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CHE GENERE DI DIDATTICA?

Quando la Fondazione Carlo Marchi ha chiamato associazioni, scuole ed enti a rispondere al bando 2019 sul contrasto agli stereotipi e alla violenza di genere, come ISRT abbiamo sentito il dovere e tutta l’importanza di presentare un progetto.

La violenza di genere e complessivamente il sistema di stereotipi legati al genere sono il frutto di una società costruita su radici di stampo patriarcale. L’urgenza sociale degli ultimi decenni ha spinto verso una forte riflessione che ha coinvolto le istituzioni del mondo. Prova ne sono le numerose direttive, le deliberazioni e gli inviti a porre rimedio, con speciale sguardo rivolto a coloro che hanno in mano la formazione delle giovani generazioni. Un’educazione di e al genere e lo smascheramento degli stereotipi legati ai rapporti maschile-femminile risultano quindi non più rimandabili e l’unico vero strumento sul medio-lungo periodo. A nostro avviso è stato quindi fondamentale intervenire proprio a partire dalla formazione e dalla didattica, quindi, sulla scuola.

Così è nato Un’altra storia. Percorsi di formazione e conoscenza contro la violenza di genere, un progetto che si pone l’obiettivo di produrre maggiore consapevolezza e dare gli strumenti per operare finalmente quel passaggio dalla teoria alla prassi quotidiana. Abbiamo pensato a due fasi: un corso di formazione per docenti delle scuole secondarie (previsto per marzo 2020, ma rimandato dopo il primo incontro causa emergenza covid-19) e un festival aperto alla cittadinanza (previsto per novembre 2020). Perché non solo il festival? Perché se con il festival ci proponiamo di portare alla luce la costruzione culturale dei generi e il valore normativo da essi assunto nel tempo rivolgendoci a un pubblico ampio e non specializzato, il corso di formazione è diretto specificamente a chi porta avanti quotidianamente il difficile compito di formare ragazze e ragazzi in un’età molto delicata. La scuola, infatti, è il contesto privilegiato in cui intervenire per prevenire il diffondersi e il radicarsi di culture sessiste, misogine e di violenza.

Quello che ci è sembrato immediatamente chiaro nella fase di progettazione è che per le-gli stesse-i docenti non è facile portare “il genere” nelle classi, per motivi vari e diversi. In parte per il pregiudizio che grava sul concetto stesso di “genere”, spesso frainteso, e a maggior ragione sul ruolo che la scuola dovrebbe assumere rispetto a un’educazione di e al genere. Un altro ostacolo molto importante è la mancanza di strumenti adeguati, di sostegni didattici che vadano ad accompagnare gli intenti e la passione di chi insegna. Per questo motivo, abbiamo strutturato il nostro corso intorno a un volume davvero innovativo uscito l’anno scorso per le edizioni Biblink: I secoli delle donne. Fonti e materiali per la didattica della storia (Biblink, 2019, www.biblink.it/catalogo/bl00120.html). Un “sillabo” agile ed efficace che consente l’approccio a una didattica diversa della storia, della filosofia, del diritto, dell’arte, della letteratura, utile a orientare la/il docente nei temi dell’educazione di genere attraverso un repertorio di materiali versatili da utilizzare all’interno dell’attività curricolare. Si tratta quindi di uno strumento con duplice funzione: di auto-formazione e successivamente di supporto nella costruzione di percorsi didattici che abbiano al centro lo sguardo di genere nelle varie discipline.

Il primo incontro di Un’altra storia, il 3 marzo scorso presso il Murate Art District (www.murateartdistrict.it), ha confermato le nostre idee, i presentimenti iniziali e le nostre speranze: un gruppo davvero gremito di docenti ha partecipato attivamente, molte le domande e le proposte in seguito agli interventi della professoressa Graziella Priulla (Università di Catania; Quale punto di vista? Didattica e genere) e della dottoressa Alessandra Celi (Società Italiana delle Storiche e co-curatrice del “sillabo”; I secoli delle donne. Strumento di formazione e autoformazione). Le-i docenti hanno espresso chiaramente la volontà di integrare una programmazione che da sempre esclude la prospettiva di genere e il desiderio di essere sostenut* da strumenti strutturati. I manuali risultano lacunosi, le donne sono assenti o relegate in box da colonnino, nei quali il loro apporto viene tratteggiato in una dimensione di eccezionalità, isolato dal contesto, mai approfondito. La cultura raccontata nei libri scolastici si delinea completamente al maschile, tagliando fuori dalla narrazione le donne e soprattutto il rapporto tra i generi nella costruzione (attraverso fatti storici, arte, letteratura ecc.) di un mondo di fatto condiviso.

Si tratta di un “vizio” di prospettiva millenario, che ha la stessa radice della famosa frase “La storia la scrivono i vincitori”. Infatti, nonostante le donne non costituiscano una minoranza vera e propria dal punto di vista numerico, ne hanno lo status. Occupano, cioè, una posizione di subalternità all’interno di una cultura che le ha invisibilizzate nelle narrazioni e ne ha fattivamente impedito il fiorire, escludendole dal sistema educativo, dai circoli culturali, limitandone i diritti e le possibilità. Lo stesso meccanismo ha minato i diritti civili, la libertà personale delle donne, e ne ha determinato i ruoli, i compiti, gli ambiti. Certo, oggi sono molte le conquiste ottenute attraverso il sacrificio e le battaglie di generazioni di donne (anche se queste conquiste non sono ancora distribuite in modo uniforme nel mondo), ma non è facile costruire nuove fondamenta al posto di fondamenta millenarie. Ne sono prova, come abbiamo visto, l’impostazione e i contenuti della didattica.
Quali sono le possibili ricadute dirette di una scuola che non si confronti con l’educazione di e al genere? Quali le conseguenze sulle-sugli studenti del non leggere mai nei loro testi di scuola (che rappresentano, in quella fase del percorso di formazione, le fonti cartacee più autorevoli e scientifiche a loro disposizione) storie di donne che hanno contribuito in modo sostanziale al corso degli eventi?
Il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) nella sua opera probabilmente più nota, Phänomenologie des Geistes (La fenomenologia dello spirito, Einaudi 2008) delinea il concetto di “riconoscimento”, ripreso e declinato sulla questione di genere dalla filosofa statunitense Judith Butler (1956) in Undoing Gender (Fare e disfare il genere, Mimesis 2014). Il riconoscimento è proprio il contrario dell’invisibilizzazione di un soggetto da parte di un altro soggetto, ovvero quella dinamica che si replica ogni volta che una maggioranza mette in ombra l’esistenza e la dignità di una minoranza. Il riconoscimento, invece, è quel processo che si costruisce nella relazione tra due soggetti, un percorso non necessariamente semplice, ma che conferisce valore, lo status di esistenza a entrambi i soggetti coinvolti.

