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Le Stanze della Memoria di Siena si rinnovano

La vecchia caserma della Guardia nazionale repubblicana di Siena, luogo famigerato in quanto sede di reclusione e torture di antifascisti dall’ottobre del 1943 fino alla liberazione, era stato trasformato in percorso museale nel 2007, grazie soprattutto alla volontà di Vittorio Meoni, fondatore e presidente dell’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea che oggi porta il suo nome.

In questi primi anni di esistenza, la casermetta – appellativo con cui è ancora nota ai senesi – o le Stanze della Memoria se si vuol essere più rigorosi, ha avuto migliaia di presenze, soprattutto da parte dei giovani delle scuole. I visitatori hanno potuto approfondire in questi ambienti le varie tematiche di storia locale, e non solo, come per esempio il lavoro a inizio ‘900, l’istaurazione della dittatura fascista, le leggi razziali, la Shoah, la Seconda guerra mondiale, la Resistenza e la Liberazione; tuttavia la particolare tipologia del percorso museale, posto in una città come Siena – ancorata alle proprie tradizioni ma anche storicamente votata all’accoglienza – ha posto, sin dalla sua apertura, la sfida costante dell’aggiornamento necessario per dialogare con un pubblico multiculturale e multietnico.
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All’esigenza di rinnovamento, recentemente, l’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea, ente che gestisce le Stanze della Memoria, ha deciso di rispondere su tre piani, ossia la multimedialità, l’allestimento e l’accessibilità da parte di un’utenza che non sempre conosce la lingua italiana; tutto ciò è stato possibile grazie al contributo della Regione Toscana, a una convenzione con il dipartimento di informatica dell’Istituto di istruzione superiore “Tito Sarrocchi” di Siena, a donazioni di oggetti da parte di collezioni private, nonché alla disponibilità di alcuni volontari.

Il primo intervento ha interessato il sito web dell’Istituto Storico della Resistenza senese all’interno del quale, la pagina ‘Stanze della Memoria’ è stata arricchita con un accesso virtuale e aperto a tutti al percorso museale (qui il link) proposto sia in lingua italiana che in inglese. Sempre dal punto di vista multimediale, per i visitatori ‘fisici’ sono state messe a disposizione delle video-audio-guide su tablet che permettono di approfondire i contenuti del percorso con la possibilità di operare delle scelte relative agli argomenti d’interesse.

L’intervento sull’allestimento ha riguardato due aspetti, ossia la cartellonistica e l’oggettistica. Nel primo caso sono stati attinti documenti e immagini dall’archivio dell’Istituto storico per arricchire il percorso iconografico di testimonianze ma anche di dati e di carte geografiche. Per quanto riguarda invece l’oggettistica si è proceduto sia al restauro di alcuni pezzi, ma anche a esporre dei cimeli donati da collezioni private.IMG-20200929-WA0005_resized

La sfida dell’aggiornamento è tuttavia costante. L’obiettivo principale delle Stanze della Memoria che, come tutti i musei del nostro Paese deve combattere quotidianamente con budget limitati e spese di gestione elevate, è quello di allargare ancora il teatro della propria utenza sia in presenza che virtuale. Per fare ciò, l’Istituto storico della Resistenza senese si sta già muovendo per realizzare un percorso virtuale in altre lingue straniere e per incrementare ancora la collezione da proporre all’utenza in modo tale da consolidare ulteriormente la propria presenza tra le istituzioni culturali del territorio.

Il percorso museale delle “Stanze della Memoria” si trova a Siena in via Malavolti 90 ed è aperto al pubblico martedì e giovedì dalle 9:00 alle 13:00 nonché il mercoledì e il venerdì dalle 15:30 alle 18:30.

Per informazioni e contatti: stanzedellamemoria@gmail.com




L’eccidio di Monterongriffoli, 17 luglio 1920.

L’Italia uscì dalla Grande Guerra con una situazione di forte crisi economica e sociale, che causò un continuo incancrenirsi dello scontro politico. Nei primi mesi del 1920 si moltiplicarono le violenze. Il 7 marzo si registrò una prima aggressione alla Casa del popolo di Siena, durante la quale rimase ucciso un giovane di 18 anni, Enrico Lachi, per un colpo di pistola sparato da un appuntato dei carabinieri[1].
In segno di forte protesta, fu indetto lo sciopero generale. Si cominciava infatti a percepire una sentita avversione, di parte della forza pubblica e degli organi statali, contro i socialisti, che avrebbe in seguito condotto a una piena affermazione della violenza fascista[2].
Nel moltiplicarsi degli scontri, sabato 17 luglio si verificò l’episodio più tragico delle campagne.
L’oggetto del contendere era il “patto colonico”, del quale i mezzadri chiedevano alcune modifiche, per esempio di avere più del 50% del raccolto e di limitare il potere di escomio del padrone. L’occasione era il periodo della trebbiatura, il momento più delicato del lavoro nelle campagne, durante il quale lo sciopero assumeva una maggiore forza.
Un paio di poderi non ubbidivano all’ordine di scioperare emanato dal sindacato di matrice socialista. Di conseguenza, il proprietario della fattoria di Monterongriffoli, Aldo Bellugi Gragnoli, aveva chiesto al prefetto la protezione dei contadini che volevano tagliare il grano, in particolare il podere di Montepietri.
Problemi di scioperi si ebbero in tutta la provincia, che era in mano alle cosiddette “leghe rosse”, cioè le organizzazioni sindacali socialiste, tanto che fu proclamato lo “stato d’assedio”[3].
La nostra Provincia di questi giorni passati – scriveva il settimanale socialista “Bandiera Rossa Martinella” – è stata invasa da grandi forze armate col preciso scopo di soffocare col sangue la grandiosa compattezza delle masse agricole. La folla della campagna ha sostenuto l’urto violento, non ha piegato un attimo di fronte alla travolgente reazione padronale stimolante le autorità civili e militari alla più feroce repressione”[4].
La mattina del 17 luglio arrivarono a Monterongriffoli alcuni carabinieri del battaglione mobile di Roma, comandati da un maresciallo.
Il paese si sviluppava lungo la strada in discesa sotto una collina di tufo, e alla fine della stessa strada si trovava la villa padronale, che chiudeva l’abitato da un lato. Il maresciallo mandò una parte dei suoi uomini a sorvegliare il lavoro nei campi, mentre gli altri rimasero nella villa.

L’arrivo dei carabinieri aveva riscaldato gli umori degli scioperanti, che avevano comunque deciso di non impedire la trebbiatura da parte dei crumiri.
Erano i primi scioperi che venivano fatti; ancora il Fascismo non esisteva – ha testimoniato la sig.ra A. Meini – erano i contadini che volevano un po’ più di giustizia e stare un po’ meglio”[5].
Le rivendicazioni erano modeste e apparivano nel complesso degne di considerazione, non mettevano in dubbio l’istituto secolare della mezzadria. Ma gli animi erano stati accesi dalla forte propaganda socialista massimalista, dalla crisi economica e sociale, dalla speranza o paura – secondo in quale parte della barricata ci si trovava – di una rivoluzione come quella russa.
La scintilla che innescò la miccia degli scontri fu causata dall’arresto di tre contadini, che secondo alcune testimonianze erano ubriachi e provocarono i carabinieri, secondo altre avevano semplicemente sfoggiato vessilli rossi.
Ecco un paio di descrizioni contrastanti, da parte di due giornali, che fanno capire quanto fossero accesi gli animi e quanto le descrizioni risultassero di parte, orientando l’opinione pubblica dei lettori.
“La Vedetta Senese”, 19-20 luglio 1920.

