Idalberto Targioni

Nato nel 1868 e morto nel 1930, Targioni fu contadino, poeta autodidatta, attivista sindacale, militante politico, sindaco, scrittore e studioso, uomo controverso e discusso, spesso al centro di polemiche, sempre in contatto e talvolta in contrasto con altri protagonisti del suo tempo, come il gran maestro del Grande Oriente d’Italia Domizio Torrigiani o come, per vie indirette, Benito Mussolini. Targioni svolse un ruolo rilevante non solo a Lamporecchio, il suo luogo di adozione, nei pressi di Pistoia, ma in tutta l’area del Montalbano e in parte della Toscana e anche altrove, animando la società  e i movimenti contadini prima come socialista e, all’indomani della Grande guerra, come fascista.

Targioni era nato a Firenze il 19 ottobre 1868 (forse «dall’unione clandestina di un principe con una governante della Casa Reale», avrebbe scritto nel 1912) e fu lasciato da ignoti all’Ospedale degli Innocenti di Piazza Santissima Annunziata. Aveva quattro anni quando venne adottato dai coniugi Domenico e Giuditta Capecchi, contadini senza figli residenti nella frazione rurale di San Baronto, a Lamporecchio. Qui, pur costretto alle fatiche dei campi, riuscì ad imparare a leggere grazie alle lezioni offertegli da un prete del luogo. Da autodidatta imparò anche a scrivere e tra gli otto e i dieci anni cominciò persino a improvvisare e abbozzare i primi versi. Coltivò la vena poetica tanto da divenire uno dei più apprezzati e abili stornellatori estemporanei del Pistoiese. Fu operaio ferroviere, poi militare per tre anni prima di tornare al lavoro contadino quando, nel 1895, aderì al partito socialista e avviò un’intensa attività  militante tra i territori di Pistoia, Empoli e la Valdelsa, mostrando una spiccata sensibilità  per le cause di mezzadri e pigionali. I suoi testi poetici intriganti, spesso anticlericali e piccanti lo fecero soprannominare «Diavolo rosso». A seguito dei disordini del 1898, conobbe anche il carcere.

Rimatore in ottava, fu consigliere socialista a Lamporecchio dal 1901 dove operò fianco a fianco col massone democratico Domizio Torrigiani (che nel 1919 avrebbe assunto la carica di Gran maestro del GOI). Eletto segretario della Camera del Lavoro di Pistoia nel 1903, proseguì l’attività poetica (nel 1912 aveva già pubblicato una ventina di opere), iniziò a dedicarsi al giornalismo politico (scrisse per «La Martinella» di Colle Valdelsa, «L’Avvenire» di Pistoia, «Via Nuova» di Empoli e nel 1908 fondò «Il Risveglio del Montalbano») e tenne numerose conferenze e accademie in versi in Toscana, in altre regioni e persino in Svizzera e Francia. Nel 1914 fu eletto sindaco di Lamporecchio, unica amministrazione socialista del circondario di Pistoia.

Lo scoppio della Grande Guerra travolse la vita di Targioni, come quella di milioni di altri uomini, e spezzò in due tronconi la sua vita. Dopo una iniziale fase di opposizione all’intervento nel conflitto, che nel maggio 1915 lo portò all’arresto per l’accusa di aver incitato le manifestazioni antibelliciste  nell’Empolese, dopo l’intervento italiano in guerra di spostò su posizioni interventiste, seguendo la strada percorsa dal suo amico Torrigiani e di molti quadri e dirigenti socialisti come il più celebre Mussolini, fino a giungere a un sostegno esplicito per la guerra, in contrapposizione col neutralismo mantenuto dai socialisti italiani e in stringente contrasto con i suoi scritti e la sua attività  prebellica: una contraddizione che fu segnata anche da interessanti elementi di continuità, mai risolti pienamente come testimoniano i suoi ricchi e generosi scritti pubblici e privati.

Dopo la dopoguerra aderì al fascismo, che in Toscana era particolarmente dinamico e irriducibilmente violento; nel 1921 fondò e divenne segretario del Fascio di Lamporecchio. Trasferì le sue competenze e capacità sulla stampa fascista (scrisse per «Giovinezza», «La Riscossa», «L’Azione fascista», «Battaglia fascista»; fondò «L’Alleanza» e «L’Ordine»); nel 1923 fu nominato segretario dei sindacati fascisti dell’agricoltura della Provincia di Firenze e nel 1924 fu eletto consigliere provinciale fascista. Abbandonata ormai del tutto l’attività  poetica e ritiratosi quasi completamente a vita privata, Targioni morì a Lamporecchio il 25 maggio 1930, lasciando un vuoto che da allora non è mai stato colmato da nessun biografo e depositando una eredità  intellettuale e umana che è in attesa di essere compresa, interrogata, valorizzata.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2017.




Abbasso la guerra, viva la rivoluzione!

