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Articolo: conosci - ToscanaNovecento1

Dialogare con la memoria: gli ultimi testimoni. Il Treno della Memoria 2019

Dopo le visite ai campi, il viaggio prosegue in un cinema di Cracovia con un denso pomeriggio di formazione centrato sull’incontro con i testimoni, organizzato, come tutto il viaggio, impeccabilmente dal Museo della deportazione. Apre il pomeriggio al cinema Krilov, l’instancabile Ugo Caffaz, che con tono allarmato, afferma che stiamo attraversando di nuovo un periodo in cui l’Europa -la sua Unione- va a pezzi, in cui (notizia di oggi) si afferma che i protocolli dei Savi di Sion siano veri e che la banca degli Ebrei, cioè i Rothschild, stiano di nuovo mandando in crisi il sistema finanziario mondiale. Seguono i saluti istituzionali, che citano le parole di Liliana Segre contro l’indifferenza. Il Professor Gozzini  cita, invece, la lettera scritta da Hoess la notte prima di essere giustiziato nel 1947 “il mio errore è stato quello di credere ciecamente in ciò che mi è stato detto”. Poi invita a riconoscersi negli occhi degli altri -questa è l’humanitas- e conclude dicendo che come abbiamo il “librone” dei nomi dei morti di Auschwitz, oggi noi dovremmo prendere un librone bianco e raccoglievi i nomi di coloro che sono scomparsi nel Mediterraneo.

Poi salgono sul palco fra gli applausi Andra e Tatiana, figlie di famiglia mista, ebrea da parte di madre, la quale con la nonna era fuggita da un pogrom nell’est Europa a Fiume, città che, alla loro nascita, era Italiana. Nel ’38, per le leggi razziali, parte dei parenti perde il lavoro e il padre italianizza per sicurezza il cognome da Bucich a Bucci. Allo scoppio della seconda guerra, egli, che navigava per il Lloyd Adriatico, viene imprigionato in Sud Africa. Nell’estate del ’43 il resto della famiglia viene raggiunto dalla zia Gisella con il figlio Sergio con il quale loro, bambine, vivono una infanzia normale, fino a una notte del ’44 in cui delle SS e dei fascisti, in seguito a una delazione, si presentano alla loro porta e tutta la famiglia viene arrestata e deportata alla Risiera di San Sabba. Da lì inizia il lungo e doloroso viaggio in treno verso Auschwitz, dove arrivano il 4/4/44 Di esso Tatiana ricorda il secchio con gli escrementi. L’arrivo alla Judenrampe lo racconta Andra, così come la prima selezione, in cui nonna e zia vengono fatte salire su dei camion e scompaiono per sempre. Il suo ricordo di sposta poi nella sauna, dove vengono tatuate. Ma il racconto è interrotto dal pianto, coperto dagli applausi. Andra si riprende e narra la divisione dalla mamma e la collocazione nel Kinder Block. Così inizia una nuova vita, caratterizzata da un grande spirito di adattamento. Ciò che più ricorda è la ciminiera che sputa fumo e fiamma ed il freddo, la neve. Di giorno erano abbastanza liberi e vagavano nel campo fra cumuli di cadaveri. La loro blokowa un giorno le avverte di non fare un passo in avanti, qualora venisse loro chiesto di rivedere le loro mamme. Ma Sergio fa quel passo e, deportato a Neuengamme, muore da cavia di esperimenti medici.

Poi viene proiettato un video di Slomo Venezia,  che racconta la sua terribile esperienza nel sonderkommando. A seguire quello di Hugo Hoellnreiner, la cui storia si è tramandata grazie al prigioniero politico Tadeusz Joachimowski che ha nascosto in un secchio il nome dei deportati Sinti.

Sale poi sul palco Silvia Rusich, in memoria del padre deportato perché oppositore politico. Il babbo le raccontava della lotta  partigiana in modo gioioso, non nascondendosi. In pensione il padre, maestro elementare,  ha iniziato a scrivere ma lei non volle leggere i suoi scritti se non dopo la sua morte. Infatti, andando all’Arena di Pola,   per la quale lui scriveva, Silvia legge alcune parole del padre, che raccontano di Flossenbürg e delle marce della morte.

È la volta di Luca Bravi che ci introduce la testimonianza di Marcelli Martini, il più giovane deportato politico di Italia, a 14 anni. Dapprima incarcerato alle Murate, fu portato a Mauthausen, dal quale si chiede come abbia fatto a sopravvivere. Ricorda una decimazione durante un appello, poi esorta i giovani ad imparare “Perché quello che tu sai o che sai fare non te lo può levare nessuno”.

Sempre Bravi introduce, citando il paragrafo 175 che condannava gli omosessuali, la testimonianza di Hans F.,  che, intervistato nel 2000, non sa o ha ancora paura di dire il suo cognome. Hans racconta del suo arresto senza processo e dell’internamento prima a Dachau, poi a Buchenwald, e infine a Mauthausen. Complessivamente restò  nei campi per 8 anni e 4 mesi. Al ritorno non ne ha parlato con nessuno, neppure con la madre o il fratello, per vergogna.

Torna sul palco Caffaz, che introduce il tema degli IMI, gli internati militari italiani: 650.000, di cui solo 40.000 dalla Toscana, deportati per aver rifiutato di servire Hitler e Mussolini. Viene poi trasmessa la testimonianza di Antonio Ceseri, salvatosi per essere rimasto sepolto vivo sotto non una montagna di cadaveri. Dopo un anno dalla sua deportazione, tornato, deve rifare 8 mesi di servizio militare in marina, a sminare l’Adriatico e dice ironicamente con il suo accento toscano “sta’ a vede’ che so’ sopravvissuto a Hitler e ora muoi in Italia dopo che la guerra è finita”. Quando gli viene chiesto se lo rifarebbe, risponde “assolutamente sì”. Grande esempio di coraggio e di coerenza.

Infine sale sul palco Vera Vigevani Jarach, 90 anni, che con il suo incrollabile sorriso e fiducia nella vita, inizia dicendo “mai più il silenzio”. Poi racconta che due settimane fa le è stata recapitata una lettera del 1943 di suo padre, che dichiara di volersi arruolare per l’Italia libera e per salvaguardare la dignità degli uomini. Ciò dimostra il patriottismo ebraico. Dopo racconta un altro episodio accadutole qualche mese fa: a Venezia le è stata consegnata la pagella di suo marito. Il voto più alto era la condotta! Ciò richiama come contrappasso per opposizione la pagella di sua figlia Franca, che nella sua ultima pagella, aveva tutti 10 ma “male” a condotta, perché in Argentina c’era già la dittatura e lei, da studente, vi si opponeva, cosa che la porterà alla morte. Quando ci sono i sintomi, i prolegomeni della crisi della democrazia, dice Vera, bisogna prendere parte, cioè diventare partigiani. Definendosi un’ottimista, anche se non assoluta, dice che per farlo ci vogliono volontà (e qui cita Gramsci), speranza e testa, cioè il pensiero critico. E rammenta che ora bisogna ancora lottare contro la fame (dovuta al colonialismo), le guerre, il femminicidio. Conclude citando Dante, il terzo canto dell’inferno: mai per viltade fare il gran rifiuto!

La nostra serata è conclusa con la musica particolare e trascinante di Enrico Fink, attore, cantante, musicista, che fa una sorta di teatro canzone, fondendo correnti diverse e recuperando cultura ebraica e storia familiare. [Sullo spettacolo di Fink vedi file allegato]

Senza che si accendano le luci per non rovinare l’atmosfera, defluiamo lenti, dopo un lunghissimo applauso ad Enrico e a tutti coloro che hanno contribuito a questo memorabile incontro.




“Scoprire” Auschwitz. Il Treno della Memoria 2019

Sono alle 8:30 di mattina del 22 gennaio quando arriviamo ad Auschwitz, al campo madre, costruito fuori dalla città per cercare di nascondere ciò che vi accadeva. Esso si estende per 7 ettari e contiene 28 blocchi, creato nel giugno del ‘40 nel luogo dove già esisteva una caserma dell’esercito polacco alla confluenza della Vistola. Dopo aver superato i controlli di sicurezza, degni di un aeroporto internazionale che ti danno subito l’idea di quanto questo luogo di memoria sia ancora sotto pericolo, entriamo dal cancello principale, famigerato per la cinica scritta “Arbeit macht Frei”. Infatti  Auschwitz era un campo di lavoro, dove i deportati venivano usati per faticare nelle miniere di carbone circostanti o nei campi. Così inizia la nostra visita. Ovunque silenzio, solo i nostri passi attutiti dalla suola di gomma dei nostri scarponcini. All’ingresso la temperatura è -9, percepita -12, ma sentiamo meno freddo anche perché forse ormai fa parte di noi o forse perché un pallido sole dà l’illusione della vita sul gelo della morte. Ci avviamo, superando il luogo dove si trovava l’orchestra che suonava delle marce allegre all’entrata e all’uscita dei lavoratori schiavi. Ci avviamo fra i vialetti di quello che oggi è un museo. Esso è stato creato già nel 1947, 2 anni soli dopo la liberazione del campo.

Il lager conteneva fra i 1200 e i 1500 prigionieri alloggiati in blocchi di muratura a due piani, sfruttati dalle cantine fino al sottotetto. La nostra prima tappa è il blocco 4 recante all’ingresso la scritta “sterminio”. A destra, una grande mappa con Auschwitz al centro, nel cuore dell’Europa, un grande snodo ferroviario; puntini neri invece segnano i ghetti e i campi di transito da cui sono partiti i treni diretti qui. Dal 1940 al 1945 sono stati deportati qua 1.300.000 persone,  prevalentemente ebrei, ma anche 55.000 prigionieri politici e altrettanti prigionieri di guerra russi (infatti la Russia non aveva firmato la convenzione di Ginevra) e 23.000 “zingari”. In quella stessa stanza si trova una urna con ceneri umane. I primi a fare ingresso nel lager furono 728 membri della intellighenzia polacca seguiti da alcuni ecclesiastici. Nella stanza successiva ci sono delle foto tratte dall’album Auschwitz che rappresentano l’arrivo di deportati dopo la sua sommossa del ghetto di Varsavia e alcune baracche dello Zigeunerlager, cioè la zona destinata agli zingari. La terza stanza prende il nome di strada della morte, infatti alle pareti campeggiano delle foto rappresentanti l’arrivo nel lager alla Judenrampe. Oltre alle SS vediamo raffigurati anche alcuni prigionieri. Essi cercavano di aiutare i nuovi arrivati suggerendo di non dire che facevano lavori da intellighenzia né che avevano meno di 14 anni,  (ciò li avrebbe condannati a una morte sicura ma questo non lo potevano rivelare). Accanto una foto rappresenta la divisione tra uomini da una parte, donne e bambini dall’altra, seguita da un’altra che raffigura le valigie ed altri oggetti ammucchiati sulla rampa mentre il convoglio se ne va, vuoto. Dall’altra parte della stanza c’è una copia dei biglietti ferroviari perché i deportati si devono pure pagare il viaggio! In fondo una grande mappa che rappresenta tutto il complesso concentrazionario di Auschwitz comprendente Birkenau e Monowitz, piccolo sottocampo importante per l’economia tedesca grazie alla presenza della Buna, una fabbrica di plastica, e della IG Farben, una fabbrica di vernici. Saliamo al primo piano, dove ci troviamo di fronte la stanza 4, intitolata “tecniche di sterminio”. Qui alle pareti ci sono le foto scattate di nascosto da membri del sonderkommando che rappresentano, sfocate per la fretta, donne nude che corrono e fosse di cadaveri che ardono. Al centro della stanza un plastico che riproduce una camera a gas e un forno crematorio, mentre in una teca sono contenute latte di zyklon b. Nella stanza 5, intitolata alla spoliazione dei corpi, ci troviamo di fronte ai resti più impressionanti di tutto il campo: 7 tonnellate di capelli umani (qui ne sono esposte due). Nella stanza 6, una immagina rappresenta l’incendio del Kanada durato 4 giorni. Infatti i Tedeschi, man mano che L’ Armata Rossa si avvicinava,  non solo avevano fatto saltare in aria i forni crematori, ma avevano cercato di distruggere altre prove come il Kanada.