A Monterongrifoli, frazione di S. Giovanni d’Asso, dove è situata la fattoria di proprietà del signor Aldo Bellugi, si trovavano 20 carabinieri per proteggere i lavori della trebbiatura. Nella mattinata di ieri 14 militi furono dislocati rimanendo così a Monterongrifoli 6 carabinieri con un commissario di P.S.
Una numerosa masnada di scioperanti si partì da S. Giovan d’Asso, distante pochi
chilometri, e si recò nella frazione a reclamare il rilascio di tre contadini arrestati.
Gli scioperanti ebbero la cura di sbarrare le strade d’accesso per impedire l’arrivo di rinforzi. Appena giunti a Monterongrifoli dettero un’assalto in piena regola ai R.R. C.C. tirando bastonate e commettendo violenza.
I carabinieri si difesero con i calci dei fucili cercando di ripararsi dalle botte date con rabbia e con forza, tanto che alcuno ebbe il calcio del moschetto spezzato da una bastonata. Mentre la zuffa continuava, arrivò un camion guidato da una guardia regia. Questa si accorse che un gruppo di forsennati cercava di prendere alle spalle un carabiniere per colpirlo a tradimento. Comprendendo che la vita del milite era in grave pericolo, la guardia sparò un colpo di rivoltella ferendo due contadini.
I carabinieri subito dopo, per non essere sopraffatti, spararono disperdendo la folla.
Si hanno a deplorare 4 morti e 4 feriti, fra i contadini.
I 6 carabinieri rimasero tutti più o meno gravemente contusi.
L’ord
ine è ristabilito”.

“Bandiera Rossa – Martinella”, 25 luglio 1920.

Ingresso Villa padronale a Monterongriffoli, giugno 2020

Sabato 17 verso sera tre contadini del vicino paese di Montisi si recavano a Monterongriffoli. Soffermatosi in una trattoria a bere, furono subito raggiunti dai carabinieri, i quali, senza motivo, li trassero in arresto, trasportandoli alla fattoria dell’agrario Aldo Bellucci-Gragnoli, poiché era colà che un camion di carabinieri comandati da un commissario di P.S. e da un maresciallo, sostava.
L
a folla composta, come dissi, di pacifici lavoratori, si avviava alla fattoria per chiedere il  rilascio degli arrestati. All’approssimarsi di questa, maresciallo, commissario e si dice anche il proprietario, ed il fattore, cominciarono a sparare. Fu un momento di panico. Si domandava se questi agenti e proprietari erano diventati pazzi. Si vedeva la faccia contorta del commissario che gridava sparando, il maresciallo e i carabinieri lo imitavano, dalle finestre della fattoria si faceva altrettanto. Cadevano contadini al suolo, feriti a morte. La folla veniva poi inseguita alla carica dai carabinieri, i quali piattonavano e colpivano col calcio del moschetto”.

La ricostruzione dei fatti risulta molto differenziata, nei giornali, nei documenti e nelle testimonianze. Quello che sembra certo è che arrivò una folla di persone, per chiedere di liberare i contadini fermati, che la folla entrò nel piazzale della villa padronale e che partirono colpi di arma da fuoco, non soltanto dalle pistole di ordinanza, come se qualcun altro avesse sparato contro i contadini.
Si contarono tre morti (Angelo Cingottini di 54 anni, Natale Baglioni di 30 anni e Settimio Capaccioli di 26 anni). Altre sei persone rimasero ferite.
I fatti di Monterongriffoli furono oggetto di un processo penale, tenuto nel corso del 1921, che si concluse in agosto, con le condanne per oltraggio e lesioni alla forza pubblica di alcuni contadini, che fecero ricorso in appello, e con l’assoluzione dai reati di omicidio e violenza del proprietaria dello fattoria Aldo e del parente Guido, per non aver commesso il fatto[6].
Poco dopo l’eccidio, ebbero termine le lunghe trattative sul patto colonico fra l’Associazione agraria in rappresentanza dei padroni e la Federazione italiana lavoratori della terra, in rappresentanza dei mezzadri.
Lo sciopero dei contadini può dirsi finalmente cessato” – scriveva il quotidiano “La Vedetta Senese” del 19-20 luglio –. Notizie che ci giungono da ogni parte della provincia confermano che i lavori sono già ripresi quasi da per tutto, e che in ogni modo l’agitazione è scomparsa possiamo sperare che fatti incresciosi non si abbiano a ripetere…
Disgraziatamente questo sciopero à voluto le sue vittime che potevano certamente essere evitate con un po’ di serenità
”[7].

Il paese di Monterongriffoli nei pressi della fattoria, giugno 2020

Note
[1] G. Maccianti, Una storia violenta: Siena e la sua provincia 1919-1922, Siena, Il Leccio, 2015, pp. 58-59.
[2] S. Maggi, Dalla città allo Stato nazionale. Ferrovie e modernizzazione a Siena tra Risorgimento e fascismo, Milano, Giuffrè, 1994, pp. 305-308.
[3] Lettera di Sesto Bisogni del 19 luglio, in “La Vedetta Senese”, 19-20 luglio 1920, p. 3.
[4] La ferocia bestiale dei carabinieri del re nello sciopero dei contadini, sbocca nel malvagio eccidio di Monterongriffoli, in “Bandiera Rossa Martinella”, 25 luglio 1920, p. 1.
[5] Statuto del Comune di Monterongriffoli. 1534, a cura di F. Raffaelli, Comune di San Giovanni d’Asso, 2001, p. 143.
[6] Archivio di Stato di Siena, Fondo Tribunale Penale di Siena, filza 611, Processi Penali, anno 1921, ottobre-novembre.
[7] Lo sciopero dei contadini. Lo sciopero è finito?, in “La Vedetta Senese”, 19-20 luglio 1920, p. 3.




I baluardi di Kesselring in terra di Siena.

