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Ricostruire. Dalle pratiche di cura all’agire politico: donne del dopoguerra (1946-1955)

“Sento ancora dentro, impressa per sempre, la gioia del primo 8 marzo che festeggiammo in campagna, con tutte le altre.
Partecipavamo agli infuocati ed interminabili dibattiti del PCI. Eravamo giovani, ma avevamo tanto entusiasmo e senso di responsabilità.
Venivamo dalla Resistenza, avevamo visto gli orrori della guerra e volevamo un mondo migliore.”
[Didala Ghilarducci in occasione della morte dell’amica Wanda Breschi, «Il Tirreno», Viareggio 3 gennaio 2007.]

Negli anni del secondo conflitto mondiale in Italia, quando lo stravolgimento sociale divenne insostenibile, le donne si fecero perno e collante di ciò che restava del nucleo familiare, continuando a svolgere i compiti di cura ai quali erano state designate, lavorarono nelle fabbriche, nei servizi pubblici, si fecero staffette senza indugio, nonostante i rischi e i molti pericoli.

Dopo anni di dittatura e guerra, furono protagoniste prima silenziose e poi appassionate dell’alba democratica, in un mondo ormai caratterizzato dalla distruzione, morale e materiale. Ma proprio in quegli anni cruciali in cui vennero decisi i criteri dello sviluppo economico e la ricostruzione del paese, che tipo di scelta compirono quelle donne che con il voto erano ormai cittadine a pieno titolo?

Queste le premesse che hanno dato vita a Ricostruire. Dalle pratiche di cura all’agire politico: donne del dopoguerra (1946-1955), il volume di Alessandra Fulvia Celi e Simonetta Simonetti in uscita nella collana Quaderni della Commissione Regionale per le Pari Opportunità della Toscana. “Ricostruire”, perché l’Italia era un paese annientato nelle sue strutture tangibili, ma anche nel tessuto relazionale. Moltissimi gli orfani che vivevano per strada, i profughi, i reduci esausti. Le prime donne che si impegnarono nella ricostruzione furono quelle che erano uscite dall’azione partigiana o dalla militanza cattolica. Ma a queste pioniere tante altre si unirono, spesso agendo dalle associazioni, che divennero luoghi di crescita e formazione: le donne che provenivano da piccole realtà furono spronate alla lettura, perché alcune erano digiune su argomenti quali i diritti e il significato di essere cittadine. Tante, dopo l’associazionismo, entrarono in politica, arricchite dell’esperienza di condivisione di ideali e obiettivi con le compagne. Le cattoliche, le partigiane, le donne dell’UDI, quelle del CIF in un primo momento unirono le forze e riorganizzarono scuole, asili, mense, punti di riferimento per gli sbandati e per le famiglie che cercavano di ripensare a una normalità.

Celi e Simonetti, con un vasto lavoro di ricerca negli archivi (Prefettura; Archivio del Partito comunista italiano; archivi nazionali e locali di UDI e CIF; archivi storici comunali) nonché presso l’archivio privato di Maria Eletta Martini, e ancora attraverso interviste e raccolta di materiale iconografico, hanno tratteggiato in modo incisivo le storie di donne delle province toscane e ne hanno raccolto le preziose testimonianze.
Le realtà locali, quindi, appaiono come un laboratorio di verifica, spesso di criticità, delle strategie decise a livello nazionale da associazioni e partiti ed emerge chiaramente quanto fossero diversi gli approcci, ma comuni gli obiettivi, nelle diverse zone della nostra regione. Nei territori di montagna, ad esempio, le associazioni si impegnarono in diverse campagne che consistevano nel dare possibilità ai bambini orfani o che vivevano in estrema povertà, di passare l’inverno presso famiglie che avevano mezzi sufficienti. Questo tipo di esperienza, come molte altre di tipo assistenziale, era percepita dalle donne come urgentissima, «Erano le cose spicciole che necessitavano: cibo e vestiti e riparo per vivere, e noi riuscivamo, attraverso le nostre reti, a procurarli».

I partiti, invece, sembravano non andare al cuore del problema, «Dovevamo sensibilizzare prima gli uomini […]. Incontravamo resistenze che venivano dai compagni. Gli asili nido, la maternità, erano argomenti che loro ritenevano di poca importanza. Da lì discussioni a non finire e, naturalmente, ciò significava arrestare o almeno rallentare il nostro lavoro».
Il paese aveva grande bisogno di cambiare il modo di fare assistenza e concepire un moderno Stato sociale. All’indomani della pace, invece, era fermo alle riforme tentate dal passato regime. L’infanzia, ad esempio, veniva per lo più gestita dall’OMNI o dagli istituti religiosi, ma le donne combatterono affinché l’assistenza sociale divenisse un’attività democratica e lo fecero attraverso le associazioni e la politica.

Molte furono le delusioni: la passione si scontrò, nella pratica dell’agire politico, con modelli culturali radicati e rigidi. I compagni uomini non si dimostravano del tutto convinti della presenza femminile nelle file dei partiti: persino all’interno della Costituente, le donne trovarono ostacoli e ostilità da parte di alcuni. Mancavano prove concrete di fiducia, eppure molte di loro avevano partecipato attivamente alla Liberazione. «Credo proprio di interpretare il pensiero di tutte noi consultrici invitando a considerarci non come rappresentanti del solito sesso debole […] ma pregandovi di valutarci come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire, che ha lavorato con voi, con voi ha sofferto, ha resistito, ha combattuto, con voi ha vinto con armi talvolta diverse, ma talvolta simili alle vostre e che ora con voi lotta per una democrazia che sia libertà politica e giustizia sociale».

Celi e Simonetti delineano con grande cura la realtà contraddittoria e dura nella quale dovettero muoversi le donne impegnate in politica e nelle associazioni negli anni del dopoguerra e negli anni Cinquanta. Ma dal loro lavoro emerge soprattutto la grande passione, la dedizione, la consapevolezza e la forza che ha dato vita alle grandi battaglie delle donne italiane.




Ebrei in Toscana XX-XXI secolo

Ebrei in Toscana XX-XXI secolo è il titolo di una Mostra tutta concentrata sull’età contemporanea. Perché questa scelta? Le ragioni sono molte e di diversa origine. Intanto perché è il periodo più vicino, quello che storicamente ci coinvolge di più. Ma, e non secondariamente, perché sentiamo il bisogno di ampliare sia la possibilità di una conoscenza più articolata cronologicamente che quella di affrontare questo tema per un pubblico non solo specializzato. L’idea è quella di analizzare la storia della comunità ebraica, così importante per la nostra regione e non solo, focalizzando l’attenzione su quegli avvenimenti più direttamente coinvolti, nel bene e nel male, con il nostro presente. Tale necessità si è particolarmente fatta urgente perché a partire dalla Legge sulla Memoria, istituita nel 2000, la vicenda ebraica toscana e nazionale è stata in qualche modo risucchiata e appiattita sulla tematica delle leggi razziali, della persecuzione e della deportazione. Ci sembra giusto ed opportuno uscire da quel periodo e narrare la storia di una minoranza in un quadro più articolato, più complesso di avvenimenti, un quadro capace di ridare evidenza alle caratteristiche sociali, culturali, politiche di questo gruppo. Evidenziare la loro capacità di collocarsi dentro il panorama delle idee non solo nazionali ma anche internazionali, di partecipare al farsi del destino politico e morale del paese.

famiglia Castelli con figli e nipoti1

La famiglia Castelli con figli e nipoti (Fonte: Archivio privato famiglia Castelli)

L’idea progettuale nasce all’interno di un Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea, quello di Livorno, l’ultimo nato nella rete degli istituti regionali. Può darsi che ad un osservatore esterno questa appaia anche come una decisione piena di arroganza. Noi pensiamo di no. Forti della nostra esperienza di gestione, nella città di Livorno, della grande Mostra della Fondazione Gramsci di Roma su: Avanti popolo. Il Pci nella storia d’Italia. Forti dell’esperienza dell’allestimento della Mostra sui manifesti politici: Rosso creativo. Oriano Niccolai 50 anni di manifesti, abbiamo deciso di affrontare una nuova sfida. L’idea che soggiaceva a questa nostra intenzione poi concretizzatesi era che gli Istituti come il nostro sono a pari dignità di altri enti culturali, sia pubblici che privati, soggetti produttori di cultura, e anche di cultura alta.

L’idea però è divenuta realtà concreta perché si è incontrata con la sensibilità della Regione Toscana che ha accolto il nostro progetto e l’ha sostenuto con generosità sia finanziaria che collaborativa, sia da parte della Presidenza, sia da parte dell’Assessorato alla Cultura. Non solo, durante tutto il periodo di realizzazione abbiamo sempre avuto al nostro fianco gli uffici della Cultura della Regione, in particolare, Massimo Cervelli, Claudia De Venuto, Floriana Pagano, Elena Pianea e Michela Toni e l’appoggio morale e intellettuale di una figura fondamentale per le politiche della Memoria, Ugo Caffaz. E dall’inizio abbiamo avuto a fianco le competenze della Scuola Normale Superiore di Pisa.

Il tema della Mostra si è fatto strada in noi anche perché la città di Livorno era ed è una delle sedi più significative della presenza ebraica in Italia e il nostro Istituto, sin dal suo nascere, ha collaborato e collabora con la Comunità ebraica locale. Questa stessa vicinanza amplia il bisogno di raccontare una memoria dentro la cornice vasta della storia novecentesca, dare la possibilità ai cittadini tutti e in particolare ai giovani, di approfondire i motivi che conducono alla tragedia della Shoah ma anche di raccontare come si esce da quella esperienza e come ci si ricostruttura, sia come comunità, che come singoli.  Il momento in cui comincia a prendere forma questa proposta, non era un momento ancora così tragico come quello che stiamo adesso vivendo. Se ne vedevano però tutte le avvisaglie all’orizzonte. Forse tutti ricordano l’uccisione di tre bambini davanti ad una scuola ebraica di Tolosa, nel marzo del 2012.

