23 luglio 1943 Paolo Fischer infatti era stato arrestato dal maresciallo di San Marcello Pistoiese Antonino Gitto con l’accusa di aver acquistato, forse al mercato nero, della marmellata. La detenzione dell’uomo durò pochi giorni ma mise probabilmente in evidenza a tutti che la situazione generale si stava ormai deteriorando.

Vera e Otto (foto archivio privato famiglia Fischer)

Vera e Otto (foto archivio privato famiglia Fischer)

Il 6 settembre, due giorni prima dell’armistizio, si verificò l’unico lieto evento che caratterizzò in quegli anni lontani il piccolo nucleo familiare e cioè la nascita di Massimiliano (Max), il figlio di Otto e Vera. Ovviamente, data la situazione, il bimbo non venne registrato come ebreo.

Pochi giorni dopo, il 10 settembre il capo della polizia Carmine Senise diramò l’ordine di liberare gli ebrei stranieri dall’internamento. L’ordine fu revocato tre giorni dopo. Solo pochi ebrei poterono così approfittare di questa contingenza e fuggire. I Fischer, a causa delle precarie condizioni economiche in cui si trovavano, purtroppo non lo fecero.

Il 23 settembre Paolo fu nuovamente arrestato, questa volta assieme ad Otto. Condotti a Montecatini e affidati ai nazisti furono condotti nei campi di prigionia riservati agli ex militari iugoslavi dell’Europa Settentrionale.
La vicenda della donne, a questo punto rimaste senza la protezione degli uomini di casa, incrociò quella della famiglia di Ernesto e Margherita Bragagnolo che dalla piana pistoiese erano sfollati a Prunetta per sfuggire ai bombardamenti finendo così a vivere nella stessa abitazione dei Fischer. I due erano tornati in Italia dopo essere emigrati negli Usa. Ernesto, era un industriale calzaturiero proprietario di un negozio di scarpe in via San Martino. Soprannominato per il suo passato “l’Americano” era considerato dalle autorità un “sovversivo”. Sottoposto a vigilanza era anche stato arrestato dai repubblichini e recluso per cinque giorni nel carcere di Pistoia.

L’aiuto di Ernesto e Margherita fu fondamentale per la sopravvivenza delle Fischer nell’inverno del ’43. Paolo Fischer nella denuncia che questi scrisse a guerra finita contro il maresciallo dei carabinieri di San Marcello P.se e il segretario del PNF di Prunetta afferma che le donne

vivevano con l’aiuto e l’amicizia costante dei Sigg. Bragagnolo, e sentivano crescere di giorno in giorno, il pericolo intorno a loro, capivano che presto la maglia si sarebbe chiusa anche sulle loro teste. Il Renato Geri (il segretario del PNF di Prunetta ndr) non si stancava di ripetere a destra e a manca: “Mi occorre la casa dei Fischer, ci farò la sede del fascio” e sorvegliava continuamente le nostre donne per ghermirle alla prima occasione“.

Le Fischer, probabilmente disperate, cercarono per salvarsi l’aiuto del maresciallo dei carabinieri di San Marcello P.se Gitto. Secondo Paolo, questi promise che, in cambio dell’acquisto di un paio di scarpe per suo figlio, le avrebbe avvertite nel caso fosse stata organizzata una retata per catturare gli ebrei rifugiati sulla montagna pistoiese attraverso l’invio di una busta bianca priva di contenuto. All’arrivo della “strana missiva” le donne si sarebbero evidentemente dovute nascondere.

Queste, convinte dal Gitto, acquistarono le calzature richieste presso il negozio di proprietà del Bragagnolo situato nel centro di Pistoia. Lo stesso Ernesto dichiarò tristemente a guerra conclusa di avere ancora la partita di questa vendita ancora aperta, dal momento che aveva ceduto le scarpe sulla fiducia e non in cambio di denaro.