Possiamo guardare all’assenza delle donne nei manuali scolastici e nella didattica come, di fatto, a un mancato riconoscimento. Quindi, possiamo facilmente immaginare quali tipi di considerazioni – anche inconsce – vengano introiettate dalle-dagli studenti. È proprio dal riconoscimento di valore che nasce il rispetto, la solidarietà, la cooperazione, la complicità. È nel mancato riconoscimento che possono instaurarsi una legittimazione delle disuguaglianze di genere e il rafforzarsi di modelli misogini e violenti, tutt’oggi vivi nel tessuto sociale. Il compito della scuola, però, dovrebbe essere quello di produrre una cultura nuova per le-i giovani, che veicoli i principi del rispetto e del valore delle diversità.
Dalla nostra esperienza, ancora in divenire, abbiamo còlto la consapevolezza delle-dei docenti, consapevolezza che, riteniamo, debba essere sostenuta e soccorsa, attraverso strumenti nuovi, attraverso un fare rete, attraverso percorsi nei quali sia possibile ripensare insieme alla didattica, porsi nuove domande per ottenere nuove risposte. Per questo motivo, non appena sarà possibile, riprenderemo Un’altra storia con la stessa passione, e attraverso il confronto, lo scambio immagineremo un’educazione di genere trasversale, pluridisciplinare, aperta alla costruzione di percorsi didattici molteplici.




Una commedia di Giocondo Papi

Giocondo Papi – sindaco socialista di Prato dal 1920 al 1922, quando l’amministrazione liberamente eletta venne defenestrata dai fascisti – si dilettava a scrivere poesie. Nel 1930, per i tipi delle Arti grafiche Nutini, diede alle stampe una commedia in tre atti intitolata Mia moglie…non è mia moglie?

La commedia, imperniata sulla straordinaria somiglianza fra le due protagoniste, narra una storia di infedeltà coniugale e, tenuto conto dell’epoca in cui è stata scritta, non è priva di una certa audacia. È stato osservato che la trama presenta evidenti punti di contatto con Come tu mi vuoi di Luigi Pirandello, rappresentata per la prima volta a Milano proprio nel 1930. L’ambientazione ed alcune situazioni da vaudeville rendono il tono del lavoro di Papi leggero e frivolo: la sua atmosfera è dunque ben diversa da quella della commedia pirandelliana, anche se l’opera è attraversata da una vaga inquietudine, causata dalla consapevolezza dell’impossibilità di conoscere realmente perfino i propri familiari.

La commedia non ha particolari pregi artistici, ma merita di essere ricordata come una testimonianza degli interessi che Papi coltivava, da autodidatta, in campo letterario: la famiglia degli scrittori pratesi si allarga così per far posto ad un nuovo, inaspettato, componente.

Ecco un breve riassunto dell’opera.

Tina, moglie di Mario Bruni, attende con ansia l’amante Giulio Biondi. Costui entra in scena cantando una canzone, musicata dal maestro Giovanni Castagnoli, che è stata definita dal maestro Roberto Becheri, docente di composizione al Conservatorio di Ferrara, “una serenata che scorre leggera su una fresca melodia da café-chantant”. La moglie di Giulio, Nella, è fuggita tempo addietro, colta da improvvisa pazzia, senza più dare notizie di sé.  Mentre i due amanti stanno parlando rientra in casa il marito di Tina, e Giulio è costretto a nascondersi in cucina, naturalmente dentro un armadio. Sorpresa ed irritata a causa dell’improvviso arrivo del marito, Tina si difende attaccando e sostiene che Mario la tradisce. Al culmine della finta scenata di gelosia è però colta da malore. Mario chiede allora aiuto ai vicini. Un’ inquilina gli suggerisce di andare in cucina a prendere un po’ di aceto per spruzzarlo sul viso di Tina e, nonostante la moglie cerchi di trattenerlo, Mario va in cucina, causando la fuga di Giulio che riesce ad infilare la porta di uscita. Compresa facilmente la situazione, Mario accusa Tina di avere un amante. La moglie reagisce scappando ed i vicini la prendono per pazza. Dopo aver trascorso un anno di degenza in una clinica per malattie mentali, Tina viene ricondotta a casa per un confronto col marito. Giulio, però, giocando sulla straordinaria somiglianza fra le due donne, sostiene che Tina è sua moglie Nella. Tina arriva, accompagnata da due medici, e finge di non riconoscere né la casa né lo sposo. In esecuzione di un  piano preordinato, si presenta anche Giulio, che Tina si precipita ad abbracciare come se fosse suo marito. I medici decidono allora che, per giudicare con coscienza, sono necessarie delle prove inconfutabili, e chiedono a Mario di indicare qualche segno particolare visto nell’intimità sul corpo della moglie. Mario non riesce però a ricordare nulla, mentre Giulio indica ben tre nei: uno sotto la nuca, uno sotto l’ombelico ed un altro più sotto ancora: Tina si spoglia, mostra i nei ai medici e se ne va con Giulio che sembra così aver avuto partita vinta. Subito dopo, però, entrano due vicine con un giornale contenente la notizia che una ricca signora ha lasciato il suo patrimonio ad una bella smemorata sconosciuta, ricoverata in una casa di salute a Bologna. La donna della foto che accompagna l’articolo somiglia in modo impressionante alla moglie di Mario che, insieme con i medici e con le due vicine, si reca dunque a Bologna per un nuovo confronto. La donna che Mario vede a Bologna è in realtà la moglie di Giulio, Nella, ma egli crede sinceramente di riconoscere in lei Tina e la porta a casa con sé. Si presenta però Giulio che rivela la verità a Mario, facendolo esclamare: “Perdio!…Come?…Mia moglie non è mia moglie?” Giulio insiste. Il campanello suona ed entra anche Tina che implora Mario di perdonarla. Mario però, a questo punto, non vuol saperne più nulla di lei, la respinge e va a vivere felice con Nella.

La parte di Tina e quella di Nella dovevano essere sostenute dalla stessa attrice. Una curiosità: in calce al testo della commedia figura un’errata corrige, dove fra l’altro si specifica che alla quarta riga di pagina 36, dove si dice, “sua moglie”, si deve leggere invece “vostra moglie”. L’errata corrige è del 1930. Otto anni dopo, con un foglio di disposizioni del segretario del PNF Achille Starace  il regime avrebbe imposto la sostituzione del “lei” con il “voi”. Preveggenza?