Eravamo consapevoli poi che il gruppo di lavoro che avremmo messo insieme avrebbe avuto a sostegno una ricca bibliografia frutto di lavori ultradecennali particolarmente vivaci, come quelli promossi dalla stessa regione Toscana sotto la guida di Enzo Collotti, così come tutto il materiale preparatorio per i viaggi della Memoria che la stessa Regione ha realizzato nel corso degli anni. Eravamo cioè sicuri di essere in buona compagnia.

La volontà di raccontare oltre cento anni di storia con un allestimento espositivo viene dal desiderio di utilizzare una modalità d’approccio capace di parlare anche al mondo dei non addetti ai lavori, e soprattutto ai più giovani. L’utilizzazione nel corpo della Mostra di riproduzioni di carte d’archivio, di copertine di libri, di disegni ma soprattutto di un apparato di riproduzioni fotografiche risultato delle donazioni di famiglie e di fondazioni culturali, arricchisce i testi, già di per sé particolarmente densi. Testi che abbiamo scelto di fare bilingui: in italiano e in inglese, in modo da aprirli alla fruizione di un pubblico potenzialmente molto più vasto di quello italiano. Sono testi che si prestano ad una possibilità di letture trasversali, di arricchimenti di senso, di interconnessioni e di suggestioni. Il team di lavoro che si è raggruppato attorno all’Istoreco, formato da specialiste della tematica come Barbara Armani, Ilaria Pavan, Elena Mazzini oltre alla direttrice dell’Istoreco, Catia Sonetti, si è poi arricchito di altri due narratori che hanno elaborato due pannelli specifici: Enrico Acciai, che ha curato quello sullo sfollamento degli ebrei livornesi, e Marta Baiardi, che ha scritto quello sulle memorie della deportazione. Un materiale esteso, coeso, uniformato da alcune scelte di scrittura condivise e rispettate con acribia che hanno, a nostro parere, dato il tono giusto alla Mostra. La traduzione è stata assegnata ad una specialista, la dottoressa Johanna Bishop, che ci ha garantito la qualità del lavoro. Tutti i nostri sforzi sono stati sorretti dalla volontà di far arrivare l’allestimento sui diversi territori regionali e anche esterni alla Toscana. Perché questo nostro piano si concretizzi, si dovrà incontrare con la volontà degli amministratori locali e con la possibilità di reperire altre risorse per i nuovi allestimenti, ma siamo fiduciosi che il desiderio di compartecipare a questa avventura renderà tutto ciò realizzabile. Del resto questa scelta è anche la strada più sicura per una reale e completa valorizzazione dello sforzo compiuto sia in termini finanziari che in termini scientifici.

Il risultato, di cui solo noi siamo responsabili, è anche il frutto della collaborazione con le diverse comunità ebraiche presenti sul territorio, collaborazione che è stata sempre continua e proficua. I loro presidenti, i loro archivisti e bibliotecari sono venuti incontro alle nostre richieste concedendoci materiali d’archivio e fotografici, sia delle Comunità stesse che dei componenti le medesime, in un rapporto di totale e rispettosa autonomia. Non solo. Abbiamo potuto realizzare alcune videointerviste a esponenti del mondo ebraico, che saranno riversate con un montaggio ad hoc in alcuni video che vanno ad arricchire il materiale documentale della Mostra.

Dal punto di vista del percorso seguito, dopo la stesura del progetto, si passa alla sua realizzazione che vede per oltre un anno tutti gli interessati coinvolti impegnarsi nello studio, nella ricerca archivistica e bibliografica, nella raccolta delle fonti iconografiche. Superata questa prima fase, ci siamo dedicati alla stesura vera e propria dei pannelli e poi alla sua realizzazione digitale con le professionalità specifiche dell’Agenzia Frankenstein di Giuseppe Burshtein di Firenze, in particolare con Cristina Andolcetti, Maddalena Ammanati, Stefano Casati, Federico Picardi e Isabella d’Addazio Quest’ultima fase è quella che ci ha permesso in itinere l’anteprima visiva di quello che andavamo facendo. Occorre dire che il controllo dei contenuti non è mai stato piegato alle esigenze della comunicazione anche se questa ha costretto tutti ad una sintesi espressiva, non proprio consueta per delle storiche e storici italiani. Vogliamo dire però che non ci siamo fatti prendere la mano dalla necessità della “leggerezza”, che nel nostro caso rischiava di farci dimenticare il forte sentimento divulgativo che ci animava. Siamo però stati attenti a tutti i suggerimenti degli addetti ai lavori che ci hanno consentito, perlomeno in parte, di superare certe difficoltà dei temi trattati per veicolare i nostri contenuti nel modo più accessibile possibile. Perlomeno questo era il nostro scopo.

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni '30 - Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

Bagni Pancaldi (Livorno) Anni ’30 – Aleardo lattes e famiglia (Archivio privato famiglia Lattes Cabib)

La Mostra si sviluppa secondo un arco cronologico che va dalla Grande Guerra ai giorni nostri. Presenta anche alcuni pannelli introduttivi, uno sul perché questa Mostra, uno generale sulla presenza ebraica nella regione a partire dal periodo tardo medioevale, e l’altro specifico per l’età liberale, anteprima al secolo XX. Dopo aver analizzato la Grande guerra, la prima vera manifestazione dell’avvenuta emancipazione, ed esserci soffermati sul tema del sionismo, affronta in una sezione di grandi dimensioni, per forza di cose, il ventennio fascista con le colonie e l’impero, analizza sia il fronte degli antifascisti che quello dei sostenitori del regime, le leggi razziali del ’38, la persecuzione del 1943-1945. La Mostra si chiude infine con il secondo dopoguerra, toccando la problematica della ricostruzione dopo il ritorno dai campi, la battaglia per riavere i beni che erano state requisiti, il lento ricollocarsi dentro lo scenario postbellico, i rapporti con Israele. Questa è la sezione per la quale l’apparato storiografico al quale guardare, soprattutto in lingua italiana, è risultato più debole e carente. In ogni sezione analizzata emerge come il gruppo degli ebrei si collochi esattamente alla stessa maniera di tutti gli altri cittadini italiani del momento. Appoggia Mussolini con entusiasmo o perlomeno con un atteggiamento di condiviso conformismo alle opinioni della maggioranza oppure si schiera contro in una opposizione lucida ed eroica con quei pochi che vedono e capiscono prima degli altri il significato del regime e il futuro di guerra e di persecuzione che si intravede all’orizzonte. È possibile comprendere attraverso i nostri testi, e soprattutto con le fotografie a corredo, come fino all’ultimo la consapevolezza di quello che stanno rischiando, la possibilità di perdere i beni e le vite, non sia particolarmente radicata. O forse, accanto a questa sottovalutazione del pericolo, si nasconde l’abitudine plurisecolare a sopravvivere nelle disgrazie, a ridere nel bisogno, ad affrontare con allegria ed ironia le sorti peggiori, carattere che emerge proprio nei frangenti più drammatici. Così si spiega ad esempio la fotografia della famiglia Samaia che mentre sta per uscire dal paesino di Monte Virginio, vicino Roma, il 25 marzo 1944, di nuovo in fuga per trovare salvezza, trova il modo di farsi fotografare e a commento della foto scrive: Via col vento!

Le immagini, a corredo, nell’insieme, racconta più dei testi scritti la “religione” della famiglia che pervade queste comunità. Non viene sprecata nessuna occasione per fotografarsi in gruppo ed il gruppo si sviluppa e si espande attorno alla coppia degli anziani. Particolarmente indicative in questo senso sono le foto a corredo donateci dagli eredi della famiglia Castelli. Ma non sono da meno quelle, più vicine a noi nel tempo, della famiglia Cividalli, Orefice, della famiglia Levi, dei Viterbo o dei Caffaz, della famiglia Samaia, e molte altre ancora. Certo l’amore per la famiglia pervade anche tutti gli altri italiani. Nessuno o quasi ne è escluso. Quello che qui vediamo è la documentazione fotografica dei passaggi importanti: le nozze, le feste di purim, il bar mitzvah per i ragazzi o il bat mitzvah per le ragazze, perché anche se l’adesione alla religione dei padri è, perlomeno fino alle leggi razziali, piuttosto debole, fatta più di consuetudine che di una adesione forte e vissuta con convinzione, importante è attraverso la ripetizioni di ritualità, come la preparazione di alcuni dolci tipici o il pranzo in comune in certi momenti, mantenere la coesione del gruppo. Gruppo nel quale molto spesso vengono inseriti, senza particolare travaglio, anche gli elementi “gentili” assorbiti con i matrimoni misti. Questo come dicevamo sopra fino alle leggi razziali.

Nel secondo dopoguerra, la scoperta della tragedia che si è abbattuta sul popolo ebraico rinsalda le tradizioni, aumenta i viaggi in Israele e la scelta di andare a viverci, riavvicina alla religione dei padri anche chi se ne era distaccato, fino ad arrivare al nostro presente, fatto di piccole e piccolissime comunità orgogliose della propria specificità, molto presenti sul piano culturale e molto attive nel dialogo interreligioso.