Questa breve nota storica comincia da venticinque anni dopo i fatti che ne sono l’oggetto. Frugando fra i documenti del Casellario Politico Centrale del periodo fascista mi capitò di incontrare, ormai diverso tempo fa, il nome di Natalina Barbieri, arrestata a Siena nel 1942 perché in una salumeria, mentre “la proprietaria del negozio affettava il salame, si permise di fare delle odiose e sboccate allusioni dicendo: vorrei affettare la fava di Mussolini”. Frase che – forse la spia fu la salumiera, forse un’altra cliente – le costò la condanna al confino. Nella sua scheda, oltre alle consuete, nelle relazioni del Casellario, notizie denigratorie – vedova di guerra unita more uxorio con un sovversivo, dedita al vino, sboccata – lessi anche che nel 1917, poco prima di venire a trovarsi in stato di vedovanza – il marito sarebbe morto in Albania nel 1918 –, aveva partecipato, a Sinalunga dove era nata nel 1889 e dove allora risiedeva, ad una manifestazione piuttosto burrascosa. Era un indizio che confermava che alcune proteste contro la guerra, di cui si aveva, fino ad allora, soltanto vaga e frammentaria memoria, si arano verificate anche nel territorio senese. Magari in forma meno estesa ed eclatante che in altre zone della Toscana, ma pur sempre significativa.

In seguito, grazie agli studi preparatori della mostra “Fotografi in trincea. La Grande Guerra negli occhi dei soldati senesi” (2016), curata da Gabriele Maccianti, venne individuato, all’Archivio Centrale dello Stato, un fascicolo che ha consentito una ricostruzione finalmente più puntuale e ha innescato la possibilità di altre ricerche negli archivi comunali e giudiziari.

Oggi è dunque possibile raccontare, anche con una certa dovizia di particolari, le manifestazioni che si verificarono in due distinte zone della provincia di Siena, il Chianti (Radda 7 maggio; Gaiole 8 maggio) e la Val di Chiana (Sinalunga 6 gennaio; Montepulciano e Chiusi 6 agosto), nel contesto più ampio di gesti individuali e di parole contro la guerra il cui moltiplicarsi, proprio nel corso del 1917, è attestato dal notevole aumento delle denunce e dei processi contro chi si comportava in modo tale da “deprimere lo spirito pubblico e altrimenti diminuire la resistenza del paese o recar pregiudizio agli interessi connessi con la guerra e con la situazione interna internazionale dello Stato”.

A Sinalunga furono circa trecento le donne e i ragazzi che, dalle campagna circostanti, si diressero in paese aggregando man mano una folla di un migliaio di persone. I carabinieri chiesero rinforzi, ma sorpresi dall’evento di cui non avevano avuto sentore, furono nell’impossibilità di disperdere la manifestazione, durante la quale vennero lanciati sassi che infransero i vetri di alcuni uffici pubblici e delle case del sindaco e di altri amministratori comunali. Meno violenta, ma comunque intensa risultò la protesta di fronte al municipio di Chiusi durante la quale fu deciso di rifiutare il sussidio statale spettante ai parenti dei richiamati, come atto di insubordinazione verso uno strumento che sembrava voler favorire la prosecuzione del conflitto. Alla periferia del centro abitato di Montepulciano furono invece fermate, ma non senza tafferugli, le donne provenienti da Acquaviva e da Abbadia, quest’ultima località già teatro, nell’agosto del 1916, di un assembramento di fronte alla villa di un possidente per chiedere che il prezzo del grano non venisse aumentato, assembramento conclusosi in una sassaiola per l’intervento troppo rude di un fattore verso le manifestanti. Sempre nella zona fra Acquaviva e Abbadia di Montepulciano, nel medesimo periodo venne lanciato un appello clandestino alle famiglie mezzadrili affinché si rifiutassero di seminare il tabacco perché sottraeva terreno e forza lavoro alle colture alimentari tanto più indispensabili nella penuria del tempo di guerra, iniziativa che, accompagnata da due incendi dolosi, preoccupò molto i grandi proprietari terrieri e le autorità.

Chiara è la matrice sociale e di genere di questi sommovimenti, così come confermato anche dagli elenchi degli arrestati, composti per la stragrande maggioranza da nomi di donne, quasi tutte salariate agricole, qualcuna mezzadra, qualche altra “dedita alla casa”. Più difficile dirimere il rapporto fra spontaneità e organizzazione. Indubbiamente i disagi e i lutti causati da un conflitto di cui, nonostante le offerte dei pace degli Imperi Centrali di fine 1916, non si intravedeva il termine, la certezza che ogni giorno in più di combattimenti avrebbe causato chi sa quanti ulteriori morti e feriti, i vuoti affettivi delle assenze, i racconti delle sofferenze, dei rischi, delle insensatezze di tante azioni militari al fronte fatti da quanti tornavano in licenza, ne costituirono la base materiale e psicologica. La sola richiesta di riavere vivi ed integri i mariti, figli, fratelli era di per sé un possente elemento di comunità di intento avverso al conflitto e al suo perdurare, senza il bisogno di troppi indirizzi e indottrinamenti politici. Ma almeno in Val di Chiana – più incerta è la valutazione nel Chianti, dove forse andrebbe studiata con molta attenzione la presenza di un clero orientato dal vescovo di Arezzo che fu, in Toscana, fra i più ostili al conflitto – traspare una regia di matrice socialista.

