1

Alcune considerazioni sul 100° anniversario della marcia su Roma (1922-2022).

D. – Il centenario della marcia su Roma ha rappresentato un’opportunità per avviare una discussione collettiva a tutto tondo sull’avvento del fascismo e sul ventennio di dittatura, per approfondire questioni e scardinare luoghi comuni troppo a lungo dati per assodati. Tuttavia ci pare che il contesto politico odierno e la concomitanza con le elezioni politiche non abbia contribuito in senso positivo e abbia, per così dire, inquinato la discussione, appiattendo sostanzialmente il dibattito su un allarmistico ritorno del fascismo da un lato e una pervicace apologia dall’altro. Qual è la sua sensazione?

R. – Sono abbastanza d’accordo sulla lettura della discussione in atto sul centenario, su queste due tendenze parallele. Nella storia, come sappiamo, nessun fenomeno politico si ripropone alla perfezione: in questo caso infatti non c’è, a mio parere, nessuna ripetizione del fascismo, seppur sia presente un’apologia molto superficiale, che si affida a luoghi comuni viventi nell’immaginario collettivo.
La mia impressione è che la vera valutazione non può che essere prematura. Abbiamo assistito ad un anno di numerose iniziative e convegni, c’è stato un enorme sforzo collettivo di discussione ed elaborazione sul tema da parte non solo dell’ambiente accademico, ma anche di tutte quelle istituzioni fuori dal circuito universitario, come la rete nazionale dell’Istituto Parri, circoli e associazioni, che da decenni ormai operano con attività di ricerca e divulgazione. Infatti credo che, per quanto siano presenti dei limiti, non sia da sottovalutare questo impulso dato dall’anniversario, che ha portato – com’è naturale – ad allargare il focus dalla marcia su Roma a tutto il ventennio, come pure al periodo del primo dopoguerra, e che per osservare gli effetti sollecitati dai dibattiti si debba attendere qualche anno, o quantomeno aspettare la pubblicazione degli atti.
Oggigiorno abbiamo a disposizione innumerevoli strumenti e possibilità di accesso libero e diretto ad archivi, biblioteche, luoghi di cultura in cui poter confrontarsi con la storia e le sue fonti. È costante l’impegno per scuole, istituti, università libere e della terza età affinché avvenga un processo di professionalizzazione della storia e della sua complessità. Si tratta ovviamente di un continuo tentativo in atto in questo senso per comunicare la storia in modo friendly, per renderla alla portata di tutte e tutti. Quello che mi chiedo quindi, e purtroppo non ho una risposta, è come mai di fronte a questo contesto in cui tutto sommato abbiamo a disposizione materiale, strumenti e possibilità di approfondimento, continui questo fenomeno di edulcorazione di un passato che si preferisce o rimuovere o evocare con tono qualunquistico. E qui c’è un problema che riguarda la politica italiana: il decadimento della preparazione politica, della serietà dell’approccio della classe politica da almeno trent’anni è un processo evidente che, legittimato dai media, ha inciso negativamente nel contrastare quella che abbiamo chiamato la professionalizzazione della storia e della sua fruizione.

D. – Abbiamo attraversato un momento in cui un revival del tema del fascismo ha portato una discreta produzione, spesso accompagnata da una troppo comoda semplificazione degli avvenimenti, da una visione banalizzante – se non proprio edulcorata e mitizzante – e colma di ingombranti rimozioni. Forse attualmente manca una sorta di educazione alla complessità, non nel senso che tutto debba essere raccontato in modo complicato, tutt’altro: una delle missioni degli storici e delle storiche deve essere quella di rendere la disciplina fruibile ad un pubblico ampio, parlando della storia senza omettere le sue sfaccettature, promuovendo sì una semplificazione attraverso una selezione ragionata degli avvenimenti, pur senza creare un racconto rigido di causa – effetto o di date svuotate di significato. Che ne pensa, è possibile invertire questa tendenza ed educare in questo senso alla complessità della storia?

R. – Sarebbe sicuramente un grande obiettivo, di cui a mio avviso potrebbe essere un passaggio fondamentale quello di investire maggiormente sullo studio della storia del XX secolo. La priorità dovrebbe essere quella di promuovere, a partire dalle scuole di ogni ordine e grado, la conoscenza del Novecento, cui purtroppo ad oggi sono dedicate poche ore di didattica e spazio ridotto nei manuali, affinché si permetta a studentesse e studenti di comprendere come elementi del passato condizionino anche il nostro presente.
Credo però che un passo in avanti sia necessario: ci troviamo di fronte ad una situazione in cui la storia è poco conosciuta non solo fra i giovani, per cui forse si potrebbe pensare ad una sorta di educazione permanente alla complessità della disciplina e allo studio, che vada oltre il confine scolastico. Bisognerebbe infatti in qualche modo, educare a contestualizzare il quotidiano in relazione al passato, senza che della storia venga attuato un appiattimento, cui spesso assistiamo da decenni soprattutto attraverso alcune operazioni attuate dai mass media e da parte della politica. Secondo me la storia professionalizzata, e non come rigido accademismo, è da considerare un bene comune; sarebbe d’avanguardia l’insegnamento al valore dei beni comuni e culturali, di quella che possiamo definire come una cultura diffusa, che sappiamo essere oggetto di percorsi innovativi in alcuni istituti.
Dunque l’obiettivo di un progetto politico-culturale per un domani caratterizzato dalla centralità dell’educazione alla complessità, dovrebbe essere quello di superare questo appiattimento che allo stato attuale non può che produrre un senso di smarrimento nella cittadinanza tutta.

Marco Palla, Mussolini e il fascismo. L'avvento al potere, il regime, l'eredità politica, Giunti Editore, 2019D. – Abbiamo già citato i rischi dell’uso pubblico della storia da una parte, e dall’altra della necessità della costruzione di una memoria collettiva basata su ricerche scientifiche portate avanti da storiche e storici. Eppure ci pare che la ricerca storica sia sempre meno finanziata e che l’insegnamento della disciplina sia preso sempre meno in considerazione nel sistema scuola. Secondo lei qual è lo stato di salute della ricerca storica in Italia?
R. – È innegabile che negli anni c’è stata una diminuzione dei finanziamenti per scuola, università e ricerca che ha inevitabilmente portato ad un depotenziamento della conoscenza e della scuola. Purtroppo possiamo affermare che nei decenni passati i governi di orientamenti politici differenti hanno preferito la strada di una cosiddetta razionalizzazione, che si è concretizzata sostanzialmente in tagli, che hanno portato ad un progressivo peggioramento rispetto alla prassi esistente un tempo di una classe dirigente in generale quantomeno sensibile ad ammodernare e ad investire. Ciò ha prodotto, appunto, una decrescita di cui oggi sono facilmente visibili le conseguenze. Probabilmente, e anche questa è una scelta che al momento non mi pare sia presente nell’agenda politica, una soluzione ai definanziamenti potrebbe arrivare dal ridurre anziché aumentare le già ingenti spese militari. Gli archivi, le biblioteche, gli istituti, che promuovono e permettono di fatto la ricerca, hanno altresì bisogno di risorse, sono servizi che devono essere realmente liberi e accessibili e che in quanto tali lo Stato deve garantire alla comunità tutta. Inoltre, fatemi dire una cosa su cui già molti colleghi si sono espressi e su cui sono d’accordo: sono contrario all’istituzione dell’alternanza scuola-lavoro, per me la scuola deve rimanere un luogo di saperi liberi. Credo fortemente in una scuola gratuita, pubblica, laica, pluralistica e libera da un insegnamento etico ereditato dalla scuola gentiliana fascista.
Per quanto riguarda la realtà universitaria penso sia necessario un ampio cambiamento, ad esempio con una stabilizzazione dei finanziamenti soprattutto per i percorsi post-laurea, lasciando libero spazio a rigorose ricerche innovative nel campo della storia di genere o della storia culturale e provando a scardinare l’attuale concezione della ricerca storica, che sembra irrigidita verso narrazioni militari e di storia della politica. Per far sì che questo avvenga, e che ci sia una vera e propria valorizzazione della ricerca, sono necessarie, appunto, maggiori risorse, che permettano davvero un sostentamento decoroso per giovani ricercatori e ricercatrici. Pensiamo, giusto per fare un esempio, ai dottorati senza borsa che sono stati istituiti recentemente: rappresentano una farsa per cui poi rischia di risultare accettabile soltanto per chi è già in condizione di sostenersi (o essere sostenuto) economicamente.