La massima del generale statunitense George Smith Patton le fortificazioni fisse sono un monumento alla stupidità dell’uomo riassumeva in modo esemplare la nuova mentalità tattica e strategica che si era andata affermando nel corso della Seconda guerra mondiale. Tale lezione, anche se non era stata ben compresa da Adolf Hitler – per molti versi ancora legato alla concezione di fortificazione e guerra di posizione – era tuttavia ben chiara per molti ufficiali tedeschi tra cui Albert Kesselring, a cui il Führer, a partire dal 21 novembre 1943, aveva nuovamente affidato la responsabilità dell’intero fronte italiano e che si dimostrò un maestro nella difesa dinamica.
In seguito allo sfondamento della linea Gustav, avvenuto con la IV battaglia di Montecassino (11-18 maggio 1944) grazie alla brillante manovra del Corps Expéditionnaire Français lungo la valle del Liri, gli uomini del Reich si erano trovati in grave difficoltà rischiando una sconfitta ancora più grave qualora gli Alleati, anziché piegare su Roma, fossero avanzati velocemente lungo le linee di comunicazione della penisola in direzione nord. La convergenza sulla capitale degli statunitensi fece guadagnare del tempo prezioso a Kesselring, che poté riattivare i collegamenti tra le due grandi unità sotto il suo comando, la X e la XIV armata tedesca, elaborando un’efficace difesa dinamica. L’idea di fondo era quella di realizzare una seconda linea difensiva, sfruttando la natura impervia del terreno, tra la Versilia e la Romagna, sul modello della Gustav, linea che avrebbe impegnato per mesi gli Alleati nonostante questi ultimi godessero di una schiacciante superiorità di uomini e mezzi. Ovviamente, per ritirate due intere armate sulla nuova posizione era necessario guadagnare tempo e per far ciò l’idea di Kesselring era di realizzare, una volta riorganizzate le proprie truppe, una serie di linee difensive “elastiche”. Queste barriere erano sostanzialmente dei caposaldi piazzati presso passaggi obbligati o su punti facilmente difendibili. I reparti (i Kampfgruppen) destinati a presidiare i caposaldi prendevano il nome dall’ufficiale in comando e, in molti casi, erano costituiti da aggregazioni di uomini provenienti da diverse specialità.
Gli Alleati poterono avanzare senza grossi ostacoli fino a Perugia e Orvieto (quest’ultima dichiarata “città aperta”), ma da quel momento in poi i tedeschi, che nel frattempo avevano avuto il tempo di riorganizzarsi, decisero di opporre resistenza, risoluzione questa che gli anglo-statunitensi conobbero in anticipo grazie all’intercettazione e alla decrittazione di alcuni documenti riservati tedeschi che erano caduti nelle loro mani. Gli uomini del Reich avevano apprestato una linea di arresto detta “Albert” o “del Trasimeno”, che correva dall’omonimo lago fino a Castiglion della Pescaia[2] sfruttando le numerose zone accidentate, particolarmente adatte a realizzare dei caposaldi, nonché la relativa scarsità di strade idonee al passaggio delle unità corazzate. Tale dispositivo difensivo, nel territorio senese, poteva contare su tre baluardi: il Monte Amiata, considerato strategico per la presenza di un’importante centrale di amplificazione telefonica, la cittadina di Radicofani dalla quale si poteva facilmente controllare il traffico sulla strada Cassia e, a est, il monte Cetona il cui possesso poteva chiudere l’accesso alla Val di Chiana. Dall’altra parte gli Alleati miravano a raggiungere velocemente i ponti sull’Arno in modo da imbottigliare gli avversari prima che si attestassero a nord di Firenze. Questo compito venne assegnato all’intera V armata statunitense, schierata sul Tirreno, al Corps Expéditionnaire Français, prevalentemente impiegato nel territorio senese e, a est, a una parte dell’VIII armata britannica. Furono proprio i francesi a entrare per primi nel territorio della Città del palio, varcando, il 15 giugno 1944, il fiume Paglia. Due giorni dopo la III divisione di fanteria algerina, grazie all’aiuto dei partigiani del posto, riuscì a impadronirsi della vetta del Monte Amiata; contemporaneamente gli uomini della 13° semi brigata della Legione straniera, appoggiati da un battaglione di fanteria algerina, portarono l’attacco contro Radicofani. L’azione avvenne in condizioni particolarmente difficili poiché, nonostante si fosse nella buona stagione, pioveva a dirotto e ciò impedì l’appoggio sia dell’aviazione che delle forze corazzate nonché un’efficace preparazione da parte dell’artiglieria; nonostante le avversità i legionari e gli algerini, alle 5 del mattino del 17 giugno, iniziarono a scalare l’impervia collina di Radicofani. La cittadina era difesa da elementi del 67° reggimento Panzergrenadier e della I divisione Fallschirmpanzer comandati dal maggiore Herald Rathjens, che aveva realizzato un vero e proprio baluardo nel palazzo della posta e sull’area circostante. Per l’intera giornata i tentativi francesi di avvicinarsi all’abitato si risolsero in fallimenti e soltanto alle 17 del giorno successivo, combattendo sotto un furioso temporale, riuscirono ad aver ragione dei difensori, ma la giornata non era ancora finita. All’imbrunire, i tedeschi contrattaccarono in forze tentando di riconquistare Radicofani, ma l’azione fallì e il giorno successivo si ritirarono verso nord. Il sanguinoso scontro era costato ai francesi 108 caduti e numerosi feriti. Incerto il numero dei morti tedeschi ma tra loro si trovava anche il maggiore Rathjens che preferì suicidarsi piuttosto che cadere prigioniero[3].
Il terzo caposaldo tedesco della linea Albert in terra di Siena era la città di Chiusi, posta su un’altura tra il monte Cetona e il Lago Trasimeno. Le avanguardie della VI divisione corazzata sudafricana vi giunsero il 20 di giugno trovandola scarsamente presidiata e, inspiegabilmente, ripiegarono. Quando gli Alleati portarono il loro attacco contro l’antica città etrusca, nella notte tra il 21 e il 22 giugno, i tedeschi avevano ormai preparato un’adeguata difesa. L’azione, come del resto quella dei francesi contro Radicofani, si sviluppò sotto la pioggia battente e gli uomini del Commonwealth, nel buio più totale, oltre che contro i colpi di sbarramento, furono costretti a lottare con il fango mentre scalavano i pendii scoscesi. Una volta penetrati in città, i sudafricani presero letteralmente di sorpresa i tedeschi ma essendo privi di armi anticarro (rimaste indietro a causa del terreno pesante) non poterono far saltare i tank avversari che si erano trovati davanti. Ne nacque uno scontro accanito con epicentro nella piazza del teatro, all’interno della quale gli attaccanti rimasero intrappolati a causa della reazione degli avversari. Avvisati dai partigiani della difficile situazione che si era venuta a creare in città, i comandi della VI divisione inviarono un contingente di carrarmati per prestare soccorso ma, a causa delle vie di comunicazione inadeguate, questi ultimi non poterono giungere sull’obiettivo. Le perdite patite dai britannici furono rilevanti, ben 80 morti più un numero imprecisato di feriti e di prigionieri, bilancio che avrebbe potuto essere ben più pesante se i civili e i partigiani non avessero prestato loro soccorso; poco si sa delle perdite tedesche ma si suppone che anch’esse siano state rilevanti. Soltanto il 26 giugno, quando finalmente le condizioni meteo migliorarono, gli Alleati presero possesso della cittadina ormai abbandonata dai tedeschi in ripiegamento verso nord[4].
Con la liberazione da parte degli statunitensi di Cecina (2 di luglio) e di Siena (3 luglio), a opera dei francesi, la linea Albert venne definitivamente superata; tuttavia questo baluardo aveva pienamente assolto il proprio compito permettendo agli uomini di Kesselring di guadagnare ben due settimane.

Note
[1] Immagine da BARDOTTI R., Attenti a dove sparate. La liberazione di Siena raccontata dai fotoreporter dell’esercito francese, Siena, Betti ed., 2018, p.25.
[2] Lo sfondamento della linea Albert, 2 luglio 1944, in https://www.combattentiereduci.it/notizie/lo-sfondamento-della-linea-albert-2-luglio-1944, visitato il 5 maggio 2020.
[3] ONETO G., Radicofani 1944. Il coraggio di osare, in http://ekladata.com/GJ1dZIQm2zLV7aYZsER6BsjZLdI/Radicofani-1944-il-coraggio-di-osare-Giors-Oneto-2014.pdf, visitato il 2 aprile 2020.
[4] SCRICCIOLO L., Chiusi nella bufera, Chiusi 1991, pp.55-80.