La Mostra è arricchita di diversi video in cui scorrono i montaggi tratti da alcune videointerviste realizzate nel corso della preparazione della Mostra. Si vedono donne e uomini ragionare sulla loro appartenenza, sulla storia della loro famiglia, sul loro sentimento religioso, sui conti che hanno fatto come singoli rispetto alla loro maggiore, o minore, o assente, appartenenza alla comunità ebraica.

Naturalmente nella Mostra non c’è affatto tutto quello che si può raccontare su questa minoranza, mancano alcuni pezzi importanti come le vicende, fra l’altro segnate da numerosi episodi di antisemitismo, della minoranza ebraica italiana, quasi tutta di provenienza labronica, in Algeria o in Marocco. Non c’è stata la possibilità di raccontare nessuna storia di genere, anche se attraverso il materiale raccolto, tra cui molte lettere e molti diari inediti, ci siamo fatti un’idea piuttosto articolata delle condizione della donna dentro la comunità ebraica. In qualche modo sicuramente privilegiata perché istruita e capace di saper leggere e scrivere, conoscere una lingua straniera, suonare uno strumento musicale ma assolutamente ostacolata nel suo desiderio di intraprendere libere professioni o attività lavorative vere e proprie. Questo perlomeno fino alla conclusione del secondo conflitto. Come succedeva nelle famiglie non ebree dell’Italia liberale e fascista del secolo scorso. Non abbiamo potuto approfondire il tema dei rapporti con lo Stato italiano sul versante della restituzione dei beni sottratti, né quello dei processi intentati contri fascisti e delatori.

La Mostra poteva chiudersi con l’immagine di una svastica disegnata in anni recenti sulla facciata della sinagoga di Livorno. Abbiamo deciso di no. Non era il caso. Tutto il nostro lavoro ha senso anche perché sottintende il desiderio di un rispetto reciproco nelle riconosciute diversità che all’interno del nostro orizzonte odierno, che non è più quello nazionale, ma perlomeno europeo, vedono di nuovo muri che si ergono, leggi di discriminazione strisciante farsi avanti e ancora rumore di bombe e sangue versato contro istituzioni e luoghi Kasher. Noi pensiamo e percepiamo il nostro lavoro solo come piccolo tassello per un dialogo di pace e ci siamo rifiutati di chiudere con un’immagine senza speranza.

Livorno, 24 ottobre 2016




“Any battle and bombardment against the town is nonsense”.

Dopo la liberazione di Pisa le truppe americane procedono verso Lucca, attraverso la bassa valle del Serchio. Il 2 settembre infatti il 3° battaglione della 92° Divisione “Buffalo”, dopo aver superato l’Arno, nei pressi di Cascina, costeggia il versante occidentale del Monte Pisano e giunge, prima a Pappiana poi a Ripafratta, dove si scontra con le truppe tedesche.

Le retroguardie tedesche della 65° divisione e della 16° divisione SS arretrano nel settore costiero e nei dintorni meridionali di Lucca. Anche i distaccamenti e i presidi della 36° Brigata nera Mussolini, dopo essere stati fatti convergere su Lucca a partire dal 31 agosto, nelle prime ore del 2 settembre, lasciano la città e si trasferiscono a Bagni di Lucca. Nonostante il ripiegamento nazista e fascista repubblicano però, proprio in questi giorni concitati, si consuma nel territorio lucchese un grave rastrellamento, quello dei monaci della Certosa di Farneta. Nella notte tra il 1 e il 2 settembre infatti un gruppo di soldati della 16° Divisione SS irrompe nel convento, dove, da diversi mesi, i monaci, con il sostegno dell’arcivescovo di Lucca Antonio Torrini, offrono assistenza e ospitalità a ebrei, partigiani e perseguitati politici. La guerra messa in atto dai nazisti, non si rivolge dunque solo ai civili e agli oppositori politici, ma anche al clero. Il rastrellamento conferma i sospetti tedeschi, e dunque sia i civili accolti nella Cerosa, sia i monaci, vengono catturati e trasferiti a Nocchi, dove vengono sottoposti a torture e sevizie. Il primo massacro dei rastrellati a Farneta si consuma il 4 settembre, a Pioppeti, dove vengono fucilati 21 civili. Il 6 settembre invece due certosini, mentre vengono trasferiti al carcere di Massa, per avere lamentato di non riuscire a proseguire nel percorso, vengono freddati. Infine il 10 settembre vengono uccise a colpi di arma da fuoco 37 persone, tra cui 10 certosini e 7 civili rastrellati a Farneta.

Nonostante la presenza tedesca si faccia ancora sentire attraverso la politica del terrore, l’impossibilità di una seria difesa di Lucca e il ripiegamento verso le prime alture della città e la Linea Verde, allontanano lo spettro di consistenti combattimenti intorno al capoluogo. Gli alleati continuano ad avvicinarsi e, conquistato il Monte Pisano, si appostano intorno a Vorno, poco distante dalla linea difensiva tedesca sull’Ozzeri, a pochi chilometri a sud di Lucca, e dispongono per il cannoneggiamento della città.

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Il ponte a Monte S. Quirico approntato dagli alleati (Fonte Archivio ISREC Lucca)

La sera del 3 settembre i partigiani della formazione “Bonacchi” approntano dunque un piano d’azione: circa duecento uomini sono mobilitati e, mentre alcuni sono impegnati a piegare gli ultimi baluardi nazisti, anche nel centro storico, altri stabiliscono un contatto con i reparti alleati. Il commissario del Cln Vannuccio Vanni e il comandante della brigata Mario Bonacchi decidono di inviare una squadra di uomini con un messaggio che invita a non bombardare la città. All’alba del 4 settembre i partigiani avviano uno scontro a fuoco con i nazisti, asseragliati sull’Ozzeri, e presso il ponte di Frati, riescono a piegare l’ultimo baluardo tedesco e a passare. Raggiunto il comando alleato, consegnano il messaggio di Vanni al colonnello J.R. Schermann, che decide di inviare un gruppo di soldati alleati in esplorazione l’indomani mattina presto, assieme ad alcuni partigiani, per verificare la situazione in città.

La Relazione sull’attività svolta dalle squadre d’azione patriottica appartenenti alla formazione “M. Bonacchi” riporta che “le squadre che avevano operato sull’Ozzeri, inquadrate e con bandiera in testa, alle 8 del 5 settembre entrarono per Porta S. Pietro e, tra le acclamazioni della folla, si portarono al Palazzo del Governo, già occupato e presidiato dalle squadre rimaste in città”. Appurata quindi la veridicità del messaggio di Vanni, le truppe americane possono avanzare liberamente e alle 11.45 del 5 settembre, la prima pattuglia americana del 370° Combat team, al comando del capitando C.F. Gandy, entra in città da Porta S. Pietro. I tedeschi si ritirano definitivamente verso la Garfagnana, spinti anche dalle truppe alleate e partigiane che utilizzano un ponte provvisorio sul Serchio a Monte San Quirico.

In città il Cln tiene la sua prima assemblea libera, alla presenza di Renato Bitossi e Giuseppe De Gennaro per il Pci, Aldo Muston per il Pda, Ferdinando Martini per la Dc, Frediano Francesconi e Giulio Mandoli per il Pri, e Enea Melosi per il Pli e in quell’occasione il socialista Gino Baldassari viene nominato sindaco di Lucca. Inizia così una nuova fase della storia della città: quella della pacificazione e della ricostruzione.




Benigni e la Toscana: tra biografia e maschera

Considerando quanto Roberto Benigni (attore e personaggio) sia emblematico, per l’immaginario comune, della comicità toscana e dei suoi aspetti dialettali e dissacranti, può essere sorprendente constatare come solo in due film (La vita è bella e Pinocchio, su 8 di cui è regista) abbia scelto la Toscana come ambientazione – e il discorso vale soprattutto per la prima metà de La vita è bella ambientata ad Arezzo, dal momento che la Toscana fiabesca di Pinocchio è stata in gran parte ricostruita nei Cinecittà Umbria Studios di Papigno (Terni).

Terrigna e a tratti brutale la Toscana dell’esordio attoriale con Berlinguer ti voglio bene (1977), film in le sue stesse reminiscenze autobiografiche di Benigni vengono restituite come una grande «parodia popolare della psicanalisi» (S. Bernardi, I mille volti della risata (aspetti del cinema comico italiano), in Si fa per ridere…ma è una cosa seria, a cura di Sandro Bernardi, La Casa Usher, Firenze 1985 ed estremizzate in tinte grottesche dalla regia di Giuseppe Bertolucci. Difficile dimenticare lo sproloquio delirante “vomitato” dal protagonista Cioni Mario, che vaga sul ciglio di un fosso, dopo che gli amici gli hanno fatto credere (per scherzo) che sia morta sua madre. Ma il film prende anche in giro, con vero amore, i dibattiti della Casa del popolo: «Basta con la tombola. Sospensione d’ì  ricreativo, principia avviare il curturale…seduti perdio! […]. Ecco il tema: “pole la donna permettisi di pareggiare con l’omo? No – Sì – s’apre ìddibattito». Dopo Berlinguer, Benigni non girerà più in Toscana prima de La vita è bella, se si eccettuano incursioni brevissime e secondarie, come le poche riprese effettuate presso la certosa di Calci (Pisa) per le scene in convento del film Il Piccolo diavolo. Persino il popolarissimo Non ci resta che piangere (1984), co-diretto con Massimo Troisi e teoricamente ambientato nella campagna toscana, è in realtà quasi interamente girato tra Viterbo, Latina e le campagne umbre. Una tra le poche location realmente toscane, probabilmente l’unica, è la spiaggia di Cala di Forno in Maremma (nella finzione, la spiaggia spagnola di Palos che i due raggiungono nell’improbabile missione di fermare la partenza di Colombo).