D. – Ultimamente vari studi, come il volume curato da Ceci e Albanese I luoghi dell’Italia fascista, che fa da corredo al portale da poco consultabile online, hanno evidenziato come ancora oggi siano molteplici le tracce evidenti e concrete di un passato fascista. Non sempre oggetto di commemorazioni, vie, piazze, edifici e monumenti fanno comunque parte della vita quotidiana della cittadinanza e, senza che questa se ne accorga, possono diventare di fatto simboli dei nostri valori (o meglio, disvalori).

R. – Penso che sulla questione della toponomastica l’approccio debba essere complesso e differenziato senza che l’idea sia semplicemente quella di abbattere tutto: alcune cose si possono cambiare con un tratto di penna, altre abbisognano di didascalie o altri strumenti che documentino i segni del passato che la repubblica italiana riconosce; perché il fascismo fa parte della storia d’Italia e non può essere messo fra parentesi né tantomeno dimenticato, va studiato e contestualizzato. Poi questo è un discorso complesso perché oltre ad alcuni monumenti o vie che richiamano direttamente alla simbologia e al fascismo stesso, esistono anche una serie di opere che si rifanno più a movimenti artistici esistenti durante il fascismo che alla sua ideologia, si pensi al razionalismo architettonico. Alla fine credo che sia una riflessione di buon senso quella di Giorgio Candeloro: non tutto quello che è stato costruito, studiato, fatto durante il fascismo va attribuito al fascismo, e al tempo stesso neanche separato da quello che il fascismo è stato. Dall’altra parte ci sono le battaglie, veramente di retroguardia, che fanno le amministrazioni di destra a livello sia nazionale che locale, come quella per non cancellare la cittadinanza onoraria a Mussolini. Questo dovrebbe essere quasi un automatismo, una scelta immediata. Eppure quanti sono oggi i comuni che hanno cancellato questa onorificenza? C’è inoltre da parte di alcune amministrazioni locali addirittura la promozione di nuove celebrazioni con statue e intitolazioni a presunti patrioti italiani, che in realtà non sono altro che parte della classe dirigente fascista, si pensi ad esempio al busto di Graziani nella sua città natale.
Quindi direi che è importante contestualizzare, differenziare, per decidere quali dei lasciti del fascismo mantenere e quali no, coinvolgendo la cittadinanza e cercando di rendere visibile e comprensibile ciò che conserviamo, magari interpellando anche storici ed esperti. Azzardo in aggiunta un’ultima considerazione riguardo le leggi razziali: oggi nel 2023 non c’è stato alcun risarcimento reale per le comunità ebraiche, i cui membri furono espulsi dall’ambito civile. Questo sarebbe un atto di civiltà minimo.

Ghezzano (PI), 30 gennaio 2022

**Caterina Carpita dottoranda dell’Università degli studi di Napoli L’Orientale e Teresa Catinella dottoranda dell’Università di Pisa.




Memoria ed eredità del PCI attraverso l’archivio della Federazione pisana.

L’archivio della Federazione pisana del PCI conservato presso la Biblioteca Franco Serantini[1] è stato depositato il 14 gennaio 2021, in occasione del centenario della nascita del Partito, con il trasferimento dei documenti dalla sede politica originaria, situata in via Antonio Fratti di Pisa, dove il fondo verteva in stato di abbandono. L’accordo tra la Biblioteca e l’Associazione Democratici di Sinistra, proprietaria delle carte, è avvenuto sotto forma di “deposito cautelativo”. I documenti che compongono l’archivio costituiscono un patrimonio eterogeneo consistente in materiale a stampa, dattiloscritto, manoscritto, materiale fotografico ecc.; essi coprono un arco temporale che va dalla fine degli anni ’60 – quando gli iscritti al Partito furono poco meno di 22.000 mentre i membri della FGCI quasi 1000[2] – fino allo scioglimento del Partito Comunista Italiano nel 1991.
Il progetto di riordino delle carte svolto dalla Biblioteca nel 2021 si inserisce all’interno di un più ampio contesto di valorizzazione degli archivi del PCI promosso dalla Fondazione Gramsci di Roma[3]. La finalità della Fondazione infatti è proprio quella di creare un portale in cui descrivere il patrimonio documentale prodotto dagli organismi nazionali e dalle varie organizzazioni territoriali del Partito Comunista Italiano[4]; così da formare un apparato informativo unitario in grado di descrivere la sua storia sia a livello locale che nazionale.

Manifestazione Vietnam 1972 Pisa (foto Giacomo Gensini)

Manifestazione Vietnam 1972 Pisa (foto Giacomo Gensini)

Per poter comprendere il ruolo del Partito a livello territoriale, basti infatti osservare il contributo che la Federazione ha offerto a Pisa e alla sua provincia nella ricostruzione della vita politica e sociale negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra. I dati statistici prodotti durante il V Congresso provinciale del maggio 1954[5], ad esempio, riportano alla luce una realtà sociale permeata dall’impegno politico nel partito. Infatti, i tesserati a questa data sono 29.820[6], mentre gli iscritti alla FGCI ammontano a 6.743. Numerose sono state anche le iniziative democratiche sostenute dalla Federazione nel contesto provinciale; ancora oggi infatti nella memoria di tanti militanti è vivido il ricordo di quello che è passato alla storia come lo “scioperone” del ’62, quando gli operai della Piaggio manifestarono per ben 75 giorni. Il PCI è anche il partito da cui proviene il primo sindaco della città dopo la Liberazione del 1944; Italo Bargagna sarà inoltre rieletto nel marzo del 1946. Anche gli anni ’70 e ’80 vedono altri esponenti della Federazione a capo dell’Amministrazione comunale, come Vinicio Bernardini – eletto nell’aprile del 1971 e poi nel maggio del 1983 -, Elia Lazzari e Luigi Bulleri.
Ritornando all’archivio, il complesso dei documenti prodotti dal Partito si presentava come un insieme disorganico di carte che recavano scarse indicazioni esplicite per una loro possibile organizzazione strutturale, in quanto si tratta di documenti sedimentati nel tempo con alcune distinzioni di provenienza da uffici o da attività di dirigenti e funzionari della Federazione le cui mansioni venivano definite all’interno della struttura organizzativa del partito. Si è cercato dunque di mantenere questa impostazione, seguendo criteri non arbitrari, bensì suggeriti dall’attività e dalla vita del partito stesso, e rimanendo fedeli all’ordine temporale di sedimentazione dei documenti nel corso degli anni. A questo scopo si è dimostrata di aiuto la relazione redatta nel febbraio ’83 da un membro del Partito, Ciro Sbrana, e presentata alla segreteria della Federazione, dal titolo Per la costituzione dell’archivio della Federazione[7], nella quale si operava una prima suddivisione del materiale conservato fino a quel momento.
L’archivio proveniente dalla sede di via Fratti si caratterizza per la sola presenza di materiale prodotto a partire dalla fine degli anni ’60, mentre purtroppo sono andate perse le carte in parte riferite al periodo del primissimo secondo dopoguerra. Questa assenza è compensata, però, dall’integrazione del patrimonio documentale all’interno del complesso archivistico della Biblioteca grazie, ad esempio, al fondo di proprietà della famiglia Motta-Borri, donato all’Istituto nell’autunno del 2021, che contiene le circolari emesse dal Partito negli anni 1945-49, nonché materiale importante che copre gli un arco temporale che va dall’immediato secondo dopoguerra al primo decennio della Repubblica. Oltre a questo, la Biblioteca possiede un complesso di beni archivistici provenienti da diverse realtà politiche formatesi sul territorio pisano e protagoniste della scena politica cittadina negli anni successivi alla caduta del regime fascista; tra questi vale la pena citare, ad esempio, i materiali relativi al PSI e ad altre forze politiche, così come l’archivio della Democrazia proletaria. I materiali prodotti da queste realtà sono utili ed essenziali ai fini di una analisi approfondita e dettagliata della vita politica in ambito locale.