La persecuzione degli ebrei senesi (1938-1944).

Mario Misan, insieme alla sorella gemella Lia, nacque a Siena nel 1933. Il padre Giuseppe, di religione ebraica, era originario di Livorno[2] e, insieme al fratello Roberto, gestiva un negozio di tessuti in via di Città. La madre Silvia Tognazzi, non era ebrea, bensì figlia di un mezzadro della Val d’Orcia; la donna si era trasferita a Siena all’età di vent’anni per andare a lavorare, come infermiera, presso l’ospedale psichiatrico, e proprio in città, dopo essersi convertita all’ebraismo, era convolata a nozze presso la sinagoga locale.
Il giovane Mario conobbe prestissimo l’umiliazione delle leggi razziali in quanto a sei anni (nel 1939) presentandosi a scuola insieme alla sorella, fu costretto a iscriversi alla pluriclasse riservata ai bambini ebrei. La scuola si trovava in località “La Lizza” e il locale riservato agli israeliti (circa 15 studenti, per i quali l’insegnante era la maestra Giustina Del Monte, originaria di Firenze, anch’ella di religione ebraica) era fatto in modo che non ci fossero contatti con i bambini “ariani” e persino i bagni erano separati.
Racconta Mario Misan che il membro della famiglia che soffrì di più per le discriminazioni scolastiche fu suo cugino Giulio[3], figlio di Roberto; il giovane amava gli studi ed era particolarmente portato ma quando si trovò a passare dal ginnasio al liceo, ciò gli venne impedito a causa delle leggi razziali. I problemi più gravi per la famiglia Misan arrivarono tuttavia dopo l’8 settembre 1943. Con l’occupazione tedesca, prudentemente, la madre di Mario, portò lui, la sorella Lia e il fratello Aldo presso il podere “La Macina”, a mezza strada tra Montalcino e Buonconvento presso gli zii materni Nello e Quirino Tognazzi che diedero loro ospitalità nonostante i gravissimi rischi che questo comportava. La situazione era particolarmente dura, ricorda Misan, la madre andava «a Montalcino e si arrangiava a vendere pannina[4] casa per casa, trascinandosi dietro una grossa valigia. I proventi erano magri ma tutto serviva. Questa donna era incinta al quinto mese di gravidanza, Laura [l’ultima sorella di Mario n.d.r.] nascerà infatti nel gennaio del 1944, periodo tristissimo, pieno di angosce e paure».
Giuseppe Misan, con il figlio maggiore, Manrico, per tutelare in qualche modo quello che rimaneva delle magre risorse della famiglia, nonostante le esortazioni dei familiari a lasciare la città (la notizia del rastrellamento degli ebrei romani, avvenuto il 16 d’ottobre del 1943, era trapelata e aveva scatenato forti apprensioni), avevano preso la pericolosissima decisione di rimanere a Siena, nel proprio appartamento di via Girolamo Gigli e rischiarono di pagare a caro prezzo questa scelta. La notte del 5 novembre dello stesso anno, una pattuglia di fascisti repubblicani, insieme a un militare tedesco[5] si presentarono a casa Misan e arrestarono Giuseppe e Manrico; contemporaneamente, due zie di Mario, Adriana e Isolina, con le loro famiglie, venivano prelevate dalla loro casa nella zona di Belvedere.
Tutti gli ebrei catturati vennero portati alla caserma “Lamarmora” e il padre di Mario raccontò al figlio di aver visto «i Valech, quasi tutta la famiglia, i Nissim, i Belgrado, i Sadun e altri»[6].
Il viaggio degli sventurati proseguì in camion alla volta di Firenze, da dove, dopo una sosta di un giorno, vennero spediti per mezzo di un carro bestiame a Bologna e portati presso un comando delle SS tedesche. Fortunatamente l’intera famiglia Misan, comprese Adriana e Isolina, venne considerata di “matrimonio misto” e quindi rilasciata[7] tuttavia, da quel momento in poi, considerato il rischio corso e i continui giri di vite alle normative razziali «i fascisti e le SS tedesche prendevano tutti i sospetti per ½ per ¼ di sangue ed altri» anche coloro che erano rimasti a Siena decisero di riparare presso il podere “La macina”.
Nonostante il numero dei rifugiati presso la famiglia Tognazzi fosse particolarmente elevato («eravamo un branco di persone nascosti fino alla liberazione» scrive Mario Misan) e pertanto facilmente individuabile (era anche noto il fatto per cui si nascondevano), nessuno dei vicini rivelò alle autorità la presenza di ebrei in quella casa. Lo stessa solidarietà venne trovava dai Misan al ritorno a Siena, alcune famiglie che avevano prestato loro aiuto in città durante le tristi vicissitudini della dittatura e della guerra, i Monciatti, i Tortorelli e i Vannini, non fecero mancare il loro appoggio e pian piano la vita tornò alla normalità.

[1]La testimonianza è stata incisa e scritta dallo stesso Mario Misan il 5 ottobre 2018 e successivamente consegnata all’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea “Vittorio Meoni”.
[2]Riferiva il cugino di Mario, Giulio, che la famiglia Misan si trasferì a Siena da Livorno per sfuggire all’epidemia di colera che colpì quella città nel 1911, cfr. Giulio Misan – Intervista a Giulio Misan [consultato il 17 marzo 2020].
[3]Anche Giulio riuscì a scampare all’Olocausto. Tra l’8 settembre 1943 e il giugno 1944, fu ospite di famiglie contadine nella zona tra Montalcino, Buonconvento e Torrenieri, mentre la famiglia del fratello venne nascosta nella zona di Dievole nel Chianti dal parroco di Vignano, don Luigi Rosadini. Al termine della guerra, dopo essere stato per qualche tempo venditore ambulante, Giulio Misan riuscì, nel 1946, a riaprire, insieme alle sorelle, un negozio di stoffe che gestì fino al 1970.
[4]Nel dialetto senese dell’epoca, per ‘pannine’ si intendeva la biancheria e altri prodotti tessili di modesto valore.
[5]Alba Valech, nella sua testimonianza, riferì che i fascisti erano accompagnati da un militare italiano delle SS, cfr. La tragica storia di 15 ebrei senesi raccontata nel documentario di Juri Guerranti, Novembre 1943: accadde anche a Siena [consultato il 17 marzo 2020].
Cfr. Alba Valech Capozzi, A 24029, Siena, Soc. An. Poligrafica, 1946.
[6]Gli ebrei rastrellati a Siena quella notte furono una ventina, di costoro alcuni, come i Misan, vennero rilasciati, Alba Valech, arrestata successivamente, si salverà dall’inferno di Auschwitz, ma Adele Ajò (di anni 64), Gino Sadun (di anni 71) Ubaldo Belgrado (di anni 52), Ernesta Brandes (di anni 85), Giacomo Augusto Hasdà (rabbino, di anni 74), Ermelinda Segre (di anni 68), Achille Millul (di anni 40), Gina Sadun (di anni 47), Marcella Nissim (di anni 20), Graziella Nissim (di anni 14), Livia Forti (di anni 55), Davide Valech (di anni 64), Michele Valech (di anni 68), Morosina Valech (di anni 21) e Ferruccio Valech (di anni 13) non tornarono più alle loro case, cfr. La tragica storia di 15 ebrei senesi raccontata nel documentario di Juri Guerranti, cit.
[7]Cfr. Archivio di Stato di Siena, Pref. Uff. Gab. 1935-1957, b. 4, f. 3, elenco degli ebrei nati da famiglia mista residenti a Siena.