Entriamo poi, ordinatamente e sempre silentemente, nel blocco attiguo, il 5, quello contenente gli oggetti, forse il più impressionante. Ci accolgono montagne di occhiali, 80.000 scarpe, anche di bambini, (e persino il lucido da scarpe), scialli degli ebrei ortodossi, oggetti di igiene quotidiana come spazzole e pennelli da barba. L’enormità della quantità e il pensiero che ad ognuno di quei reperti corrisponde una vita umana passata nel vento, lasciano sgomenti, senza fiato né parole. La stanza 3 contiene stoviglie e posate, insomma tutto ciò che avrebbe dovuto servire alla nuova vita che ai prigionieri era stata promessa dell’Europa orientale, come coloni. Saliamo al primo piano: valigie segnate con nome, cognome, data di nascita e indirizzo per poterle poi ritrovare. Passiamo poi nel blocco limitrofo, il 7, che ci parla della vita quotidiana dei prigionieri attraverso i disegni fatti da un sopravvissuto: Wladyslaw Siwek. In fondo alla sala, in una teca sono esposti i vestiti originali del campo, i cosiddetti pigiama a strisce con i numeri (gli stessi che prigionieri portavano tatuaggi sul braccio) e i triangoli di vari colori: rosso per i politici, rosa per gli omosessuali, viola per i testimoni di Geova, nero per gli asociali, verde per i criminali comuni, l’acronimo SU per i prigionieri sovietici e infine la stella di Davide gialla ovviamente per gli ebrei.  Triangoli, stelle, colori si potevano anche sommare perché poteva capitare, come ad esempio a Primo Levi, di essere sia ebreo sia deportato politico. La stanza successiva ci pone di fronte al volto terrorizzato e sgomento di bambini di 2, 10 e 14 anni scattate alla liberazione del campo. Il bambino di 2 anni sembra un neonato, gli altri sono scheletrici così come scheletriche sono le donne: abbiamo le foto di due di loro, una di 35 anni, l’altra di 37 che il giorno della liberazione pesavano rispettivamente 25 e 23 kg. Nei lager, infatti, si moriva letteralmente di fame: al mattino veniva distribuito ai prigionieri solo del latte con un caffè molto allungato, a pranzo pane duro diluito con sabbia e un po’ di margarina o marmellata, la sera una zuppa di erbe. Passiamo alla stanza numero 3 che contiene i disegni del prigioniero Mieczyslaw Kościelniak sulla vita quotidiana nei lager. Nel corridoio ci assalgono su entrambe le pareti i volti, gli occhi e gli sguardi silenziosi dei deportati. Infatti, quando si entrava nel campo, i nazisti facevano una foto con il prigioniero in tre posizioni: davanti, di profilo e di tre quarti. Le foto qui esposte sono tutte di persone uccise rappresentante di fronte e sotto ogni foto ci sono tre date: quella di nascita, quella di deportazione e quella di morte. Ci guardano spettrali, le donne rasate non si distinguono dagli uomini. La stanza 4 è dedicata al destino delle donne e dei bambini. Le prime, private dei loro figli, perdevano la voglia di vivere e morivano più in fretta degli uomini, nell’arco di un paio di mesi; talvolta si suicidavano gettandosi sul filo spinato. Quelle incinte venivano uccise direttamente all’arrivo. I bambini deportati ad Auschwitz furono 332.000 di cui si salvarono solo 650.

La sensazione di orrore continua in climax ascendente quando arriviamo al blocco 11, il cosiddetto blocco della morte, dove venivano incarcerati, torturati, uccisi i deportati. Si veniva condotti qui anche solo per aver rubato una mela da un albero o fatto i propri bisogni senza il permesso del Kapó. Per i reati più gravi vi si riuniva un tribunale fantoccio con due membri della Gestapo. Inutile specificare l’esito del processo. Scendiamo smarriti nel sotterraneo di questo blocco costituito da varie celle che venivano usate per la tortura e per la morte. Qui è stata fatta anche la prima prova di utilizzo dello zyklon b per tre giorni consecutivi ma è stata poi ripetuta perché non era andata a buon fine. In fondo al corridoio sulla destra c’è una stanza che contiene delle microcelle di 90 x 90 cm. per la punizione di 4 prigionieri per volta che devono passare là dentro da 1 a 10 giorni. Entravano da un piccolo pertugio ubicato in basso, strisciando sul proprio ventre e spesso non ne uscivano vivi. Dall’altro lato del corridoio c’è la cella numero 20 che veniva chiamata “cella segreta” perché qui si moriva per soffocamento. Vi venivano infatti rinchiuse 30-40 persone lasciate senza aria. Nel sotterraneo dovunque il senso di soffocamento attanaglia anche noi. Adiacente ad essa c’è la cella 18, in cui prigionieri venivano lasciati morire di fame. Qui è morto anche Padre Kolbe, poi santificato, per aver dato la propria vita in cambio di quella di un padre di famiglia. C’è poi la stanza per i fuggiaschi ma non veniva rinchiusa qui sono questa categoria di persone ma anche, per rappresaglia,  per ogni fuggiasco 15 membri della sua baracca.

Adiacente a questo blocco c’è il cortile con il muro della morte. Qui non si può parlare, per rispetto. In fondo ad esso il muro della morte in cui i prigionieri, nudi, venivano condotti a coppie e poi uccisi con un colpo alla nuca. In questo cortile avvenivano anche le punizioni e le torture: possiamo vedere i pilastri usati per legare i prigionieri con i piedi sollevati da terra, in modo tale da spezzare loro le braccia, renderli dunque inabili al lavoro e quindi da gassare. Altre punizioni avvenivano attraverso frustrate e bastonate che spesso i prigionieri si dovevano infliggere da soli contando in tedesco. Se perdevi il conto,  ricominciavi da capo. Sull’altro lato di questo cortile sorge un edificio con le finestre oscurate. È il blocco 10 e le finestre sono chiuse da nere assi di legno affinché non si vedesse ciò che accadeva all’interno, cioè esperimenti di sterilizzazione delle donne e mutilazioni genitali. È vero, non si vedeva,àa ma si sentivano le urla di dolore. Angosciati, ci dirigiamo verso la piazza dell’appello passando accanto all’edificio ospedaliero che di ospedaliero in realtà aveva solo il nome perché veniva chiamato anticamera della morte. Nel reparto di chirurgia varie ditte, tra cui la Bayer, facevano esperimenti sui prigionieri cavie, ad esempio sul tifo petecchiale. Di fronte, c’è una baracca di legno che era utilizzata come lavanderia delle SS;  ovviamente solo di quest’ultime, perché ai prigionieri non era mai consentito di cambiarsi il pigiama a strisce. Passiamo l’edificio fotografico e quello che latrine e arriviamo alla Appelplatz. Qui, come dice il nome stesso, ogni mattina all’alba e ogni sera dopo il lavoro avveniva l’appello dei prigionieri, ovviamente non nominativo ma urlando in tedesco il numero che aveva sostituito non solo la dignità ma anche l’identità umana. I nazisti erano precisi e i conti dovevano tornare: se mancava qualche prigioniero (anche solo perché deceduto) l’appello veniva prolungato. Il più lungo durò per 19 ore. Qui avvenivano anche appelli punitivi, in cui i prigionieri dovevano rimanete immobili, con le braccia in alto oppure fare inutili esercizi ginnici, insostenibili per uomini così pesantemente provati. Durante l’appello avveniva anche l’uccisione dei fuggitivi precedentemente torturati. Veniva messo al loro collo un cartello con la scritta “urrà, urrà, urrà, di nuovo sono qua”  e poi impiccati. Da Auschwitz vi furono 900 tentativi di fuga, di cui 160 ebbero successo (4 prigionieri addirittura fuggirono travestiti da SS dopo averne rubato l’automobile).

Usciamo dalla zona del campo destinata ai prigionieri ed entriamo in quella dedicata alle SS e ci troviamo di fronte alla forca dove fu impiccato il capo del campo, Rudolf Hoess, dopo il processo a Varsavia. La forca sorge a metà strada fra la casa di Hoess, fatta da lui costruita nel ’43, e il crematorio, usato dal 1941 fino alla fine del 1942, quando entrarono in funzione quelli di Birkenau. Dopo divenne un bunker per le SS, mai utilizzato però, perché il campo non venne mai bombardato. Ad Auschwitz la camera a gas si è conservata. Non è lecito parlare, ma a tutti noi manca il fiato quando vediamo le 4 fessure da cui era introdotto lo Zyklon B e percepiamo odore di cenere di fronte ai forni crematori. Scioccati e ancora in silenzio andiamo al blocco 18, il memoriale degli Ebrei ungheresi, in cui, al piano terra, è proiettato un filmato originale sulla deportazione, mentre al primo piano è collocata una esposizione multimediale (in linea con le nuove direttive per gli allestimenti) di foto. C’è anche una ricostruzione in plexiglass di un vagone ferroviario. E l’allestimento di questo memoriale mi porta a parlare agli studenti dello smantellamento del memoriale italiano, il blocco 21. Inaugurato nel 1980, è costituito in forma di un’ossessiva spirale, ideata da personalità importanti del Novecento, tra cui alcuni ex prigionieri nei lager: da Lodovico Belgiojoso a Primo Levi, da Pupino Samonà a Renato Guttuso. E verosimilmente sono proprio le immagini dipinte da Guttuso che, percorrendo la storia della Resistenza partendo da Marx, Gramsci e rappresentano anche una falce e martello, ad aver dato fastidio al precedente direttore del Campo, che ne ha ordinato lo smantellamento, con la scusa che non era in linea con le tendenze di modernità e multimedialità a cui si dovevano attenere i vari memoriali. Dopo essere stato in magazzino per anni, lo ha “adottato” la Toscana e troverà sistemazione a Gavinana, presso Firenze, in piazza Gino Bartali, il ciclista italiano “giusto tra le nazioni”, dove riprenderà la sua funzione museale. Guido poi il gruppo ad un altro blocco, il 13, anch’esso poco frequentato, perché costituisce il memoriale del Popolo romanés. È questa l’occasione per parlare del porrajmos, che nella loro lingua vuol dire inghiottimento, alludendo allo sterminio di questo popolo. Usando il censimento fatto dal prefetto di Monaco Dillmann nel 1905, il regime nazista inizia a deportare gli zingari in campi di concentramento, perché considerati, inferiori, con il quoziente intellettuale più basso e l’istinto al nomadismo. Segue poi la sterilizzazione forzata ed infine il lager. Gli zingari vengono portati a Birkenau e collocati in un settore speciale del campo, chiamato appunto Zigeunerlager , che viene liquidato la notte tra il primo e il due di agosto 1944. Nel porrajmos trovano la morte 23.000 persone. L’ultima parte del nostro percorso è costituita dal blocco 27, a destra delle forche per le impiccagioni comuni. Esso è intitolato all’olocausto e ripercorre la storia del popolo ebraico attraverso immagini e sottofondo musicale. La canzone, infatti, intona che non c’è posto né luogo in tutta la terra dove non si trova un uomo che prega. Entriamo nel buio di una stanza alle cui pareti vengono proiettate scene di vita di famiglie ebraiche mentre il piano superiore è dedicato al nazifascismo: video proiettano discorsi di Hitler, folle che inneggiano a lui, estratti di Mein Kampf, immagini di roghi di libri. In una stanza delle grandi pareti bianche si trovano piccole riproduzioni a matita di disegni fatti da bambini nel lager. Commoventi. Infine alle ore 12:30 ci riuniamo tutti di fronte al cortile della morte e la delegazione della Regione Toscana, gonfaloni in testa, deposita una corona di fronte al muro della morte. Poi il nostro corteo si snoda, sempre più silenzioso e toccato, per i vialetti di Auschwitz, ed usciamo, pieni di commozione e interrogativi irrisolti, da quello stesso cancello che i prigionieri avrebbero tanto voluto varcare da uomini liberi.




Camminare nel lager. Il Treno della Memoria 2019

Lunedì 21 gennaio. Siamo scesi con l’autobus a Birkenau, il freddo dei sette gradi sotto zero ci entrava nelle vene, la nebbia contribuiva a conferire un senso spettrale all’ambiente, così come i rami congelati degli alberi, o come il nevischio che cadeva su di noi. Giunti dinanzi al cancello della morte, siamo entrati. Il nome “Birkenau” significa “betulla”, all’apparenza rassicurante, vi sorgeva davvero un bosco di betulle, in parte abbattuto, così come le case, i cui abitanti sono stati fatti sgombrare in sole tre ore. La realtà vuole che Auschwitz 2 si estenda per 145 ettari, su un terreno malsano, alla confluenza della Vistola. La costruzione del campo di concentramento iniziò nell’ottobre del ’41 ed esso era diviso in tre parti: B1 (baracche in muratura), B2 (baracche in legno), Mexico (un terzo settore mai finito). Delle baracche tutt’ora conservate, quelle in muratura corrispondevano agli alloggi femminili, comunque senza fondamenta. Successivamente, dal ’45 furono portate dalla Germania delle baracche prefabbricate in legno che servivano come stalla per 42 cavalli, ma che qui contenevano i prigionieri, il cui numero sarebbe dovuto essere di 400 per baracca, ma il sovraffollamento portò a contenerne fino a 700.

Facciamo il nostro ingresso, in silenzio, in una delle 22 in legno rimaste in piedi, la guida ci racconta l’indicibile condizione di vita, mostrandoci le brande a castello su cui i prigionieri dormivano accatastati tra malattie, sporcizia, parassiti, sudore; talvolta chi era stanco non riusciva ad arrampicarsi al proprio tavolaccio, allora dormiva per terra e si svegliava durante la notte a causa dei morsi dei topi. Nottetempo non si poteva uscire dalle baracche, per cui i bisogni fisiologici erano espletati in dei secchi alla fine della stessa baracca. Infatti l’accesso ai bagni era consentito esclusivamente al mattino, prima del lavoro, e la sera, prima di rientrare. Durante la giornata si potevano fare bisogni solamente con il permesso del kapó. E così entriamo nella baracca con le latrine, la cui prima parte conteneva lavabi non conservati e la seconda delle cavità da usare a mo’ di water. La baracca con le latrine fu costruita solo in seguito. In precedenza veniva utilizzato un fosso ubicato fra la zona maschile e quella femminile, nel quale, spesso, per la stanchezza, i prigionieri cadevano. Persino la defecazione veniva controllata, infatti i kapó concedevano massimo 6 secondi per essa. Le latrine erano senza scarico, perciò c’era un kommando addetto a pulirle. Rimaniamo stupiti dalle parole della guida che ci spiega che questo era un lavoro da privilegiati, dato che gli escrementi producono calore, le SS non ti toccavano per il puzzo e talvolta, uscendo a buttare gli escrementi, si potevano consegnare lettere alla resistenza locale.