Traspare nelle convocazioni effettuate non solo con il passaparola, ma anche con i manifesti, traspare nel fatto che l’epicentro del movimento furono le località in cui il socialismo, con le sue strutture organizzate e le sue sedi, era più radicato, traspare in obiettivi quali il rifiuto del sussidio o in parole d’ordine esplicite come quella annotata nella sentenza che condannò le donne di Abbadia di Montepulciano per i fatti del 1916, e cioè “abbasso la guerra, vogliamo la pace, viva la rivoluzione”.

Articolo pubblicato nel settembre del 2017.




Formare le élite: il liceo “N. Forteguerri” di Pistoia in età giolittiana

Le classi liceali,

Le nostre care scuole,

Son umidi locali

Ove non entra il sole,

Ma tutta l’aria è pregna,

In queste tre cantine,

Del fumo della legna,

E odor delle latrine.

 

Così nel 1914 un anonimo – ma certo creativo – studente del “Forteguerri” ricordava la sua scuola, allora ospitata nel palazzo della biblioteca Forteguerriana, ne «L’Assillo», giornaletto goliardico soppresso dopo pochi mesi per gli sberleffi puntualmente destinati a professori e compagni di classe – da M. Rampini a cui si chiedeva di «non assumere pose tragiche quando ripete la lezione» a un certo Tosi di cui era decantata «l’aria a pipistrello».

Fondate nel 1475 sotto l’egida testamentaria del cardinal Niccolò Forteguerri, la Pia Casa della Sapienza e la sua annessa biblioteca – quella che poi sarebbe stata, più tardi, conosciuta con il nome di Forteguerriana – non tardarono ad assumere un ruolo di primo piano nel panorama culturale ed educativo pistoiese. Lo conservarono nei secoli successivi, dedicandosi alla formazione della classe dirigente locale a livello secondario e universitario – le cattedre di Diritto e Medicina sopravvissero fino al 1867, quando il Consiglio comunale fu costretto ad abolirle sotto pressione del Ministro della Pubblica Istruzione. Sussisteva ancora ai primi del Novecento, quando il ginnasio-liceo era ancora l’unica scuola secondaria presente sul territorio: la scuola industriale maschile (l’attuale IPSIA Pacinotti) sarebbe stato fondata nel 1907, l’istituto magistrale nel 1912, l’istituto tecnico industriale e commerciale durante il primo conflitto mondiale, nel 1917. Più che un segnale di disinteresse delle classi governative locali e nazionali per un’istruzione secondaria diversa da quella tradizionalmente largita all’élite, era la constatazione dell’assenza di interesse per un ogni altro tipo di istruzione. Sfavorevoli erano le condizioni sociali, culturali ed economiche del territorio e del panorama lavorativo, caratterizzato da piccole imprese a conduzione familiare dove la specializzazione della manodopera era affidata ai tradizionali canali dell’apprendistato: il deludente risultato raggiunto nei suoi primi decenni di vita dalla Scuola industriale – che, contrastando le iniziali aspettative dei suoi fautori, accolse figli di industriali e non futuri tecnici ed operai – ne era la testimonianza più concreta.

Accessibile dopo il completamento delle scuole elementari e divisa in due corsi – il ginnasio, quinquennale, fondato soprattutto sull’insegnamento della grammatica italiana, latina e greca (quest’ultima però solo nei due anni finali); e il liceo, triennale, focalizzato invece sullo studio della letteratura italiana e classica, la scuola era destinata non solo a chi intendeva proseguire verso l’istruzione universitaria, ma anche verso chi, dotato di più modeste risorse, ambiva dopo la licenza ginnasiale (o liceale) a un impiego nell’amministrazione.

Nemmeno il liceo tuttavia godette di buona salute nei primi anni del Novecento. Dal 1900 al 1915 le iscrizioni passarono da 125 a 91, e fu soprattutto il ginnasio – ovvero il ramo tradizionalmente più frequentato – a soffrirne. Non fu una peculiarità cittadina: la sua crisi di iscrizioni s’inserì in un più vasto moto di stagnazione nazionale, che, contemporaneo all’espansione dell’istruzione post-elementare e soprattutto di quella tecnica, evidenzia come la medio-bassa borghesia, incline fino alla fine del secolo a inviare i propri figli al ginnasio, nel secolo successivo intravvedesse nelle scuole tecniche e negli istituti tecnici una più redditizia opportunità di formazione. A Pistoia, dove l’istituto tecnico sarebbe comparso solo verso la fine della prima guerra mondiale, questa funzione fu probabilmente rivestita dalla Regia Scuola industriale.

Il declino quantitativo non significò tuttavia un ridimensionamento culturale del liceo. Diversi suoi docenti ricoprirono posizioni di un certo rilievo in età liberale e negli anni a venire: Alfredo Chiti, docente del ginnasio e segretario dal 1899 della neonata “Deputazione di storia patria”, divenne un importante studioso del Risorgimento pistoiese e curò fino alla morte la rivista «Bullettino storico pistoiese»; Michele Losacco, professore di lettere al liceo, era un collaboratore di “Nuovi Doveri”, rivista di pedagogia fondata da Gentile e Lombardo-Radice; Carlo Villani, insegnante di latino e greco, durante il ventennio sarebbe diventato localmente famoso per la direzione del settimanale clerical-fascista «L’Alfiere».