Mentre per La vita è bella la scelta di Arezzo e della Toscana è come il ritorno ad un porto sicuro. Dice lo stesso Benigni in un’intervista del 1998: «Ho deciso di girare ad Arezzo perché non avevo mai diretto un film in Toscana. […] Dovevo pensare all’immagine che volevo dare della città, se volevo rappresentare piazza della Signoria a Firenze o il Colosseo a Roma, diventava difficile. […] non volevo perdere tempo per la rappresentazione di una città dal punto di vista stilistico. Dato che la Toscana è la mia regione, che non ci ho mai girato e che ci sono state importanti comunità ebraiche che sono state decimate dalla follia nazista, mi sono detto che era la cosa più facile. In più, è proprio lì che sono nato.»

Nella Piazza Grande di Arezzo avvengono il secondo incontro di Guido/Benigni con Dora (Nicoletta Braschi), la corsa in bicicletta col figlio Giosuè (Giorgio Cantarini), la celebre gag in cui fa cadere una chiave “dal cielo” gridando «Maria! La chiave!».

Ma la “toscanità” di Benigni va oltre lo specifico quantitativo delle locations, affonda le sue radici in un contesto più generale: lo spopolamento delle campagne e la scomparsa della mezzadria che accompagnano gli anni del boom economico, provocando il vero e proprio esodo di centinaia di migliaia di italiani che partirono «dai luoghi d’origine, lasciarono i paesi dove le loro famiglie avevano vissuto per generazioni, abbandonarono il mondo immutabile dell’Italia contadina e iniziarono nuove vite nelle dinamiche città dell’Italia industrializzata […]». (Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino, 1989). Cenni biografici a parte – La famiglia Benigni a fine anni ’50 emigra da Misericordia (frazione di Arezzo a poca distanza da Castiglion Fiorentino, dove Roberto nasce il 27 ottobre 1952) a Vergaio, frazione di Prato – è appunto in questo scenario che acquista senso e potenza comica la maschera incarnata da Benigni nelle sue prime manifestazioni, quel contadino inurbato che in città non si trova per nulla a suo agio, non ne comprende la geografia e i segni, un po’ come il Bertoldo di Giulio Cesare Croce, contadino di proverbiale astuzia che, dopo aver risolto gli indovinelli del re Alboino, venne da lui assunto come giullare e giocoliere; ma non potendo abituarsi alla vita di corte ed ai suoi banchetti sontuosi, «morì con aspri duoli / per non poter mangiar rape e fagiuoli». Bertoldo azzurro (1973), spettacolo scritto e diretto da Marco Messeri, è guarda caso uno dei primi e più pregnanti episodi teatrali con Benigni coprotagonista.

Ma la forza esplosiva, dirompente del primo Benigni sta proprio nel rovesciare la dinamica propria di Bertoldo: non è tanto lui a doversi adattare alla realtà che lo circonda con astuzie ed infingimenti, ma è la realtà che si adatta a lui in ogni sketch, curvata dal suo stesso sproloquio torrentizio e de-semantizzante, talvolta scurrile ma al contempo di una disarmante sottigliezza, in cui il tradizionale scetticismo del contadino che teme di essere ingannato da chi ne sa più di lui si mescola felicemente con gli strumenti del sarcasmo e del paradosso.

Nel monologo di Benigni, andato raffinandosi nel tempo, i doppi sensi, gli equivoci e i buchi del linguaggio diventeranno veri e propri strumenti di contestazione che il contadino scaglia – dopo un breve momento di ossequioso e timoroso rispetto – verso un sistema che lo sovrasta e schiaccia, e che assumerà volti diversi. Ad esempio il volto del direttore Diolaiuti nell’episodio In banca di Tu mi turbi, di fronte al quale Benigni, in cerca di un prestito di 100 milioni, prende a strillare: «Allora se io ho bisogno di una melanzana…. una melanzana! Devo andare dall’ortolano e devo avere un miliardo di melanzane a casa? A me non me l’ha mai chiesto l’ortolano “ce l’hai lei un miliardo di melanzane?” MAI! Nè di pesche, pere […]».

Da Berlinguer ti voglio bene ad oggi l’immagine di Benigni ha subito due metamorfosi: la prima tra anni ’80 e ’90, quando inizia a scrivere i film con Vincenzo Cerami e “smussa” il diluvio dialettale in funzione di una comicità più sofisticata, che ne vuol fare un Chaplin italiano (Il piccolo diavolo, Johnny Stecchino, Il mostro, La vita è bella); la seconda nei vent’anni successivi, quando è diventato (o l’hanno fatto diventare) divulgatore culturale capace di legare con un unico filo (ormai più rosa che rosso) la Divina Commedia, il Canto degli Italiani, la Costituzione più bella del mondo e i Dieci Comandamenti. Nelle lecturae Dantis e nei vari interventi di divulgazione, il dialetto toscano diventa quasi un pretesto nei primi venti minuti ancora carichi di blande battute sulla politica: Benigni finge di essere il solito folletto incapace di articolare un discorso ordinato, tanto è elettrizzato e scoppiettante di istinti primari, per poi stupire il pubblico nella seconda parte, con la declamazione del testo effettuata in una sacralità solenne, con un italiano corretto e teatralmente impostato, fluido e quasi del tutto privo di increspature dialettali.

Alfredo Marasti si è laureato all’Università di Firenze con una tesi sulla rappresentazione del fascismo nel cinema italiano nel 2015. Ha pubblicato “Storia e rappresentazione: come il cinema italiano ha raccontato il fascismo” presso la tipografia Affinità elettive nel 2015. 




Gli archivi dello sport in Toscana: un patrimonio da salvare

Lo sport nasce subito visibile: foto, giornali, filmati, periodici e programmi tv, accompagnano le discipline e celebrano i campioni. Eppure questa visibilità non esaurisce la memoria dello sport, esiste una memoria ancora “oscura”, quella rappresentata dagli archivi delle società sportive che, così diffuse sul territorio toscano, come su quello nazionale, sono capaci di disegnare il sorgere e l’espandersi nel corso del Novecento di un fenomeno sociale che coinvolge, in modo diretto e indiretto, le nostre vite. La vigilanza messa in opera dalla Soprintendenza Archivistica per la Toscana nei confronti degli archivi dello sport in Toscana dal punto di vista cronologico comprende due fasi, la prima tra la fine degli anni ’50 e la metà degli anni ’80 del Novecento e la seconda apertasi con la metà degli anni Duemila. Dal punto di vista dell’oggetto di vigilanza un unicum è il rapporto costante con una società sportiva, la Mens Sana 1871 di Siena, attivo dalla fine degli anni ’50 del Novecento; legati a contingenze del momento sono stati, invece, i rapporti con altre società sportive.

I primi tentativi di censimento
Un primo tentativo di censimento di archivi dello sport, senza esito di rilievo, fu intrapreso a metà degli anni ’60. Il soprintendente pro tempore di allora, confidando nella collaborazione dei direttori degli archivi di stato di alcune province, chiese informazioni sulla presenza di archivi di società sportive anteriori al Novecento nelle rispettive città. Gli archivi di stato coinvolti furono i seguenti: Grosseto, Lucca, Massa, Pisa, Pistoia. Le risposte inviate indicarono solo per Pisa e per Lucca la nascita di società sportive ante 1900 (nello specifico una a Lucca e tre a Pisa) ma segnalarono la assenza di documentazione d’archivio. Circa venti anni dopo, tra il 1984 e il 1987 la Soprintendenza si attivò nei confronti di alcune società come la Lega Navale Italiana e il Club Alpino, entrambi per la sola provincia di Firenze, la UISP sezione di Prato, i Canottieri Pisa, il Siena Calcio, senza però che fossero emanati singoli provvedimenti di tutela.

Archivio S.S. Mens Sana in Corpore Sano 1871

Archivio S.S. Mens Sana in Corpore Sano 1871

Il “modello” Mens Sana e l’A.C. Fiorentina
La Mens Sana 1871, che aveva ricevuto, nei confronti del proprio archivio, una nuova dichiarazione di “notevole interesse storico”, la n. 380 del 1981, accompagnata da un elenco di consistenza, che sostituiva quelle già precedentemente emesse nel 1959 e nel 1965, permaneva l’unica società la cui dirigenza teneva e – detto per inciso – ancora tiene rapporti aperti con la Soprintendenza Archivistica per migliorare conservazione e fruibilità del proprio archivio.
All’inizio degli anni 2000, nello specifico nell’anno 2002, fu effettuata una visita presso l’A.C. Fiorentina al momento del passaggio di proprietà dovuto al fallimento della precedente gestione ai fini di valutare la tipologia di documenti presenti e ribadire ai curatori la necessità di salvaguardare la conservazione dell’archivio nella sua integrità.

Il censimento del 2010
Si deve alla Regione Toscana, a partire dalla seconda metà degli anni 2000, la volontà di approfondire la conoscenza storica sulla pratica sportiva nel territorio regionale attraverso convegni specifici e il finanziamento, del censimento, pubblicato nel 2010, “delle fonti e degli archivi dello sport toscano” attuato dalla Società Italiana di Storia dello Sport con il coinvolgimento della Soprintendenza Archivistica. Diviso per province e ordinato cronologicamente per data di fondazione, ogni società sportiva che avesse compiuto al momento della pubblicazione almeno cinquanta anni dalla fondazione era presa in considerazione. Grazie al censimento è stato possibile conoscere numero e tipologia delle società sportive toscane ancora in attività e avere informazioni di base sugli archivi societari.