Ci spostiamo poi alla banchina ferroviaria dalla quale venivano fatti scendere i deportati, costruita nel ’44 nel momento di massima affluenza di prigionieri al campo, in particolare in seguito agli arrivi di convogli dall’Ungheria. Inizialmente, Birkenau era un campo di concentramento per 100.000 prigionieri, ma successivamente fu uno dei principali strumenti di sterminio nel contesto della soluzione finale della questione ebraica, per cui dall’aprile del ’43 vennero effettuate, all’arrivo di ogni convoglio, delle selezioni, fra chi, considerato ad occhio abile al lavoro, si salvava per qualche mese e per chi, invece, era destinato subito al crematorio. Era l’occhiata di uno pseudomedico nazista e un pollice volto a destra o a sinistra a significare la vita o la morte di un deportato e solo tra il 15% il 20% di essi non venivano condotti direttamente alle camere a gas. Vicino alla banchina ferroviaria costruita nel ’44 è ora collocato un vagone originale trovato al confine tra la Germania e l’Olanda e comprato dal figlio di un prigioniero ucciso direttamente sulla Judenrampe per aver disobbedito agli ordini non consegnando gli oggetti religiosi. Ognuno di questi vagoni, nati come vagoni merci o per cavalli e che viaggiavano piombati per giorni e giorni, conteneva circa 80 persone. C’è una foto dell’album Auschwitz (una serie di circa 200 fotografie scattate da un militare SS nel maggio-giugno ’44, oggi conservate allo Yad Vashem di Gerusalemme) che ritrae proprio il momento della selezione. Essa mostra anche un’ambulanza della Croce Rossa, bieco inganno dall’aspetto rassicurante per chi scendeva dal treno, perché, anziché essere usata da personale medico, conteneva le latte con lo Ziklon B, la sostanza nata come insetticida a base di acido cianidrico o acido prussico, utilizzato come agente tossico nelle camere a gas. Infatti Birkenau aveva all’inizio 2 camere a gas provvisorie in 2 edifici collocati nel bosco di betulle, chiamati “la casetta bianca” e “la casetta rossa”, in cui, murate le finestre, veniva introdotto quest’agente letale. I corpi, allora, venivano seppelliti, ma dopo una visita di Himmler, si decise nel ’43 la costruzione di 4 camere a gas con relativi crematori. Tutti fatti saltare in aria dalle SS per tentare di celare le mostruosità che vi avevano luogo. Solo un crematorio, quello numero 4, fu oggetto di un tentativo di distruzione da parte di una rivolta interna del Sonderkommando, cioè, di coloro che erano addetti al lavoro di ripulitura delle camere a gas. La rivolta fallì e 4 donne che vi avevano collaborato furono impiccate proprio la settimana prima della liberazione di Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio 1945 ad opera dell’armata rossa.

Dei crematori possiamo solamente intuire la forma: una costruzione a L costituita da uno spogliatoio, di circa 280 metri quadrati, dotato di panchine e attaccapanni per far credere ai deportati che avrebbero ripreso, all’uscita della doccia, i loro vestiti; addirittura venivano dati loro sapone e asciugamano, per far credere di entrare in una vera e propria doccia, che in realtà era una camera a gas ubicata nel sotterraneo di circa 10 metri quadri, dove entravano circa 1500 persone, ingannate dal fatto che dal soffitto pendessero delle docce, dalle quali però, anziché acqua, usciva lo Ziklon B, introdotto da feritoie e comignoli sul tetto. Dopo venti minuti tutto era finito ed entrava il Sonderkommando alla cui vista si apriva un aspetto terrificante: la lotta spaventosa che si scatenava in quelle camere, perché, quando il gas cominciava ad agire, si propagava dal basso verso l’alto, al buio non si vedeva e i più forti volevano salire più in alto schiacciando i più deboli, scatenando una battaglia. È per questo che i bambini, i malati e gli anziani si trovavano sotto gli altri. Talvolta le madri erano così avvinghiate ai loro figli, che non si riuscivano a separarne i corpi. Il lavoro nel Sonderkommando era terribile: gli ebrei con quest’incarico dovevano tagliare i capelli, strappare i denti d’oro e sfilare i gioielli: tutto serviva all’economia del Reich. Venivano cremate circa 1500 persone al giorno ma alcuni dei crematori contenevano tre camere a gas, per una capacità globale che poteva raggiungere le 1800 persone. Ci dirigiamo poi in silenzio verso il bosco di betulle, costeggiando tre cisterne dell’acqua che venivano usate per filtrare acqua ed escrementi, nel tentativo di produrre biogas.

Attraversando delle vasche, adesso ghiacciate, che in realtà contenevano (e probabilmente contengono ancora) le ceneri dei cremati, arriviamo nella zona chiamata “Kanada”, nome dato dai prigionieri stessi, alludendo alla ricchezza di quel paese. Infatti i deportati, ingannati alla partenza, dicendo loro che sarebbero andati ad abitare nella Polonia orientale, o che avrebbero trovato ad accoglierli un nuovo lavoro, potevano portare con sé 25 o 30 kg di bagaglio a testa; ovvio che, preparando una valigia per un cambio radicale di vita, non si prenda solo ciò che è più caro, come fotografie, ma anche oggetti preziosi. In realtà, di tutto venivano spogliati già all’arrivo e le valigie portate al Kanada, dove veniva smistata la roba. Da qui tutto veniva poi spedito in Germania, per contribuire all’economia di guerra. Gli oggetti migliori, venivano distribuiti al popolo tedesco, i capelli o i vestiti più logori servivano invece per l’industria tessile. Anche il lavoro al Kanada era considerato buono, non solo perché avveniva al chiuso, ma perché ci si poteva anche procurare qualcosa, portandolo via di nascosto. Entriamo in quest’edificio, accolti in silenzio da migliaia di fotografie trovate nelle valigie e da un carrello sulla sinistra, che serviva – ci spiega la guida – a portare via le ceneri umane quando i laghetti erano pieni. In quel caso, le ceneri servivano per concimare i campi limitrofi o, d’inverno, per essere sparse nel campo di concentramento stesso, per non scivolare. Quelle in eccesso, buttate nel fiume.

È dal Kanada che si forma il nostro commosso e silenzioso corteo che dà inizio alla cerimonia commemorativa. Seguendo i gonfaloni della Toscana, ci dirigiamo verso la parte centrale del campo, dove vi è un monumento costruito negli anni ’60 da artisti italiani e polacchi vincitori di un concorso, che commemora in maniera allusiva le vittime. Infatti esso rappresenta varie tipologie di tombe, un comignolo e una coppia che si abbraccia prima della morte. Ci sono poi 23 targhe metalliche quadrate di dimensioni uguali, che nelle 22 lingue delle vittime, più in inglese recitano: “Grido di disperazione ed ammonimento all’umanità, sia per sempre questo luogo, dove i nazisti uccisero circa un milione e mezzo di uomini, donne e bambini, principalmente ebrei, da vari paesi d’Europa. Auschwitz-Birkenau 1940-1945”. Apre la cerimonia Ugo Caffaz, l’ideatore del treno della memoria, colui che ha speso tutta la sua vita per combattere l’entropia del razzismo e per cercare di affermare un concetto: l’unicità del genere umano. È stato lui a riportare Primo Levi ad Auschwitz nel 1982 e da allora, come consigliere per le politiche della memoria della regione Toscana, ha organizzato la più grande forma di partecipazione di giovani studenti a regolari e preparati viaggi della memoria nei capi di sterminio nazisti, alternandoli a una grande giornata su questo tema al Mandela Forum di Firenze. Egli inizia il suo breve discorso citando Primo Levi, a cui quest’edizione del treno è dedicata: “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre”. Poi cita una frase che Primo Levi aveva concepito per il memoriale del blocco 21, quello italiano, di Auschwitz: “Fa’ che il tuo viaggio non sia stato inutile, che non sia inutile la nostra morte. Per te e per i tuoi figli, le ceneri di Auschwitz valgano di ammonimento. Fa’ che il frutto orrendo dell’odio, di cui qui hai visto le tracce, non dia nuovo seme né domani né mai”. E Caffaz conclude imperando: “Non voltate mai la faccia di fronte alla discriminazione e all’odio”. Interviene poi Monica Barni, vicepresidente della Regione Toscana e assessore alla cultura. Ella ha sottolineato che ad ogni viaggio cresce la comunità di coloro che portano avanti la memoria nel presente. La commemorazione non deve essere fredda né strumentale, ma monito di tolleranza e accoglienza, soprattutto in un periodo di nuova radicalizzazione dell’odio e della violenza, sia in Italia che all’estero. A tale proposito cita l’uccisione del sindaco di Danzica, Pawel Adamowicz, accoltellato il 14 gennaio di quest’anno da un giovane di 27 anni, durante una manifestazione di beneficenza. L’assassino è sì uno squilibrato, ma fomentato dall’estrema destra, quindi possiamo dire che il primo cittadino di Danzica è stato ucciso dall’odio ultranazionalista, poiché egli era un uomo di solidarietà e di libertà, un europeo. La Barni cita poi Amos Oz, scrittore e giornalista israeliano scomparso il 28 gennaio scorso: “Ritengo che l’essenza del fanatismo stia nel desiderio di costringere gli altri a cambiare, […] piuttosto che lasciarli liberi. Il fanatismo è praticamente dappertutto, nelle sue forme più silenziose e civili, è presente tutt’intorno a noi e forse anche dentro di noi. Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita […] il contrario di compromesso è fanatismo, morte”. E il lager è forse la massima espressione del fanatismo omicida. E di citazione in citazione si arriva a Zygmunt Bauman, che nel suo saggio dal titolo “Modernità e olocausto”, lega la creazione dei campi di sterminio alla modernità attraverso l’economia, la burocrazia e la tecnica. Bauman dice anche che siamo condannati a scegliere e la nostra vicepresidente regionale invita infatti a scegliere, ad uscire dalla zona grigia e a ricordare che ogni tempo ha il suo fascismo. Il senso del nostro viaggio è la conoscenza, quella che ci deve guidare nel presente. La commemorazione si conclude con la lettura di tre preghiere. La prima è cristiana ed è una poesia di David Maria Turoldo, sacerdote antifascista. Uno stralcio di essa recita: “Perciò ti chiediamo che si sollevi da questi lager il coro immenso delle loro voci, soffocate dal pianto prima e ora dall’indifferenza di molti, si sollevi a riempire l’Europa come un vento di primavera. Si sollevino a dire la verità specialmente i giovani, a dire alle nuove generazioni di cosa è stato capace il nostro tempo, cosa è accaduto sotto i nostri occhi, nel cuore di quest’Europa che doveva essere cristiana. A dire che per quelle vie non c’è nessun futuro […] Signore, abbi pietà dell’Europa, di questa costellazione, di ossari, di lager e di cattedrali, che almeno dalle ceneri dei morti, fuse ora in unità più che il cemento delle nostre costruzioni orgogliose, sorga con l’Europa che loro hanno sognato e, nella sofferenza comune, avevano cominciato a realizzare […] affinché sorga un mondo una vita che loro hanno invocato per noi con il loro sacrificio. E così non avvenga mai, mai pi ciò che è avvenuto, ciò che purtroppo è potuto accadere”. Si passa poi alla “preghiera per Auschwitz” in lingua romanés per ricordare i 23.000 sinti e rom, vittime dell’olocausto: “In nome del Signore, Dio di tutti e dei nostri rom e sinti uccisi, sterminati dalla mano del nazifascismo. Dona il riposo alle loro anime, ai loro corpi, ai loro spiriti, a tutti coloro di cui ci ricordiamo e a quelli che non ricordiamo e che hanno lasciato questo mondo giovani, vecchi e piccoli e a quelli ancora che non erano nati dal grembo delle loro madri. Signore, perdona le anime innocenti finite in tutti i lager e dona la consapevolezza a tutta l’umanità che le guerre portano solo ad annientamento e morte. In nome di Dio, il compassionevole, il misericordioso, guidaci sulla retta via”. Poi il rappresentante della comunità rom invita tutti a dire la parola che unisce tutte le religioni: Amen. Il momento più toccante è stato quando Enrico Fink ha cantato con la sua voce commossa la preghiera ebraica Kavanàh “Signore della misericordia”, scritta per ricordare gli stermini avvenuti già dall’anno Mille e susseguitisi per tutto il millennio fino ad Auschwitz. È una preghiera che commemora i morti di morte violenta, la cui vita è stata troncata ingiustamente, prematuramente. Questo canto è diventato, dopo lo sterminio nazista, l’emblema di quella tragica esperienza. A perenne memoria, ricorda i nomi di tre lager tristemente celebri, Auschwitz, Mauthausen e Treblinka. Il corteo poi si scioglie e torniamo taciti e attoniti ai nostri autobus, sapendo che, varcando l’uscita del cancello della morte, non saremmo più state le stesse persone di 4 ore prima.