Articolo pubblicato nel luglio del 2017.




Mons. Giovanni Sismondo (1879-1957)

Nato a Brusasco (TO) da una famiglia di contadini, ordinato sacerdote nel 1905 a Casale Monferrato, Giovanni Sismondo è Vescovo di Pontremoli fra il 1930 e il 1954 e svolge un ruolo determinante nella città e nella diocesi.

Dopo l’8 settembre 1943 alla sua attività pastorale e affianca quella di infaticabile mediatore tra le parti in conflitto, sempre al fianco dei più deboli e bisognosi, non manca mai di schierarsi dalla parte dei prigionieri e dei condannati dal regime fascista e dal comando tedesco e non fa mai mancare una parola di conforto alle vittime.

mons_Sismondo_1Già il 21 settembre, non manca di esprimere la sua protesta per l’occupazione da parte dei tedeschi del Seminario vescovile, che diverrà poi la sede dei fascisti del battaglione S. Marco: la X Mas che nei mesi successivi utilizzerà quei locali anche per la detenzione di prigionieri spesso picchiati e torturati prima dell’esecuzione.
Porta il proprio conforto alle famiglie delle vittime ed offre sostegno morale come nel caso dei giovani catturati a Bagnone, sul Monte Barca, imprigionati e torturati dai fascisti in Seminario e poi fucilati a Valmozzola (PR) il 17 marzo 1944.
Mette i locali della diocesi di Pontremoli, l’orfanotrofio Leone XIII, il Galli Bonaventuri e l’istituto Cabrini a disposizione degli sfollati, soprattutto massesi.
Entra in contatto con il maggiore inglese Gordon Lett comandante del Battaglione Internazionale che combatte nelle vallate di Zeri e Pontremoli ed attraverso di lui ottiene che il minacciato bombardamento su Pontremoli della primavera del 1945 venga evitato.
Il vescovo protesta più volte contro le azioni di violenza, contro i rastrellamenti, contro le uccisioni e diviene un riferimento per tutti: prefetto, comando tedesco (che dal settembre 1944 con lo sfollamento di Massa era stato trasferito a Pontremoli), partigiani.
E così, salendo fino a Zeri, organizza scambi di prigionieri che contribuiscono a salvare molte vite umane.

Nell’imminenza dell’arrivo degli Alleati tra il 25 e il 27 aprile 1945, è ancora lui determinante: quando i partigiani intimano ai tedeschi la resa che viene rifiutata, egli invia una staffetta al comandante della “Beretta” invitandolo a non scendere a Pontremoli per evitare un inutile strage perché le pattuglie partigiane ben poco avrebbero potuto contro duemila tedeschi ben armati, disposti ormai a tutto.
Negli ultimi concitati giorni riesce a rintracciare, nascosti nella valle del Verde a nord di Pontremoli, due militari tedeschi disertori e recandosi di persona da loro si fa rilasciare una dichiarazione senza la quale i tedeschi avrebbero distrutto la città già in parte minata.
Il comandante tedesco, Bernard Kreussig, riconosce in lui un’autorità e un interlocutore e prima di lasciare Pontremoli, consegna al Vescovo quanto è custodito nei magazzini dei viveri e del vestiario per i poveri della città.

Alla fine della guerra Mons. Sismondo, a seguito delle dimissioni di Mons. Terzi, per un certo periodo regge anche la diocesi di Massa.
Nel 1948 gli viene assegnata la Medaglia d’Argento al Merito Civile.

Articolo pubblicato nel marzo del 2017.




Le industrie di Colle Val d’Elsa tra Ottocento e Novecento

Pur essendo al centro di un’area a vocazione agricola, la città di Colle Val d’Elsa, posta nel nord della campagana senese, tra Otto e Novecento si presentava come una realtà industriale ormai talmente solida da essere denominata la Biella di Toscana. Un censimento effettuato nel 1927 ci dice che, pur avendo vissuto lo shock della Grande Guerra, a quell’epoca erano ancora attive in città 350 ditte, per la maggior parte piccoli artigiani e commercianti, ma tra queste si trovavano anche quarantotto industrie, delle quali ben ventisette definite grandi e ventuno minori; un numero di tutto rispetto.

Ma come era stato possibile uno sviluppo del genere? I fattori furono fondamentalmente tre: la presenza di un microtessuto di artigiani, imprenditori e maestranze specializzate attive fin dal medioevo (realtà legata alla produzione della carta), la favorevole posizione viaria, posta sulla strada volterrana e a ridosso dell’asse viario Firenze-Siena e infine, ultima ma fondamentale, la presenza di risorse naturali a buon mercato come le acque del fiume Elsa (da secoli regimate per permetterne lo sfruttamento manifatturiero a mezzo canali -le gore-), il legname della Montagnola e delle Colline Metallifere, nonché un certa potenzialità mineraria.
Lo sviluppo industriale decollò definitivamente nel XIX secolo con la nascita della prima vetreria della città, fondata dal francese Françoise Mathis nel 1820 e della ferriera impiantata dal savoiardo Stefano Masson nel 1863, realtà accanto alle quali si era conservata attiva l’industria cartiera e si erano sviluppati altri comparti come quello della ceramica.
L’esplosione della seconda rivoluzione industriale a Colle Val d’Elsa, legata anche ad una certa lungimiranza da parte delle amministrazioni comunali dell’epoca, portò ad un deciso incremento del tessuto imprenditoriale, sviluppo, quest’ultimo, parzialmente fondato sulla scommessa, da parte degli investitori, della costruzione di un nuovo ramo della strada ferrata, ossia la tratta Poggibonsi, Colle Val d’Elsa, Saline di Volterra, Cecina.