San Francesco “made in Pistoia”

Chi volesse conoscere la storia di San Francesco d’Assisi attraverso dei film non ha che l’imbarazzo della scelta: “Francesco giullare di Dio” di Rossellini e “Fratello Sole, sorella Luna” di Zeffirelli sono sicuramente fra i più famosi. L’ultima trasposizione cinematografica risale al 2016, si intitola “Il sogno di Francesco” ed ha come protagonista il giovane Elio Germano.

Pochi sanno che ancora prima prima che il celebre regista pistoiese Bolognini calcasse le scene, provò a raccontare la vita del santo in un film muto anche il suo concittadino Mario Corsi.

Questi, che in gioventù era stato anche autore di alcune raccolte di poesie, una volta tornato parzialmente invalido dalla prima guerra mondiale, era stato attirato dalla nascente industria cinematografica. Come lo stesso Corsi ricordava: “…Anch’io mi sentii attratto, come parecchi altri scrittori e giornalisti dal cinematografo e per due anni scrissi scenari su scenari, alcuni dei quali ebbero una certa fortuna“.

Sull’onda dei primi successi il giovane pistoiese venne chiamato dal commediografo Ugo Folena e dall’avvocato e critico musicale Eugenio Sacerdoti per realizzare un film sul santo d’Assisi che, era chiaro sin dall’inizio, per ottenere il bene placet della Chiesa doveva essere “storicamente e religiosamente inattaccabile“.

Felice per la proposta Corsi si mise immediatamente al lavoro consultando in poche settimane l’intera bibliografia francescana ed in modo particolare i Fioretti e gli scritti di frà Leone e frà Celoro. Comprese subito che le difficoltà incontrate sarebbero state enormi. Anni dopo Corsi sosteneva infatti che: “Solo allora compresi a quale impresa ardita e pericolosa m’ero impegnato e mi tornarono allora in mente le parole dette qualche anno prima da Ferdinando Martini, in una conferenza, a proposito della Francesca da Rimini di D’Annunzio: “A cercare di elevarsi fino a così alte figurazioni, come quella cantata nel sommo Poeta, c’è da correre il rischio di ruzzolare molto in basso“.

Superata la paura iniziale il giovane cineasta si diede da fare per illustrare la vita del Santo attraverso alcuni episodi storici (Il bacio del lebbroso, Sulle orme del poverello d’Assisi, Il tempo, Le stigmate) capaci di rappresentare anche il suo progressivo distacco dalle cose del mondo.

Gli interpreti principali del film furono individuati nell’attore drammatico Uberto Palmarini (san Francesco), Silvia Malinverni (Chiara degli Scifi), Rina Calabria, nel ruolo di sua sorella Agnese, la ballerina Lucienne Myosa, nella parte di una cortigiana che si pente, Bruno Emanuel Palmi, in quella di Frate Elia. Accanto agli attori professionisti apparvero nel film come comparse dei frati francescani. Le riprese furono effettuate fra Assisi, Gubbio, Perugia e il lago Trasimeno.

Per almeno un mese“, raccontava lo stesso regista, “Assisi e Gubbio offrirono il più bizzarro degli spettacoli, tra la viva e chiassosa curiosità degli abitanti e ancor più dei forestieri, che si stropicciavano sbalorditi gli occhi nel veder passare per le strade e le piazze ed entrare ed uscire dai templi inaspettati personaggi in costumi pittoreschi del 1200, e suore e fraticelli al braccio di soldatacci di ventura…”. I “veri” francescani e le suore di santa Chiara aiutarono la troupe fornendo anche alcuni paramenti sacri per le riprese. Le suore di clausura, visto che faceva molto caldo, fecero distribuire agli attori delle bevande fresche e dei biscotti.

Una volta ultimata l’opera fu presentata il 7 giugno 1918 in prima visione all’Augusteo di Roma come “restituzione francescana in quattro canti di M. Corsi con poema sacro per orchestra e cori (dal vivo nda) di Luigi Mancinelli“. L’elemento caratteristico della realizzazione fu senza dubbio il ruolo giocato dalla musica. Per la prima volta questa entrava in un film come elemento integrativo. Mentre nel primo grande film religioso realizzato in Italia, “Christus”, la musica si era aggiunta alla parte cinematografica, accompagnandola come un commento, nel Frate Sole divenne parte essenziale dello spettacolo. Il film, scrisse in un lungo articolo il critico Gasco, “segna indubbiamente una data nell’evoluzione del poema musicale cinematografico, al quale arriderà forse un avvenire mirifico“.

La proiezione fu un vero e proprio evento ed ebbe come spettatori Principi di casa Savoia, ministri del Regno, prelati della Santa Sede, intellettuali. Il regista annotava con fierezza: “Ricordo che dopo la proiezione i Cardinali e gli altri eminenti Monsignori vollero esprimere il loro vivo compiacimento al maestro Mancinelli, a Ugo Falena e a me, e dissero che dal cinematografo la Chiesa poteva aspettarsi, come l’Arte, grandi nobilissime cose”.

A coronare il successo di Frate Sole arrivò poco dopo il riconoscimento ufficiale del Vaticano, con una rappresentazione del film nell’aula magna del Palazzo della Cancelleria, davanti ad una decina di Cardinali e a molti Arcivescovi, Prelati e dignitari della Corte pontificia.

Il successo del film e della musica furono, anche al di fuori dell’ambito religioso, grandissimi. La stampa italiana, che ancora non si occupava di film se non come pubblicità a pagamento, fece uno strappo alla regola e dedicò a Frate Sole colonne intere, firmate dai maggiori critici.

In “La Cine-Gazetta” del maggio 1918 così si scriveva dell’opera: “La Tespi-film, la giovane e celebrata casa romana, e per essa Eugenio Sacerdoti (…), mettendo in scena ‘Frate Sole’, grandiosa vicenda francescana, non soltanto ha inteso di portare il suo prezioso contributo alla propaganda degli studi francescani che tanto interessano l’intellettualità internazionale, ma ha voluto dimostrare a quali altezze possa assurgere la cinematografia considerata espressione di arte (…). Ispirandosi a questi concetti di assoluta nobiltà, (…) Mario Corsi, ideando e tratteggiando il suo scenario, ha compiuto un vero e proprio poema drammatico. Infatti, se ‘Frate Sole’, per le sue linee generali, semplici e gradiose, per obiettiva e serena ricostruzione della figura del ‘poverello d’Assisi’, per la rievocazione dei momenti più salienti della sua vita, per aver saputo quei momenti inquadrare con occhio accorto e vivace nell’ambiente tumultuoso del Duecento, vivifica una schietta e suggestiva restituzione francescana, s’eleva a vera dignità di poesia per aver saputo costringere, nel relativo breve spazio di tempo di uno spettacolo, senza diminuirlo, anzi rendendolo chiaro e tangibile, il senso divino dell’idea francescana (..)” .