Spiegare il porrajmos a scuola.

Personalmente, ho iniziato ad occuparmi della questione del popolo romanì sei anni fa, dopo aver ascoltato una lezione alla Summer School della Regione Toscana propedeutica all’edizione del 2013 del Treno della Memoria.

La lezione era tenuta dal giovane ricercatore Luca Bravi, che ha trattato del porrajmos.

Da allora, questo sterminio dimenticato o taciuto è diventato oggetto di grande interesse per me e, attraverso la storia della liquidazione la notte fra l’1 e il 2 agosto dello Zigeunerlager di Auschwitz-Birkenau, mi sono appassionata alla storia di sinti, rom, camminanti, non solo leggendo saggi e  articoli su di loro, ma avvicinandomi (indimenticabile l’esperienza delle lezioni sull’integrazione dei rom fatte a Secondigliano, Scampia, Portici) e facendo amicizia con loro, soprattutto con Ernesto Grandini.

Come docente, ho iniziato a spiegare il porrajmos a scuola, soprattutto in occasione del giorno della Memoria o come preparazione per gli alunni che avrei portato al Treno della Memoria (a cui sto partecipando per la terza volta) e ho invitato anche Luca a tenere conferenze ai ragazzi di quarta e quinta, sia sul porrajmos sia sul più cocente e attuale problema dell’integrazione e della discriminazione. A tale proposito ho aderito (e poi ne sono diventata formatrice) al progetto europeo SPRYNG, Spreading Young Non-discrimination Generation in collaborazione con Poiein.lab, il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Muenster, in Germania e con quello corrispettivo di Firenze.

Questo anno, con i miei studenti di quinta Liceo Linguistico (che lo scorso anno avevano partecipato al meeting transnazionale SPRYNG) abbiamo deciso di aderire alla XIX edizione del concorso “i giovani ricordano la Shoah”, indetto dal MIUR. Con i miei allievi abbiamo ideato e montato un filmato attinente alla frase della Senatrice a vita Liliana Segre, oggetto del concorso e, tra l’altro, il nostro elaborato contiene 6 video in cui ogni ragazzo, partendo da storie anche poco note, di chi non è tornato dai campi, racconta la sua vicenda, dando così voce a quella polvere muta; ognuno incarna una categoria: l’ebreo, la lesbica, l’oppositrice politica, la disabile, la zingara. Abbiamo deciso di girare i video in luoghi significativi, ad esempio a Palazzo della Signoria, all’associazione CREA per disabili e… in un campo rom.

Così, grazie alla mia amicizia con Ernesto Grandini, siamo andati a Prato, muniti di videocamera e macchine fotografiche. Il campo si trova ai margini della città, lungo uno stradone, viale Manzoni, dove le macchine corrono e si tuffano poco dopo nel nodo di viadotti che allaccia la zona di capannoni industriali all’autostrada Firenze-Mare. È uno dei quattro campi rom di Prato ed esiste da trent’anni. A Prato, infatti, vivono in totale 108 romanì: ci sono due campi di sinti residenti costituiti rispettivamente da 68 e 34 abitazioni in legno, container, roulotte, camper, e un campo dove vivono 6 bosniaci rom residenti. Ci accoglie l’infaticabile, solare, affabulatore Ernesto, che ci fa entrare in piccola unità abitativa adibita a cucina e salotto. Ernesto è anche Presidente dell’associazione Sinti Italiani di Prato e  membro dell’ U.N.A.R. (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), l’ufficio deputato dallo Stato italiano a garantire il diritto alla parità di trattamento di tutte le persone, indipendentemente dalla origine etnica o razziale, dalla loro età, dal loro credo religioso, dal loro orientamento sessuale, dalla loro identità di genere o dal fatto di essere persone con disabilità.

Ernesto è un pozzo di conoscenza e una specie di divulgatore automatico di cultura sinta. Parla in continuazione come se fossimo a lezione, pone domande di cultura rom a cui i miei alunni non sanno come rispondere un po’ per ignoranza un po’ per imbarazzo.  Allora ci racconta cosa è stato nascere in Italia nel 1955, da padre italiano, eroe partigiano, e mamma sinta, conosciutisi alle giostre di Lucca, ed essere messo nelle scuole speciali, quelle dedicate ai bambini rom, che aprivano negli scantinati quando non era orario di lezione per gli alunni “ordinari”. Come è stato essere guardato sempre con sospetto e paura oppure sentir parlare della sua gente solo come spauracchio nelle campagne elettorali. Lui non ha problemi a dichiarare di essere un italiano di minoranza culturale sinta, perché è uno scafato e un chiacchierone, ma riconosce che per un sinto dire chi sei richiede coraggio, perché può voler significare perdere un lavoro. I miei alunni pendono dalle sue labbra. Poi mostra loro tutte le foto del suo cellulare: foto d’epoca di famiglie sinte, personaggi famosi sinti, incontri sulla storia dei sinti.

Mentre beviamo acqua e mangiamo i cioccolatini che abbiamo portato come dono ospitale, Ernesto (a malincuore, si vede) lascia la parola alle due sue nipoti (che saliranno con lui e con noi sul Treno della Memoria), Nancy, studentessa di 17 anni e Margherita, operaia di 24, affinché i miei alunni pongano loro domande, in una conversazione fra pari. A dire la verità, le mie studentesse son subito colpite dall’abbigliamento del tutto alla moda delle due ragazze, dal loro I-phone, dal loro parlare la lingua in maniera correttissima, insomma, dal fatto che non le distingueresti mai da un “gagé”, termine con il quale i rom definiscono “gli altri”, i “non rom”.

E così iniziano le domande:

CHI SONO l SINTI?

Margherita: Non siete abituati a chiamarci sinti, perché in Italia si usa la parola “zingari”, ma noi non la useremmo mai, perché significa nomade, ladro, asociale; in Italia ci sono soprattutto due gruppi: i rom ed i sinti; i rom con antica provenienza dalle terre dell’est (Nord dell’India e Pakistan) ed i sinti con antica provenienza dalle terre del Nord Europa come la Germania, l’Austria, la Svizzera, ma anche la Francia, il Belgio.

Nancy: infatti i sinti hanno gli stessi caratteri somatici degli europei e sono di pelle chiara, i rom hanno tratti più medio-orientali, ad esempio la carnagione olivastra o i capelli scuri. Io sono una “meticcia”, perché i miei genitori sono uno sinto e una rom, per cui spesso mi scambiano per sud americana o del vicino oriente (e ci mostra i suoi capelli ricci e scuri, che a noi sembrano bellissimi!).

Margherita: le nostre sono origini antiche, perché in Italia ci siamo almeno dal 1400. Qui in Italia siamo circa 170mila rom e sinti, più della metà sono di cittadinanza italiana. Le traiettorie partono intorno all’anno Mille dall’attuale Pakistan e poi si diramano e confondono, dando origine a vari gruppi (rom, sinti, manouches, kale, romanichals) con le loro specificità, ma che si riconoscono in uno stesso popolo, il popolo romaní. Il nomadismo è stato quasi sempre una risposta al fatto di essere perseguitati, scacciati o stigmatizzati.  Altri sono arrivati dopo la guerra, dall’Europa dell’Est. Ci sono due ondate più recenti, che corrispondono grossomodo alla guerra nella Ex-Jugoslavia, con rom di origine balcanica, e all’allargamento dell’Unione Europea, con rom di provenienza soprattutto rumena.

SIETE NOMADI?

Non siamo nomadi, ci siamo sempre dedicati tradizionalmente a lavori ambulanti. Alcuni di noi fanno ancora i giostrai, per esempio questo è stato il lavoro di Ernesto, ma non significa che non abbiamo radici in un luogo o in una nazione o che non vogliamo fermarci in un posto. In Italia i miei antenati sono stati pure partigiani (il padre di Ernesto è medaglia d’oro della Resistenza ed è inumato nel cimitero dei partigiani a Bologna), figuratevi se non ci sentiamo italiani. Il fatto che facessimo lavori ambulanti ci ha fatto guardare con sospetto e quando ci fermavamo o tornavamo nella nostra città natale, la gente si impauriva e ci cacciava. Siamo immaginati da tutti nomadi, ma non lo siamo. Oggi qualcuno fa ancora lavori ambulanti, i ragazzi, invece, seguono le scuole come tutti; io ho frequentato la scuola superiore qui. A Prato ci siamo dagli anni Cinquanta.

Nancy: anche io studio qui, frequento il quarto anno dell’istituto turistico.

COME VI TROVATE / SIETE TROVATE A SCUOLA?

Margherita: Io in seconda superiore ho commesso l’errore di dire che sono sinta. Da allora la mia vita scolastica è cambiata: sono diventata trasparente, mi hanno ghettizzata, in alcuni casi sono stata anche vittima di bullismo. Gli insegnati (beh, alcuni di loro, perché altri si sono rivelati razzisti come i miei compagni e hanno iniziato a guardarmi con occhi strani, alcuni con pietà, altri con disgusto) sono intervenuti. Anche il preside lo ha fatto, sospendendo uno studente. Ma la situazione non è migliorata.

Nancy: io, invece, memore della vicenda di Margherita, non ho detto niente a nessuno. Solo un mio compagno, amico fin dall’infanzia, sa che sono sinta. Però è triste non poter mai invitare gli amici a casa per una festa o semplicemente per fare i compiti insieme.

ALLORA, SE NON SIETE NOMADI, PERCHE‘ VIVETE IN UN CAMPO?

Margherita: Perché anche lo stato italiano ci ha considerati nomadi e tra gli anni Settanta e gli anni Novanta ha pensato che i campi nomadi potessero essere il posto dove farci abitare. Li hanno costruiti e ci hanno detto che dovevamo vivere lì dentro. Erano luoghi di emarginazione già allora e sono peggiorati ancora. Non siamo noi a volerci vivere e sappiamo che viverci significa far crescere il razzismo verso di noi. Alcuni dei sinti vogliono vivere in casa, altri ci vivono già. l rom dell’est, invece, hanno sempre vissuto in casa. Immaginate quando, profughi di guerra, sono arrivati qui e, venendo immaginati nomadi, sono messi nei campi. Alcuni di loro hanno pensato che fossero soluzioni transitorie, ma purtroppo non era così. Noi sinti, invece, facevamo lavori ambulanti ed abbiamo sempre vissuto in famiglia allargata in case mobili o in roulottes. E’ il nostro modo di vivere tradizionale, ma non vuol dire che siamo pericolosi per questo né che non vogliamo lavarci, vestirci bene, andare a scuola, vivere con gli altri. E‘ solo un modo diverso di vivere: non vogliamo vivere in un campo nomadi senza fogne, senza acqua calda, fuori dalle città. Chiediamo di poter acquistare dei campi privati, creare la nostra micro area, poterci allacciare alle fogne, avere dei bagni in muratura. Tutto questo costa meno di quanto si spende per i campi nomadi e noi vogliamo partecipare alla costruzione; non vivere in una casa non significa essere pericolosi.

Ernesto: proprio qui, dall’altro lato della strada, c’è un cascinale abbandonato, che sta diventando un rudere. Abbiamo chiesto un micro credito al comune di Prato per poterlo acquistare. Lo avremmo ristrutturato noi, con le nostre mani, a nostre spese…ma ce lo hanno negato.

SIETE LADRI?

Nancy: Il furto non è una caratteristica né dei rom né dei sinti, come l’essere mafiosi non è caratteristica degli italiani; le statistiche di delinquenza tra rom e sinti sono le stesse del resto della popolazione italiana. Certamente però i campi nomadi sono dei ghetti, ci sono povertà e miseria soprattutto in quei giganteschi campi delle grandi città ed allora in qualsiasi ghetto e più facile che attecchisca la delinquenza e che la criminalità organizzata si infiltri più facilmente. Ci sono rom e sinti che vengono arrestati per furto, ma questo non autorizza nessuno a dire che l’intero gruppo dei rom e dei sinti è fatto di ladri, come se fosse una caratteristica genetica. Una cosa simile l’hanno detta i nazisti quando hanno mandato i miei parenti nei campi di sterminio; spero siano concetti ormai superati.

E IL LAVORO?

Margherita: Io l’ho sempre cercato, come tanti altri ragazzi e ragazze e mi sono adattata a ciò che ho trovato. Ma quando devo andare a firmare il contratto e, dalla carta di identità, vedono dove vivo o trovano una scusa per non assumermi più o, alla scadenza del contratto, non me lo rinnovano. Adesso mi sono adattata a lavorare in una fabbrica. Lì mi hanno assunta perché sono tutti lavoratori stranieri ed io, pur essendo italianissima, sono percepita come una straniera.

Anche chi è nato in Italia e qui è vissuto, continua a convivere in questa forte contrapposizione tra sinto/rom e gagé, poiché, il paese natale (l’Italia) non ci riconosce come propria parte ma  ci identifica come qualche cosa di estraneo, da emarginare e allontanare; ecco allora il gruppo familiare, la comunità locale zingara che diventa la propria patria, il proprio stato. Si nasce in Italia ma si è zingari, si è stranieri.

MA E’ VERO CHE VI SPOSATE E FATE FIGLI MOLTO PRESTO?