Il mondo a metà e la storia contadina del Novecento

Negli anni ’70 la mezzadria era al centro dei dibattiti storiografici. In specie la ‘mezzadria classica toscana’ che lungo l’Ottocento aveva fatto discutere, tra granducato e nuova nazione, economisti e politici, liberali e protezionisti. Qualcuno aveva teorizzato di esportarla in Sicilia. L’origine si faceva risalire al XII secolo. Ai primi del Novecento questo contratto-relazione sociale che appariva statico ebbe dei momenti di forte dinamismo sindacale: lo sciopero di Chianciano del 1902 è rimasto esemplare. Nacquero delle Leghe contadine. Il fascismo le sciolse, ma cercò di valorizzare il contratto parziario (il prodotto metà al padrone e metà al contadino) come una sorta di alleanza tra contadini e proprietari. Scintille covavano sotto la cenere, ma gran parte del mondo rurale arrivò alla guerra senza particolari iniziative sociali. La guerra e il passaggio del fronte di podere in podere, l’organizzazione della Resistenza nelle zone di mezzadria più povera della montagna, la diserzione quasi generale dei giovani verso la leva repubblichina fecero entrare i mezzadri nella scena della storia, del sindacalismo e della politica.

Il dopoguerra fu animato da straordinarie lotte sociali, finalizzate soprattutto alla modifica della quota del riparto per passare dalla metà a un rapporto più favorevole al contadino. Vi furono importanti successi, ma la complessità dello scenario del nuovo sviluppo industriale spinse il padronato a non investire sulla terra e i mezzadri a non mettersi in proprio. E fu anche un momento di grandi discussioni interne alla sinistra politica dalla quale molti si sentirono abbandonati, in particolare i mezzadri.

Negli anni’70 era ancora vivo un forte dibattito sulle scelte del Partito Comunista in agricoltura, sulle responsabilità dei singoli leaders, sulla scelta di privilegiare la classe operaia urbana sacrificando i contadini, mentre allo stesso tempo prendeva piede il dibattito storiografico impegnato anche sugli aspetti sociali ed economici. Storici e storici dell’economia e poi anche antropologi culturali diedero vita a studi, discussioni, progetti museografici, raccolte di memorie, libri. Il dibattito riguardava la comprensione della natura sociale della mezzadria, di questo complesso ‘mondo a metà’ che permetteva comunque autonomie e saperi contadini rilevanti. Ci si chiedeva se essa configurasse nel tempo una specie di proletariato rurale sottoposto a una sorta di governo capitalistico autoritario, o se fosse un residuo feudale che frenava le forze produttive di una imprenditorialità contadina forte e vivace. Negli anni ’70  (che coincidono  anche con gli anni dei miei studi di sardo venuto a Siena,  sorpreso e appassionato dalla memoria del mondo contadino, così diverso e particolare)  i miei riferimenti storici furono Giorgio Giorgetti e Carlo Pazzagli,  colleghi all’Università di Siena, ma in uno scenario in cui gli studi di Giorgio Mori, Mario Mirri, Sergio Anselmi, Carlo Poni tra Toscana, Marche, Emilia,  furono importanti e in cui il gruppo degli antropologi senesi con quelli dell’Università di Perugia diedero uno contributo rilevante (Tullio Seppilli, Piergiorgio Solinas, Pietro Clemente). Del 1976 era il film di Bernardo Bertolucci Novecento dedicato alla mezzadria, mentre del 1978 era il film L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi.  Sta di fatto che tra gli anni ’60 e ‘80 del Novecento questa gigantesca quota di forza lavoro contadina dell’Italia centrale si disgregò in un processo di abbandono a corto raggio che vide il popolo contadino accedere al terziario, alla impresa commerciale familiare, ma anche all’industria. In alcune zone gli ex contadini costruirono aziende produttive e furono uno dei nuclei forti della ‘terza Italia’ che ebbe successi importanti negli ultimi decenni del Novecento. Sul mondo contadino inabissatosi con i suoi straordinari saperi pratici calò il silenzio.

Solo negli anni ’90 e nei primi anni del 2000 quel mondo riemerse nella memoria di figli e nipoti che prima se ne erano vergognati, accettando la sconfitta e la vergogna dei padri e dei nonni. Già dagli anni ’80 la memoria contadina fu documentata in musei nati in varie parti dell’Italia centrale e con diversi protagonisti. A Siena il Museo della Mezzadria senese del Novecento (Buonconvento) aprì nei primi anni 2000, ma era stato oggetto di collezionismo locale e di studi universitari già dagli anni ’70.  Resta a tutt’oggi forse il più professionale dei musei del settore (Gianfranco Molteni). Nel 1975 era nato il Museo della civiltà contadina di San Marino di Bentivoglio (Bologna) che per molti anni fu rappresentativo di una museografia progettata e insieme partecipata dagli ex contadini del territorio.  Verso gli anni ’80 ebbe riconoscimento in Emilia un museo assai particolare, una sorta di grande installazione creativa sugli oggetti della vita e del lavoro contadino inventata da un ex contadino, Ettore Guatelli. In quegli anni la scoperta del mondo contadino, dei suoi riti, delle sue regole, delle sue politiche della terra, della sua saggezza e subalternità fu importante per una generazione di studiosi che non lo avevano visto attivo, ma che contribuirono a farlo vivere nella memoria e nell’immaginazione del territorio toscano. Il voto comunista nelle aree della mezzadria fu oggetto di riflessioni e considerazioni, e ancora lo è per la crisi della lunga fedeltà che i contadini delle lotte concessero al PCI e alla CGIL

L’economista Giacomo Becattini fu il principale teorico del ruolo della mezzadria come forma originale di plasmazione del territorio, creatrice di saperi locali di lungo periodo e di una formidabile e storica ‘coscienza di luogo’ (Alberto Magnaghi) alla quale è ancora possibile rifarsi per tornare a guardare alla possibilità di un futuro delle aree interne abbandonate e delle campagne.

Negli anni 10 del 2000 il Consiglio regionale della Toscana promosse una iniziativa di valorizzazione della mezzadria. Una deputata del PD fu prima firmataria di una legge per la istituzione della Giornata nazionale in memoria della mezzadria. Venne promosso, anche se con grandi difficoltà, l’Anno dei mezzadri, col patrocinio della Regione Toscana, ma senza investimenti finanziari, coordinato dall’associazione IDAST in dialogo con gli antropologi delle Università toscane e il Museo di Buonconvento. Poi di nuovo il silenzio.