Regina

Regina

Il 23 gennaio 1944 Regina, rammenta ancora Paolo, “… Regina sentì con intuito femminile… che la tempesta si addensava, chiese consiglio al maresciallo, ma questi continuò a rassicurarla, continuando che le avrebbe avvertite prima di un eventuale rastrellamento“.

Le fosche previsioni della donna si avverarono nell’arco di pochi giorni. Il 25 gennaio tutte le donne furono arrestate senza che nessuna busta priva di contenuto fosse giunta ad avvertirle della retata. Il maresciallo le aveva quindi tradite. L’unica a salvarsi, almeno momentaneamente, fu Vera, che non venne arrestata solo perché il piccolo Massimiliano era malato. Derubate dei loro pochi averi furono condotte da agenti di Pubblica Sicurezza e quindi da italiani nel carcere di Santa Caterina in Brana a Pistoia e da qui prima a Fossoli e poi ad Auschwitz, dove tutte perirono.

In ricordo di Regina e delle altre alcuni anni fa in Piazza della Sala a Pistoia, laddove nel Medioevo sorgeva il ghetto ebraico, è stata posta una lapide.

Il 31 gennaio i carabinieri con grande freddezza tornarono a Prunetta con l’intento di arrestare Vera e il piccolo Massimiliano ormai guarito. Questi non venne preso solo per la ferma e coraggiosa opposizione di Ernesto Bragagnolo e di sua moglie Margherita Festi, con i quali rimase fino al ritorno di Paolo e Otto dalla prigionia.

Vera venne accompagnata in questura dove “… il commissario De Martino le disse che se voleva partire con i suoi per la Germania poteva andare subito“.

Gli ultimi giorni di Gennaio furono assai cupi per gli ebrei sfollati a Pistoia. La maggior parte degli ottantotto israeliti catturati in provincia di Pistoia fu arrestata dai nazisti in ritirata e dalla polizia locale proprio in questo periodo. Si trattava nella maggior parte di persone, come i Fischer, proveniente da altri paesi e quindi priva di aiuti ed amicizie sul posto o di italiani molto poveri. Nel diario di Nina Molco conservato a Pieve Santo Stefano si legge che “Tutti quelli che erano qui (a Prunetta ndr), e non erano pochi, sono stati presi, meno alcuni, i più abbienti, che sono riusciti a scappare“. Solo in cinque tornarono: Michele Baruch Behor, Isacco Mario Baruch, Matilde Beniacar, Aldo Moscati e Sol Cittone.

Il 4 febbraio 1946 Paolo Fischer denunciò come detto il maresciallo Gitto e il segretario del PFR di Prunetta Geri per l’arresto e lda deportazione dei suoi familiari.

La denuncia non ebbe seguito perché gli imputati, accusati di collaborazionismo, beneficiarono del decreto di amnistia promosso da Togliatti in virtù del quale i giudici dichiararono il non luogo a procedere in quanto il reato era estinto.

Finita la guerra i Bragagnolo tornarono ad abitare a Pistoia nella casa di Via San Martino. Massimiliano rimase con loro. Dopo alcuni anni quest’ultimo andò a vivere a Prunetta con suo zio Paolo.

Solo nel 1951 Otto, il padre di Massimiliano, tornò in Italia dai campi di prigionia. Con suo figlio si stabilì a Torino dove intraprese l’attività di commerciante. Massimiliano si laureò in Economia e Commercio e iniziò l’attività di commercialista che continua ancora oggi.

foto 5Nelle scorse settimane Massimiliano con suo figlio Giorgio Otto e i numerosi nipoti è tornato a Prunetta dove, accolto dalla comunità locale, ha potuto rivedere i luoghi della sua infanzia.

È l’unico testimone di una storia lontana che evidenzia, a distanza di decenni, come, accanto ai molti che si adeguarono alle leggi allora in vigore, altri non chinarono il capo, scegliendo di difendere i valori della giustizia e della libertà.

L’articolo è stato pubblicato sulla rivista “Storia locale” n. 32 e gentilmente concesso dagli Autori.