Margherita: In passato era così, ma adesso no. Io, ad esempio, ho 24 anni e non ho neppure un fidanzato, quindi non penso assolutamente né a sposarmi né tanto meno ad avere figli! Ma penso che la stessa cosa fosse per voi “gagé”: anche la generazione dei vostri nonni, che non studiava, metteva su famiglia molto presto.

Ernesto: Io sono un’eccezione, perché sono diventato padre a 16 anni. Non perché lo volessi, ma perché ho messo incinta la mia ragazza di allora (sono divorziato) ed ho voluto assumermi le mie responsabilità. Fortunatamente vivevo in una famiglia con molte donne, mamma e tre sorelle, quindi mi hanno aiutato moltissimo a crescere mio figlio.

E COME FUNZIONA DA VOI IL MATRIMONIO?

Ernesto: (sorridendo) dice “siamo noi che abbiamo inventato le coppie di fatto!”.

Nancy: Non esiste una cerimonia ufficiale, in cui è necessario andare in comune e mettere una firma (certo, chi vuole, può farlo) ma il nostro matrimonio consiste essenzialmente in una “fuitina” (e ride), come credo che avvenisse in passato nel sud Italia se eri rimasta incinta e dovevi far accettare al paese il matrimonio.  I due innamorati fuggono e poi ritornano insieme, ottenendo il perdono delle famiglie. È quindi ormai generalizzato il cerimoniale, per così dire più economico, della fuga nuziale, che continua ad essere rispettato anche dai più giovani e nei casi di matrimoni tra appartenenti a famiglie residenti in campi diversi. Negli ultimi anni si sono registrati anche matrimoni tra appartenenti al popolo rom e gagé.

Il matrimonio celebrato con rito rom, non è riconosciuto dallo stato italiano, ma è l’unico che conta per la comunità, infatti, è da questo momento che ha inizio la vita matrimoniale.

Per noi è previsto anche il divorzio. Nel caso di divorzio alla presenza di figli, l’antica regola è che i figli maschi restino con la famiglia del marito. Per le figlie femmine, pur vigendo la stessa regola, ci sono margini di contrattazione.

VOI VIVETE IN FAMIGLIE ALLARGATE?

Ernesto: per noi la famiglia è molto importante. Ma non solo il nucleo familiare ristretto, ma tutta la comunità. Ad esempio ci aiutiamo molto fra di noi. Poco tempo fa un membro della nostra comunità si trovava in difficoltà economiche a causa di un figlio malato e tutti noi abbiamo fato una colletta e gli abbiamo dato i soldi affinché il bambino fosse operato e curato nei migliori centri specialistici. Le nostre comunità sono caratterizzate da una forte solidarietà tra i diversi nuclei familiari, che si manifesta concretamente con la condivisione, in caso di necessità, di guadagni ed eventuali perdite o danni.

Margherita: La tradizione prevede che con il matrimonio la donna transiti nella famiglia del marito.

Ernesto: (intervenendo) nel caso della mia famiglia è stato tutto il contrario. E’ stato, infatti, mio padre, che era una “gagé” a lasciare la sua vita sedentaria e scegliere di vivere nel campo rom di mia madre, a Lucca.

Margherita: Sempre secondo l’antica tradizione, i genitori vivono e sono accuditi dal figlio più piccolo e da sua moglie; questi devono prendersi cura di loro fino alla morte. Nella nostra società c’è un forte rispetto verso le persone più attempate. È l’anziano che con la sua saggezza indica ai figli la ‘strada giusta’. Il rispetto per gli anziani è un valore molto diffuso anche tra i giovani. Un aspetto della vostra cultura che a noi pare non accettabile è l’abbandono degli anziani, ad esempio in una casa di cura, dove sono lasciati a loro stessi.

E RIGUARDO ALLA DONNA? C’E’ SOTTOMISSIONE?

Ernesto: (che come sempre vuol parlare per primo): no, no, c’è un rapporto del tutto paritetico. Io però non cucino!

Notiamo però che è lui a chiedere alle nipoti di offrirci l’acqua e versarla. Lui non si alza a farlo.

Margherita: anche la donna ha una certa rilevanza e valore, soprattutto una volta divenuta anziana. Comunque a me nessuno ha mai detto chi devo frequentare o ha controllato la mia vita privata.

CHE NE PENSI DELLE ZINGARE, CHE VEDI IN GIRO CON LA GONNA LUNGA, A CHIEDERE L’ELEMOSINA?

Nancy: Si tratta non di sinti, ma di rom di recente immigrazione, che sono molto attaccati ancora alle loro tradizioni. Essi vengono, a differenza di noi sinti, dai Balcani. Sotto l’impero Ottomano del XIII-XIV secolo, i Rom furono sfruttati attraverso una gravosa tassazione. Svolgevano attività prevalentemente artigianali, erano sarti, orefici macellai, ma eseguivano anche attività immonde, come quelle di boia. In Valacchia e Moldavia, i Rom furono oggetto di schiavitù e impiegati nei lavori più svariati, dalla coltivazione della terra alla protezione dei padroni. In questo modello il Rom può mantenere la propria cultura poiché è questa diversità culturale che giustifica il suo inserimento in attività degradanti e immonde.

Coloro che noi vediamo a chiedere l’elemosina o a lavare i vetri sono quelli arrivati nel periodo fra le guerre balcaniche e l’ingresso della Romania nella UE. Arrivano e vengono messi in campi sporchi, privi di ogni decenza igienico sanitaria, vengono marginalizzati. Nessuno offre loro un lavoro, a meno che non lo faccia la criminalità organizzata che spesso si serve di queste persone.  Quindi è normale che, se vengono trattati come bestie, finiscano quasi per divenirlo.

Dopo un paio di ore (fosse stato per noi e per loro saremmo rimasti ben di più) salutiamo la popolosa famiglia di Ernesto; infatti alla spicciolata tutti i figli e nipoti passano dal nonno: c’è il figlio che ha avuto un incidente e ne porta ancora le tracce, c’è la figlia di 44 anni che è di ritorno con i suoi due bambini dal campetto di calcio dove avevano un torneo, c’è la sorellina di Nancy di tre anni.

Ci salutiamo invitandoli a venire a scuola, a raccontare anche agli altri alunni qualcosa sulla loro cultura, al fine di decostruire un pregiudizio fin troppo radicato. E verranno di sicuro! E poi ci rivedremo sul Treno della Memoria.




Conoscere, viaggiando: il Treno della Memoria 2019

Rivelando una grande ed organizzazione, che mostra chiaramente il grande dispendio di energie – morali, organizzative ed economiche – dedicate dalla Regione Toscana e dalla Fondazione Museo della Deportazione e della Resistenza di Prato, la mattina del 20 gennaio alle 12:30 circa, dalla stazione di Firenze, ha avuto inizio l’ XI edizione del Treno della Memoria, dedicato questo anno a Primo Levi, di cui ricorre il centenario della nascita (avvenuta il 31 Luglio 1919).

Il treno porta oltre 600 persone a visitare i campi di Auschwitz e di Birkenau (Auschwitz 2), di cui 555 studenti del triennio delle scuole superiori (ogni docente ne accompagna 8) e 3 del Parlamento Regionale che hanno l’occasione unica di fare questo percorso di formazione etica, ancor prima che storica, insieme a studiosi, rappresentanti delle associazioni (Aned, Anei, Anpi, Arcigay, Sinti e Rom) ed ex deportati. Infatti partecipano al viaggio Andra e Tatiana Bucci, deportate ancora bambine (a 4 e 6 anni); Silva Rusich, figlia di Sergio, deportato politico a Flossenbuerg ed esule istriano; a Cracovia ci raggiungerà Vera Vigevani Jarach, testimone di due storie: esule in Argentina per le leggi razziste del fascismo e madre di Franca, una desaparecida durante la dittatura di Videla.

Il lungo viaggio in treno, circa 22 ore, è stato esso stesso un’importante occasione di conoscenza, perché nel vagone ristorante si sono tenuti 5 workshop – organizzati in particolare dal dott. Luca Bravi del Museo della deportazione – con i portavoce delle varie comunità, nei quali i ragazzi hanno avuto occasione di incontrare, dialogare, ascoltare e porre domande alle varie categorie di vittime della Shoah. Stessa dinamica si svolgerà nel corso del viaggio di ritorno.

[In allegato sono riportate le sintesi dei 5 workshop]




Una protesta piccola piccola: i disordini per l’imposta sul vino a Barberino Val d’Elsa (1919-20)

Il 1919, primo anno di pace dopo «l’inutile strage», si presentò agli occhi della popolazione italiana carico di aspettative e speranze. La guerra si era conclusa vittoriosamente ma aveva aperto e rivelato notevoli problematiche tra le maglie del tessuto sociale del Paese. In particolare, nell’immediato dopoguerra i problemi posti dalla riconversione economica si sovrapposero alle richieste della popolazione facendo emergere la fragilità dello Stato liberale sia sul piano delle relazioni interne, con una vera e propria crisi istituzionale, sia nel più generale rapporto tra istituzioni e società. L’apice della tensione sociale prodotta dalla fine della guerra mostrò la sua immagine nell’estate di quel primo e tanto agognato periodo di pace. La questione annonaria, ancora una volta, costituì uno dei temi principali dello scontro politico-sociale nelle vie e nelle piazze di un paese uscito altresì vincitore dalla guerra. In questo contesto la Toscana si distinse proprio come la regione dove i moti si manifestarono con un’intensità e un vigore unico nel panorama della penisola sconvolta dalle rivolte[1].

A Barberino Val d’Elsa – piccolo centro valdelsano che all’indomani della Grande guerra poteva contare una popolazione di 5.862 abitanti, situato a metà strada tra Firenze e Siena, tra le valli d’Elsa e di Pesa –, le prime avvisaglie del malcontento sociale si manifestarono verso la fine dell’estate 1919. Alfredo Bazzani, agente della locale fattoria Guicciardini – che due mesi prima, nel pieno delle proteste del «bocci-bocci», si era compiaciuto per il fallimento dello “scioperissimo” indetto in difesa delle rivoluzioni in Russia e Ungheria –, il 17 settembre, scrivendo alla contessa Guicciardini, esprimeva le sue più vive preoccupazioni perché «i contadini colla nuova tassa sul vino sono agitatissimi, e male si giunge a persuaderli»[2].

Barberino 1908

Barberino Val d’Elsa ai primi del Novecento (Archivio Mario Forconi)

La tassa sul vino a cui l’agente faceva riferimento era rappresentata dal Regio decreto n. 1635 del 2 settembre 1919. L’Imposta straordinaria sul vino prevedeva che ogni «piccolo proprietario coltivatore, colono, mezzadro od affittuario[3] del fondo da cui il vino stesso prov[enisse]» ne avrebbe dovuto fare denuncia al comune di residenza in modo tale che questo avesse poi provveduto ad applicare l’imposta sullo stesso prodotto. Già duramente colpite da un’invasione di fillossera – un piccolo parassita della vite che provoca in breve tempo gravi danni alle radici e la conseguente morte della pianta attaccata – che aveva danneggiato irrimediabilmente la produzione vinicola, le comunità rurali iniziarono a osteggiare fortemente la tassa, nonostante questa prevedesse l’esenzione di 3 ettolitri per famiglia – quantitativo tuttavia ritenuto insufficiente per il fabbisogno annuo delle famiglie. A Barberino il turbamento della popolazione iniziò a farsi più evidente verso la fine di quell’anno quando Cesare Cianferoni, assessore anziano del comune e membro della locale commissione annonaria, comunicò al sindaco Giovanni Chiostri che, in occasione della riscossione dell’imposta, «contadini tutti ed agenti del Comune si riuniscono nel Capoluogo per fare protesta solenne energica contro [il] provvedimento [di] requisizione e [la] tassa [sul] vino»[4].

La protesta assunse una caratteristica peculiare per la sua capacità di coinvolgere verticalmente strati diversi della popolazione: in un primo momento infatti – visto il danno economico che inevitabilmente si sarebbe ripercosso sulle casse dei grandi proprietari terrieri – fu spalleggiata dalla classe dirigente locale, tanto che la stessa Commissione rappresentante le autorità municipali del mandamento di San Casciano, i proprietari e i coloni produttori, deliberò di «opporsi con energia» alla disposta requisizione del 50% del vino prodotto[5]. Va sottolineato però che il connubio tra élite locali e popolazione durò poco. Il protrarsi della protesta, con l’inedita partecipazione dei coloni che fino a quel momento erano rimasti assolutamente ai margini della vita politica – spinti probabilmente dalle agitazioni contadine che nella zona stavano contestando gli agrari per i ritardi nell’attuazione dei nuovi patti colonici[6] –, fece mutare radicalmente gli atteggiamenti della classe dirigente, e se in un primo momento il malcontento della popolazione fu quantomeno spalleggiato, quando questa diede adito nel marzo 1920 ad una

agitazione gravissima restituendo in segno di protesta le cartelle relative al pagamento dell’imposta stessa, appendendole alla porta dell’esattoria municipale in presenza di tre impotenti agenti di pubblica sicurezza[7]

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Fascicolo contenente documentazione riguardante affari annonari (Archivio storico del Comune di Barberino Val d’Elsa)

l’amministrazione comunale decise di passare a politiche più energiche. Ciò che colpì di questa prima protesta a Barberino Val d’Elsa fu l’ostinatezza dei coloni che, anche se ammoniti dal sindaco – «nessuno dimentichi i propri doveri, ciascuno ricordi la necessità di mantenere la calma e di rispettare la legge»[8] –, e sotto la minaccia d’attuare «atti esecutivi»[9], proseguirono nelle agitazioni adducendo come principale motivazione la seguente istanza

Venuti a conoscenza della imposta sul vino protestano contro quale tassa ingiusta, facendo osservare alla S. V. Ill.ma che il raccolto del vino non è capitale ricavato dal commercio, ma è retribuzione ricavata dal lavoro manuale di tutta la famiglia colonica, facendo osservare a questa imposta si aggiunge ancora maggiore lamento su la requisizione del vino a prezzo di calmiere anch’esso gravato dalla tassa succitata. È puramente ingiusto quel Decreto Prefettizio ove vieta il libero commercio sul vino[10].