Bibliografia

Giacomo Becattini, La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale, Donzelli, 2015, con la collaborazione di Alberto Magnaghi.
Pietro Clemente, Luciano Li Causi, Fabio Mugnaini, a cura di, Il mondo a metà. Sondaggi antropologici sulla mezzadria classica, Annali Istituto Cervi, n.9, 1987.
Giorgio Giorgetti, Contadini e proprietari nell’Italia moderna: rapporti di produzione e contratti agrari dal secolo XVI a oggi, Einaudi, 1974.
Gianfranco Molteni, Buonconvento. Museo della mezzadria senese, Silvana – Fondazione Musei Senesi, 2008.
Carlo Pazzagli, L’agricoltura toscana nella prima metà dell’800. tecniche di produzione e rapporti mezzadrili, Olschki, 1973.




Migrazioni sarde e circoli tra Siena e Toscana

L’Italia, come nazione dai forti tratti regionali e dalla intensa attività migratoria, ha sviluppato nel tempo delle catene di rappresentanza degli emigrati all’estero. A New York o a Sidney sono nate intorno alle ambasciate o ai centri culturali, o per conto proprio, associazioni di aiuto e di rappresentanza regionale all’estero. Eoliani, molisani, ma anche laziali, veneti, piemontesi, ogni area regionale ha visto nascere associazioni che spesso hanno siti e si ritrovano on line. Così è avvenuto anche per l’emigrazione sarda. La pagina “Sardegna migranti – Regione Sarda” mostra una mappa di sardi e di circoli in America ed Europa e Australia assai fitta.

Per ciò che riguarda l’emigrazione italiana in Italia centrale e la relativa nascita dei circoli occorre riconoscere una particolarità e cioè che – a parte gli storici circoli dei sardi a Roma – essa è legata in modo significativo al fenomeno della migrazione dei pastori tra gli anni ‘60 e ‘80 del Novecento. Infatti approfittando della situazione favorevole per via dell’abbandono delle campagne nell’Italia centrale da parte dei mezzadri, e la crisi di quel tipo di agricoltura, molte famiglie di pastori della Sardegna interna hanno affittato la terra e si sono trasferite con greggi, cani e bambini in Continente.

La sollecitazione a partire veniva dalla storica assenza di proprietà terriera pastorale in Sardegna, dove le aziende erano caratterizzate dalla continua ricerca di pascoli e da un pesante nomadismo. E veniva qualche volta anche dal disagio di situazioni locali fortemente caratterizzate da storiche faide familiari. Nel tempo anche in Sardegna sono state realizzate aziende pastorali moderne con proprietà della terra con l’espansione dei pastori verso il Campidano e il progressivo acquisto dei pascoli. Ma i primi successi della nuova azienda pastorale, in provincia di Siena, si sono avuti nell’area della agricoltura ex mezzadrile e nelle zone più scabre e inadatte alla agricoltura vera e propria, dove i pastori sardi si sono insediati in zone come le Crete senesi, in aree interne del Monte Amiata, ma anche in classiche zone di piano-colle mezzadrile come la Val di Chiana e la Val d’Arbia.

Questa colonizzazione è stata positiva sia per i sardi che per l’agricoltura toscana. L’emigrazione, difficile per lo sradicamento sociale e culturale, ma di successo imprenditoriale, ebbe dei problemi di immagine per l’incontro di tradizioni e culture diverse, ma anche per il verificarsi di casi di sequestro di persona che avevano utilizzato la nuova rete insediativa pastorale. Il Circolo dei sardi Peppinu Mereu (un poeta popolare sardo, morto assai giovane) nacque nel 1985 per dare una risposta alla difficoltà di ambientazione dei migranti e per affermare l’onestà e la laboriosa vita produttiva dei pastori, contro l’immagine che rischiava di affermarsi a causa di alcune frange delinquenziali. Il primo presidente, Pietro Siotto di Orune, era pastore e poeta in ottave.

Negli anni ’80 una attenzione al fenomeno venne dalla Regione Toscana, che promosse a Siena una Conferenza dell’Agricoltura che mostrò l’importante ruolo nel PIL agricolo della pastorizia sarda. Inoltre nel tempo il pecorino toscano, prodotto con il latte di pecore sarde, fu riconosciuto come prodotto DOP, con uno straordinario e felice ibridismo culturale. Il Circolo di Siena accomunò vari aspetti dell’emigrazione sarda, tra questi anche i professori e gli studenti universitari. Vi ebbe un ruolo importante Luigi Berlinguer, docente e poi Rettore a Siena, che era stato anche consigliere regionale per la Toscana. Il Circolo entrò nella FASI, la rete nazionale dei circoli sardi , e quindi ebbe il riconoscimento e un contributo da parte della Regione Sardegna per le spese finalizzato alla valorizzazione della cultura sarda. Negli anni ‘90 venne avviato anche un programma di iniziative culturali finalizzato alla valorizzazione degli scrittori sardi, ma anche dei vini e dei prodotti della gastronomia. L’emigrazione sarda aveva anche favorito la creazione di un piccolo universo di allevatori di cavalli e di fantini che entrarono nel quadro della vita del Palio e delle contrade di Siena dove sono ancora ben radicati. Fantini e cavalli sardi (ben oltre il famoso ‘Aceto’) sono ancora all’ordine del giorno nei Palii passati e futuri. Il circolo serve anche a restituire una immagine di autonomia e di non-subalternità della cultura sarda, della sua storia, della sua letteratura ed arte.

Nel panorama dei circoli regionali Firenze, con l’ACSIT (Associazione Culturale Sardi in Toscana), ha un ruolo importante per fare rete. A Firenze ci sono state mostre importanti sull’archeologia nuragica, concerti ed eventi culturali. Così la grande stagione del romanzo sardo, avviatasi dopo gli anni ’80 e ancora assai viva, ha visto autori e libri presentati nella rete dei Circoli. Negli ultimi anni è stato dato rilevo alla valorizzazione di Emilio Lussu, (figura centrale della Sardegna del ‘900) e del suo ruolo nella elaborazione costituzionale delle autonomie. Sempre nel 2019 si è evidenziato il contributo degli emigrati sardi alla Resistenza in Toscana, ma anche nell’Italia del centro-nord.

I Circoli hanno acquisito dimensioni che vanno oltre l’incontro nostalgico con il cibo e il ballo tradizionale, cercando di essere ambasciatori di una cultura regionale dinamica cui gli emigrati continuano a dare un contributo.

Negli anni ‘80 la Provincia di Siena promosse una ricerca sull’immigrazione dei pastori sardi, che fu condotta dall’Università e diretta dal Prof. Pier Giorgio Solinas, docente di Etnologia a Siena. Questa ricerca raccolse storie, vissuti, innovazioni sociali e culturali di questo mondo innestato nella cultura toscana. Si trattava allora di circa 1000 famiglie. Nel 1998 una indagine di Famiglia cristiana, parlava di 2000. In quegli anni una indagine del sociologo Benedetto Meloni approfondì questi temi, mentre anche in Sardegna nascevano studi sulle nuove forme del pastoralismo[II].