Frate Sole a distanza di diversi decenni dalla sua ultima rappresentazione è riapparso oggi sul grande schermo grazie al restauro compiuto dalla Fondazione Cineteca Italiana. Nel mese di febbraio è stato rappresentato a Foligno, nell’ambito del progetto “Visioni e musica per San Francesco” realizzato dagli Amici della Musica di Foligno, con l’esecuzione delle musiche al piano da parte del maestro Scolastra e come coro le 120 voci del Corale Frate Sole diretto dal maestro Aldo Cicconofri. Un film, a distanza di più di cento anni dalla sua realizzazione ancora godibile, che meriterebbe di essere riproposto nella città che ha dato i natali al regista.




La “CASA DELLA CULTURA E DELLA MEMORIA”: la nuova sede della BIBLIOTECA F. SERANTINI

La Biblioteca Franco Serantini nel 2019 è entrata nel suo 40° anno di vita e attraverso una sottoscrizione nazionale molto partecipata è riuscita a festeggiare il compleanno con l’acquisizione di una nuova sede ubicata in una frazione, Ghezzano, del comune di S. Giuliano Terme al confine con la città di Pisa.

Un anniversario speciale da molti punti di vista, infatti non è comune che una struttura culturale nata dalla società civile, autofinanziata e autogestita riesca a raggiungere una tale età! La Biblioteca in questi anni, oltre a svolgere un’attiva e intensa promozione culturale e editoriale, è cresciuta nel suo patrimonio bibliografico e archivistico, raggiungendo una consistenza di tutto rispetto, in gran parte inerente la storia politica e sociale dell’Ottocento e del Novecento e ottenendo riconoscimenti sul piano non solo nazionale ma anche internazionale: oltre 50.000 monografie; quasi 6.000 testate di giornali, riviste e numeri unici; 87 fondi archivistici con migliaia di documenti, fotografie, dischi, opere artistiche, carteggi, registrazioni di testimonianze orali, bandiere, manifesti, volantini e cimeli).

Oggi la biblioteca fa parte, come ente collegato, della rete nazionale degli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea e dell’International Association of Labour History Institutions (IALHI). Nel 1997 la Biblioteca è stata censita dal Ministero dei Beni culturali, che le ha attribuito un codice identificativo ufficiale (PI 0368), fa parte della Rete regionale bibliotecaria e del portale ToscanaNovecento. Nel 1998 l’archivio della Biblioteca è stato dichiarato di «notevole interesse storico» nazionale dalla Soprintendenza archivistica della Toscana con notifica n. 717 del 12 marzo 1998.

Interno_3La nuova “casa della cultura e della memoria” che ospita la Biblioteca nasce con l’intento di raccontare, conservare e condividere la memoria e la storia del Novecento con particolare attenzione alle vicende del territorio della provincia di Pisa in relazione ai territori contigui. Si è consapevoli, infatti, che la storia della provincia di Pisa è parte integrante di un vasto territorio, con caratteristiche storiche peculiari, che è racchiuso nell’area della Toscana Nord-Occidentale, una zona da sempre caratterizzata da flussi migratori in entrata e in uscita che l’hanno proiettata nella più vasta area del bacino del Mediterraneo e dei paesi che vi si affacciano – in particolare quelli, ma non solamente, di lingue neolatine come la Francia e la Spagna.

All’attività e gestione della “casa della cultura e della memoria” parteciperanno associazioni che rappresentano la memoria storica dell’antifascismo, della Resistenza, della guerra di Liberazione, delle vicende sociali e politiche del Ventesimo secolo.

Ampio è il ventaglio delle iniziative in programma per il 2020, ne daremo puntualmente notizia ai lettori di ToscanaNovecento, nel frattempo con l’occasione si ringraziano tutti coloro che non hanno fatto mancare il proprio sostegno alla biblioteca contribuendo alla realizzazione di un sogno quella di dare una nuova casa alla Serantini.

 

 

Questi sono i nuovi recapiti della Biblioteca:
Biblioteca Franco Serantini
archivio e centro di documentazione di storia sociale e contemporanea
via G. Carducci n.13, loc. La Fontina
56017 GHEZZANO (PI) – Italia –
Tel. ++39 3311179799 ++39 0503199402
e.mail: segreteria@bfs.it




Una nuova rubrica di ToscanaNovecento

È la sera del 9 novembre 1989; Günter Schabowski, funzionario del partito di unità socialista della Germania, durante una conferenza stampa in diretta Tv, incalzato dal corrispondente dell’ANSA, Riccardo Ehrman, sui tempi della concessione dei permessi di viaggio ai tedeschi dell’Est, risponde con solo due parole: “Ab sofort”: da subito.Ci si è interrogati sulle ragioni di queste parole: sfuggite in un clima di incertezza e confusione o scelta consapevole?L’effetto è, prevedibilmente, immediato: i berlinesi si riversano in massa nei pressi del muro; le guardie, spiazzate e senza chiari ordini in merito, aprono i varchi per evitare episodi di disordine.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa it – copyright Ansa/Epa)

Dalla tv entrano nelle case di tutto il mondo le immagini festanti dei tedeschi di entrambe le parti, ora di nuovo insieme, degli abbracci e della commozione di un popolo separato per 28 anni, delle prime picconate al muro.

(Fonte: ansa it - copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa it – copyright Ansa/Epa)

La caduta del muro di Berlino ha una carica e un valore simbolico tali da essere indiscutibilmente collocata tra i grandi eventi del Novecento. Barbara icona della Guerra Fredda, emblema della contrapposizione politica, ideologica, economica e militare tra Usa e Urss, ma anche garanzia di stabilità e di equilibrio tra i due blocchi in Europa, in una notte il muro diventa, con la sua caduta, simbolo dell’implosione di regimi fondati sull’ideologia comunista. Con il muro viene giù un mondo. Il processo è iniziato da tempo e non si concluderà la sera del 9 novembre ma quell’evento resta nell’immaginario collettivo quale simbolo visibile e tangibile del fallimento della via sovietica al socialismo. Di lì a poco inizierà lo smottamento degli altri regimi comunisti e la crisi di quei partiti che, pur con distinguo, criticità e declinazioni diverse, erano parte della galassia del comunismo europeo. Tutto ciò, non senza contraccolpi su tutto l’universo della sinistra.