Il convegno Archivi dello sport a Siena
In occasione della giornata di studi Gli archivi dello sport: documenti per la storia di Siena nel Novecento (2 aprile 2014) la Soprintendenza Archivistica ha voluto effettuare un ulteriore censimento, attraverso l’invio di un questionario, sulla tipologia di documentazione archivistica presente negli archivi delle società sportive presenti in provincia di Siena, con l’esclusione di quelle oggetto di apposita comunicazione, usando proprio il suddetto censimento. Sui 27 questionari inviati, sono pervenute quattro risposte, quelle relative a due squadre di calcio: la Sinalunghese di Sinalunga e la Chiantigiana di Gaiole in Chianti, una relativa al gioco del tamburello, la polisportiva Turrita e l’Associazione dei Cronometristi Senesi, che ha sede a Siena.

Logo e foto d'epoca della Massese Calcio (Fonte: Censimento delle fonti dello sport Toscano, provincia di Massa)

Logo e foto d’epoca della Massese Calcio (Fonte: Censimento delle fonti dello sport Toscano, provincia di Massa-Carrara)

La situazione degli archivi dello sport nel 2014
Dalle risposte risalta l’assenza di conservazione di documentazione “antica” che non sia o iconografica o “museale” mentre i più antichi documenti d’archivio “cartacei” risalgono al massimo a venti anni indietro. Per specificare, le società non conservano nel tempo documentazione contabile o amministrativa in senso lato, compresi i carteggi dei dirigenti e i tesserini degli associati, ma quasi esclusivamente trofei e fotografie. Nessuna società è dotata di un locale dedicato ad archivio o a museo, possiede solo un armadio posto in sala riunioni o in sala di presidenza che ha funzione di contenitore di archivio e tanto meno è presente una persona che ha incarichi di conservatore/archivista. Il fatto che solo quattro società abbiano risposto all’indagine mostra anche la mancanza di interesse o di consapevolezza nei confronti della trasmissione della testimonianze della propria attività nel tempo.

Percorsi per il futuro: un patrimonio da salvare
Pur dallo scarso numero di archivi censiti è possibile, dare una idea di come possa essere composto un archivio di società sportiva nel 2014: presenza di trofei, raccolte di fotografie, presumibilmente non ordinate, assenza di documentazione cartacea “antica” ossia antecedente alla metà degli anni ’90 del Novecento. Di fronte a un risultato non incoraggiante ma non inaspettato, due possibili strade possono, allora, essere individuate per garantire la trasmissione della memoria dello sport a livello locale: il deposito dei documenti più antichi delle società sportive presso gli archivi comunali competenti per territorio, accogliendo una nuova serie di archivi dello sport come archivi aggregati; incontri con i presidenti di società provincia per provincia – organizzati in collaborazione con enti o istituzioni – al fine di chiarire ai responsabili la necessità e l’importanza di conservare la propria memoria ordinatamente oltre il ricordo “visibile” del trofeo o della foto, evitando scarti periodici e arbitrari giustificati solo con una “cronica mancanza di spazio” delle sedi.

 




Antiche villeggiature, la grande scoperta della Val di Bisenzio

Le Antiche villeggiature, un articolato progetto regionale di ricerca e memoria partecipata, condotto dalla Fondazione CDSE (Centro di documentazione storico etnografica) in Val di Bisenzio, ha portato alla luce un suggestivo racconto collettivo che ha come sfondo gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento e vede protagonisti, tra gli alti, Amelia e Joe Rosselli con i loro figli, Aldo, Carlo e Nello. La pubblicazione Antiche Villeggiature: Val di Bisenzio e Montepiano tra Ottocento e Novecento è curata da Annalisa Marchi, Alessia Cecconi, Luisa Ciardi e Cinzia Bartolozzi che hanno condotto una ricerca accurata e minuziosa.

Vacanze e vacanzieri della fine dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento vengono raccontati per la prima volta in una pubblicazione, stracolma di curiosità, luoghi, personaggi e fascinose foto d’antan (sono addirittura 254). Con dovizia di particolari vengono alla luce gli aspetti della svolta turistica che vede protagonisti gli Appennini, da Prato fino a Bologna.

La solida e curiosa borghesia della Belle Epoque – fiorentina ma non solo – elegge Montepiano a buen retiro estivo mentre la sezione del Club Alpino italiano contribuisce a promuovere la Vallata con iniziative, escursioni e pubblicazioni.

Incontriamo Amelia e Joe Rosselli, scrittori come Renato Fucini e poi musicisti, professionisti e industriali. Dall’Inghilterra, dalla Germania e dagli Stati Uniti, alla ricerca di esperienze originali, arrivano turisti dai gusti raffinati. Tutto verrà raccontato tra luglio e agosto attraverso un ricco calendario di iniziative pubbliche, presentazioni e spettacoli teatrali nei Comuni di Vernio, Cantagallo e Vaiano. Due le mostre documentarie e fotografiche in programma (a Migliana e all’Archivio di Stato di Prato).

Sorprendenti i legami tra l’ebraica e cosmopolita famiglia Rosselli (trasferitasi a Livorno da Roma nel Settecento) e Montepiano. Amelia Pincherle (è la zia di Alberto Moravia) e il marito Joe Rosselli scoprono Montepiano nel luglio 1896: Aldo, il loro primo figlio, ha soltanto un anno. Negli anni a venire trascorreranno qui molti periodi di vacanza e montepianine saranno le balie di Carlo e Nello Rosselli: Maria Morganti e Virginia Mazzetti. “Sai che qui in paese tutti si ricordano di voi quando eravate a Montepiano? C’è il padrone della mia pensione che si rammenta con molto affetto di voi, i Nathan…”, scrive da Montepiano Nello Rosselli alla madre Amelia nel 1919.

L’aria buona e la tranquillità che poteva offrire la villeggiatura a Montepiano era stata scelta proprio pensando al piccolo Aldo, nato nel luglio 1895 a Vienna, dove Amelia e Joe si stabilirono appena sposati. A Montepiano trascorreranno le loro vacanze per diversi anni sia i Rosselli che i Nathan. La madre di Joe, Henrietta Nathan era inglese e sorella di quell’Ernesto Nathan famoso per essere stato, prima l’erede testamentario di Mazzini, e poi per essere eletto, a inizio Novecento, sindaco di Roma con il blocco popolare. A Londra, dove Mazzini sopravvisse grazie agli aiuti delle famiglie Nathan-Rosselli, il padre di Joe, Sabatino Rosselli, aveva aperto un ufficio di cambio nella City. “Stando al corpus delle numerose lettere rinvenute presso il Fondo Rosselli (conservato all’Archivio di Stato di Firenze) Amelia inizia a frequentare Montepiano qualche anno prima di trasferirsi a Firenze.- si legge nel volume –  Le trame di intimità e le note di costume che affiorano nelle lettere aprono finestre luminose e contribuiscono a ricostruire un pezzo della storia della villeggiatura a Montepiano, nonché frammenti privati dell’epopea della famiglia Rosselli”.

La svolta turistica della Vallata e di Montepiano, quest’ultima già famosa a Firenze per il suo straordinario burro, è legata all’affermazione della nuova cultura della villeggiatura di fine Ottocento. Decisivo è il completamento, tra il 1885 e il 1892, della Strada Maestra che finalmente collega San Quirico a Montepiano. Non è davvero un caso che proprio nel 1892, a Montepiano, si registri un boom di 500 turisti.

Sono tre giovani della sezione fiorentina del Club Alpino italiano: Michele Gemmi, Giuseppe Ricci e Luigi Alessandri i promotori della stagione d’oro dell’Alta Valle. A far da pioniere alla svolta turistica è però Emilio Bertini che con la sua instancabile attività fa conoscere e amare la Val di Bisenzio di cui pubblica una guida che resta una pietra miliare del genere. Le iniziative di moltiplicano: nel 1879 la sezione del Cai di Firenze, insieme a quella di Bologna, organizza una doppia traversata Bologna – Prato. “Con l’arrivo dei villeggianti comparvero locande, trattorie e i primi affittacamere e furono pubblicate guide con itinerari e indicazioni – raccontano le autrici – Per i decenni a venire la Val di Bisenzio avrebbe richiamato italiani e stranieri, letterati ed artisti, industriali e scienziati, personaggi che spesso lasciarono nei loro scritti pubblici e privati ricordi e tracce affascinanti della loro villeggiatura. Montepiano, che si arricchì di ville e villini e ospitò anche numerose colonie terapeutiche”.




Emozioni e politica. Alle radici del mito Pietro Gori

La figura di Pietro Gori (1865-1911) ha avuto di recente un nuovo sussulto di notorietà per la controversa scelta della giunta di Portoferraio di modificare la toponomastica cittadina andando ad incidere su uno dei luoghi simbolicamente più forti del mito goriano. Le polemiche accese, le discussioni, le lettere di protesta e i presidi di manifestanti che hanno accompagnato la decisione di cancellare l’intitolazione della piazza nei pressi del municipio all’autore di Addio Lugano Bella testimoniano, al di là dell’episodio di cronaca, forme di sopravvivenza di una memoria popolare verso un uomo politico singolare che nel tempo è stata certificata da seri studi storici e demoantropologici. Morto come tutti gli eroi giovane e bello, l’8 gennaio 1911, Gori fu salutato fra l’Elba, Piombino e Rosignano da uno dei più imponenti funerali mai visti all’epoca, che hanno concorso a rafforzarne l’aurea mitica, e spesso quasi sacrale, che lo ha a lungo circondato.