Regionale Antifascista 8 aprile 1973 Pisa (foto Giacomo Gensini)

Regionale Antifascista 8 aprile 1973 Pisa (foto Giacomo Gensini)

I beni archivistici conservati all’interno dell’Istituto storico Franco Serantini si configurano pressoché come un unicum nel contesto conservativo pisano. Infatti, sebbene sia presente sul territorio La Rete Archivistica della Provincia di Pisa, costituita nel 2001 con l’intento di promuovere una comune gestione dei servizi archivistici al fine di una valorizzazione dei patrimoni comunali della provincia, emerge una quasi totale assenza di materiale riferito alla vita dei movimenti e dei partiti politici. Si registrano solo alcuni casi isolati come quello del fondo personale di Renzo Remorini, operaio della Piaggio e funzionario politico della Federazione del PCI, donato dal figlio alla Biblioteca civica G. Gronchi di Pontedera e contenente documentazione che testimonia l’impegno politico e sociale di un’intera generazione.
In contrasto con la realtà del pisano, nel contesto fiorentino, invece, possiamo ricordare il caso dell’Istituto Gramsci toscano – presso il quale è conservato l’archivio della Federazione fiorentina del PCI – e della Fondazione Filippo Turati, che possiede i fondi della Direzione nazionale del PSDI e del PSI. Allo stesso modo, è dovere ricordare, in territorio livornese, il lavoro di riordino e descrizione archivistica condotto nel 2011 dalla dottoressa Michela Molitierno sul fondo documentario della Federazione livornese del Partito Comunista, conservato presso l’Istoreco di Livorno. Dato il suddetto stato di cose all’interno del contesto toscano, è dunque possibile affermare che la Biblioteca Serantini rappresenta un caso significativo di atipicità e ricchezza in una realtà che fa fatica a fare i conti con il proprio passato.
La ricostruzione della storia dell’Italia repubblicana, di fatto, è resa possibile proprio grazie al supporto documentario in grado di illustrare il ruolo che i diversi partiti politici hanno sviluppato non soltanto nella vita politica, ma anche in quella culturale, economica e sociale del nostro paese[8]. E tra i partiti politici italiani del ‘900, il PCI è uno dei pochi ad aver preservato il patrimonio integrale delle sue carte «strutturandole in un archivio ordinato e preoccupandosi di aprire alla consultazione degli studiosi il proprio archivio storico già dalla fine degli anni ottanta»[9]. Non è da meno il caso dell’archivio della Federazione pisana del PCI, che, nonostante la lacuna antecedente agli anni ’70, si è dimostrato consistente e di considerevole interesse[10], e che attualmente, grazie al lavoro di riordino e organizzazione condotto nel corso del 2021, è liberamente consultabile; inoltre, una sintesi dei suoi contenuti e la gerarchia delle carte sono disponibili in forma digitale (bfscollezionidigitali.org). L’intervento di organizzazione si è strutturato mediante varie e diverse fasi: trattandosi di materiale eterogeneo sedimentato nel corso dei decenni, dapprima si è resa necessaria una razionalizzazione e suddivisione di tutto il patrimonio, attenendosi sempre a criteri oggettivi suggeriti dall’attività e dalla vita del partito stesso. Infatti, la struttura del fondo ha evidenziato fin da subito un totale disordine dato dal fatto che, come emerge dalla relazione del 1983, le carte, dal momento in cui non furono più di utilità alcuna, vennero conservate nel seminterrato della sede politica, senza alcun criterio né modello organizzativo dettato da un vero e proprio funzionario addetto all’archivio. Seguendo sommariamente le poche linee guida suggerite dalla relazione e dalla natura stessa dei documenti, in fase di una prima analisi si è deciso di suddividere il materiale in dieci serie. Ad integrare il materiale prodotto direttamente dalla Federazione pisana sono stati acquisiti, nel frattempo, alcuni archivi come quelli delle sezioni di Fornacette, Santa Croce sull’Arno e Volterra e di militanti come quello di Menotti Bennati.

Berlinguer 1975 PI- Giardino Scotto (Foto Giacomo Gensini)

Berlinguer 1975 PI- Giardino Scotto (Foto Giacomo Gensini)

In una seconda fase, grazie a un’analisi più approfondita, sono state create delle sottoserie, nelle quali sono stati suddivisi ulteriormente i documenti. In seguito a questa prima strutturazione, è stato possibile smistare il materiale all’interno delle serie e sottoserie individuate, e iniziare così la vera e propria fase descrittiva, per la quale sono stati adottati due criteri. Il primo è stato quello che ha permesso di individuare il materiale prodotto dai diversi uffici o dagli atti dei Congressi e dai convegni, così da poter riunire il tutto in fascicoli omogenei; in secondo luogo si è disposto l’ordinamento dei fascicoli secondo un principio cronologico all’interno delle singole serie e sottoserie. Una volta strutturata la gerarchia completa di tutto l’archivio, è iniziata la fase descrittiva, durante la quale i singoli fascicoli sono stati descritti in versione informatizzata utilizzando il software Archiui[11] e rendendoli poi visibili sul sito della biblioteca.
Il lavoro condotto delinea la composita attività politica e culturale del partito. Infatti, la descrizione delle partizioni archivistiche ha evidenziato lo sviluppo dell’attività politica nella successione degli eventi e, contestualmente, la descrizione analitica dei documenti, organizzati in fascicoli, illustra la modalità d’azione degli uffici e delle ramificazioni territoriali del partito.
In conclusione, gli archivi politici rivestono un ruolo di grande importanza per la storia locale e sono fonte inesauribile di conoscenza utile alla salvaguardia della memoria dell’iniziativa politica riguardante un’intera collettività. Oggi più che mai, considerati gli sviluppi storico-politici recenti, occorre confrontarsi con un passato non troppo lontano che influenza la nostra memoria e di conseguenza la nostra stessa identità.

 

NOTA:

1. La Biblioteca Franco Serantini, fondata nel 1979, entra a far parte della rete nazionale degli istituti storici della resistenza nel maggio del 2021, acquisendo la denominazione di Biblioteca Franco Serantini Istituto di storia sociale, della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Pisa e delineandosi in tal modo come unico istituto storico nella realtà pisana e della provincia.
2. PCI, FGCI. Federazione di Pisa, dal X all’XI congresso provinciale, Pisa, Federazione del PCI (a cura di) 1972.
3. L. Giuva (a cura di), Guida agli archivi della Fondazione Istituto Gramsci di Roma, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1994.
4. https://www.fondazionegramsci.org/archivi/archivio-pci/.
5. PCI Federazione Comunista Pisana, V Congresso provinciale 14-15-16 maggio. Dati statistici sul partito e sul movimento democratico della provincia, Pisa, Tipografia Editrice Umberto Giardini, Pisa.
6. Nel 1954 la popolazione totale residente nella provincia di Pisa ammonta a 354.724 (di cui 81.140 residenti nel solo comune di Pisa) (dato Istat).
https://ebiblio.istat.it/digibib/Demografia/Movimentostatocivile/UFI0044838Pop1953_1954_1955_circ_amm_com_1956.pdf.
7. Relazione di Ciro Sbrana, Per la costituzione dell’archivio della Federazione, Pisa, 3 febbraio 1983 in Archivio.
8. Cfr, F. Ciacci e F. Trevisan (a cura di), Archivi umbri della Democrazia cristiana, Perugia, Soprintendenza archivistica per l’Umbria, 2001.
9. S. Pons e G. Bosman, Gli archivi del partito comunista italiano, in M. Valentini (a cura di), Gli archivi della politica: atti del convegno. Firenze, 11 aprile 2012, Consiglio regionale della Toscana, 2016, p. 33.
10. Per la ricostruzione delle origini e l’evoluzione storica della Federazione pisana del PCI: A. Marianelli, Eppur si muove! Movimento operaio a Pisa e provincia dall’Unità d’Italia alla dittatura, Pisa, BFS, 2016; 12° congresso della Federazione comunista pisana: materiale per uno studio statistico sul partito a Pisa, Pisa, PCI, 1975; Federazione pisana del PCI [a cura della], Documenti e testimonianze sulla fondazione del P.C.I. in provincia di Pisa, [presentazione a cura di A. Marianelli], Pisa, [1981].
11. Il software Archiui è uno strumento che offre dei tracciati compatibili con gli standard nazionali e internazionali, quali ISAAR, ISAD(g), ICCD, Dublin Core, VIAF, FOAF ecc. Esiste anche la possibilità di esportazione del contenuto in formati di interscambio accessibili a lungo termine, come l’EAD3. Il sistema permette ovviamente anche l’interoperabilità verso SIUSA, SIAS e il SAN.