A trent’anni di distanza il rumore del crollo del muro, prima, e dell’Unione Sovietica, poi, arriva fino a noi, riecheggia nella ritrovata unità della Germania, nei nuovi assetti geopolitici che l’Europa si è data a partire dagli anni Novanta con l’accelerazione del processo dell’integrazione europea e l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Est; ma risuona anche nei conflitti che hanno squarciato l’ormai ex Jugoslavia, nell’attacco russo in Georgia del 2008, nell’ostilità, ora aperta, ora celata, fra Stati Uniti e Russia dal 2014 in Ucraina.

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

(Fonte: ansa.it – copyright Ansa/Epa)

La redazione di ToscanaNovecento ritiene utile aprire uno spazio di riflessione e conoscenza sulle trasformazioni che l’evento simbolico “caduta del muro” ha prodotto, sulle conseguenze che esso ha avuto non solo da un punto di vista geopolitico ma anche sul modo di pensarsi e (auto)rappresentarsi della politica e del potere in Italia: lutto per alcuni, liberazione per altri, la fine della contrapposizione tra blocchi ha messo in discussione i riferimenti di chi, nato e vissuto in un mondo bipolare, forse fatica ancora oggi ad elaborarne la portata e il significato. Quello che proponiamo, e che andrà avanti con almeno un appuntamento al mese per l’ultimo scorcio del 2019 e per tutto il 2020, è un esperimento per questo portale: non articoli su singoli episodi storici di rilevanza locale o generale, ma una serie di interviste a personalità politiche, sindacali, culturali toscane sulle conseguenze della caduta del muro, sui significati di questo evento epocale, sia su un piano strettamente personale, sia sul piano pubblico dei rapporti e degli schieramenti politici.

Ci muoveremo in un “terreno accidentato tra memorie individuali e ricordi collettivi” (Passerini, 2003), ben consapevoli della differenza tra storia e memoria, quest’ultima “permanentemente in evoluzione, aperta alla dialettica del ricordo e dell’amnesia, inconsapevole delle sue deformazioni successive, soggetta a tutte le utilizzazioni e manipolazioni, suscettibile di lunghe latenze e improvvisi risvegli” (Nora, 1984). Ma ci sembra un percorso necessario per comprendere il recente passato e il presente.

Il primo appuntamento con la nuova rubrica del portale è per il mese di dicembre.




Il 1917 in Toscana

Il 1917 è stato un anno di svolta generale nella storia della prima guerra mondiale. Eventi eccezionali come la rivoluzione russa, l’ingresso nel conflitto degli Stati Uniti nel conflitto, la gravissima crisi alimentare e la rotta di Caporetto sottoposero a molteplici ansie e a notevoli sfide i “fronti interni”, intensificando il senso di stanchezza verso le condizioni sempre più dure imposte dallo stato di guerra.

L’Italia, come la Germania e la Russia, fu uno dei paesi maggiormente interessati dalla cosiddetta “crisi dei fronti interni”. Dopo quasi due anni di rassegnazione o di proteste sommesse, in tante aree del paese riesplosero tensioni che riportavano con il pensiero a due anni prima, ai momenti più caldi delle mobilitazioni che avevano preceduto il tardivo e osteggiato ingresso del Regno dei Savoia nel conflitto.

In tale contesto conflittuale, la Toscana è stata tradizionalmente percepita come un territorio assai coinvolto da quella nuova esplosione di agitazioni e proteste espressione del disagio popolare verso il conflitto. Una fama legata un po’ alla leggendaria notorietà di alcuni episodi, come la grande marcia per la pace delle donne della Valle del Bisenzio del luglio 1917 guidata da Teresa Meroni, in parte a quanto messo in luce dagli esiti di alcuni sporadici e specifici studi o ancora al vivo ricordo delle forti e spesso radicali proteste antinterventiste del periodo della neutralità che avevano agitato non poco i sonni delle autorità in tutta la regione. Questa impressione è ampiamente confermata adesso da una mappatura organica di quel ciclo di manifestazioni di rivolta, e delle variegate forme che esse assunsero, effettuata da un recente volume promosso dalla rete degli Istituti toscani della Resistenza e curato da Roberto Bianchi e da Andrea Ventura dal titolo Il 1917 in Toscana. Proteste e conflitti sociali. Il testo affronta infatti il tema in maniera ampia, grazie a un complesso di saggi di vari autori dedicati alle diverse province della regione (da Massa Carrara a Lucca, da Pisa a Livorno, dall’area pratese e pistoiese alle zone rurali del territorio fiorentino, maremmano, aretino e senese).

La geografia delle proteste finì effettivamente per abbracciare l’intera regione, e per coinvolgere, dal punto di vista ambientale e socio-economico, aree urbane e medie cittadine, ma anche borghi di campagna e realtà rurali in cui forse per la prima volta risultarono scossi i consolidati equilibri della “pace sociale” garantita dal proverbiale regime mezzadrile. Lotte operaie in grossi centri urbani come Livorno si intrecciarono dunque con grandi e piccole mobilitazioni contadine come quelle ad esempio di aree tipicamente mezzadrili quali Greve o San Casciano nel Chianti.

Teresa Meroni, fine anni ’20.

Dal punto di vista della composizione sociale, la crescente conflittualità vide assai attivi le donne e i ragazzi, che come la storiografia sul primo conflitto mondiale ha largamente messo in luce furono un po’ ovunque i soggetti privilegiati delle mobilitazioni avvenute a conflitto in corso. Nella Toscana del 1917 tali soggetti diedero vita a un’estate particolarmente «incandescente» in tante realtà del contado pisano, dove grossi opifici artigianali che impiegavano numerose operaie coabitavano con la perdurante centralità del mondo agricolo, e per intensità e durata il fenomeno della protesta femminile investì in maniera significativa e con diversi episodi di mobilitazione anche diversi comuni interni e costieri della provincia di Massa-Carrara. Un’altra zona calda di forte attivismo delle donne in piazza contro la guerra furono il circondario pistoiese e quello immediatamente confinante del pratese che si segnalarono in particolare per la diffusione e il successo delle cosiddette “marce della pace” che si svolsero nel corso dell’estate. A ruota del particolare protagonismo di queste aree, il fenomeno non mancò però di di lambire contesti per tradizione ritenuti politicamente assai più quieti come la città di Lucca, dove a distinguersi furono le agitazioni delle numerose sigaraie della grande Manifattura tabacchi cittadina, o spaccati esemplari della placida Toscana rurale come appunto il Chianti fiorentino o località della profonda campagna senese. Queste agitazioni fortemente connotate in chiave di genere e generazionale, cominciate a inizio anno con petizioni e preghiere alle autorità, presero nel corso delle settimane la forma di presidi di fronte a palazzi ed uffici delle istituzioni e si radicalizzarono nei mesi a venire con veri e propri cortei e manifestazioni contrassegnati da grida ed espliciti slogan contro la guerra, spesso animati da centinaia di popolane e fanciulli e che giunsero in molti casi a infrangere con fare minaccioso l’ordine costituito e a scontrarsi apertamente con la forza pubblica. Arresti e processi colpirono numerose partecipanti a queste azioni e con particolare durezza alcune delle leader riconosciute delle proteste; esemplare in tal senso il destino di Teresa Meroni, la sindacalista milanese attiva da un paio di anni nel pratese e postasi a capo degli scioperi e delle marce nella Valle del Bisenzio che prontamente punita con diversi mesi di carcere e una cospicua multa fu poi internata in Garfagnana fino al termine della guerra.