Capace di suscitare forme di identificazione in grado di sconfinare nella dimensione della vera e propria celebrità politica e della venerazione popolare, ben oltre il perimetro dei militanti libertari, si impose certamente come uno dei più amati leader politici italiani dell’epoca. Se l’esistenza del mito è largamente documentata, meno poco sappiamo però delle ragioni e dei motivi che ne stanno alla base e che ne favorirono la popolarità.

Ritratto di profilo di Pietro Gori, s.d.

Ritratto di profilo di Pietro Gori, s.d.

Pietro Gori è stato un personaggio pirotecnico, ricco di inventiva e di risorse, grazie a un’abilità e a uno stile comunicativi che meritano di essere approfonditi e che si avvalsero dell’ampio ricorso a canali, linguaggi e contesti all’apparenza non strettamente politici (teatro, poesia, musica, letteratura); modello di leadership per tanti propagandisti del proprio movimento, Gori fu il campione di un anarchismo sentimentale a forte tasso emotivo. Artefice di un propria strategia di “andata al popolo”, agì su molteplici piani per alimentare un immaginario dotato di una propria forza persuasiva, con stratagemmi retorici e di altra natura in grado di funzionare soprattutto in relazione al proprio pubblico di riferimento.

Per rendersi credibile ai suoi interlocutori, lui, nato borghese e benestante, sposò un’etica di vita ascetica, profetica e votata al sacrificio, divenendo non a caso noto a tutti col sopranome biblico di Apostolo dell’Anarchia o dell’Ideale, incorporando fino in fondo nell’esperienza quotidiana le virtù anarchiche e proletarie.

In secondo luogo, sul piano retorico si dotò di un discorso frutto di un’abile opera di recupero e di rifunzionalizzazione in chiave libertaria e di criticismo sociale di immaginari e tradizioni discorsive a cui il popolo era già ampiamente socializzato. Dalla religione cristiana al risorgimento democratico-popolare, Gori presentò in maniera disinvolta Gesù Cristo e Garibaldi, i primi perseguitati cristiani o i martiri del 1848 come i primi anarchici della storia. Una disinvoltura che si estese abilmente a tradizioni popolari di segno folklorico come quella del Maggio, le cui antiche feste erano da sempre collegate in molte comunità contadine a immagini e significati di rinascita e rigenerazione; esse furono espressamente ricondotte da Gori alla nuova festività politica del 1 Maggio, di cui a cavallo fra due secoli divenne il principale mediatore e propugnatore italiano, radicandola nel paese attraverso un profluvio di poesie, bozzetti teatrali e canzoni a tema (Primo Maggio, Maggio ribelle, Maggio redentore, Tempesta di maggio, La leggenda del Primo Maggio, Calendimaggio).

Oltre alla capacità di sfruttare temi e figure già largamente diffusi fra le classi subalterne, l’opera di conquista e di risignificazione del mondo popolare lo spinse a investire anche l’ambito dei modi e dei registri della comunicazione. Nella realtà dell’epoca composta in larga parte di analfabeti o semianalfabeti in cui dominava ancora la dimensione dell’oralità e una pratica della lettura fortemente intensiva (come nella tradizione religiosa della ripetizione delle parole evangeliche della Bibbia mandate a memoria), Gori prestò particolare attenzione alle forme e ai generi espressivi della cultura e dell’estetica popolari. E fu così che divenne il fondatore della canzone politica popolare italiana, molto spesso recuperando note e arie tradizionali, nonché prolifico interprete della poesia estemporanea. Ciò a prezzo anche di stridenti contrasti fra retaggi tradizionalisti sul piano formale e un incendiario criticismo socio-politico nei contenuti che gli valsero una nota e colorita accusa di convenzionalismo nei quaderni gramsciani.

Ma il disegno comunicativo ad ampio raggio di Gori non si fermò qui, mostrandosi attento ad ogni particolare, nel quadro di una più generale sensibilità alla costruzione della propria immagine. Il suo proverbiale magnetismo oratorio si alimentava, nella testimonianza di militanti e dirigenti anarchici che ne rimasero affascinati, di una studiata modulazione dei gesti e della voce; un’attenzione derivantegli anche dal lungo tirocinio svolto come avvocato in diverse cause celebri, in un momento in cui i tribunali divennero, fra Otto e Novecento, palestre di oratoria investite da un forte processo di teatralizzazione della professione forense esemplificato dalla figura di Enrico Ferri, fra i maestri di Gori. Un cortocircuito fra aule di giustizia e palcoscenico testimoniato nella vicenda goriana sia dalla scrittura di numerosi bozzetti teatrali ma ancor più dalla loro frequente recitazione in prima persona da parte del loro stesso autore.

Un carisma che si alimentava infine di altri segni esteriori in grado, come si direbbe oggi, di fare moda o tendenza e di amplificarne la leggenda. Un anarchismo “banale”, fatto di pratiche minori, di cui è esempio la scelta di un abbigliamento che creò o diffuse uno stile fortemente identitario. Giocando soprattutto con il colore “sinistro” per antonomasia associato all’anarchismo e da esso fatto provocatoriamente proprio, contribuì a radicarne la simbologia attraverso il cappello nero a falde larghe, l’immancabile sciarpa e il grande fiocco o svolazzo, sempre del medesimo colore, noto anche come «fiocco a la Gori», ricordato da numerosi contemporanei ed eternato con grande evidenza nella sua ritrattistica e persino nei monumenti funebri.

Busto di Pietro Gori nell’atto di parlare, Capoliveri, Piazza Matteotti, 1921

Busto di Pietro Gori nell’atto di parlare, Capoliveri, Piazza Matteotti, 1921

A completarne le performance comunicative concorsero poi supporti o dispositivi poco convenzionali, tesi a creare un’aura di spettacolarità, come il frequente utilizzo della chitarra, che che in una lettera a un amico avrebbe definito uno strumento «inseparabile» e che divenne uno dei simboli del grande tour di propaganda nordamericano del 1896 condito da oltre trecento comizi; o ancora il ricorso, alla “lanterna magica” nelle conferenze, ossia di un ingegnoso macchinario per immagini che aveva il suo maggiore tratto di modernità nell’essere parte di quelle nuove «macchine della visione», diffusesi nel corso dell’Ottocento a partire dalla Francia dove costituirono forme di precinema preparatorie al cinematografo.

Questo quadro riccamente popolato di suggestive immagini, emozioni e colori, in cui una molteplicità di profili e aspetti finivano per intrecciarsi, faceva della sua opera di propaganda un’esperienza capace di sollecitare più sensi e di incidere in più modi sulla sensibilità popolare, tanto da rendere difficile per lo storico farla rivivere appieno attraverso le fonti. Si spiegano però forse così gli episodi di ammirazione collettiva, se non di vero e proprio divismo, descritti da amici e compagni di partito riguardanti donne, uomini e vecchi che dopo le conferenze circondavano in gran folla la vettura di Gori per protendergli i figli e baciargli la mano, o si stendevano sui binari per impedirne la partenza quando in treno raggiungeva qualche lontana località per un improvvisato comizio. Reazioni analoghe a quelle che, al momento dell’arrivo del suo feretro al cimitero di Rosignano, costrinsero l’ufficiale sanitario a cedere alle insistenti preghiere della folla e ai vincoli delle norme sanitarie praticando un’apertura sulla parte di zinco della bara per consentire a tutti di «vedere, salutare, baciare» un’ultima volta la salma dell’Apostolo dell’anarchia.

*Marco Manfredi, dottore di ricerca, è attualmente docente a contratto in Storia contemporanea presso l’Università di Pisa e collaboratore dell’Istituto della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Livorno. Si è occupato di storia italiana del primo Ottocento, pubblicando saggi e articoli su protagonisti e vicende della Restaurazione e del Risorgimento; negli ultimi anni si è avvicinato agli studi di storia dell’anarchismo italiano. Fra le sue pubblicazioni più recenti su quest’ultimo tema: Italian Anarchism and Popular Culture: history of a Close Relationship, in I. Favretto, X. Itcaina (eds.), Protest, Popular Culture and Tradition in Modern and Contemporary Western Europe (Palgrave Macmillan, 2016), Il neutralismo anarchico, in F. Cammarano (a cura di), Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia (Le Monnier, 2015)




L’internamento dei reduci antifascisti italiani di Spagna nei campi francesi (1939-1941)

La storia dell’internamento degli antifascisti italiani reduci dalla guerra di Spagna nei campi nel Sud della Francia è stata ingiustamente trascurata sia dalla memorialistica sia dalla storiografia italiana. Dal punto di vista delle memorie, probabilmente, ha influito il fatto che i cupi e monotoni anni di prigionia francese risultano, per i combattenti stessi, compressi e schiacciati tra l’esaltante vicenda spagnola e la successiva lotta resistenziale. Dal punto di vista storiografico, invece, il significativo vuoto si ricollega direttamente con il ritardo della storiografia francese che, complice forse la propria cattiva coscienza, ha iniziato a occuparsi della questione dell’internamento soltanto di recente, da quando sembra aver trovato il modo di inquadrare il fenomeno nel discorso pubblico della Francia democratica[1]. In Italia, a oggi, assenti completamente le traduzioni, l’unico a essersi occupato in modo approfondito dell’argomento è Pietro Ramella che, oltre alla curatela del volume di memorie di Riccardo Formica, in cui si descrive l’arrivo al campo di Saint Cyprien del gruppo di italiani guidato dal comandante Morandi, ha pubblicato nel 2003 un volume intitolato proprio La Retirada e nel 2012 un nuovo studio sul tema[2]. Si tratta di un testo che, però, fa riferimento prevalentemente a materiale edito e non apre alcuno spiraglio interpretativo per quanto riguarda la specificità italiana nella vicenda e che, del resto, non ha avuto, nonostante la novità del tema, né un’accoglienza particolarmente calorosa né una grande visibilità.