Come è noto la ferrovia per il mare non venne mai ultimata, tuttavia lo sviluppo industriale della città valdelsana, tra alti e bassi, continuò a fare il suo corso portando, da un lato ricchezza e sviluppo ma dall’altro un brutale sfruttamento nei confronti della manodopera; le condizioni di miseria di quest’ultima generarono varie forme di protesta, come agitazioni e scontri e scontri di piazza, ma dettero un segnale ancora più forte quando nel 1897 portarono a sedere sullo scranno di sindaco il pittore socialista Antonio Salvetti, uno dei primi sostenitori di questo forza politica ad occupare tale carica nel nostro Paese.

Schizzo della città di Colle val d'Elsa

Schizzo della città di Colle val d’Elsa

Va detto infine che dopo il vertiginoso aumento di popolazione degli ultimi trent’anni dell’Ottocento (il periodo in cui il ministro Luzzatti aveva definito la cittadina valdelsana la Biella di Toscana), dovuto alle iniziative imprenditoriali richiamate poco sopra, nel ventennio successivo il numero degli abitanti di Colle Val d’Elsa rimase sostanzialmente stabile (eccettuati due sensibili shock, uno nel 1901, probabile conseguenza della crisi della ferriera, destinata a chiudere di lì a poco, e un secondo negli anni della Grande Guerra) segnando un modesto incremento, costante, dovuto al saldo attivo delle nascite rispetto ai decessi.

Del tutto ininfluente era il flusso migratorio, composto in massima parte dal tradizionale spostamento da e verso i territori dei comuni vicini delle famiglie mezzadrili e in parte marginale da lavoratori del mondo industriale e manifatturiero (vetrai, operai metallurgici, cartai, ceramisti e calzolai) che si spostavano in altri distretti produttivi (Murano, Pozzolo Formicaro, Milano, Genova, Terni, Livorno, Empoli) per periodi di tempo spesso limitati, facendo, nella maggior parte dei casi, ritorno al paese natale dopo pochi anni.
I residenti del comune valdelsano, in questo periodo superavano di poco le diecimila unità, equamente ripartite tra abitanti della campagna e borghigiani; buona parte di questi ultimi si guadagnavano da vivere nelle industrie e nei laboratori manifatturieri ad esse connessi.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2017.




La tubercolosi a Siena fra XIX e XX secolo

Tra le gravi patologie infettive che colpivano gli abitanti della città di Siena, tra la fine dell’ ‘800 ed i primi del ‘900, quella più letale fu senz’altro la tubercolosi.

Particolarmente falcidiato era il proletariato urbano, composto soprattutto da operai e artigiani, anche se il morbo colpiva in percentuali non irrilevanti anche le classi più abbienti.
Le zone più esposte all’infezione erano i quartieri popolari fatiscenti e sovraffollati nonché le aree manifatturiere caratterizzate dalla presenza di numerosi magazzini umidi e malsani; man mano che ci si spostava verso le zone più aperte del suburbio o verso i quartieri ricchi, il numero dei contagiati diminuiva gradualmente.
Maglia nera, in questa poco invidiabile classifica del dolore, spettava alle zone più miserabili e sovraffollate come Salicotto, i Pispini, i Servi, Malborghetto, Castelvecchio, Vallepiatta, Fontebranda, Vallerozzi e la contrada del Bruco.

La prima a tentare un pur parziale intervento contro questo atavico problema fu, a fine ‘800, l’Associazione dei bambini poveri scrofolosi, la quale offriva un certo numero di soggiorni marittimi presso Talamone a dei bambini della città affetti da tubercolosi linfatica. Nel 1898 nacque in città il “Comitato Antitubercolare”, istituzione tra le prime in Italia, sorta per affrontare il problema con determinazione, ma quest’ultima, a causa degli scarsi mezzi, si limitò ai buoni propositi.
Sempre un impatto limitato ebbe la costituzione di un reparto di isolamento all’ospedale S. Maria della Scala: tale sezione risultò immediatamente troppo piccola per il fabbisogno effettivo, ma anche i pregiudizi delle famiglie degli ammalati giocarono un ruolo decisivo: il ricovero in isolamento era visto come l’anticamera della morte e quindi evitato nel modo più radicale contribuendo ad azzerare l’efficacia del provvedimento.