Il Circolo di Siena vorrebbe rinnovare quella indagine per vedere come si è evoluto quell’insediamento e come ha funzionato nel passaggio delle generazioni. Nel 2019 anche in Toscana il mondo pastorale di origine sarda ha segnalato il proprio disagio riguardo il prezzo del latte aderendo alle manifestazioni promosse in Sardegna, ed ha avuto il drammatico onore delle cronache per alcuni assalti alle greggi da parte di lupi o di cani inselvatichiti. Un mondo aperto e dinamico , sul quale dopo ormai 60 anni sarebbe utile fare un bilancio e un aggiornamento: forse oggi sono i Circoli a potere essere protagonisti dello studio della propria storia vicina sulla nuova terra della loro vita. La Toscana dove sono nati figli e nipoti. Toscani a tutti gli effetti.

Note
[I] Immagine tratta da «Famiglia Cristiana», 7, 1998.
[II] Ρ. G. Solinas, Pastori sardi in provincia di Siena, Laboratorio Etno-Antropologico, Dipartimento di filosofia e scienze sociali, Siena 1990, 3 voll.; A. G. Murru Corriga, Dalla montagna ai campidani, Edes, Sassari 1990; B. Meloni, Pastori sardi nella campagna toscana, in «Meridiana», 25, 1996.




BANCA E GUERRA.

Nel 1914 il Monte dei Paschi di Siena – organizzato in Sezione Centrale, Credito Fondiario, Monte Pio, Cassa di Risparmio – era un istituto di credito di livello regionale – 19 succursali, 11 affiliate e 5 agenzie – che con preoccupata prudenza guardava all’eventualità della guerra, anche perché non aveva interessi di rilievo nei settori della cantieristica e degli armamenti, quegli stessi interessi che spingevano importanti ambienti della finanza italiana a farsi sostenitori convinti di politiche imperialiste e belliciste.

A conflitto deflagrato, il momento più difficile che la banca senese dovette affrontare nell’intero arco della durata fu proprio quello inziale a causa dell’onda generale di panico fra i risparmiatori seguita all’ultimatum dell’Austria-Ungheria alla Serbia e al rapido estendersi dei combattimenti su diversi fronti. Anche agli sportelli del Monte dei Paschi si assieparono i clienti per riavere i propri soldi, cosicché i rimborsi, nei mesi di agosto e settembre 1914, superarono i versamenti.

Al fine di non alimentare ulteriormente la spirale della sfiducia, la direzione della banca scelse di applicare con elasticità il decreto governativo che limitava al 5% i rimborsi e di lasciare intatta la disponibilità a Province, Comuni, Opere Pie, fin quando, già a ottobre, rinunciò alla limitazione.

La strategia risultò premiante. Mentre i depositi fiduciari delle Casse di Risparmio di Firenze, Verona, Bologna, e di molti istituti di credito più piccoli, fra cui la Banca Popolare di Montepulciano e la Cassa Rurale di Volterra, videro, alla fine dell’anno, una sensibile diminuzione, quelli del Monte dei Paschi fecero registrare il segno più.

La crescita dei depositi, per quanto falcidiata dall’inflazione, sarebbe proseguita anche negli anni successivi per effetto sia dell’aumento della massa monetaria circolante deciso da governo e Banca d’Italia per far fronte allo sforzo bellico, sia dei risparmi provenienti dall’economia di guerra con le commesse per l’esercito che dalle industrie giungevano a pioggia fino agli artigiani, con le anticipazioni di capitali e i rapidi pagamenti da parte dello Stato, con l’occupazione femminile in luogo degli uomini richiamati al fronte che portava reddito inaspettato a molte famiglie, ed infine con i provvedimenti assistenziali che, nel medio periodo, se non migliorarono le condizioni di settori non secondari di strati popolari senesi, ne contennero tuttavia l’impoverimento ulteriore, come pare indicare il fatto che, durante la guerra, i pegni al Monte Pio – la sezione del Monte dei Paschi addetta a questo tipo di prestito – subirono una decremento.

A migliorare furono anche gli utili e gli indici di rendimento sia dell’attivo che del patrimonio, in un contesto che vide il Monte dei Paschi cambiare il profilo del suo portafoglio. Fin dal 1915 entrò a far parte del gruppo di duecento istituti bancari che costituirono il Consorzio di garanzia per i prestiti nazionali – sarebbero stati cinque – ed accrebbe progressivamente la quantità di titoli pubblici in proprio possesso rispetto ai mutui a privati che risultarono in calo. Il prestito di soldi allo Stato divenne dunque il principale settore di impiego e si rivelò l’affare più remunerativo, anche se esposto al rischio della possibilità che la guerra si concludesse in modo infausto per l’Italia con conseguente disastro economico e finanziario.

L’andamento dei conti di bilancio dette fiducia e consentì addirittura di osare il superamento dei confini regionali aprendo una sezione del Credito Fondiario a Roma al fine di partecipare al finanziamento della bonifica dell’agro romano.

Con le comunità locali – senese e grossetana – il rapporto della banca rimase forte e si adattò progressivamente a far fronte alla solidarietà che le vicende belliche richiedevano, destinando però le donazioni, più che ai vari comitati sorti a favore dei soldati al fronte, delle loro famiglie, dei feriti, dei mutilati, degli orfani, dei profughi in arrivo dalle terre redente e poi da quelle invase, alle amministrazioni comunali e provinciali, individuate come i soggetti istituzionali più adatti a ricevere risorse a scopo benefico.

Sul versante dell’assetto interno, rimanendo saldo il controllo da parte di un ceto dominante composto da nobiltà e da notabilato borghese, il Monte dei Paschi vide l’ascesa alla carica di Provveditore – l’avrebbe mantenuta fino al 1936; poi Presidente fino al 1944 – di Alfredo Bruchi, un avvocato grossetano all’epoca legato ad ambienti politici del liberalismo e del mondo cattolico. Fu Bruchi che, per riassumere l’andamento della banca nelle drammatiche incertezze della guerra, così si espresse: “A somiglianza di ciò che avviene nel mondo biologico, solo gli organismi forti e sani possono vittoriosamente resistere alle crisi che le minacciano. A questa categoria di organismi dimostrò di appartenere il nostro Monte”.

 




Gli ebrei senesi tra le leggi razziali e il secondo dopoguerra

La comunità ebraica senese era una delle più antiche e integrate dell’intero territorio nazionale. A differenza di altri gruppi di correligionari, sparsi in varie aree d’Europa, gli israeliti senesi avevano superato con poche burrasche il medioevo e l’età moderna. La prima grande catastrofe era avvenuta in piena età napoleonica con il pogrom devastante del 28 giugno 1799, in seguito al quale 19 persone avevano perso la vita e 200, su un totale di 500, avevano preso la via dell’esilio. Coloro che decisero di rimanere ricostruirono con tenacia le proprie case e la sinagoga costituendo, negli anni a seguire, una parte vivace della vita sociale, politica e economica della città[1].

La Sinagoga di Siena

Un nuovo sconvolgimento si profilò quando, a partire dal settembre del 1938, la politica razzista di Mussolini, già presente nelle colonie ai danni delle popolazioni autoctone, venne estesa anche agli italiani di religione ebraica e ciò causò un sensibile peggioramento della vita di molti israeliti senesi. Una delle prime misure adottate (ancor prima dell’emanazione della prima legge razziale italiana[2]) fu il censimento degli ebrei disposto dalla Direzione generale per la demografia e la razza l’11 agosto 1938[3].