Foto André Alis

La Retirada ©André Alis

L’argomento, affrontato dal recentissimo Quaderno Isgrec Storie di indesiderabili e di confini[3], è insomma pressoché sconosciuto o ignorato agli storici nostrani e questo nonostante l’ampia mole di documentazione reperibile presso gli archivi francesi centrali e periferici in merito all’esperienza dei reduci di Spagna e, nello specifico, degli italiani nei campi. In particolare, negli Archives Départementales des Pyrénées Orientales a Perpignan (ADPO) per la documentazione pertinente ai campi cosiddetti “della spiaggia”, dove i volontari sono radunati nei primi mesi del 1939, e nell’Archive Départementale de l’Ariège a Foix (ADEA) in cui è conservato l’archivio del campo disciplinare del Vernet, in cui sono imprigionati i sospetti e i cosiddetti estremisti politici nelle fasi successive. Dell’esperienza dei campi rimane anche un’abbondante produzione documentaria di parte comunista, a cui alcuni storici hanno potuto avere accesso durante il troppo breve periodo di disponibilità alla consultazione, negli anni passati, degli archivi del Comintern raccolti a Parigi. Recentissimamente, la digitalizzazione dei documenti sovietici, presso il sito del Russian State Archive of Social-Political History (RAGSPI), ha aperto nuove frontiere in termini di accessibilità ai documenti sulla Spagna e sulle vicende successive dei membri delle Brigate internazionali.

David Seymour, La Retirada. Le Perthus, à la frontière franco-espagnole, février 1939 © Musée national de l'histoire et des cultures de l'immigration

David Seymour, La Retirada. Le Perthus, à la frontière franco-espagnole, février 1939 © Musée national de l’histoire et des cultures de l’immigration

I campi di internamento del Sud della Francia, in ogni caso, rappresentano un oggetto di studio particolarmente interessante proprio per quanto riguarda l’Italia perché moltissimi furono gli italiani che vi transitarono. Basti pensare che a Saint Cyprien, uno dei cosiddetti campi della spiaggia, gli italiani furono la terza nazionalità rappresentata fra gli internazionali, mentre a Gurs, quindi in uno dei campi dell’interno sorti in una seconda fase di stabilizzazione, furono probabilmente la seconda nazionalità presente. Il trattamento riservato loro fu in alcuni casi estremamente duro e non può essere compreso se non tenendo conto del più ampio arrivo di rifugiati spagnoli che si verificò tra la fine del gennaio e l’inizio del febbraio 1939 e che passò alla storia con il nome di Retirada. Fu un evento eccezionale per i tempi: in pochissimi giorni, a partire dal 29 gennaio, transitarono dai valichi franco-catalani circa 470.000 persone[4], un consistente e concentrato movimento di popolazione che prima di allora non si era mai registrato in un lasso di tempo così breve, un esodo impressionante che in sostanza non aveva precedenti nella storia europea.

Proprio su tale eccezionalità, del resto, si è basato negli anni il vasto impianto autoassolutorio francese costruitosi intorno a questi temi, mentre solo recentemente gli storici hanno riproposto la questione in termini di responsabilità, analizzando le carenze della politica di accoglienza francese o, secondo alcuni, la vera e propria assenza di una qualsivoglia politica[5]. Di fatto, però, la chiusura del governo d’Oltralpe si inseriva perfettamente nel clima maturato già negli ultimi mesi del 1938, quando termini come “indésirable” e “clandestin” erano diventati sempre più presenti nel dibattito pubblico e il radicale Edouard Daladier, tornato primo ministro, aveva fatto approvare un gran numero di decreti legge in particolare repressivi verso gli immigrati e i rifugiati. Fu proprio nel caso degli ex combattenti spagnoli e dei reduci delle Brigate internazionali, laddove meno potevano pesare gli appelli di carattere umanitario, che si palesò apertamente il focalizzarsi dello Stato francese sulla sicurezza e l’ordine pubblico, concretizzatosi nella chiusura totale della frontiera agli uomini in età di leva e nell’organizzazione allo scopo di un dispositivo militare e poliziesco molto efficiente.

Gli ormai ex volontari internazionali, che dalla smobilitazione erano concentrati in Catalogna, in campi organizzati su base nazionale, rimasero così bloccati in attesa che venisse deciso il loro destino. Solo alla fine del 1938 si avviò una lenta evacuazione: venne via via concesso il transito dei volontari originari dei paesi democratici, accolti e subito reindirizzati “chez eux”, mentre vittime dell’intransigenza crescente della politica francese furono soprattutto coloro che venivano dai paesi fascisti, che rischiavano al rientro di subire persecuzioni politiche. Fra loro gli italiani, per molti dei quali – per esempio per i disertori arrivati direttamente dall’Italia e passati nelle file repubblicane che rischiavano condanne molto pesanti, ma allo stesso tempo non godevano di nessun appoggio da altri paesi – trovare una via di uscita dall’imminente crollo del fronte divenne un dramma vero e proprio.

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Volontari in fuga concentrati nei “campi della spiaggia”

Alla fine, come successe per i civili, anche per i reduci stranieri la situazione precipitò di colpo sotto la pressione degli eventi, con l’ordine francese del 5 febbraio 1939 di lasciar passare tutti gli uomini accalcati presso i valichi di frontiera, compresi i miliziani armati pronti a forzare il passaggio in caso di rifiuto. Dall’altro lato del confine, però, i reduci delle BI non trovarono l’accoglienza che si aspettavano dalla vicina e amica Francia, dal paese che era stato per decenni il rifugio sicuro per i perseguitati politici di mezza Europa. Infatti, avendo il governo francese stabilito che tutti gli uomini in età di leva dovevano restare nel dipartimento di arrivo, cioè quello dei Pirenei orientali, l’unico modo di “accoglierli” era quello di disarmarli e raggrupparli in appezzamenti di terreno circondati da filo spinato sulle spiagge del Roussillon. Si tratta dei campi della spiaggia, dove i volontari furono radunati nei primi mesi del 1939, e cioè Argelès, Saint Cyprien e Barcarès.

Qui, in un contesto sempre più emergenziale, situazioni drammatiche sul piano materiale vennero accentuate dallo sconforto morale dei rifugiati, come testimoniato dai racconti anche italiani di quegli eventi, in cui spicca il momento simbolico della consegna delle armi e della bandiera al confine. Avrebbe ricordato Francesco Scotti,

I gendarmi francesi avevano già dato l’ordine di ammassare le armi da una parte. Ogni possibilità di continuare le operazioni anche con azioni di guerriglia era finita. I soldati mi circondarono e mi chiesero perché dovevano deporre le armi. “Entriamo in un paese amico o nemico?” […] Il primo incontro con la Francia libera ci raggelò il sangue più delle nevi delle montagne[6].

principali-campi-francesiL’arrivo in Francia si imprimeva così nelle memorie individuali, sia dei civili sia dei militari, come un evento ad alto coefficiente traumatico: l’idea di società nella quale si era creduto, e per la quale molti avevano combattuto, andava in frantumi e attraversare quel confine significava sancire una sconfitta tanto individuale e personale quanto collettiva e comunitaria. Lo spirito del Fronte popolare non c’era più e le proteste non ebbero, a quell’epoca, una base politica sufficientemente ampia né furono particolarmente durature; così, senza la forza della pressione popolare, a prevalere furono le congiunture e la volontà politica del governo conservatore. Iniziava per gli antifascisti il durissimo momento dei campi di internamento, che divennero, anche dal punto di vista spaziale, la prova tangibile delle spaccature createsi all’interno della società francese tra il 1938 e il 1948, in quelli che la storiografia ha recentemente definito il periodo degli “anni neri”, caratterizzati dall’esclusione dal tessuto sociale nazionale di coloro che erano considerati un peso dal punto di vista economico o un pericolo per la sicurezza interna.

Un nuovo capitolo biografico che sembrava aprirsi tra gli auspici più foschi, tra il freddo, il vento, la sabbia e le recinzioni delle spiagge francesi. Affacciati sul litorale, circondati da terreni acquitrinosi infestati da mosche e battuti dalla tramontana, i primi campi del Roussillon erano, in effetti, quasi completamente sprovvisti d’installazioni, semplici terreni sabbiosi delimitati dal filo spinato. A Saint Cyprien, per esempio, non era previsto alcun riparo, alcuna struttura, tranne un monumentale arco all’entrata del campo e saranno poi gli internati stessi a costruire i primi baraccamenti. Aldo Morandi, riguardo al suo arrivo durante la notte dell’8 febbraio, avrebbe scritto:

su un arco fatto di pali e assi di legno, una scritta “Saint Cyprien”. È l’entrata del campo ma non riesco a distinguere baracche o alloggiamenti, forse per l’oscurità […]. Avvolto nell’impermeabile, con il sacco da montagna sotto la testa come cuscino, ho tentato di dormire sulla sabbia umida e mi sento tutto intirizzito. […] Si è fatto giorno. Non vedo alcuna baracca, il campo d’internamento non esiste, è una nuda distesa di sabbia sul mare circondata da tre lati da filo spinato[7].