Lo scoppio della prima guerra mondiale aumentò in modo consistente la diffusione del morbo: soltanto nel 1917, a Siena, i decessi certificati per tubercolosi aumentarono del 41,5% rispetto alla media del triennio 1912-1914.
Di fronte a questi dati, assai simili su buona parte del territorio nazionale, il Governo e le gerarchie militari, a partire dal 1917, misero in cantiere provvedimenti meno duri nei confronti dei combattenti e della popolazione civile.
Nacque pertanto l’Opera nazionale per la Protezione e l’Assistenza degli Invalidi di Guerra, vennero approvati dei decreti sulle pensioni per le malattie derivanti da cause belliche, si stabilì che coloro che avevano contratto la tubercolosi nell’esercito fossero ricoverati a carico dello Stato e ricevessero un sussidio.

Il problema venne tuttavia affrontato in modo incisivo soltanto a partire dal 1919, quando una nuova normativa gettò le basi per la creazione di una rete di istituti di profilassi antitubercolare; proprio in virtù di questa normativa nacque a Siena l’Associazione Senese Antitubercolare, la quale poteva contare su quattro medici, un assistente radiologo, due segretarie, cinque dame visitatrici ed una infermiera delegate queste ultime a ‘dare la caccia’ ai malati per la città.
Nel primo anno di attività, l’Associazione effettuò 63 visite e 26 richiami, eseguì 32 esami di laboratorio e accertò 15 casi di malattia: era l’inizio. Nel 1920 venne aperto un piccolo dispensario, nella cripta della chiesa di S. Sebastiano, nel Fosso di S. Ansano.
Già nel 1920 gli accertamenti diagnostici, compresi quelli di richiamo, salirono a 776 (casi accertati 50), per arrivare a 1.092 tre anni dopo (casi accertati 71) e a 2.285 nel 1930 (casi accertati 125). In queste cifre rientravano anche le 898 prestazioni – visite, terapie, distribuzione di medicinali, promozione di pratiche per la pensione di guerra – fornite ai 178 militari senesi riconosciuti invalidi per tare tubercolari.

Ormai la strada era segnata: la successiva nascita di strutture sanitarie sempre più idonee e la riqualificazione edilizia delle zone degradate della città, intrapresa durante il ventennio fascista, portò, nei decenni successivi, alla progressiva scomparsa della malattia all’interno delle mura di Siena.

Il quartiere Salicotto dopo il "risanamento" compiuto nel 1928-1933. Voluto anche per ridurre il sovrappopolamento e diradare i focolai di tubercolosi.

Il quartiere Salicotto dopo il “risanamento” compiuto nel 1928-1933. Voluto anche per ridurre il sovrappopolamento e diradare i focolai di tubercolosi.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2016.




Terra e Lavoro

La nascita della prima organizzazione sindacale dei lavoratori della terra d’ispirazione socialista fu di difficile gestazione. Il periodico locale del partito, L’Avvenire, che fiancheggiava anche l’attività della neonata Camera del lavoro, fin dal 1902 tenne un’intensa campagna rivolta in particolare ai contadini mezzadri e fittavoli, ma senza risultati. Un’azione che nell’estate del 1906 si andò intensificando ed entrò in polemica con il giornale dei cattolici, La difesa religiosa e sociale, impegnati a loro volta nella costituzione delle leghe “bianche”. Tuttavia i tempi stavano maturando e verso la fine dell’autunno del 1906 nel paese di Ramini i contadini si resero disponibili a costituire una Lega. Nel gennaio del 1907 era già ben avviata ed alle riunioni partecipavano anche lavoratori di altre zone come Collina, Casale (o Casalguidi), Sant’Alessio. Nel giro di pochi mesi erano già costitute leghe anche nei paesi limitrofi di Casale, Cantagrillo, Masiano, ed in quelli sul lato opposto della piana di Sant’Alessio e  Valdibrana. A Vinacciano la lega nacque al termine di un comizio – secondo un tipico modus operandi – durante il quale si era verificato un contraddittorio tra i sindacalisti e il sindaco di Serravalle Pistoiese, che tentò di far interrompere l’adunata.