Laddove vi erano numerosi, grazie al vasto operare del meccanismo degli esoneri per la presenza di fabbriche di interesse bellico dichiarate “ausiliarie”, anche gli operai maschi non si astennero altesì dal prendere sempre più parte col trascorrere dei mesi a episodi di protesta. Emblematico da questo pinto di vista il caso di una delle non molte realtà a forte industrializzazione della Toscana dell’epoca come quella livornese. Negli stabilimenti militarizzati del capoluogo o del polo siderurgico di Piombino si assiste infatti a un escalation di proteste culminate nella seconda metà dell’anno in grandi e massicci scioperi, pur vietati dal regime di guerra, e in eclatanti forme di rifiuto della propaganda patriottica e antidisfattista imposta dopo Caporetto; spicca in proposito il caso delle conferenze patriottiche inaugurate a fine anno in pompa magna nei grandi stabilimenti del proprio cantiere dai fratelli Orlando e sospese nel giro di un solo mese per l’ostinata, massiccia e “imbarazzante” diserzione opposta ad esse da parte delle maestranze operaie.

Per quanto concerne le caratteristiche e le forme della protesta antico e moderno si mescolarono, consueti bisogni e nuove idealità si sovrapposero. Così a deferenti istanze verso le autorità superiori e a tumulti spontanei per il pane, ad atti di ostruzionismo e di sabotaggio che attingevano al tradizionale repertorio della protesta popolare, si associarono sempre più pratiche d’azione più avanzate quali scioperi, cortei di protesta e altre agitazioni in cui non mancarono occasionalmente di fare capolino segnali o simboli di espresso carattere politico (di intonazione pacifista e rivoluzionaria), che contribuirono a un mutamento del clima generale con cui le autorità e la società in guerra furono chiamate a fare i conti.

Del resto a lungo la storiografia è stata incline a considerare le dimostrazioni contro la guerra del primo conflitto mondiale quali espressioni di protesta frutto di un’istintiva reazione popolare a un concreto disagio economico e sociale (l’assenza di mariti e fratelli, carichi di lavori insostenibili, il carovita, l’insufficienza dei sussidi). Rivolte per il pane a cui è stata fondamentalmente negata ogni valenza politica di fondo. In realtà nei grandi stabilimenti cantieristici e metallurgici di Livorno, ma anche fra le “fabbrichine” del pisano, o fra le lavoratrici del pratese dietro i comportamenti che segnavano una presa di distanza dallo sforzo di mobilitazione interna trame e movimenti – ma finanche gesti simbolici – di natura politica, come affiora da alcune delle pagine del libro, appaiono largamente riscontrabili. Sembra peraltro di osservare nel corso dei mesi un mutamento di tono dello stato della protesta in cui il semplice rifiuto della guerra quale aspirazione al ripristino del tradizionale ordine di cose si trasforma sempre più in richiesta ed esplicito desiderio di pace, percepita quale un orizzonte ideale nuovo e alternativo rispetto al presente.

Non un’effervescenza prodotta da uno stato di bisogno dunque, ma qualcosa di più profondo e radicato pare muoversi dietro il disagio e le tensioni. Un altro aspetto di parziale novità che pare affiorare dagli spunti offerti dalle ricerche di questa recente mappatura, rispetto alle consuete conclusioni della storiografia sulla protesta, è non a caso l’emergere di una scansione temporale variegata delle agitazioni che non sempre mostrano una ciclicità lineare nei diversi territori. Dopo il picco del 1917 infatti non dappertutto si registra un rapido riflusso della conflittualità fino alla scomparsa delle lotte e delle inquietudini dell’anno precedente, ma il fenomeno conflittuale non sempre si spegne e tenderà semmai a saldarsi con le agitazioni e le rivendicazioni dell’immediato dopoguerra e più avanti ancora del “biennio rosso”.

*Marco Manfredi ha conseguito nel 2005 il titolo di Dottore di Ricerca presso l’Università di Pisa. Dal 2007 al 2009 è stato borsista postodottorato al Dipartimento di Scienze della Politica dell’Università di Pisa, mentre dall’anno accademico 2009-2010 è Professore a contratto di Storia Contemporanea. Attualmente è collaboratore dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea nella provincia di Livorno.




Leonardo da Vinci ‘genio italico’ del fascismo

Il 9 maggio 1939, nell’anniversario della nascita dell’Impero, si inaugurava a Milano la Mostra di Leonardo da Vinci e delle Invenzioni italiane, un evento che, nelle parole del Comitato organizzatore, avrebbe mostrato, «in forma al tempo stesso eletta e popolare, il vertice altissimo raggiunto dallo spirito italiano con Leonardo, in modo da esprimere nella mirabile opera dell’artista e dello scienziato del Rinascimento, i caratteri essenziali della spiritualità della stirpe che nel Fascismo si ricompongono ancora dopo molti secoli in forma unitaria».

Di fatto divenne uno degli show più propagandistici del regime, un’esposizione -per usare le parole di Roberto Longhi- «discutibile e discussa», che portò a una significativa strumentalizzazione e decontestualizzazione storica dell’artista.

L’ingresso alla mostra milanese su Leonardo del 1939

L’interpretazione di Leonardo quale genio della “stirpe italica”, da cui partiva una gloriosa linea di scienziati che culminava con Guglielmo Marconi, eroe dell’Italia autarchica di Mussolini, era già iniziata qualche anno prima: in questa direzione si allineò la mostra milanese, portando all’associazione della grande monografica sull’artista con una parallela esposizione, ovvero la seconda edizione della Mostra delle Invenzioni italiane, che trovò altisonante sede presso il Palazzo dell’Arte al Parco Sempione (ora della Triennale).

Già dall’inizio degli anni Trenta il fascismo aveva utilizzato sia le mostre d’arte antica italiana all’estero che le grandi esposizioni monografiche in patria, come palchi propagandistici, eventi collettivi ampiamente pubblicizzati con gli strumenti di comunicazione di massa (video dell’Istituto Luce, opuscoli turistici promozionali, comunicati radio) già sperimentati nella propaganda politica. Rispetto ad altre importanti esposizioni della seconda metà degli anni Trenta (come la mostra giottesca a Firenze del 1937), quella dedicata a Leonardo a Milano assunse tuttavia connotati ancor più particolari: Leonardo diventò l’antesignano dell’ “uomo nuovo” fascista, paragonabile allo stesso Duce.