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Entrata del Campo di Vernet

Nonostante lo sconforto iniziale, però, la ripresa di una capillare organizzazione politica si ebbe proprio nei campi. In particolare in quelli dell’interno, sorti nelle fasi successive per ovviare al sovraffollamento delle strutture vicine alla frontiera, in seguito a un tentativo di riorganizzazione da parte del governo francese, resosi conto che non avrebbe potuto disfarsi molto rapidamente degli internati. In primis nel campo di Gurs, sui Pirenei orientali, dove gli internazionali vennero ricongiunti nel maggio 1939 e dove i 900 internati italiani si collocavano al secondo posto fra le nazionalità, e quindi in quello di Vernet, nella prefettura di Foix, che, in seguito all’applicazione della legislazione anticomunista francese varata nel settembre 1939, divenne un campo disciplinare, definito “a carattere repressivo”, dove inviare gli stranieri sospetti, gli estremisti o gli individui pericolosi per l’ordine pubblico o per l’interesse nazionale, e quindi gli ex volontari delle Brigate internazionali. Proprio l’altissima concentrazione di ben noti antifascisti fece via via del Vernet uno dei centri francesi ed europei della Resistenza al nazifascismo. Di fatto, l’internamento di un gran numero di dirigenti comunisti europei e di una buona parte dei dirigenti delle Brigate Internazionali lo trasformarono in uno dei principali centri dopo Mosca, dove particolarmente rilevante era la presenza di tedeschi, italiani e polacchi.

Nel microcosmo dei campi i reduci provenienti dalla Spagna videro via via riconsolidarsi quella solidarietà internazionale, nata in Spagna, che farà delle resistenze europee un momento di sintesi di aspirazioni e impegno militare e civile per antifascisti di diversa provenienza, nazionale e politica. In questi luoghi, dove gli italiani rimasero in media due anni (dal febbraio 1939, quando la Francia si vede costretta ad “accoglierli” nei primi reticolati sulle spiagge del Roussillon, fino alla primavera del 1941 quando l’Italia cominciò a pretenderne il rimpatrio), si svolsero vicende e fatti che influirono profondamente sulla costruzione in divenire delle identità dei futuri combattenti, ma che ancora di più determinarono il ricostruirsi, dopo la Spagna, dei networks cruciali nella successiva lotta europea al nazifascismo.

Foix

Registro del campo di Vernet (©Isgrec)

Qui maturarono anche le competenze apprese sul campo di battaglia spagnolo, quella preparazione politica, tattica e militare che fece dei reduci italiani di Spagna, come ha ben evidenziato Paolo Spriano, “la punta di diamante” dei quadri dirigenti della lotta partigiana in Italia[8]. Nei campi, infatti, nonostante le condizioni di vita spesso durissime, la vicenda degli antifascisti italiani si declinò in un costante sforzo collettivo per la preparazione della futura lotta, percepita come ineluttabile e necessaria. Si andava dal concreto addestramento militare, come per esempio nel caso dell’empolese Pietro Lari, «esperto in tattica dei colpi di mano e di fabbricazione di esplosivo», che a Gurs aveva passato giornate intere ad addestrare i suoi compagni di prigionia alla fabbricazione delle bombe a mano[9], alla più generale preparazione culturale e politico-organizzativa dei militanti, derivata dai corsi e dal lavoro culturale svolto fra il filo spinato; tenendo conto anche, semplicemente, del quotidiano processo di condivisione di esperienze e insegnamenti tattici e strategici.

Insegnamenti che saranno messi a frutto dopo il rientro in Italia, per i più direttamente dal campo del Vernet (ultima tappa nell’itinerario dei campi), a seguito delle procedure di rimpatrio forzato avviate dalla Francia nel febbraio 1941 o volontariamente, a seguito della richiesta del Partito comunista italiano di fornire personale politico e militare per combattere. Una scelta, quella di tornare, che veniva messa in cantiere già dal 1941, ma che nella maggior parte dei casi si concretizzò solo fra il 1942 e il 1943: di conseguenza, molti antifascisti si ritrovarono a introdurre in Italia anche le tecniche e la metodologia d’azione tipiche del maquis francese.

Proprio in Francia, del resto, molti italiani scelsero di rimanere a combattere, dando in alcuni casi un contributo determinante alla costruzione dei gruppi locali. Già alcune evasioni dai campi, in effetti, erano state organizzate dalla nascente rete clandestina del maquis, la cui composizione era, prevalentemente, francese, ma in cui cominciavano a entrare fuorusciti italiani, spagnoli e “internazionali” reduci dalla Spagna. Nati come vere e proprie centrali d’evasione e di assistenza ai clandestini – in cui, di fronte alla crisi dei partiti dell’antifascismo e di associazioni come la Lidu, a rafforzarsi erano i legami di solidarietà personali – questi gruppi diedero via via inizio a una resistenza capillare, composta da una diffusa rete di formazioni militari di montagna e cittadine, queste ultime impegnate nell’organizzazione sistematica di sabotaggi e azioni di contrasto nei centri urbani. Basti pensare all’esempio dell’anarchico fiorentino Umberto Marzocchi, che nel 1941 si rifugiò sui Pirenei, nella zona del campo di Vernet, dove, sotto copertura, fu attivo proprio nell’attività di soccorso viveri agli internati e nell’organizzazione delle evasioni dal campo; collegatosi in seguito con la Resistenza francese della regione di Tolosa, partecipò alla liberazione del campo e nell’agosto 1944 entrò a far parte delle Forces Françaises de l’Intérieur (FFI) come vicecomandante di un’imprecisata unità spagnola[10].

Perpignan, Registro del campo di Argeles (©Isgrec)

Quelle degli antifascisti italiani reduci dalla Spagna sono insomma vicende biografiche compresenti in una serie di cornici: locali, nazionali, internazionali. Da un lato, perché il contributo consistente dato da questi uomini prima alla lotta contro Franco e poi contro il nazifascismo è comprensibile solo in virtù della convinzione, che li accomunava, del legame indissolubile fra la sorte della Spagna nel 1936 e quella delle democrazie europee tutte; dall’altro, perché i volontari stranieri furono vittime, loro malgrado, di politiche internazionali che li avrebbero voluti fuori dalla scena politica europea dopo il settembre 1938. Essi rappresentarono la pesante e tangibile eredità di un periodo che la velocità della politica internazionale aveva ormai spazzato via.

In particolare, il limbo nel quale vissero gli italiani e coloro che non poterono rientrare nel paese di origine testimonia quanto la guerra civile spagnola sia stata un conflitto che per essere capito fino in fondo deve essere declinato secondo categorie transnazionali. È quindi fondamentale analizzare le vicissitudini di questi combattenti dietro al filo spinato, seguirne l’iniziale sconforto e poi il risveglio politico fino allo svilupparsi nei campi di una complessa organizzazione clandestina, capire per esempio come fra gli italiani fosse gestita la difficile convivenza fra le diverse anime dell’antifascismo. Risolvere queste domande permette allora di colmare un significativo vuoto di conoscenze sugli anni decisivi che fanno da trait d’union fra la guerra di Spagna e la Seconda guerra mondiale, ma anche di porre dei punti fermi da cui ripartire per un’indagine sull’apporto dei reduci delle Brigate internazionali alla lotta contro il nazifascismo, indagine che ancora manca come evoluzione della storiografia sulla guerra civile spagnola.

Collettivo “El Cubri”, grafiva dfel disco “Cantata del exilio - ¿Cuándo volveremos a Sevilla?" Prima ed. Parigi 1976

Collettivo “El Cubri”, grafica del disco “Cantata del exilio – ¿Cuándo volveremos a Sevilla?” Prima ed. Parigi 1976

 

Note:

[1] Un’evoluzione esemplificata dal brillante lavoro di ricerca e divulgazione condotto sul sistema dei campi francesi da Denis Peschanski, con il suo volume La France des camps pubblicato da Gallimard nel 2002; una corposa opera di analisi in cui nulla si tace delle colpe della Francia di Vichy, la cui ampia diffusione è stata resa possibile da un clima culturale disposto finalmente ad affrontare quella memoria (D. Peschanski, La France des camps. L’internement 1938-1946, Gallimard, Parigi 2002).

[2] P. Ramella (a cura di), Morandi, Aldo. In nome della libertà: diario della guerra di Spagna 1936-1939, Mursia, Milano 2002; Id., La retirada: l’odissea di 500.000 repubblicani spagnoli esuli dopo la guerra civile, 1939-1945, Lampi di stampa, Milano 2003; Id., Dalla Despedida alla Resistenza. Il ritorno dei volontari antifascisti dalla guerra di Spagna e la loro partecipazione alla lotta di Liberazione europea, Aracne, Roma 2012.

[3] E. Acciai, I. Cansella, Storie di indesiderabili e di confini. I reduci antifascisti di Spagna nei campi francesi (1939-1941), Isgrec Quaderni 05, Effigi, Arcidosso 2017.

[4] Sulle stime governative fornite all’epoca e sul problema della loro attendibilità e completezza cfr. l’interessante punto della situazione presentato in G. Tuban (a cura di), Février 1939. La Retirada dans l’objectif de Manuel Moros, Mare nostrum, Perpignan 2008.

[5] Il dibattito in merito a questo tema è ricostruito accuratamente dal testo di J. Rubio, La politique française d’accueil: les camps d’internements, in P. Milza e D. Peschanski (a cura di), Exils et migration. Italiens et espagnols en France 1938-1946, L’Harmattan, Parigi 1994.

[6] D. Lajolo, Il “voltagabbana”, BUR, Milano 2005, pp. 163-164.

[7] Ramella (a cura di), Morandi Aldo. In nome della libertà, cit., pp. 221-222.

[8] P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. IV. La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata, Einaudi, Torino 1973.

[9] Archivio INMSLI, Fondo AICVAS, b. 23, f. 24. Anello Poma, Come vissero gli ex combattenti delle Brigate internazionali nei campi di concentramento francesi, s/d..

[10] I. Cansella, F. Cecchetti, Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Isgrec Quaderni 02, Effigi, Arcidosso, 2012.