Vedendosi, per la prima volta, esautorato nella propria “autonomia politico-gestionale”, e temendo un degenerare delle azioni di protesta che altrove stavano infiammando la regione[11], il sindaco decise di richiedere al prefetto l’invio dei carabinieri per ripristinare la «quiete pubblica continuamente turbata»[12] e l’insediamento di uno «sbarramento». Ancora nell’ottobre 1920 c’erano «circa trecento morosi»[13] e si organizzavano opposizioni collettive ai pignoramenti previsti, per la verità poi mai attuati visto lo stanziamento di un presidio fisso di «sbarramento» dei carabinieri[14] che verso la fine dell’anno portò al «rinsavimento dei morosi»[15].

[1] Cfr. R. Bianchi, Pace, pane, terra. Il 1919 in Italia, Odradek, Roma 2006; Id., Bocci-Bocci. I tumulti annonari nella Toscana del 1919, Olschki, Firenze 2001.

[2] Archivio Massimiliano Majoni, Fondo aggregato Marcella Guicciardini Majoni, b. 135.1, Alfredo Bazzani alla Contessa Marcella Guicciardini, 17 settembre 1919.

[3] Si consideravano «piccoli proprietari coltivatori, coloni, mezzadri o affittuari, agli effetti del presente decreto, tutti coloro che attendono personalmente alla coltivazione dei vigneti propri o presi a colonia, a mezzadria o in affitto»: cfr. Regio decreto n. 1635, 2 settembre 1919, Che istituisce un’imposta straordinaria sul vino prodotto nella raccolta dell’anno 1919 e su quello delle annate precedenti.

[4] Archivio Storico Comunale di Barberino Val d’Elsa (d’ora in poi ASCB), b. C-73, f. Cat. 2, Cesare Cianferoni al Sindaco Chiostri, 29 dicembre 1919.

[5] Ivi, b. C-75, f. Cat. 2, Delibera di una Commissione del mandamento di San Casciano Val di Pesa, 2 gennaio 1920; Sulle polemiche che opposero produttori, commercianti ed industriali della provincia alle autorità prefettizie in merito ai vari provvedimenti sul vino cfr. Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea 1915-1922, b. 149, f. Firenze.

[6] Ivi, Ministero degli interni, Direzione generale di Pubblica sicurezza, Affari generali e riservati, Ordine pubblico, C-1, 1920, b. 51-A, f. Firenze e provincia, sf. Agitazione agraria.

[7] Cfr.ASCB, b. C-75, f. Cat. 6, n. 1162/6, Sindaco di Barberino al Questore, 29 marzo 1920.

[8] Ivi, Comune di Barberino al Prefetto, 22 marzo 1920; Sindaco Chiostri alla cittadinanza, 23 marzo 1920.

[9] Ivi, n. 1162/6, Sindaco di Barberino al Questore, 29 marzo 1920.

[10] Ivi, b. C-75, f. Cat. 6, istanza presentata dai coloni del Comune all’Intendenza di Finanza di Firenze, 22 aprile 1920.

[11] Per un quadro della situazione cfr. M. Toscano, Lotte mezzadrili in Toscana nel primo dopoguerra (1919-1922), «Storia contemporanea», 8 (1978), n. 5-6, pp. 877-950.

[12] ASCB, b. C-76, f. Cat. 18, n. 1914/18, Sindaco Chiostri al Prefetto di Firenze, 31 maggio 1920.

[13] Ivi, n. 3563/6, Sindaco di Barberino a destinatari vari, 22 ottobre 1920.

[14] Ivi, b. C-80, f. Cat. 11, Maresciallo dei Carabinieri di Tavarnelle a Sindaco Chiostri, 7 luglio 1922.

[15] Ivi, n. 4104/18, Sindaco di Barberino al Cavalier Barile, Commissario di Pubblica Sicurezza di Firenze, 7 dicembre 1920.




Democrazia e Resistenza

Le elezioni amministrative del 1946.

La costruzione della democrazia nell’Italia del secondo dopoguerra[1] rappresentò un processo lungo e non lineare. Nel contesto delle distruzioni e degli sconvolgimenti causati da cinque anni di conflitto, culminati con la dura occupazione da parte delle truppe tedesche ed una terribile guerra civile,[2] le elezioni amministrative svoltesi nella primavera del 1946 costituirono il primo passo verso la rinascita politica e sociale del nostro Paese. Fin dal periodo immediatamente successivo alla Liberazione, il Partito Democratico Cristiano, il Partito Comunista e il Partito Socialista si presentarono come quelli dotati di una più ampia base popolare. Il Partito d’Azione aveva svolto un ruolo di grande rilievo nella Resistenza, ma non era riuscito a costruirsi un seguito nelle città e nelle campagne. Il Partito Liberale era andato configurandosi come un partito d’élite, composto prevalentemente da vecchie personalità del periodo prefascista.

Il Partito Comunista, in particolare, era riuscito non soltanto a sopravvivere al ventennio fascista ricorrendo alla clandestinità, ma era riemerso con forza fin dal 1943 nelle città industriali e nelle campagne dell’Italia centrosettentrionale, arrivando a contare quattrocentomila iscritti già agli inizi del 1945.[3] La Toscana rappresenta una delle regioni in cui la capacità del Pci di mobilitare le masse – in tal caso soprattutto contadine – emerse in maniera più evidente. Già durante la lotta di liberazione, la partecipazione contadina alla Resistenza aveva raggiunto livelli più alti rispetto alla media nazionale, assumendo talvolta un marcato carattere di guerra di classe.[4] Proprio a seguito dell’esperienza della guerra, dell’occupazione nazifascista e della Resistenza emersero in Toscana una classe dirigente ed una consapevolezza politica più forti e rinnovate.[5]

Nonostante le differenze sociali ed economiche esistenti all’interno della regione tra la parte settentrionale, maggiormente urbanizzata e sviluppata dal punto di vista industriale, e quella meridionale ancora prevalentemente agricola, le elezioni svoltesi nel 1946 – tanto quelle amministrative che, successivamente, quelle politiche – videro le liste comuniste riportare un netto successo in vaste aree del territorio. Alla base di tale risultato si colloca il sostegno elettorale portato al Pci dai mezzadri toscani, i quali rappresentavano il 54,2% della popolazione rurale di tutta la regione e circa un quarto di quella totale.[6] Nella provincia di Siena i mezzadri costituivano addirittura il 68% dei rurali, mentre ben ventuno dei trentasei comuni del territorio provinciale erano classificati come esclusivamente rurali-mezzadrili.[7]

Le elezioni amministrative svoltesi nella provincia senese nei mesi di marzo e aprile e, successivamente, di ottobre e novembre del 1946, fecero registrare una vittoria netta da parte della lista socialcomunista, che ottenne il 75,9% delle preferenze nei comuni che votarono con il sistema maggioritario.[8] Persino i risultati delle ultime elezioni amministrative del prefascismo, che avevano visto i socialisti conquistare ben ventinove comuni,[9] furono ampiamente superati, in quanto stavolta le sinistre si imposero in trentacinque dei trentasei comuni della provincia.

In controtendenza con quanto avvenne a livello nazionale, ma in linea con quelli che furono i risultati in gran parte della Toscana, il Pci superò nel territorio senese il Psiup. Il Partito Comunista, partito tradizionalmente operaio, divenne quindi nella provincia di Siena il principale referente politico di una popolazione costituita in prevalenza da agricoltori.[10] Il fondamentale ruolo svolto dai comunisti nella lotta di liberazione dal nazifascismo, che vide la partecipazione di circa millecinquecento partigiani combattenti,[11] rappresenta senza dubbio una delle principali motivazioni che portarono la popolazione a vedere nel Pci il partito antifascista per eccellenza.[12]

Lo stretto rapporto tra Resistenza e mondo contadino nella provincia senese aveva peraltro radici estremamente profonde, risalenti a ben prima della Seconda Guerra Mondiale. Contadini e socialisti erano stati infatti i bersagli principali degli squadristi fascisti durante il cosiddetto biennio nero, quando i militi senesi comandati da Giorgio Alberto Chiurco avevano compiuto numerose spedizioni contro il tessuto politico, associativo e sindacale della sinistra nella provincia e nei territori limitrofi.[13] La politica agraria perseguita dal Regime, assieme alla restaurazione contrattuale imposta ai mezzadri, aveva inoltre prodotto un netto peggioramento delle condizioni di vita della classe agricola, che avrebbe raggiunto il proprio culmine attorno alla metà degli Trenta.[14] Come ha scritto Baccetti, «quando lo scontro diretto e quotidiano tra agrario e mezzadro divenne scontro quotidiano e diretto anche tra mezzadro e fascismo […], fu definitivamente chiaro, per i contadini, che per liberarsi dovevano prima uscire dal fascismo, e poi uscire dalla fattoria. La radice dell’antifascismo dei mezzadri, della loro partecipazione attiva alla lotta di liberazione, e poi del sostegno elettorale al PCI, sta in fondo tutta qui».[15]

 Sindaci e Resistenza

Lo spirito antifascista presente in larghi strati della popolazione si rifletté inevitabilmente nella composizione dei consigli comunali formatisi nel 1946 e nella scelta dei sindaci dei vari comuni della provincia.[16] Undici dei trentasei sindaci nominati a seguito delle elezioni comunali avevano infatti combattuto tra le fila della Resistenza durante la guerra. Altri cinque, pur non avendo aderito alle formazioni partigiane, erano stati iscritti al Casellario politico centrale[17] per aver manifestato idee  avverse a quelle fasciste o per aver svolto attività antifascista. Tra i sindaci che non avevano partecipato alla lotta armata vi erano comunque antifascisti di lunga data, membri del Cln, vecchi attivisti comunisti e socialisti. Persino Arturo Marucelli, primo cittadino di Gaiole in Chianti con la Democrazia Cristiana – l’unico in tutta la provincia che non proveniva dalla lista socialcomunista – era stato avverso al fascismo, tanto da abbandonare la vita politica nel 1926 a seguito dell’istituzione dei podestà, e farvi ritorno soltanto nell’aprile del 1945 su invito del locale Cln.[18]

Tra coloro che avevano preso parte alla resistenza armata vi erano figure piuttosto note, quale il sindaco di Siena Ilio Bocci, combattente della Brigata “Spartaco Lavagnini” con nome di battaglia “Sandro”, oppure quello di Sovicille Ruggero Petrini, prima “Tancredi” e poi “Silvio”, comandante del V° distaccamento “Giuggioli e Parri” della Brigata Lavagnini e successivamente volontario del gruppo di combattimento “Cremona”, con il quale combatté fino al giugno del 1945.[19]

Meno conosciuta, ma estremamente interessante, è la storia di un altro sindaco partigiano della provincia senese, Angelo Tacconi.