I Comitati di Liberazione Nazionale in Valdinievole

La Valdinievole, come tutta l’Italia intera fra il 1943 e il 1945 subì il passaggio della guerra. I mesi più duri dell’occupazione tedesca; le stragi di civili da parte delle truppe tedesche in ritirata a cui in parte parteciparono vecchi e nuovi fascisti italiani; la nascita e l’ingrossamento del variegato movimento partigiano; il contributo di quest’ultimo alla liberazione della zona insieme alle forze alleate; la nuova occupazione, stavolta anglo-americana, del territorio liberato con l’appoggio dei Comitati di Liberazione Nazionale. Ultimo per ordine di tempo, il tentativo ed i primi passi verso il ritorno ad uno stato di pace e di giustizia che per volontà fu ovviamente diverso dal Ventennio, in alcuni aspetti si fecero invece sentire le continuità con i periodi liberale e fascista ed in altri fu completamente nuovo, frutto della rivoluzionaria Assemblea Costituente. L’elezione di quest’ultima coincise con la fine in tutta l’Italia dell’esperienza ciellenistica. Ma cosa furono in realtà i C.L.N. e come operarono nel delicato periodo della transizione tra guerra (anche civile) e nuova pace man mano che i territori venivano liberati?

La situazione per i civili durante tutto il 1944 in Toscana ed in particolar modo lungo il corso dell’Arno, su cui la linea di battaglia tra Alleati e tedeschi si assesterà per tutta l’estate del 1944, è particolarmente precaria. Le stragi che insanguinano la Toscana in quell’estate testimoniano tanto il tentativo delle forze di occupazione italo-tedesche di eliminare qualsiasi tentativo di resistenza tanto quanto nei fatti colpiscono la popolazione indifesa davanti alla guerra in casa: la Strage del Padule di Fucecchio ne rappresenta l’apice in Valdinievole. É in questo momento delicatissimo che iniziano a lavorare i CLN; spesso già operanti in clandestinità, quindi quando il territorio è ancora sotto occupazione, nel momento della liberazione delle varie località i CLN devono riorganizzare la vita delle comunità partendo dai bisogni primari, come nel caso del Comitato di Alimentazione a Chiesina Uzzanese[1]. Formati ufficialmente da due rappresentanti dei cinque partiti antifascisti riconosciuti, PCI, PSI, Pd’A, DC, PLI, i Comitati in questi difficili mesi avevano il compito di assicurare la distribuzione del cibo ai cittadini che non vi avevano accesso. Nei primi momenti a seguito della liberazione come avviene nel caso di Pescia, attraverso l’uso dei gappisti che non scelsero di seguire la liberazione nelle zone montane, il CLN mantenne il controllo dell’ordine pubblico. Non soltanto, il CLN di Pescia, non appena la città è liberata dai tedeschi, convoca i produttori agricoli della zona per convincerli a completare la trebbiatura e a conferire il grano all’ammasso del popolo perché, causa ruberie, rappresaglie e distruzioni di strade, la popolazione è ormai quasi un mese che non riceve il pane. A Pescia, per ripristinare l’uso dell’acquedotto e della circolazione lungo le strade il CLN sperimenta una pratica innovativa: vengono avviati al lavoro forzato i fascisti repubblicani, i vecchi fascisti e i collaborazionisti dei tedeschi, considerati i maggiori responsabili delle attuali rovine. Di questi, solo i non abbienti furono retribuiti per questo lavoro[2]. Il CLN di Pescia, che insieme a quello di Montecatini rappresentò l’ente guida per tutti gli altri CLN comunali della Valdinievole, convocò per il 21 settembre 1944 una riunione dei sindaci di tutti i comuni valdinievolini. Nell’occasione i CLN dei comuni minori, possono portare alla luce i problemi del loro territorio, trovando intorno ai temi dell’approvvigionamento, della sistemazione dei ponti sui fiumi, la viabilità e le finanze, proposte di soluzioni interessanti. Contemporaneamente il CLN pesciatino nomina una commissione di tecnici incaricata di ripristinare, anche se inizialmente per qualche ora al giorno, la corrente elettrica. L’inverno è alle porte e con la diminuzione delle ore di sole, l’elettricità diventa un bene quasi primario per le abitazioni civili; non soltanto per le abitazioni, l’elettricità è necessaria alla tramvia che collega Pescia con Lucca e fino a poco tempo prima anche con Monsummano. Ormai esautorati di tutti i loro poteri, nel giugno del 1946 i CLN cessano di esistere.

Questa forma di autogoverno nato dalla volontà delle persone di tornare a guidarsi dopo vent’anni di dittatura e due di guerra civile, avrebbe potuto rappresentare un valore aggiunto nella nuova Italia repubblicana? É su questo tema e sull’intera vicenda ciellenistica, intesa come fattiva collaborazione tra ideologie contrastanti, basti pensare al PCI e alla DC, che può ancora oggi essere utile interrogarsi.

[1] Della Relazione morale ed economica ne troviamo copie originali all’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia (ISRPt), all’ Archivio di Stato di Pistoia (ASPt), Comitati di liberazione nazionale della provincia di Pistoia, b. 7, fasc. 9 e alla Sezione di Pescia dell’Archivio di Stato di Pistoia (SASPe), Comune di Pescia postunitario, n. 482, anno 1945, cat. XV, cl. 1, fasc. 6

[2] Verbale dell’adunanza del 12/9/1944 in ASPt, Comitati di liberazione nazionale della provincia di Pistoia, n. 9 , fasc. Verbali delle riunioni del CLN di Pescia

Simone Fanucci ha conseguito la laurea in storia contemporanea presso l’Università degli studi di Pisa, ed è attualmente docente in un istituto secondario di secondo grado della provincia di Pistoia.




Cattolici e fascismo nella Toscana nord-occidentale (1920-1922)

Ritratto mons. Maffi

Grazie all’apertura graduale degli archivi vaticani, la storiografia ha chiarito ormai nelle sue linee essenziali il rapporto tra cattolicesimo e fascismo. Se per quanto riguarda i vertici la relazione è stata restituita alla storia, lo stesso non può dirsi per il piano locale, su cui disponiamo di informazioni lacunose. Il problema emerge chiaramente nel caso toscano, alla cui conoscenza questo scritto vuole contribuire concentrandosi sull’area nord-occidentale della regione prima della marcia su Roma. L’obiettivo è evidenziare, senza pretese di esaustività, i caratteri fondamentali della vicenda, a cominciare dalla preminenza di Pisa – dovuta soprattutto alla presenza del cardinale-arcivescovo Pietro Maffi, il più noto e influente esponente del cattolicesimo in quell’area e uno dei principali sul piano nazionale, al punto da risultare tra i papabili al conclave del 1922.

Gli studi più accurati hanno individuato nel 1921 l’inizio del confronto tra cattolici e fascisti. Se, infatti, in precedenza le due parti si erano sostanzialmente ignorate, dalla primavera del 1921 s’intensificò l’azione squadrista contro le sinistre e, in misura molto più ridotta, i popolari, suscitando proteste e commenti nel mondo cattolico. Reazioni che, è bene sottolinearlo, non giunsero mai a una piena equiparazione tra socialismo (oggetto di una condanna inappellabile) e fascismo (di cui si deplorarono gli eccessi, cioè le violenze contro i cattolici).
Uno sguardo gettato sulla Toscana nord-occidentale conferma la validità sostanziale di questa cronologia, nonostante differenze significative tra le varie diocesi. Il caso Ritratto Gronchipisano spicca per la presenza di due personalità di rilievo nazionale: il deputato e futuro presidente della Repubblica Giovanni Gronchi che, membro dell’ala sinistra del PPI, sarebbe stato sottosegretario di Stato al ministero dell’Industria e del commercio nel governo Mussolini (1922-1923); e il già citato Maffi che, alfiere dell’ala conciliatorista dell’episcopato italiano e in ottimi rapporti con i Savoia, nel 1915-1918 si era distinto per l’appoggio entusiastico allo sforzo bellico, fino a divenire il simbolo dell’unione tra fede e patria. Sotto l’impulso del cardinale, il movimento cattolico raggiunse uno sviluppo considerevole, attestato tra le altre cose dal successo del giornale «Il Messaggero toscano» (l’unico quotidiano della città). A Pisa, inoltre, la solida presenza dei movimenti e partiti “sovversivi” fu contrastata da uno squadrismo assai violento, animato da autentici assassini come Alessandro Carosi e dilaniato da faide interne. Nell’insieme, questi elementi fanno di Pisa un osservatorio di prim’ordine per studiare i rapporti tra cattolici e fascismo nel primo dopoguerra – rapporti tesi, perché agli occhi della cittadinanza Maffi incarnava quel patriottismo di cui le camicie nere rivendicavano l’esclusiva. A dire il vero, da parte cattolica non mancò la volontà di trovare un terreno d’incontro con i fascisti, sulla base dell’antisocialismo e del culto dei caduti: caduti della Grande Guerra, come si vide in occasione delle onoranze al Milite Ignoto, il 4 novembre 1921, cui il cardinale partecipò; e caduti della rivoluzione fascista, come si vide invece durante le esequie degli squadristi Zoccoli e Menichetti nel 1921, legittimate dalla presenza rispettivamente di Maffi e del suo segretario, mons. Calandra. Tuttavia, queste aperture non ebbero l’esito sperato, come emerse nel 1922. In giugno, a Pisa, le camicie nere si piazzarono all’esterno della cattedrale impedendo il regolare svolgimento della tradizionale processione del Corpus Domini e sollevando le proteste del cardinale. In settembre, a Buti, il pievano Cascioni Poli (reduce della guerra e sostenitore del PPI) sparò un colpo di pistola in aria per attirare l’attenzione delle forze dell’ordine e mettere in fuga i fascisti che nottetempo stavano tentando di irrompere nella canonica, allontanandosi poi dal paese per ragioni di sicurezza. Si tratta, com’è evidente, di episodi limitati ma utili a comprendere gli attriti che a Pisa caratterizzano i rapporti tra cattolici e fascisti fino al termine della faida Santini-Morghen e per qualche verso anche dopo.