unspecified2Nel 1907 batteva le campagne Giovanni Martini, sempre presente come oratore in tutti i paesi in cui si costituirono le leghe ed anche in quelli dove l’organizzazione non riuscì a radicarsi, come Montale, in mano ai cattolici. Il suo Vademecum del contadino toscano si apriva con l’affermazione: «la scintilla della ribellione è finalmente penetrata». L’opuscolo conteneva le norme interne del sindacato ed elencava gli obiettivi rivendicativi, in primis il miglioramento dei contratti di mezzadria e affitto e la difesa  dei braccianti, che dovevano essere pagati in denaro e non in natura, ma anche l’istituzione di un ufficio di consulenza, di magazzini sociali dove comperare semi, attrezzi, concimi, solfato di rame ecc… e magazzini di deposito per i prodotti di parte contadina. Del sindacato potevano far parte i braccianti, i mezzadri, gli affittuari e come soci aggregati anche i coltivatori diretti. Il risultato di questo movimento, che più che in scioperi si risolse nella nascita e organizzazione delle leghe, fu un’immediata risposta padronale. Nel marzo 1907 questi costituirono una propria associazione con l’obbiettivo di riaffermare il patto mezzadrile, introducendo alcuni cambiamenti per sottrarre terreno ai socialisti attraverso un cauto riformismo.
Si assistette così nella primavera ad un confronto a distanza tra le proposte dei proprietari e quelle delle leghe, che non sfociò mai in un tavolo di trattativa. La prima mossa la fece il fronte padronale, appoggiato dalla Lega democratico nazionale – d’ispirazione cattolica –presentando nel maggio le norme per un nuovo patto colonico per fittavoli e mezzadri. La CdL le respinse, irridendone i contenuti limitati mentre lasciavano inalterati altri aspetti palesemente sproporzionati a favore del padrone, negando che si trattasse di una reale riforma. Soprattutto l’attacco investì il metodo, rendendo evidente che in gioco c’era anche il futuro delle relazioni sindacali e più in generale della democrazia. L’Avvenire commentava infatti la “comunicazione” del patto senza mezzi termini: «Non avendo poi interpellato la Camera del Lavoro e le leghe dei contadini,[l’associazione dei proprietari] ha voluto escludere ogni diritto di ingerenza nelle loro vedute e di discussione dei loro deliberati alla classe dei contadini: ha voluto sottrarsi al controllo dell’organizzazione lasciando arbitri i proprietari di fare ciò che desiderano». Al progetto dei proprietari le leghe risposero con una mobilitazione e con una propria proposta, entrambe fatte partire da Ramini.

Il 12 maggio nel paese si tenne un comizio, con la partecipazione delle leghe dei paesi vicini di Vinacciano, Masiano, Cantagrillo e Casale, al termine del quale fu approvata una piattaforma con una serie di richieste di cambiamento del patto colonico, che rientrava nel solco delle tipiche rivendicazioni mezzadrili d’inizio ‘900, senza discostarsi dall’approccio riformistico mirante ad ottenere miglioramenti immediatamente godibili e verificabili. Che in quel momento la dirigenza del movimento sindacale socialista dei contadini a Pistoia fosse in mano ai riformisti è testimoniato anche da un altro fatto. Nelle zone di Gabbiano, Vinacciano e Collina alcuni contadini avrebbero voluto dare un colpo di acceleratore alla protesta, abbandonando le necessarie operazioni di ramatura delle piante e alzando il livello delle richieste, ma vennero convinti a desistere, a non precipitare gli eventi e ad attendere con pazienza gli sviluppi della situazione. La linea era quella della trattativa, dura ma proiettata verso un esito che si riteneva fattibile, come nel caso della mobilitazione – portata ad esempio – di una quarantina di braccianti che, entrati in sciopero, riuscirono a chiuderlo positivamente. Probabilmente i dirigenti erano anche dell’idea che il movimento mezzadrile non fosse ancora abbastanza forte da sostenere l’organizzazione di uno sciopero e il suo impatto, e scelsero una linea mobilitativa basata su manifestazioni meno impegnative, ma capaci di essere portate a termine da un’organizzazione giovane e debole.
unspecified3Non a caso il passo successivo non fu il lancio di uno sciopero per ottenere l’accettazione del memoriale di Ramini, ma l’organizzazione di una manifestazione nella forma del comizio. Si tenne il 30 maggio al Politeama Mabellini di Pistoia, con l’intervento di tutte le leghe contadine e l’invito a partecipare anche ai contadini non organizzati. Per L’Avvenire alla manifestazione parteciparono circa 1.000 persone. Alla fine fu approvato un OdG che dava mandato ai Consigli delle leghe di eleggere una Commissione che insieme alla Commissione esecutiva della CdL predisponesse una piattaforma da discutere poi con i singoli proprietari. Questo primo confronto tra le organizzazioni padronali e le neonate strutture sindacali contadine dei socialisti restò confinato al dibattito pubblico, non verificandosi atti di scontro più rilevanti da ambo le parti, e cioè senza disdette ai contadini da parte dei concedenti e senza scioperi. Non ci furono nemmeno risultati apprezzabili, rimanendo di fatto lettera morta i due progetti di riforma, senza nessun confronto o accordo tra le parti, che continuavano a confrontarsi a distanza. Anche gli organi dello Stato restarono a guardare, mentre le amministrazioni locali, guidate da ceti legati alla proprietà agricola, non intervennero nel merito. In pratica l’applicazione dell’uno o dell’altro progetto di riforma veniva lasciata al confronto diretto tra singoli proprietari e contadini, e non ci fu nemmeno per questa via nessun accordo di rilievo. La questione però era posta, e continuò a tener vivo il dibattito e una certa agitazione tra i contadini anche negli anni immediatamente successivi.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers; La mezzadria nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2016.




Bisenzio

Fino a quando, a seguito della smobilitazione dei Lanifici negli anni Cinquanta, l’arrivo dei carbonizzi e delle tintorie non iniziò a inquinare le acque limpide del fiume, il Bisenzio non era solo un corso d’acqua sulle cui sponde erano nate le principali industrie del pratese.