Nato a Monticiano nel 1883, il Tacconi spese gran parte della sua giovinezza viaggiando in cerca di lavoro. Lasciò per la prima volta il proprio comune nel 1902 e trovò un impiego come boscaiolo nei pressi di Porto Maurizio (Imperia); successivamente si trasferì prima a Ventimiglia, poi in Francia tra Marsiglia, Beausoleil e Nizza, lavorando come manovale. Fece ritorno a Monticiano nel 1905, ma appena un anno dopo partì per gli Stati Uniti, stabilendosi inizialmente a New York e spostandosi poi per un breve periodo a Monogahela, una piccola cittadina della Pennsylvania dove lavorò come minatore. Rientrato di nuovo a Monticiano, nel 1910, per sposarsi con la fidanzata Pia, ripartì subito dopo per la Francia, stabilendosi questa volta a Fontan, un piccolo paese vicino al confine italiano. L’esperienza maturata come minatore negli Stati Uniti e come costruttore di gallerie a Fontan permisero al Tacconi di arruolarsi nel VI° Reggimento italiano del genio durante la Prima guerra mondiale.[20] Congedato con il grado di caporale nel febbraio 1919, trascorse un breve periodo a Monticiano, durante il quale fu assessore comunale per il Partito Socialista e prese parte al Congresso di Livorno quale rappresentante della sezione monticianese di questo stesso partito.[21] Nel giugno del 1923 si recò nuovamente in Francia – stavolta con la famiglia – inizialmente a Cap-d’Ail e dal 1927 nel Principato di Monaco, dove assieme alla moglie ed alla figlia Ornella aprì un bar-ristorante, divenuto in breve tempo punto di ritrovo di molti fuoriusciti antifascisti.[22] Nel novembre del 1942 il Tacconi venne arrestato e ricondotto in Italia per essere imprigionato, assieme al figlio Ideale, nelle carceri di Siena. Confinato alle Tremiti (Foggia) nel maggio del 1943,[23] rientrò a Siena subito dopo la caduta del fascismo e si unì alla formazione Spartaco Lavagnini, con la quale combatté – con nome di battaglia “Pietro” – dal novembre 1943 al luglio 1944.[24] A seguito delle elezioni del 3 marzo 1946, Angelo Tacconi fu nominato sindaco di Monticiano per il Pci.[25]

Condivise con il Tacconi non soltanto l’esperienza della lotta partigiana, ma anche quella di emigrato in Francia – assieme a migliaia di altri antifascisti italiani[26] – una figura di grande rilievo dell’antifascismo senese e, soprattutto, veneto, ossia Nello Boscagli.  Nato a Sinalunga il 16 aprile 1905, quest’ultimo già nel 1925 si trasferì in Francia assieme ai genitori Angelo e Rosa.[27] Dopo un breve periodo a Mosca, prese parte alla guerra civile spagnola, restando a combattere in Catalogna anche dopo il ritiro delle Brigate internazionali.[28] Nel corso degli anni Trenta Boscagli risedette a Roquebrune-Cap Martin, nelle Alpi Marittime, e continuò a svolgere attività antifascista. Nel 1932 fu iscritto al Casellario politico centrale su segnalazione del Consolato italiano nelle Alpi Marittime, che lo indicava come un antifascista particolarmente attivo.[29] Durante la Seconda guerra mondiale, al Boscagli venne affidato il comando dei maquisards dell’intera costa mediterranea, incarico che mantenne fino al settembre 1943 nonostante gravasse su di lui una condanna a morte in contumacia.[30] Rientrato in Italia, il Partito Comunista lo inviò in Veneto a supervisionare prima l’organizzazione dei nascenti gruppi di azione patriottica[31] e, successivamente, quella delle formazioni partigiane. Commissario politico e poi comandante della Brigata Garibaldi “Ateo Garemi”, con nome di battaglia “Alberti”, il Corpo volontari della libertà gli affidò in seguito il comando di tutta la zona dell’Altopiano di Asiago.[32] Dopo la guerra fu ispettore del Pci a Caserta e Teramo, e nel 1946 venne nominato primo cittadino di Sinalunga. Nel luglio del 1948, in seguito all’attentato a Togliatti, fu denunciato per aver preso parte agli scioperi[33] ed aver organizzato posti di blocco nelle strade del comune. Recluso per diciotto mesi nel carcere di Firenze, il Boscagli venne assolto dalla Corte di Assise di Siena e reintegrato nel proprio incarico nel giugno 1950.[34] Negli anni Sessanta si trasferì a Padova, dove trascorse il resto della propria vita fino al 1976, anno della morte.[35]

Ancora molto limitate risultano purtroppo le informazioni biografiche relative ad altri protagonisti della lotta di liberazione nella provincia senese. Tra questi vi è Ezio Santoni, nato a Chianciano nel 1898, incarcerato per reati politici nel 1921 ed inserito tra i sovversivi del Casellario politico centrale a partire dal 1938.[36] Il Santoni combatté nel Raggruppamento “Monte Amiata” dal giugno al luglio 1944, per poi ricoprire la carica di sindaco di Chianciano per conto del Cln, dimostrando «buone doti di capacità, rettitudine e interessamento nell’amministrazione della cosa pubblica»,[37] tanto da essere confermato nel ruolo nell’ottobre del 1946.

Carlo Sorbellini, classe 1919, anche lui partigiano del Raggruppamento “Monte Amiata” fin dal settembre 1943, scelse di continuare a lottare contro i nazifascisti anche dopo la Liberazione della provincia senese, arruolandosi volontario nel gruppo di combattimento “Cremona”. Dopo la guerra divenne fotografo e sindaco del suo comune di origine, San Quirico d’Orcia.[38]

Militò invece tra le fila della 23° Brigata “Guido Boscaglia” il sindaco di Radicondoli Gino Gazzei. Già membro del Comitato di Concentrazione Antifascista di Piombino, costituitosi ancor prima del crollo del Regime fascista,[39] il Gazzei dovette sfollare a Radicondoli, suo paese natale, nell’ottobre del 1943. Intellettuale socialista, proprietario di una fabbrica di specchi a Piombino ed una vetreria a Colle Val d’Elsa, dopo la guerra divenne direttore de La Martinella, organo della Federazione socialista senese. Nel marzo del 1946 il neoeletto consiglio comunale lo riconfermò sindaco, carica che già ricopriva dal luglio del 1944.[40]

Quella di Gino Gazzei, imprenditore ed intellettuale, rappresenta tuttavia un’eccezione nel contesto degli amministratori senesi del 1946; la maggior parte di questi svolgeva infatti professioni umili e possedeva un livello di alfabetizzazione talvolta piuttosto basso – limitandoci alle figure qui descritte, erano manovali con la terza elementare il Tacconi ed il Santoni, muratore il Boscagli, un falegname con la licenza elementare il Petrini, un fotografo il Sorbellini – per cui i documenti prodotti e le testimonianze scritte pervenuteci sono estremamente pochi e non facili da reperire. Tale dato testimonia tuttavia la determinazione con cui queste persone dovettero disimpegnare i compiti previsti dalle proprie cariche, nel già di per sé critico contesto sociale e materiale del secondo dopoguerra, in territori spesso devastati dai bombardamenti aerei e dai combattimenti terrestri, riuscendo a far fronte alle difficoltà quotidiane ed avviando la ricostruzione.

 Note

[1]Per un quadro generale cfr. N. Kogan, Storia politica dell’Italia repubblicana. Laterza; Roma-Bari, 1990 (ediz. orig. 1966); P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, vol. I. Einaudi; Torino, 1989; G. Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione ad oggi. Donzelli; Roma, 2016.
[2]Cfr. C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Bollati Boringhieri; Torino, 1991.
[3]N. Kogan, Storia politica dell’Italia repubblicana…, p. 32.
[4]Sulle vicende e le peculiarità del fenomeno resistenziale in Toscana cfr. N. Labanca, Toscana, in E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. I. Einaudi; Torino, 2000, pp. 455-464.
[5]Cfr. M. G. Rossi, Il secondo dopoguerra: verso un nuovo assetto politico-sociale, in G. Mori (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Toscana. Einaudi; Torino, 1986, pp. 675-708.
[6]C. Baccetti, Il triplice voto del 1946 in Toscana. La fondazione del predominio del PCI, in Quaderni dell’Osservatorio elettorale, n. 20, 1988, pp. 10-13. Per maggiori informazioni sulle elezioni svoltesi in Toscana nel 1946 e nel 1948, le norme adottate ed i risultati cfr. M. Gabelli, Toscana elettorale 1946 e 1948. Estratti di legislazione, risultati ed eletti, in Quaderni dell’Osservatorio elettorale, n. 20, 1988, pp. 199-309.
[7]M. Caciagli, L’apporto elettorale dei mezzadri, in Alle origini di una provincia “rossa”. Siena tra Ottocento e Novecento. Meiattini; Monteriggioni, 1991, p. 47.
[8]C. Baccetti, Il triplice voto del 1946…, p. 24.
[9]Per maggiori informazioni sull’argomento si rimanda a D. Pasquinucci, Siena fra suffragio universale e fascismo. Il voto politico e amministrativo dal 1913 al 1924, in Quaderni dell’Osservatorio elettorale, n. 29, 1993, pp. 5-75; T. Detti, Ipotesi sulle origini di una provincia “rossa”: Siena tra Ottocento e Novecento, in Alle origini di una provincia “rossa”…, pp. 19-28.
[10]Sul tema cfr. A. Nuti, La provincia più rossa. La costruzione del partito nuovo a Siena (1945-1956). Protagon; Siena, 2003, pp. 23-34.
[11]Per maggiori informazioni si rimanda alla vasta bibliografia esistente sul tema. Cfr. soprattutto T. Gasparri, La Resistenza in provincia di Siena. 8 settembre 1943 – 3 luglio 1944. Olschki; Firenze, 1976; C. Biscarini, V. Meoni, P. Paoletti, 1943-1944. Vicende belliche e resistenza in terra di Siena…; P. Plantera, Brigata partigiana. Storia della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini” e riferimenti ad altre unità partigiane che operarono in provincia di Siena e in territori limitrofi. ANPI; Siena, 1961; V. Meoni, Ora e sempre resistenza. Scritti e testimonianze su Montemaggio, Monticchiello e la Resisenza in terra di Siena. Effigi; Arcidosso, 2014.
[12]A. Orlandini, Elettori ed eletti: le scelte di voto dal 1946 al 1963, in A. Orlandini (a cura di), La nascita della democrazia nel senese. Dalla Liberazione agli anni ’50. Atti del convegno, Colle Val d’Elsa, 9-10 febbraio 1996. Regione Toscana; Firenze, 1997, pp. 196-198.
[13]Cfr. sul tema D. Pasquinucci (a cura di), Società e politica a Siena nella transizione verso il fascismo, 1919-1926. Nuova Immagine; Siena, 1995; G. Maccianti, Una storia violenta. Siena e la sua provincia 1919-1922. Il Leccio; Siena, 2015.
[14]D. Preti, Tra crisi e dirigismo: l’economia toscana nel periodo fascista, in G. Mori (a cura di), La Toscana…, pp. 625-630.
[15]C. Baccetti, Il triplice voto del 1946…, p. 15.
[16]I dati presentati costituiscono parte dei risultati di un progetto di ricerca promosso dall’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea e finalizzato alla creazione di una banca dati sui sindaci e gli amministratori comunali della provincia di Siena eletti nel 1946. Si tratta di uno studio non ancora concluso, per cui le informazioni riportate non devono essere intese come definitive. Elenco di seguito le collocazioni archivistiche del materiale raccolto fino a questo momento, sul quale si basano i dati numerici di seguito presentati. Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Casellario politico centrale [d’ora in poi ACS, MI, DGPS, CPC]: Begni Vincenzo, b. 437; Boscagli Nello, b. 776; Gazzei Dino, b. 2321; Lucherini Ciro, b. 2866; Malacarne Guido, b. 2945; Roncucci Virgilio, b. 4404; Santoni Ezio, b. 4593, f. 135341; Severini Angelo, b. 478, f. 089910; Tacconi Angelo, b. 4998, f. 063653;Vegni Guido, b. 5340, f. 011506. Archivio di Stato di Siena, Prefettura. Ufficio di Gabinetto 1935-1957 [d’ora in poi ASSi, Pref. Uff. Gab.], b. 211 (f. 1-10), b. 212 (f. 11-14), b. 213 (f. 15-22), b. 214 (f. 23-30), b. 215 (f. 31-34).
[17]Sul tema in generale cfr. G. Tosatti, L’anagrafe dei sovversivi italiani: origini e storia del Casellario politico centrale, in Le carte e la storia n. 2, 1997, pp. 133-150.
[18]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 212, f. 13. 13 aprile 1946, lettera del comandante dei carabinieri di Siena al Prefetto di Siena, prot. 30/6 Ris. Pers.
[19]Per maggiori informazioni sulla figura di Ruggero Petrini cfr. T. Gasparri, La Resistenza in provincia di Siena…, passim; P. Plantera, Brigata partigiana…, pp. 202-204.
[20]ACS, MI, DGPS, CPC, Tacconi Angelo, b. 4998. 9 gennaio 1943, verbale interrogatorio di Tacconi Angelo presso la Questura di Siena.
[21]ACS, MI, DGPS, CPC, Tacconi Angelo, b. 4998. Scheda biografica.
[22]I documenti del Casellario Politico ne parlano come di «un covo di antifascisti e di denigratori dell’Italia». Cfr. ACS, MI, DGPS, CPC, Tacconi Angelo, b. 4998. 25 gennaio 1943, nota dattiloscritta, prot. 1976/63653.
[23]ACS, MI, DGPS, CPC, Tacconi Angelo, b. 4998. 1 maggio 1943, appunto per il CPC del Capo della sezione prima.
[24]http://www.istoresistenzatoscana.it/partigiano/Angelo/Tacconi/5221 [le fonti digitali citate nel presente saggio sono state consultate per l’ultima volta in data 20 dicembre 2018].
[25]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 213, f. 18. 12 aprile 1946, lettera del comandante della compagnia esterna dei carabinieri di Siena al Prefetto di Siena, prot. 35/II Div. Ris. Pers.
[26]Cfr. in generale S. Tombaccini, Storia dei fuoriusciti italiani in Francia. Mursia; Milano, 1988; L. Rapone, I fuoriusciti antifascisti, la Seconda guerra mondiale e la Francia, in Les Italiens en France de 1914 à 1940. Ècole Francaise de Rome; Roma, 1986, pp. 343-384.
[27]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 215, f. 31. Lista degli amministratori comunali di Sinalunga.
[28]http://www.anpi.it/donne-e-uomini/2115/nello-boscagli.
[29]ACS, MI, DGPS, CPC, Boscagli Nello, b. 776. 18 novembre 1932, telespresso del Console generale di Nizza a Ministero dell’Interno, Ministero degli Esteri, Ambasciata italiana a Parigi, prot. 9211.
[30]http://www.anpi.it/donne-e-uomini/2115/nello-boscagli
[31]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 215, f. 31. 23 ottobre 1946, dichiarazione di Boscagli Nello. I comunisti di vecchia data come il Boscagli, con una lunga esperienza di guerriglia maturata in Francia, furono coloro cui si affidò il Partito comunista per la creazione dei primi Gap a partire dal settembre 1943. Sull’argomento cfr. S. Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza. Einaudi; Torino, 2014.
[32]http://www.anpi.it/donne-e-uomini/2115/nello-boscagli
[33]In generale sull’argomento cfr. A. Orlandini, Luglio 1948. L’insurrezione proletaria in provincia di Siena in risposta all’attentato a Togliatti. Cooperativa editrice universitaria; Firenze, 1976; G. Serafini, I ribelli della montagna. Amiata 1948: anatomia di una rivolta. Editori del Grifo; Montepulciano, 1981.
[34]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 215, f. 31. Lista dei procedimenti penali a carico dei sindaci.
[35]http://www.anpi.it/donne-e-uomini/2115/nello-boscagli
[36]ACS, MI, DGPS, CPC, Santoni Ezio, b. 4593. 9 ottobre 1938, lettera del Prefetto di Siena al Ministero dell’Interno, prot. 018676 P.S.
[37]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 211, f. 9. 7 novembre 1946, lettera dalla tenenza dei carabinieri di Chiusi al Prefetto di Siena, prot. 1/34 Ris. Pers.
[38]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 214, f. 29. 5 maggio 1946, lettera del comandante della compagnia dei carabinieri di Montepulciano al Prefetto di Siena, prot. 8/78 Div. Ris. Pers.
[39]L. Pasquinucci, Piombino medaglia d’oro. Una battaglia di verità e giustizia. Pacini; Ospedaletto, 2008, p. 8.
[40]ASSi, Pref. Uff. Gab., b. 214, f. 24. 16 maggio 1946, lettera della tenenza dei carabinieri di Colle Val d’Elsa al Prefetto di Siena, prot. 107/4 Ris.