Ricostruire le vicende delle altre diocesi risulta più complesso, date la mancanza tanto tra il clero quanto tra i laici delle personalità di rilievo nazionale e la debolezza del movimento cattolico nelle zone dove le sinistre erano più radicate. A Livorno, ad esempio, la voce cattolica più autorevole era rappresentata dal «Fides» – un bisettimanale che, cessato al termine del 1921, nella veste grafica e nelle idee (rigidamente integriste, in linea con il pensiero del suo direttore don Giovanni Casini) rivelava una posizione non certo all’avanguardia, preoccupata dalle trame di massoni, ebrei e socialisti più che dal fascismo[1].
Nemmeno a Massa la situazione era favorevole al movimento cattolico, che però si mostrò più battagliero. Ai contrasti tra la curia vescovile e i popolari si sommavano infatti le vivaci polemiche tra il settimanale fascista «Giovinezza» e il corrispettivo cattolico «La Difesa popolare» che, diretto dall’avv. Carlo Perfetti, aveva come motto: «Lavoratori di tutto il mondo, unitevi in Cristo». Lo scontro culminò nel marzo-aprile 1922, quando i fascisti parlarono di «pericolo clerico bolscevico», accusando il PPI di essere una «forza antinazionale» sostenuta da sacerdoti «traditori della nostra fede». Parole respinte con sdegno dalla controparte, secondo cui se i principi cristiani fossero rimasti confinati nelle chiese per timore della violenza, le «masse sfruttate» non avrebbero mai ottenuto la «giusta mercede» né l’Italia avrebbe ritrovato la pace[2].
Ancora diversa l’atmosfera a Lucca, dove la Chiesa esercitava un’influenza considerevole sulla vita politica e sociale. Qui, non a caso, i fascisti capeggiati da Carlo Scorza agirono con cautela. Il loro obiettivo era chiaro (separare i cattolici dal PPI) ma di difficile realizzazione, perché il foglio cattolico di riferimento (il settimanale «L’Esare») respinse con fermezza qualsiasi ipotesi di doppia militanza; inoltre, nel maggio 1921 il bollettino diocesano precisò che i cattolici potevano esercitare attività politica ma non militare nei partiti liberali né accettare i principi del socialismo, lasciando come unica opzione il PPI. Pur a fronte di un’opposizione ferma, prima della marcia su Roma le camicie nere evitarono di avviare una vasta campagna di violenze contro i cattolici, limitandosi a rare aggressioni e qualche scritta sui muri. In questo senso, il caso lucchese risulta emblematico del livello di violenza nei rapporti tra cattolici e fascisti, che a queste date restava ancora contenuto.

Ritratto mons. Simonetti

Ritratto mons. Simonetti

L’eccezione maggiore è costituita dal delitto di Collodi, frazione di Pescia, che a conoscenza di chi scrive costituisce l’episodio più grave occorso nell’area in questione. Qui nell’ottobre 1921 i fratelli Lamberti, militanti fascisti e proprietari di una cartiera chiusa a causa di uno sciopero, uccisero a colpi di pistola Ubaldo Ciomei, consigliere comunale di Pescia e attivista dell’Unione del lavoro di Lucca, dandosi poi alla latitanza. Il settimanale cattolico locale, «Il Popolo di Valdinievole», condannò con fermezza i responsabili e presentò la vittima nelle vesti di «martire», senza che si giungesse peraltro a una vera e propria rottura con il fascismo. Al risultato contribuì il vescovo di Pescia Angelo Simonetti, i cui inviti alla pace e alla fratellanza favorivano di fatto il partito più forte; inoltre, fin dal dicembre 1920 egli aveva dichiarato in una lettera a «Il Popolo di Valdinievole» che «la vera azione cattolica non è né deve essere per sé e per i suoi fini politica, né deve perciò confondersi affatto con quella di un partito» – una sconfessione del PPI che certo non aiutò ad arginare l’ascesa del fascismo nella diocesi .

La formazione del governo Mussolini, che includeva esponenti popolari, fu accolta dai cattolici se non con gioia almeno con fiducia in un avvenire più ordinato. I mesi e gli anni seguenti videro in realtà un aumento sensibile degli attacchi contro di loro, senza che per questo si verificasse un ripensamento. Anzi, com’è noto il rappresentante principale dell’antifascismo cattolico, don Sturzo, fu costretto all’esilio dai superiori; il PPI fu sciolto; e sulla memoria di don Minzoni, il parroco ferrarese ucciso dagli squadristi nell’agosto 1923, calarono censura e oblio. Sull’esito incise la minaccia del manganello, certo, ma anche elementi di più lungo periodo, sedimentati a fondo nella mentalità cattolica, come l’insistenza sui doveri più che sui diritti e la convinzione che in mancanza di un accordo con l’autorità politica la missione della chiesa sarebbe fallita. Per queste ragioni, benché consapevoli del carattere agnostico e violento del fascismo, nella grande maggioranza dei casi i cattolici lo ritennero un male minore rispetto al nemico tradizionale: il socialismo. Questa prospettiva caratterizzò tutto il pontificato di Pio XI, che solo negli ultimi mesi di regno cominciò a distaccarsene, con una scelta che peraltro il successore si guardò bene dal sottoscrivere. Solo le sconfitte patite nel corso della Seconda guerra mondiale convinsero il papato e i cattolici italiani a voltare definitivamente le spalle a Mussolini.

Nota:
1. Cfr. ad es. La mala bestia, in «Fides», 16 gennaio 1921.
2. Il cinquantenario della morte di Giuseppe Mazzini ha visto Dio ridotto a portabandiera del P.P. e il popolo insidiato dalla coppia Sturzo-Lenin, in «Giovinezza!», 19 marzo 1922; «Giovinezza» sulle furie!, in «La Difesa popolare», 1° aprile 1922, p. 2.

L’articolo è la relazione presentata in occasione del seminario organizzato il 20 ottobre 2022 dalla Biblioteca F. Serantini dal titolo 1922: Pisa e la Toscana tra fascismo e antifascismo.




Il caso di Shangai a Livorno, 1930-2017.