Era il palcoscenico dei divertimenti estivi di tutti i ragazzi che trascorrevano ore nelle pozze d’acqua create dalle pescaie o nei canali delle gore; era una fonte di alimento e guadagno, attraverso la pesca e il duro lavoro dei renaioli; era il luogo dove le donne, chine sui sassi, lavavano panni e indumenti.

Proprio le testimonianze dei ragazzi d’allora, raccolte con cura dal Centro di Documentazione Storica della val di Bisenzio negli ultimi trent’anni, permettono di rievocare con vivacità i mille legami intessuti tra la gente del posto e un corso d’acqua: uno scambio continuo e infinito, dove ogni singola risorsa offerta dal fiume era sfruttata o piegata ai bisogni primari e secondari della comunità.

E sicuramente l’aspetto ludico era tra i bisogni secondari pienamente soddisfatti dal fiume: tutti i ragazzi, dal più piccolo al più grande, sapevano nuotare con sicurezza: prima nelle piccole pozze confortati dagli alti massi che fuoriuscivano dall’acqua, per poi affrontare le varie pescaie che accompagnavano il corso del Bisenzio, mentre nelle gore si facevano gare di nuoto per varie categorie d’età, a eliminazione, perché più che due per volta non si poteva gareggiare per lo stretto margine delle due sponde.

Nella vita sociale prima della Seconda guerra mondiale il Bisenzio era ancora l’ambiente deputato al benessere e alle attività fisiche dei bambini: in epoca fascista, infatti, le principali colonie elioterapiche erano dislocate lungo il fiume, e l’aria fresca del Bisenzio accompagnava i disciplinati bagni di sole e di fiume, i saggi ginnici e i giochi.

Tra fabbrica e fabbrica, tra pescaia e pescaia, il fiume era pulito, trasparente. La buona qualità delle acque permetteva anche la presenza di pesci delle più varie specie -broccioli, lasche, codinelle, barbi, boghe, anguille- da catturare con peculiari specializzazioni: con le mani e le forchette; in apnea frugando tra gli scogli; con l’amo e il tramaglio (una rete alta e lunga); “a rintrono”, facendo uscire storditi i pesci da un anfratto dove era stato scagliato un sasso sopra l’altro; a “frugnolo”, dove, nelle ore notturne, a lume di carburo con un retino piccolo si illuminavano i pesci che rimanevano fermi, o ancora “a corda”, con cordicelle che facevano girare i fusi delle filande presi in filatura. Molti di questi sistemi erano proibiti dalla legge e non passava settimana, nel periodo dalla fine di marzo a ottobre, che non ci fosse qualche inseguimento da parte della Guardia Forestale e dei Carabinieri. Pochissimi avevano la licenza di pesca e quasi tutti rischiavano: alcuni lo vendevano, arrotondando la paga della fabbrica, ma per la maggior parte dei pescatori di frodo il pesce era una delle basi dell’alimentazione. Il ristorante “Il Bongino” presso La Tignamica (Vaiano) si era specializzato nella frittura di pesciolini di Bisenzio e il lunedì -quando a Prato chiudevano i negozi e le attività- molti cittadini si riversavano sulle sponde del fiume a pescare per poi pranzare alla celebre locanda.

4-giovani-donne-a-lavare-panni-e-indumenti-nel-bisenzioAltra fonte di guadagno era costituita dalla rena, creatasi dall’arrotatura della pietra arenaria prodottasi nel fiume durante le piene, scavata e raccolta con fatica dai renaioli nei vari posti di prelievo autorizzati. Nella maggior parte dei casi i renaioli erano anziani che conoscevano bene il fiume e sapevano dove scavare il greto; per arnesi avevano un picco, un badile e una rete metallica inchiodata ad un telaio in legno rettangolare” strumentale alla divisione tra ghiaia e rena, venduta poi ai muratori come collante per la calce e il cemento.

Le rischiose inondazioni del Bisenzio, che più di una volta avevano travolto uomini e animali (come il direttore dello stabilimento Sbraci Godi Noris nel 1932) ed erano state indagate dai più illustri fisici e ingegneri (come Galileo Galilei nel 1631) erano ancora una volta sfruttate a fini economici: oltre alla rena, la piena era attesa per i pezzi di indumenti (rivenduti agli stracciaioli) e le tavole di legno (utilizzate per scaldarsi) che la furia delle acque portava a valle, ripescate con rudimentali ganci attaccati ad aste lunghe anche dieci metri.

Ad utilizzare il fiume principalmente per lavare erano ovviamente le donne, e per alcune “fare la lavandaia in Bisenzio” era un’occupazione professionale. Il lavoro era particolarmente duro: nella Val di Bisenzio quasi tutte le donne erano operaie nelle numerose fabbriche e, uscite dal turno, ad ogni stagione si dirigevano con i panni sporchi sugli argini del fiume, in ginocchio sui sassi. Ambiti ma rari erano i pozzi o le gore che talvolta si trovano lungo i fossi dei vari paesi.

Come un piccolo mare, il Bisenzio tra le due guerre era l’elemento principe nella vita delle varie comunità dislocate lungo il fiume: un ecosistema di relazioni e affetti, di svaghi e preoccupazioni, di lavoro e sostentamento.

Articolo pubblicato nell’ottobre del 2016.