I vari approfondimenti sugli studi di Leonardo dedicati all’architettura, all’ingegneria, all’anatomia, alla matematica diventarono tappe di un percorso espositivo incentrato sulla celebrazione del suo ruolo di pioniere nella cultura tecnico-scientifica italiana, secondo un’impostazione – cara al regime – per cui i protagonisti della storia della scienza erano visti come monumenti, isolati dal contesto in cui avevano operato. L’aspetto preponderante e più spettacolare fu la parte scientifica e tecnica dell’opera dell’artista, rappresentata da 200 modelli di macchine, talvolta anche in scala gigantesca e azionabili dal pubblico, realizzati grazie alla progressiva edizione dei manoscritti ma anche con una buona dose di interpretazione.

Tuttavia la mostra vedrà anche la presenza di numerosi dipinti e disegni originali di Leonardo, portando alla spoliazione di quasi ogni opera leonardesca presente nei musei italiani. Lo sforzo maggiore fu chiesto proprio alla soprintendenza fiorentina: il 1° maggio 1939 partirono da Firenze una trentina di casse con dipinti, disegni e sculture principalmente dalla Galleria degli Uffizi e dall’allora Regio Museo Nazionale del Bargello, comprese opere simbolo e delicatissime come l’Adorazione dei Magi e l’Annunciazione di Leonardo e il Battesimo del Verrocchio. Per quest’ultime, invano, il soprintendente Giovanni Poggi e il responsabile del Gabinetto Restauri Ugo Procacci richiesero un restauro preventivo «per poter sopportare un viaggio senza risentire danni».

In linea con la dialettica del regime, che da un lato promuoveva grandi eventi accentratori e dall’altro valorizzava le identità locali in senso di orgoglio municipalistico, anche a Vinci soffiò forte il vento della retorica fascista. Collegata alla mostra milanese, nel paese natale  fu organizzata un’esposizione di cimeli leonardeschi, inaugurata il 20 agosto 1939 dal ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, che parlò dal balcone della casa del fascio. Pubblicizzato alla stregua di un “pellegrinaggio”, il tour vinciano prevedeva la visita ai luoghi dell’infanzia dell’artista, tra i quali la restaurata casa di Anchiano, oltre a fonte battesimale e la riproduzione di un documento di mano del nonno di Leonardo.

Una delle sale dedicate ai modelli leonardeschi nella mostra milanese del 1939

In quello stesso biennio 1938-1940 l’esaltazione di Leonardo divenne di fatto una moda e mania collettiva che fu cavalcata anche dalle frange più estreme del regime. A tal proposito ne «La Difesa della Razza» comparvero una serie di articoli a tema artistico dedicati proprio a Leonardo, dove la strumentalizzazione sciovinista si colorò anche di tinte antisemite e perversioni interpretative. Già nel 1938 era comparso il breve articolo Come Israele insudicia il genio di Leonardo, atto di accusa contro la nota interpretazione di Freud sul sogno raccontato da Leonardo riguardo al nibbio. Nel 1939, anche in riferimento alla mostra milanese, nella rubrica “la razza e l’arte” la polemica dei redattori si indirizzò verso La favola dell’europeismo e Leonardo italiano, ovvero verso la tendenza degli studi dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, di scippare l’italianità dell’artista a discapito di una sovra-nazionalità europea. Nel 1940, in un climax ascendente di strumentalizzazione interpretativa, comparve un nuovo articolo dall’emblematico titolo Leonardo pittore razzista, dove venne presentata un’analisi del Cenacolo improntata alla presunta diligenza leonardiana nell’aver riprodotto nei volti degli apostoli caratteri somatici “biologicamente” ebraici.

Con l’entrata in guerra dell’Italia continuò l’utilizzo politico di Leonardo, protagonista, grazie all’interessamento del ministro della Cultura Popolare Alessandro Pavolini, di una leonardesca americana, organizzata dal Rockefeller Center nel Museum of Science and Industry di New York nel luglio 1940 con i modelli della mostra del 1939. Questi stessi modelli presero poi la via di Tokio, dove furono esposti – suscitando grande stupore – nel 1942, in piena guerra mondiale. Fu il loro ultimo viaggio: la nave che che dal Giappone li riportava in Italia fu colpita e affondata, in una sinistra e simbolica fine, per mano di quel conflitto così acclamato, della strumentalizzazione retorica di Leonardo come grande “genio italico”.




I Campeggi del Chianti negli anni Settanta

Vicenda recentemente storicizzata, dalla quale emerge una sorta di legame ideale con precedenti esperienze collettive che hanno animato la cultura e messo in movimento dinamiche sociali lungo parte del Novecento. Hippy e naturismo, pic-nic e colonie libertarie, campeggio autogestito, hanno epigoni in America, Inghilterra, e parte dell’Europa. Il bisogno di percorrere strade antiautoritarie o sottrarsi a controlli statali, assieme alla necessità di crescita e di autoformazione, hanno prodotto nel tempo e nello spazio numerosi esempi in qualche modo evocativi, e precedenti storici, di questi campeggi, come l’esperienza hippy dell’alessandrino del 1970-71 dove vengono occupati cascinali, e si aggregano quasi cento ragazzi e ragazze di provenienza beat generation e contestazione del Sessantotto, che accanto all’esigenza di una vita a contatto con la natura, si oppongono al mercato, al lavoro salariato, alla famiglia.

“Fuoco di bivacco al tramonto”, Moggiona (AR), luglio 1972

Negli USA, un po’ prima, gli anarchici si trovavano insieme in numerosi pic-nic, durante i quali fra grandi e piccoli si creano contesti che prevedono gioco e pranzo, ma anche e soprattutto, preludono a luoghi di scambio di informazione, di progettazione di attività politica. Così come nel Secondo dopoguerra, raduni dei “figli dei fiori”, musica e droghe lisergiche, diventavano happening liberatori e costruzione di identità libere, specie dalla religione e dalla oppressione sessuale. Accanto a questo, le prime colonie estive in ambito anarchico, per i bambini di compagni meno abbienti, sottraevano alla Chiesa il primato. A Barcellona, in Spagna, la Colonia “L’Adunata dei Refrattari” nel 1938, sullo scorcio della Rivoluzione perduta, crea luoghi per i bambini orfani della rivoluzione, pensando alla loro salute ai loro diritti ad essere soggetti e non oggetti della pedagogia. In Italia, negli anni Cinquanta a Ronchi di Massa Carrara e in precedenza a Sorrento (Na), Giovanna Caleffi Berneri realizza Colonie per i figli dei compagni, con la presenza di figure importanti dell’antiautoritarismo e della cultura pedagogica libertaria come gli obiettori di coscienza, Pietro Ferrua e Mario Barbani, oltre a Federico Ernovino, in seguito collaboratore a Partinico di Danilo Dolci, autore dell’esperienza comunitaria siciliana di Trappeto (TP), o ancora del Campeggio Internazionale Anarchico del 1969.