Shangai dal secondo dopoguerra ad oggi

Shangai, nonostante le sue origini, e forse proprio per via di esse, era un quartiere caratterizzato da una forte solidarietà e da un grande senso di appartenenza dei suoi abitanti, fin dai primissimi anni. [1]

In particolare, a partire dagli anni ’70, una marcata coesione sociale ha caratterizzato la sua storia. Le ragioni di questo sono da ricercarsi nelle attività svolte dalla sezione del PCI della zona, dalle suore di San Giuseppe dell’Apparizione, dal parroco locale, Don Biondi: si tratta di realtà che erano riuscite a promuovere attività culturali e ricreative, anche di stampo politico, incentivando cooperazione, una buona convivenza e un senso di comunità tra gli abitanti del quartiere. [2]

Shangai negli anni Sessanta-Settanta

Shangai negli anni Sessanta-Settanta

Una delle esperienze che ha fatto vivere a Shangai uno dei suoi periodi più positivi è stata la creazione del “Punto incontro donna”, voluto dalle donne di quartiere, su proposta della sezione locale del Pci, per avere un luogo dove ritrovarsi. [3] Dalla sua nascita, nel 1985, il quartiere tutto è stato altamente coinvolto in numerosissime iniziative come rassegne teatrali, concerti, corsi di cucito, sfilate di quartiere, feste di carnevale, mercatini, gite di gruppo e molto altro. Nel video prodotto dall’ISTORECO di Livorno[4], in collaborazione con le Scuole Fermi di Shanghai, nel 2020, sono state raccolte le testimonianze di abitanti del luogo che hanno vissuto e gestito in prima persona queste attività. Anche le foto donate da Luana di Dio, anima del “Punto incontro donna”, raccontano una vita di quartiere vivace e culturalmente attiva. Anche nelle due interviste rilasciate, tra il 2020 e il 2022, alla prof.ssa Catia Sonetti, Direttrice dell’ISTORECO di Livorno, Luana di Dio e Manuela Alfaroli hanno rievocato proprio questa storia. A giugno 2022 l’ISTORECO ha organizzato, insieme all’ARCI di Livorno, un’iniziativa molto toccante, in cui sono state esposte diverse fotografie delle varie iniziative portate avanti dal Punto Incontro Donna, e durante cui hanno preso la parola alcune delle donne che sono state, tra il 1985 e il 2017, coinvolte personalmente nella gestione di tali attività. La passione e l’impegno che queste hanno investito per portare avanti idee di cooperazione sociale e solidarietà in un quartiere tra i più poveri di Livorno erano tangibili nei loro ricordi e nelle loro parole. E’ stato molto interessante anche il collegamento online con la scrittrice Claire Hunter, dalla Scozia, che ha illustrato i molti punti in comune tra alcune delle storie raccontate nel suo libro “I fili della vita. Una storia del mondo attraverso la cruna dell’ago” (2020, Bollati Boringhieri) in cui riflette sulla straordinaria importanza del cucito e della sua diffusione e trasversalità a livello sociale, in tutto il mondo e in tutte le culture.

Purtroppo la chiusura del centro donna, avvenuta nel 2017, ha provocato una regressione sociale del rione. I molti, ripetuti, tentativi da parte dell’amministrazione comunale di integrare Shangai col resto della città tramite progetti rigenerativi[5], Bandi ministeriali[6], demolizioni di alcuni dei vecchi blocchi e ricostruzioni di nuovi appartamenti e scuole pubbliche (progetto ancora in corso)[7] si sono rivelati poco risolutivi sia a breve che a lungo termine. Oggi infatti, con la mancanza di associazioni ed altre realtà di quartiere come quelle che hanno operato a Shangai tra il 1970 e il 2017, gli investimenti comunali e i tentativi di de-ghettizzare il quartiere e di reintegrazione dello stesso con il resto della città sono riusciti a raggiungere solo scarsi risultati perché il rione ha via via perso quella coesione sociale interna che lo ha sempre caratterizzato, tramutandosi in parte in una zona di spaccio di droga e di marcato degrado sociale. [8]

Conclusioni

La storia di Shangai dalla sua nascita ad oggi, la traiettoria che ha percorso il quartiere, rispecchia molto bene quanto espresso da David Forgacs in Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi (2015): si tratta di una delle molte storie di periferie ai margini sociali e geografici delle città italiane, nate, osservate e rappresentate attraverso uno sguardo “esterno”, come un luogo in totale antitesi alla raffinatezza, la ricchezza, la bellezza che invece rappresenta il centro cittadino. E’ interessante vedere come, grazie ad attività, progetti, associazionismo proattivo come quello del “Punto incontro donna” per esempio, si possa quantomeno tentare di ribaltare lo sguardo da cui si osserva il quartiere, insieme alle sue sorti. Anche le immagini che raccontano da dentro quella che era la vita di Shangai e degli “shangaini” in quegli anni sembrano narrare una storia diversa da quella classica di quartiere periferico, popolare, povero e ghettizzato. Esse infatti mostrano storie di persone che partecipavano attivamente alla vita del proprio rione, che contribuivano per quello che era loro possibile al senso di comunità e di sostegno reciproco. Il “Punto Incontro Donna”, così come altre realtà del secondo dopoguerra, volute e dirette dagli abitanti stessi del rione, sono riusciti a creare una vera e propria comunità, a dare vita, a livello culturale e sociale, a uno dei quartieri più popolari e poveri della città.

 La prima parte dell’articolo.

nota:

[1] Susini M., Shangai…,cit., p.23.

[2] Susini M., Shangai…,cit., pp.25-79.

[3] https://iltirreno.gelocal.it/livorno/foto-e-video/2015/03/06/fotogalleria/il-punto-incontro-donna-dishangai- compie-30-anni-1.10992853

[4] Video prodotto da ISTORECO, intitolato “Shangai. Storie e memorie di quartiere” all’interno del progetto “La città dei libri sognanti” della Biblioteca Comunale di Livorno https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2021/06/03/news/la-citta-dei-libri-sognanti-alla-biblioteca- stenone-1.40349850

[5] https://www.comune.livorno.it/_livo/uploads/CdQ%20II%20estratto.pdf

[6] Vedi progetto “La città dei libri sognanti” della Biblioteca Comunale di Livorno https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2021/06/03/news/la-citta-dei-libri-sognanti-alla-biblioteca- stenone-1.40349850

[7] Vedi progetto di riqualificazione anche dei poli scolastici di Shangai https://2017.gonews.it/2015/01/17/quartiere-shangay-inaugurata-la-nuova-scuola-materna-in-via-stenone/

[8] Vedi progetto ISTORECO Livorno “Storie e memorie di Shangai” in

https://www.facebook.com/istitutostorico.livorno/videos/3641411932582974




Il caso di Shangai a Livorno, 1930-2017.

Introduzione

L’obiettivo di questo breve articolo è quello di ripercorrere la storia del quartiere di Shangai di Livorno, partendo dalla sua nascita, alla fine degli anni ’20 del ‘900, per arrivare ai giorni nostri.
Il focus sarà quello di determinare le ragioni che hanno portato alla nascita di un quartiere problematico, e riflettere su quelle azioni, quelle scelte che, nel tempo, sono riuscite ad offrire nuove opportunità e possibilità per i suoi abitanti. In particolare emergerà che il periodo più positivo vissuto dagli abitanti del quartiere corrisponde a quello che va dagli anni ’70, con l’inaugurazione della sezione del PCI di Shangai[1] fino al primo decennio degli anni 2000. Durante questi anni, infatti, diverse associazioni e realtà religiose e politiche, portate avanti dagli stessi abitanti di Shangai, hanno risollevato le sorti di un quartiere difficile sotto molti punti vista, promuovendo senso di comunità, cooperazione e coesione sociale. Nel 2017 è stato chiuso il “Punto Incontro Donna” di Shangai, uno degli ultimi e più saldi pilastri sociali del quartiere, e la situazione già precaria del popolare e degradato rione, ha iniziato a peggiorare gradualmente nonostante i molti investimenti e tentativi di miglioramento da parte dell’amministrazione comunale.

Prima delle origini

Nell’area che corrisponde oggi al quartiere, fino all’inizio del ‘900 si trovavano “solo orti, campi, acquitrini, e rovi”[2]. Era una zona conosciuta dai livornesi soprattutto per la strada che portava al cimitero cittadino, la via del Camposanto. Vi abitavano poche persone, e vi erano insediate alcune fabbriche come la Parodi dove si lavorava l’olio, la Gallinari che produceva coloranti e bitume e la famosa fabbrica della Richard Ginori. Era quasi un’area verde di campagna, perfino con un corso d’acqua, il Rio Cigna[3].