Corrado Mascagni, un soldato toscano nella Grande Guerra

Corrado Mascagni era nato a Rosignano Marittimo il 9 aprile 1898. Nel piccolo paese toscano in cui viveva con la famiglia, nel marzo del 1917 gli giunse la chiamata dell’esercito. Nell’anno più terribile della Grande guerra europea, a diciannove anni ancora da compiere, fu costretto a partire per Savona dove fu assegnato alla compagnia distaccata nella vicina località di Finalborgo. Mascagni aveva completato la sesta elementare e sviluppato una passione per la lettura che lo porterà per tutta la vita a collezionare libri dei generi più vari. Ciò gli garantì una certa padronanza di linguaggio, e qualche strumento critico, che gli fu utile per orientarsi nell’esperienza dolorosa della guerra e nella successiva rielaborazione di quel tremendo ricordo.

Come molto giovani della sua generazione, uscita falcidiata da quella grande carneficina, non poté sottrarsi al bisogno incessante di uomini della macchina bellica. Trasferito per un periodo di addestramento in un campo a Dego, piccolo Comune sul Bormida, il 24 luglio partì in direzione del fronte. Giunto in zona di guerra e aggregato all’85° reggimento fanteria di marcia ad Aquileia, finita l’offensiva di agosto passò al primo battaglione del 118° reggimento che faceva parte della brigata Padova. Dopo la partecipazione a qualche scontro sul fronte visse in prima persona il drammatico evento della “rotta” di Caporetto.

L’esperienza traumatica della guerra e di quella tragica ritirata segnarono profondamente il suo immaginario e la sua identità personale. Nel 1966 volle non a caso compiere un viaggio sui luoghi di quegli eventi, scattando fotografie accompagnate da precise annotazioni che ne rivelano la ragguardevole capacità di ricordare quel lontano passato. Giusto alcuni mesi prima aveva sentito del resto il bisogno di ordinare tutti quei densi ricordi in un puntuale manoscritto a cui diede il termine, improprio, di “Diario”. Non si tratta infatti di una narrazione stesa in tempo reale ma redatta a significativa distanza dagli eventi vissuti. Più che di diario di guerra in senso stretto il suo inedito testo è un tipico esemplare di memoria proveniente dalla voce di un testimone diretto.

In un momento di grande interesse per le scritture popolari come fonti storiche, e in coincidenza con il centenario della fine di quel terribile avvenimento che ha segnato in profondità la storia e la memoria dell’Europa, l’Istoreco di Livorno, grazie al sostegno della Provincia e del Comune natale di Mascagni, ha deciso di promuovere la pubblicazione critica e commentata di quel manoscritto conservato per anni dal nipote Andrea.

caporetto-modi-di-direFra i fattori che hanno consigliato la stampa e che costituiscono uno dei principali elementi di legittimazione di questo testo memorialistico vi sono l’interesse e il rilievo dei fatti narrati, l’affidabilità dei ricordi attestati dalla precisione, facilmente riscontrabile, con cui l’autore ricorda ed espone con essenzialità antiretorica molti dettagli.

Al pari di tanti altri che ci hanno lasciato volontaria o involontaria testimonianza dell’evento epocale a cui la giovane recluta di Rosignano fu chiamata suo malgrado ad assistere, il manoscritto ci dice qualcosa di piuttosto consueto. Vi riecheggiano i temi di tanta scrittura popolare di guerra: la nostalgia di casa, la convivenza quasi quotidiana con i disagi della fame o con il tormento dei pidocchi, il costante rumore degli spari o delle esplosioni in sottofondo, l’assillante ripetitività delle mansioni militari, il senso macerante dell’attesa, le angherie di molti superiori, gli eroismi o la viltà dei singoli. Anche nelle molte pagine dedicate alla rotta di Caporetto i dettagli e gli episodi riportati (dai violenti saccheggi all’abbandono dei feriti e dei più deboli al loro destino, dal panico diffuso per l’incalzare degli austriaci alla ricerca angosciosa del cibo) coincidono con la narrazione di altri memorialisti del drammatico evento.

Ma allo stesso tempo con la sua soggettività, differente da quella di tutti gli altri, Mascagni ci comunica cose assolutamente personali che afferiscono alla sua esperienza. Pur nelle maglie spersonalizzanti della macchina bellica, nelle sue regole ferree e spietate, resta lo spazio per l’emergere dei suoi sentimenti, dei suoi stati d’animo, ma anche di sue autonome iniziative. Se affiora nelle pagine un profondo senso di lealtà, che lo porta a svolgere con coscienziosa dedizione ogni compito militare assegnatogli, nei momenti più drammatici l’etica che alimenta questo stesso sentimento, non privo talora di sfumature e risvolti di senso comune patriottico, lascia spazio a un più ampio e universale umanesimo, a un moto di pietà quasi cristiana. In quei frangenti sembrano allora assottigliarsi, fino quasi a scomparire, le feroci contrapposizioni alimentate dagli odi nazionali, come nel caso dell’atteggiamento di profonda pena provato alla vista della massa sbandata dei prigionieri austro-ungarici dopo l’armistizio; o ancora si aprono nel fluire neutro e realistico della narrazione, come squarci improvvisi e illuminanti, prese di posizione, subito riassorbite dai doveri pratici dettati dalle esigenze richieste dell’ingranaggio bellico, sull’assurdità e l’insensatezza della guerra. Posto di fronte all’estremo, all’esperienza cioè della scoperta della morte, il senso dell’umana solidarietà pare insopprimibile a ogni imposizione ideologica o disciplinare.

Il primo incontro con un cadavere è così un’esperienza sensorialmente forte che arriva attraverso la propria mano «intrisa di sangue» ritratta di scatto dalla «faccia sfracellata» di un «povero disgraziato», il cui corpo giace nella cavità di un piccolo riparo di fortuna in cui Mascagni ha cercato di trovare invano momentaneo riposo; un’amara sorpresa che lo spinge ad annotare quanto «Questa veramente fu la prima impressione che mi rimase per valutare a pieno quali e quante siano le brutture della guerra». Non si può poi trattenere lo sgomento nell’essere obbligati dai comandi ad assistere alla fucilazione di un giovane caporal maggiore, attraverso la cui straziante vicenda si fa «una conoscenza diretta […] di ciò che è la legge iniqua della guerra». Si tratta solo delle prime di una serie di vittime che lastricheranno tutto il prosieguo della narrazione, dove non di rado si muore in maniera assolutamente antieroica per accadimenti fortuiti o per decisioni spietate; del resto di fronte all’impressionante racconto della scelta di far saltare un ponte «ancora brulicante di soldati» per l’incalzante arrivo degli austriaci durante la rotta del 1917, con popolaresca saggezza Mascagni annota: «la guerra non ha legge che perdona».

Non essendo le motivazioni della stesura del testo, diversamente dai suoi tempi («Riscritto dopo 44 anni»), chiaramente esplicitate, si può supporre che proprio la percezione delle implicazioni morali delle vicende vissute che affiora da questi episodi abbia fatto da notevole impulso al bisogno di raccontarle confidandole alle pagine di un quaderno.

Se il contesto d’ambiente iniziale della cronistoria fatta da Mascagni è quello, comune ad ogni coscritto, delle immediate retrovie del fronte e della linea di trincea, grande spazio è riservato alla lunga marcia imposta dalla ritirata, che segna buona parte della vicenda militare di Mascagni arrivato in zona di guerra poche settimane prima dell’evento spartiacque di Caporetto. Le vicende dell’arretramento del fronte e del suo consolidamento si saldano nell’anno seguente con quelle che portano alla controffensiva finale e all’armistizio del 4 novembre. La memoria si chiude a dopoguerra inoltrato, spingendosi fino agli inizi del 1920, momento del definitivo congedo.

1wwL’incipit narrativo non manca di un’involontaria efficacia letteraria, conducendoci senza preamboli direttamente dentro il clima della guerra e delle retrovie del fronte, quasi a trasmettere il senso di impreparazione e il modo improvviso con cui il giovane narratore fu gettato dalla provincia toscana in un evento più grande di lui. La scrittura procede con il succedersi degli avvenimenti, in cui la parte del leone la fa, sia nell’economia del testo che nello sconvolgimento emotivo che produce suoi protagonisti, il dramma della disfatta di Caporetto. Una tragedia che rompe l’equilibrio e la monotonia della vita al fronte e che imprime d’un tratto un maggiore dinamismo, specchio della concitazione del momento, alla stessa narrazione; in soli cinque giorni, in una marcia a tappe forzate e quasi senza soste, Mascagni e i suoi compagni di sventura coprirono del resto ben 155 chilometri di territorio. Ma la loro discesa agli inferi impose anche un’accelerazione macroscopica ad alcune delle logiche più dure della guerra e alla sua carica di violenza. Alla violenza primordiale innescata dall’istinto di sopravvivenza, alle fatiche delle marce quotidiane, all’ossessionante ricerca di cibo, alla decimazione dei reparti e delle compagnie e ai morti e ai feriti lasciati al loro destino. Se l’epopea di Caporetto in cui Mascagni è pienamente coinvolto è familiare a tutti, è invece meno noto il contesto in cui si svolse l’epilogo della sua vicenda. La sua guerra finì infatti ben oltre il termine armistiziale del conflitto, impegnato come molti altri mobilitati a partecipare al processo di normalizzazione delle aree a ridosso del fronte. Nella parte conclusiva del manoscritto lo troviamo così coinvolto nella faticosa opera di costruzione di cimiteri di guerra chiamati a dare sepoltura alla gran quantità di morti insepolti o sotterrati alla meglio fra le trincee; cimiteri militari edificati tuttavia anche per dare risposta a uno dei maggiori problemi di ordine culturale lasciati in eredità dall’immane disastro della prima guerra mondiale, quello dell’elaborazione di un lutto di portata spaventosa e di un conseguente sentimento di perdita senza precedenti.

Partecipa inoltre al controllo e al “governo” di un altro grande dramma, quello della smisurata quantità di persone fatte prigioniere, persone che nel suo piccolo è chiamato a gestire con l’affidamento di incarichi di responsabilità, e con cui intesse rapporti di sincera amicizia, trovando persino in un giovanissimo orfano mussulmano di origini bosniache un valido assistente trattato con atteggiamento quasi paterno. Un rapporto personale di cui ci è rimasta una bella fotografia, qui a fianco riprodotta, che Mascagni volle “regalare” a quell’ex nemico, divenuto in poche settimane suo fedele alleato, durante un’uscita a metà fra lavoro e svago a Bassano del Grappa. Tornati al campo di prigionia, la fotografia incontrò talmente l’entusiasmo di altri prigionieri che Mascagni ne fece stampare sessanta copie perché fra le tende in cui cechi, slovacchi, serbi, austriaci, ungheresi e tedeschi, dalmati, rumeni, bulgari venivano ospitati alla meglio molti la avessero come ricordo. Una concessione quasi frivola, dopo tante tragedie e tanta spaventosa serietà, che rivelava tuttavia una carica di grande umanità e a conti fatti il sentimento di estraneità verso la guerra di tanti semplici commilitoni dei vari fronti in lotta. L’ubriacatura nazionalistica non era finita, pronta a riesplodere solo meno di vent’anni dopo, ma per il comune milite di Rosignano quella stagione si era definitivamente chiusa in quel campo di tende freddo e desolato, sorto per caso, in un angolo sperduto di un’Europa devastata