Orosei

Orosei (Sardegna), 1972

Il Secondo dopoguerra è stato ricco di sollecitazioni e di interventi diretti, “alternativi” rispetto a quegli ecclesiastici e finalizzati a specifiche porzioni di società, spesso quelle meno abbienti o operaie, o carenti di stimolazioni culturali oltre la famiglia la chiesa e la scuola. Dalla Comunità Olivetti di Ivrea, alle colonie “Figli del popolo” di ispirazione operaia, come quella promossa da una delle fondatrici dell’UDI (Unione Donne Italiane), Alessandra Meucci a Sesto Fiorentino. Sul periodo si legga quanto scrive Carlo De Maria nel Saggio introduttivo al volume, Giovanna Caleffi Berneri. Un seme sotto la neve (Reggio Emilia 2010) dove specifica il percorso dando conto proprio di ciò che avviene, solo apparentemente “accanto” ai fatti della storia, fra minoranze ereticali che si sviluppano nella società nel Secondo dopoguerra. Comunitarismo, pacifismo, laicità, libertarismo, pedagogia d’avanguardia, da Aldo Capitini ai coniugi Calogero, da Olivetti a Silone a Lamberto Borghi ad una grande quantità di persone pensanti, libere da dogmi ed aperte ad una società aperta.

Da tali principi e dalla necessità di applicare concetti di pedagogia libertaria a quello che fino ad allora era, nel migliore dei casi, un servizio reso alle comunità, attraverso le colonie comunali, Giampaolo Lumachi, coadiuvato in seguito da amici e collaboratori, si fa promotore verso l’Amministrazione comunale di San Casciano Val di Pesa (FI), di un modello completamente nuovo di servizio.

Manifesto e programma dei campeggi estivi del 1972

Manifesto e programma dei campeggi estivi del 1972 organizzati nel contesto dell’esperienza dei “Campeggi del Chianti”

Coinvolti cinque comuni del Chianti fiorentino (San Casciano val di Pesa, Bagno a Ripoli, Greve in Chianti, Impruneta, Tavarnelle Val di Pesa), prese avvio una esperienza della quale di fatto, solo Lumachi ne conosceva i contorni. Il coinvolgimento di una grande quantità di persone, avviene per contatti concentrici. Lumachi getta il sasso e ne controlla i cerchi che da esso si dipartono. Servono tecnici, specialisti, amici, monitori, i ragazzi giungeranno in seguito. Lumachi, insegnante fiorentino, abbandona il CEMEA (Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva, un’esperienza nata nel 1937 in Francia e diffusa in Italia a partire dal 1950) perchè in disaccordo con il clima “chiuso” degli aderenti, cercando forme di sperimentazione diretta sul territorio. Le sue conoscenze e relazioni sono di aiuto in questo senso. Da Lele Rago a Marcello Trentanove, ad una costellazione di persone che via via, per affinità, coinvolgerà in questo suo bisogno di pedagogia militante di agire libero e fuori dagli schemi. In tale percorso di crescita, non è estranea la sua adesione alla sinistra extraparlamentare e “luogo” di probabile incontro con Corrado Coradeschi del Centro Igiene Mentale di Borgo Pinti a Firenze, altro pilastro su cui poggerà l’esperienza di cui si tratta. Lumachi è il proponente e la matrice è di sinistra extraparlamentare e antiparlamentare con forte libertarismo e critica ai valori borghesi, alla religione, alla società, tramite lo strumento di una pedagogia diretta, immediata, antiautoritaria.

Sicilia 1973. terremotati

Campeggio in Sicilia, 1973. I ragazzi intervistano gli abitanti delle baracche dopo il terremoto.

Lo scorcio degli anni Sessanta, con le sue istanze di liberazione sessuale, di antimilitarismo ed antiautoritarismo, e di creatività e gioia di vivere, sono il naturale terreno di coltura della formazione dei “vecchi“, e l’aria da respirare, per le giovani generazioni. Tre sono le generazioni coinvolte, la più vecchia, nata negli anni Trenta del Novecento, è l’ispiratrice e la miccia che dà fuoco a quella esperienza, la mediana, fra anni Quaranta e Cinquanta, giovani che saranno via via coinvolti come monitori anche se con originaria differente funzione – mi vengono in mente le persone incrociate nel percorso, sia nei luoghi di esperienza che attraverso l’attività nei campeggi (operai, autisti), infine i ragazzi, gli utenti, nati quasi tutti negli anni Sessanta, che si troveranno a vivere una esperienza in qualche modo sconvolgente.

Un approccio differente alla conoscenza sperimentato negli anni in luoghi molteplici, diversi, ciascuno comunque vissuto in modo sempre attivo e nella consapevolezza della valenza dell’ambiente socialie come elemento educativo: Sardegna, Camaldoli, Igea (1972); Val d’Aosta, Sicilia, Sardegna (1973), Sardegna, Arcidosso (1974), Sardegna, Amiata (1975), Sardegna (1976).

Alberto Ciampi  – Architetto, si interessa di Avanguardie storiche del Novecento, Movimento Anarchico, e cura il Centro Studi Storici Valdipesa. Ha pubblicato libri, saggi e articoli su pubblicazioni periodiche. Collabora, fra l’altro, alla rivista d’arte “ApArte°” di Venezia ed è membro del Comitato Scientifico dell’Archivio Berneri – Aurelio Chessa di Reggio Emilia. Suoi, fra gli altri: “Futuristi e anarchici – Quali rapporti?”; “Un fiore selvaggio”; “Rivoluzione in Tipografia”; “Anarchia e Futurismo – Revolverate”; “Gli Indomabili”; “Forma e Forme”; “I colori dell’anarchia nelle pubblicazioni periodiche”; “Leda Rafanelli – Carlo Carrà: un romanzo – arte e politica in un incontro ormai celebre!”. Ha collaborato a: reprint de “L’Italia Futurista”; “Dizionario del futurismo italiano”; “Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani”. In ambito locale, con il Centro Studi Storici della Valdipesa ha curato numerosi convegni e pubblicazioni.