Origini

La nascita del quartiere risale al 1930, quando l’Istituto Case Popolari di Livorno iniziò la costruzione di blocchi abitativi detti “popolarissimi”[4].
La decisione di costruire questo nuovo quartiere a nord della città, che sembra prendere il nome proprio da quanto lontano, disagiato e sovraffollato fosse, in richiamo anche alla città cinese, mancante di tutto quello che invece era presente nel centro, è da ricollegarsi addirittura alla fine dell’800. Fu allora infatti che la questione dei fabbisogni abitativi iniziò ad assumere sempre maggiore importanza. La Livorno postunitaria infatti era in espansione, con un numero crescente di iniziative imprenditoriali. Il commercio portuale fioriva, ma soprattutto la città necessitava un “riassetto organico edilizio del degradato centro cittadino”[5]. Le epidemie di colera nei blocchi del centro (intorno alla centralissima attuale via Grande) erano estremamente comuni, a cavallo tra ‘800 e ‘900, proprio in questi “fatiscenti e insalubri edifici del centro… occupati da miserabili che non possono certamente permettersi di procurarsi una casa in buone condizioni”[6].
In realtà questa necessità di alleggerire il centro abitato da “miserabili” aveva anche delle motivazioni di tipo politico. Nel 1922 i fascisti conquistarono violentemente il Municipio, costringendo il sindaco Mondolfi e l’intera giunta a dimettersi[7]. Solo tre anni prima, nel 1919, vi erano state proteste e saccheggi nel centro cittadino per il caroviveri. Quindi per evitare il ripetersi di tali eventi, il nuovo governo cittadino nel ’26 decise di cedere a titolo gratuito terreni per case popolari da costruire in vista dello sventramento dei blocchi “insalubri”, abitati da persone difficili da tenere sotto controllo, del centro. Questi appezzamenti di terreno comunale erano stati prima (nel 1923 circa) cedute ad associazioni di combattenti, di madri o vedove di guerra che tuttavia non riuscirono ad utilizzarli e dovettero restituirli al Comune, che a sua volta li cedette all’Istituto Case Popolari[8]. Inoltre le case “popolarissime” di Shangai nacquero all’interno della politica di disurbanizzazione, ovvero quella che l’architetto Calza-Bini, presidente dell’I.C.P. di Roma aveva esposto in un’intervista al “Giornale d’Italia” nel 1928 in cui affermò che tutti coloro che non avevano necessità di stare in città dovevano essere trasferiti in periferia tramite la costruzione, da parte dei vari istituti di case popolari, di nuove case in parti periferiche, agricole e/o industriali, delle città. In particolare Calza-Bini nominò in quegli anni una commissione che pubblicò nel 1926 un testo intitolato “Per la costruzione di case popolari rapide ed economiche”, che descriveva i casamenti a cortile chiuso di Shangai[9].
Costanzo Ciano, mano destra di Mussolini, e livornese, spese molte energie per dare l’avvio ad un’edilizia popolare per quei ceti costretti a lasciare il centro e andare nelle nuove abitazioni[10], soprattutto per soddisfare i suoi interessi economici personali[11].
Dallo sventramento dei palazzi insalubri del centro, le famiglie furono traferite nelle abitazioni che iniziarono ad essere costruite a Shangai, caratterizzate dalle “stimmate del degrado e della bassissima qualità abitativa”[12]. È un fenomeno molto comune nelle vicende abitative dei poveri: i bassifondi scompaiono in un posto e riappaiono in un altro[13]. Si trattava di caserme, costruite con materiali scadenti, dove andarono ad abitare famiglie molto povere e numerose. Non solo i materiali delle costruzioni erano di pessima qualità, anche l’impianto delle stesse era di basso livello (quasi sempre l’unico servizio igienico si trovava direttamente in cucina, le abitazioni erano mono affaccio).
I blocchi continuarono ad essere costruiti negli anni successivi, senza però un piano di sviluppo di servizi, infrastrutture e stradario adeguato al popoloso nuovo quartiere che rimase quindi isolato dal resto della città[14]. I bambini inoltre non avevano nemmeno un oratorio dove andare a giocare, anche se almeno la prima scuola del quartiere, le “Campana”, fu costruita pochi anni dopo il primo blocco abitativo, sempre negli anni ’30. Dopo la seconda guerra mondiale, infine, venne terminato il cosiddetto blocco delle “signorine” perché’ subito occupato da prostitute, attirate dalla presenza di una grande base di soldati americani nelle vicinanze[15].

[prosegue]

NOTE: 1. Susini Marco, Shangai:
un quartiere e la sua gente, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 2004. p.31.
2. Ibidem, p.17.
3. Ibidem, p.18.
4. Ibidem, p.19.
5. Ulivieri Denise, “Primato livornese: edilizia popolare d’autore”, in Nuovi Studi Livornesi, Vol. XIX- 2012, Debatte editore, Livorno. pp.99-101.
6. Ibidem, pp.97-120.
7. Mazzoni Matteo, Costanzo Ciano, il fascismo a Livorno, in Quaderni di Fare storia, Anno XIII – N.2-3 maggio –
dicembre 2011, I.S.R.Pt Editore, Pistoia. p.22.
8. Bartolotti Lando, Livorno dal 1748 al 1958. Profilo storico urbanistico, Di Lando Bortolotti, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 1977, p.327.
9. Ibidem, p.349.
10) Ulivieri D., Primato…,cit., p.102.
11. Mazzoni M., Costanzo Ciano…,cit., pp.21,22.
12) Susini M., Shangai…,cit., p.19.
13. Forgacs David, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi, Ed. Laterza, Roma-Bari, 2015. p.41.
14. Pia Margherita, La riqualificazione dei quartieri nord in I programmi per i quartieri nord di Livorno. Il contratto di quartiere “Corea”, in Qualità e Città/1, a cura di Landini Franco, ALINEA editrice, Firenze, 1999, p.11.
15) Susini M., Shangai…,cit., pp.19-22.




Resistenza e Liberamuratoria

Nei primi mesi del 1954, Carlo Ludovico Ragghianti pubblicava il libro Una lotta nel suo corso [1], una raccolta ragionata di carte e documenti interni al Partito d’Azione, con la quale si proponeva di far luce sul contributo dato alla Resistenza dalla formazione politica azionista [2]. Il critico lucchese intendeva ovviare un ridimensionamento di alcune delle componenti resistenziali che più avevano sostenuto logisticamente e materialmente la lotta di liberazione, andando a rimarcarne i meriti e a definire i contorni di alcuni dei suoi protagonisti meno conosciuti. In tal contesto, alcune pagine della pubblicazione si soffermarono su un «industriale pratese, generosa tempra d’uomo e nobile patriotta, precocemente defunto»[3]: Adon Toccafondi. Ragghianti ne descrisse l’impegno per la Resistenza a Prato e a Firenze, ne chiarì la collaborazione con il CTLN e lo ricordò tra i primi amministratori dei mesi successivi alla liberazione regionale. Sindaco di Vernio, paese dell’Alta Valle del Bisenzio, Toccafondi si distinse per il suo impegno tanto nella cosa pubblica quanto nel tessuto associativo provinciale. Di estrazione democratica e repubblicana, antifascista di lungo corso, Adon fu iscritto alla Massoneria di Palazzo Giustiniani e, in questa veste, seppe dar nuova vita alla loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato, la prima ad essersi opposta al fascismo nel 1922. In tale veste, egli si configuròcome l’elemento particolare di passaggi oggi in parte dimenticati ma ben presenti nelle dinamiche resistenziali, quali i rapporti e la comunanza di valori tra Liberamuratoria e Resistenza, che non a caso conobbero alcune interessanti traiettorie, di cui Francesco Fausto Nitti e il repubblicano Menotti Riccioli furono tra gli esempi più conosciuti. In questa prospettiva deve essere letta la riscoperta di una figura quale quella di Adon Toccafondi partigiano, massone, primo sindaco della Vernio liberata. Massoneria e Resistenza, Lotta contro la dittatura e ricerca della Vera Luce si incontrano e si intrecciano in questa figura di partigiano che sempre si operò per il bene comune. Una figura in buona parte persa nelle nebbie della storia, il cui studio biografico sembra tutt’altro che un esercizio privo di valore.