I dati ricavati rivelano che al momento dell’emanazione delle disposizioni antisemite, sul territorio senese vivevano 235 ebrei, più o meno tutti appartenenti alla piccola media borghesia. Le prime vittime della discriminazione furono una ventina di ebrei stranieri che studiavano presso la locale università; questi ultimi furono costretti ad abbandonare gli studi e venne loro impedito di trovare un lavoro.

Il successivo giro di vite colpì gli stessi ebrei senesi che furono costretti a lasciare scuole (sia in qualità di insegnanti, che di studenti nonché impiegati) e i posti di lavoro presso l’amministrazione comunale e il Monte dei Paschi[4].

Lo smantellamento dei diritti degli ebrei italiani procedeva spedito pur concedendo alcuni trattamenti di favore a coloro che, agli occhi del regime, avevano acquistato determinati meriti come l’essere familiari di caduti nelle guerre di Libia, mondiale, d’Etiopia e di Spagna; dei caduti, feriti e mutilati per la «causa fascista» oppure coloro che si erano iscritti al Partito nazionale fascista negli anni 1919-22 e nel semestre successivo al delitto Matteotti nonché i legionari fiumani[5].

Dopo la dignità di un posto di lavoro o di un banco di scuola il fascismo decise di colpire i patrimoni e in base al Regio decreto legge 9 febbraio 1939, n. 126, si previde, per quanto riguarda i beni immobili appartenenti agli ebrei, di individuare una quota di proprietà consentita, calcolata in base alla rendita catastale, ed una eccedente destinata a essere incamerata dall’erario che, come indennizzo, avrebbe dovuto rilasciare un certificato trentennale con un interesse al 4%[6].

In questa prima fase soltanto una persona subì una confisca a Siena[7], ma il peggio doveva arrivare e ciò sarebbe avvenuto ben presto. Dopo l’8 settembre, con

l’occupazione tedesca e la nascita della Repubblica sociale italiana, la persecuzione fascista dei diritti conobbe la sua tragica evoluzione in persecuzione delle vite[8]. La comunità israelitica senese ebbe il secondo pogrom della sua storia con il rastrellamento della notte tra il 5 e il 6 novembre 1943, quando 15 ebrei vennero arrestati e deportati nei campi di concentramento da cui soltanto una farà ritorno[9]. Fortunatamente, molti israeliti vennero avvertiti in tempo e poterono mettersi in salvo nascondendosi presso amici o enti religiosi, ma la persecuzione non si fermò nemmeno davanti a questo abbattendosi sistematicamente sui loro beni: le autorità fasciste repubblicane, nello spazio di pochi mesi, disposero il sequestro di 26 immobili[10], alcuni dei quali vennero persino saccheggiati.

Con il passaggio del fronte e la liberazione della città, avvenuta il 3 di luglio del 1944, pian piano la situazione tornò alla normalità e gli ebrei che si erano salvati poterono tornare alle loro case ma in molti casi, ad attenderli, avrebbero trovato amare sorprese. Quegli imprenditori le cui aziende erano state espropriate e affidate a amministratori nominati dalle autorità, al loro ritorno, trovarono la richiesta di corresponsione delle imposte che, pur avendo intascato gli utili, gli amministratori non avevano versato[11]; altre famiglie trovarono le loro case occupate da inquilini o depredate.

Emblematica la testimonianza di Edmea Forti Castelnuovo[12], il cui marito, Aldo, gestiva un negozio di stoffe insieme al fratello Geremia. Dopo la loro fuga, avvenuta nelle ore immediatamente precedenti il rastrellamento del 5-6 novembre, il negozio e il magazzino vennero depredati, l’appartamento espropriato per ordine del Capo della Provincia e ceduto dall’Egeli[13] a un ufficiale dell’esercito.

Ferruccio Valech, 13 anni, la vittima senese più giovane del campo di Auschwitz.

Ferruccio Valech, 13 anni, la vittima senese più giovane del campo di Auschwitz.

I Castelnuovo, in seguito alla liberazione di Siena e alla revoca dei provvedimenti di confisca emanati dal Governo dell’Italia liberata[14], decisero di tornare in città per riprendere, per quanto possibile, la loro vita normale; tuttavia, al loro arrivo, scoprirono che l’attività non esisteva più e che la casa era occupata; ma non era tutto. Al momento della restituzione dell’immobile, un solerte funzionario dell’Egeli richiese, a Aldo Castelnuovo, il pagamento dell’indennità di gestione delle sue proprietà nella misura applicata ai sudditi nemici. Di fronte a quell’affermazione, racconta il figlio Renzo, Castelnuovo, che solitamente era un uomo mite, sbottò con forza. Non era stata, a ferirlo, la richiesta di pagare un’indennità a chi gli aveva portato via la casa costringendolo a fuggire, quanto il fatto di essere trattato come un nemico dell’Italia[15].

 

[1] Cfr PAVONCELLO N., Notizie storiche sulla comunità ebraica di Siena e la sua Sinagoga, scritti in memoria di A. Milano in «Rassegna mensile d’Israele», 1970, pp. 289-313.
[2] Il Regio decreto legge 5 settembre 1938, n. 1390, Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista.
[3] CIONI P., MASOTTI F., MATTEI L., 1938-1944 documenti, storie e memorie. Gli ebrei senesi raccontano, Siena, Nuova Immagine editore, 2010, p.27
[4] Ivi p.35
[5] Cfr. Regio decreto legge 17 novembre 1938, n. 1728, Provvedimenti per la difesa della razza italiana.
[6] Regio decreto 27 marzo 1939, n. 665, art. 13.
[7] Archivio storico del Monte dei Paschi di Siena, Egeli, b. 647, «Repertorio dei beni di sudditi nemici ed ebraici sequestrati».
[8] Cfr. SARFATTI M., Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi, 2018, capp. IV e V.
[9] Cfr. VALECH CAPOZZI ALBA, A24029, Siena, Soc. anonima poligrafica, 1946.
[10] Archivio storico del Monte dei Paschi di Siena, Egeli, b. 647, «Repertorio dei beni di sudditi nemici ed ebraici sequestrati».
[11] Voci di carta. Le leggi razziali nei documenti della città di Siena. Catalogo della mostra documentaria. Archivio di Stato di Siena 26 ottobre 2018 -31 gennaio 2019, a cura di Cinzia Cardinali, Anna Di Castro, Ilaria Marcelli, Pisa, Pacini editore, 2019, p.103.
[12] Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età Contemporanea, Multimediale, dvd 58, Edmea Forti Castelnuovo.
[13] Acronimo di Ente Gestioni e Liquidazioni Immobiliari; era l’istituto incaricato dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati agli ebrei e ai cittadini di Paesi nemici. L’Ente, per operare sul territorio della Toscana, aveva stipulato una convenzione con il Monte dei Paschi di Siena. Cfr Atti della Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati, «Rapporto generale», aprile 2001, http://presidenza.governo.it/DICA/beni_ebraici/.
[14] Cfr Regio decreto legge 20 gennaio 1944, n. 25 «Disposizioni per la reintegrazione nei diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebraica» e Regio decreto legge 20 gennaio 1944, n. 26 «Disposizioni per la reintegrazione nei diritti patrimoniali dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati o considerati di razza ebraica».
[15] 1938-1944. La politica razziale del regime fascista a Siena, documentario di J. Guerranti, Siena 2014, https://www.youtube.com/watch?v=v_4FXd6N-4w