Chi era dunque Adon Toccafondi? Adon Toccafondi nacque a San Quirico di Vernio, nell’alta Valle del Bisenzio, il 13 settembre 1902 da Alberto Lorenzo, ex carabiniere a cavallo e gestore di una cava di materiale edilizio e da Oliva Marchi [4]. Attraverso l’impresa del padre, la famiglia era in contatto con i noti industriali della vallata, Lemmo Romei e Angelo Peyron e fu molto probabilmente grazie a questo legame che il giovane Adon fu portato a studiare presso l’allora Regia Scuola delle Arti Tessili e Tintorie ovvero l’odierno Istituto Tullio Buzzi. Fu nel clima interventista dell’istituto che Toccafondi ebbe a sviluppare: da una parte una solida conoscenza della chimica tintoria; dall’altra, secondo le idee dello stesso direttore Tullio Buzzi, un patriottismo con intense sfumature repubblicane. Un patriottismo che, tuttavia, non sfociò mai nel becero nazionalismo ma che assunse tutta la caratura morale della democrazia, della concezione mazziniana dell’emancipazione del popolo. Caratteristiche queste di cui Toccafondi ebbe a dare prova in almeno tre ambiti: nella lotta contro il fascismo, nell’amministrazione della cosa pubblica (del comune) nell’opera interna all’Obbedienza.
Licenziato in chimica nell’ottobre 1920, egli ebbe ben presto a scontrarsi con la violenza squadrista [5]. Il caso avvenne nella vallata bisentina dei primi anni Venti, laddove le rivolte annonarie del 1919furono parallele a una ripresa dei lavori per la Direttissima Prato-Bologna. Nel contesto dell’alta valle, il cosiddetto “biennio rosso” si piegava nella prospettiva degli scioperi nei cantieri per le scarse retribuzioni e nella temporanea paralisi dei lavori nell’inverno 1920-1921. Posto che, in vallata, i prodromi del fascismo si manifestarono sin dall’estate del 1920, la reazione squadrista alle iniziative operaie si concretò a partire dal 17 aprile 1921, quando la prima vera spedizione in territorio pratese e bisentino causò due morti e numerose violenze. A Vernio e nell’intera Valle del Bisenzio, l’azione fascista proseguì senza soluzione di continuità e, già nel luglio successivo, la giunta socialista di San Quirico fu costretta a dimettersi sotto le pressioni delle camicie nere. Fu in tal contesto che il fascismo bisentino si interessò anche di Toccafondi. Le sue profonde convinzioni repubblicane lo resero un bersaglio per lo squadrismo verniotto. Nel giugno 1921, gli squadristi lo affrontarono in pubblico e gli strapparono il distintivo riportante l’effige di Mazzini. Un fatto identico si ripeté nel successivo settembre, nel contesto della repressione fascista contro lo sciopero tessile decretato in opposizione della riduzione dei salari.
Non sembra allora casuale che, pochissimi mesi dopo, egli trovasse lavoro nelle industrie del Nord Italia, prima a Monza, poi a Sesto San Giovanni, poi ancora sul Lago di Como (dove ebbe a instaurare una propria impresa) e, infine, nel Bergamasco, a Caravaggio. Ma non si trattò solo di un progresso professionale. Il Nord Italia portò anche a una sua maturazione personale e morale. Durante la sua permanenza in Lombardia ebbe a sposarsi ed a metter su famiglia. Ma, soprattutto, fu in Lombardia che Toccafondi entrò in maniera attiva nel movimento antifascista clandestino di Giustizia e Libertà, grazie al repubblicano Arnaldo Guerrini e a Carlo Ludovico Ragghianti.
Manifesto del Comune di Vernio 1 novembre 1944La Lombardia fu insomma la premessa alla lotta resistenziale. Tornato alla fine degli anni Trenta in Toscana fu grazie a Toccafondi che nel 1940 fu possibile riallacciare dei rapporti tra i gruppi socialisti e repubblicani tra Firenze e Prato. Lo stesso Ragghianti ebbe a ricordare l’“intemerato repubblicano” Toccafondi come uno dei protagonisti della locale Resistenza [6]. Adon fu tra i presenti al congresso di formazione del Partito d’Azione fiorentino e fu in contatto con tutti i suoi principali dirigenti. Assunto il nome di battaglia di “Leonardo”, egli dette un importante contributo alla stampa clandestina per la quale procurò sia macchinari, sia i materiali per la pubblicazione del periodico azionista «La Libertà». Come ugualmente ebbe rilevanza la sua collaborazione con radio Co Ra, la Commissione Radio guidata da Enrico Bocci, il cui ruolo di comunicazione con le forze alleate fece assumere all’attività di Adon contorni più marcati [7]. In particolare, il suo ruolo di collegamento assunse rilievo a margine della comunicazione tra il gruppo di Bocci e gli Anglo-americani, per l’invio da parte di questi ultimi di rifornimenti e munizioni. Fu il partigiano “Leonardo” che svolse il ruolo di collegamento tra il campo di ricezione degli aviolanci, nel Pratese, nei pressi di Montemurlo e il gruppo fiorentino. Per altro, la tragica fine della radio Co.Ra. gruppo Bocci, scoperta pochi giorni dopo la realizzazione del primo dei lanci di materiale e uomini, rischiò di colpire anche Adon. Toccafondi scampò di poco alla cattura tedesca grazie alla segnalazione di Vincenzo Cangioli, suo conoscente e datore di lavoro del fratello.
Il ruolo svolto da lui svolto all’interno della Commissione Radio rimandava all’importanza della sua figura nell’organizzazione della Resistenza nel Pratese. Almeno due sono i meriti da segnalare. Anzitutto, Adon Toccafondi fu il principale responsabile del reclutamento di personaggi chiave della Resistenza a Prato quali Mario Martini, il capo militare delle truppe partigiane, e l’intero gruppo dirigente del Partito d’Azione (Roberto Cecchi, Rodolfo Corsi, il prof. Salinari, Cesare Grassi…). Ma soprattutto, Toccafondi fu l’ufficiale partigiano di collegamento tra il CLN di Prato e il CTLN posto a Firenze. Quando, dopo i tragici fatti di Figline, Prato fu liberata, fu Toccafondi assieme a pochi altri a guidare le truppe alleate e partigiane nei territori del circondario. Di sicuro furono lui, il dott. Mensurati e Franco Calcagnini (entrambi appartenenti come Toccafondi al Partito d’Azione) ad entrare per primi a Vernio.
Il paese di Vernio fu il secondo contesto in cui si ravvide l’impegno di Toccafondi per la democrazia e la libertà. Qui egli fu nominato sindaco con l’accordo di tutte le forze del CLN locale su indicazione delle autorità refgionali. Egli si impegnò per la ricostruzione di un paese devastato che ebbe anche ad affrontare tragedie personali come il crollo della galleria di Saletto. Durante i lavori di ripristino della viabilità ferroviaria sulla linea Firenze-Prato-Bologna, all’imbocco della galleria di Saletto, un improvviso crollo travolse una cinquantina di operaie e operai provocando 32 vittime [8]. Adon si pose in contatto sin dal giorno successivo alla tragedia con il CTLN e il CLN di Prato per organizzare una raccolta fondi in memoria delle vittime, la quale produsse 25.000 lire, che il Comune impiegò in parte a saldo dei funerali. Ma egli ebbe anche meriti più generali. Sotto la sua amministrazione fu approntato un piano di recupero e di ricostruzione, fu garantito l’approvvigionamento alle popolazioni colpite dalla guerra, fu approntata la ricostruzione materiale delle strade e degli edifici, nonché del locale acquedotto. Lasciò l’incarico nel luglio 1945, ma a tutt’oggi la testimonianza di Carlo Rossi, tra i suoi successori, lo descrivono come «un uomo di valore» [9]. Di sicuro, nella sua qualità di amministratore, le carte archivistiche lo restituiscono come un uomo della collaborazione che seppe relazionarsi con tutte le forze politiche. Ed ancora oggi riluce una lettera del comunista Carlo Ferri in cui è definito il suo impegno per la Vallata come «impagabile» [10]. Del resto, «chiamato a più alto incarico» [11], Toccafondi fu posto sin dall’inizio del 1946 alla direzione provinciale della United Nation Relief and Rehabilitation Admnistration (UNRRA), l’organismo alleato rivolto al sostegno della locale Ricostruzione.
Adon Toccafondi inizio anni QuarantaMa Toccafondi fu anche appartenente alla massoneria e, in questa veste, espresse una volta in più la sua tenuta morale. Affiliato dal 1944 presso la loggia Michelangiolo di Firenze, si impegnò per il risveglio di quella che a livello nazionale fu la prima istituzione liberomuratoria ad essersi pronunciata pubblicamente contro il fascismo: la loggia “Giuseppe Mazzoni” di Prato. Adon riprese i contatti con antichi appartenenti come Amedeo Strobino e Nazzareno Cecconi e di concerto con il venerabile della Michelangiolo, Anton Giulio Magheri e con l’oratore, Menotti Riccioli, diede vita a un primo triangolo pratese da essa dipendente. Dalle carte d’archivio ben emerge come il triangolo dovesse evolvere in un’officina ispirata dai «principi che avevano informato la gloriosa Giuseppe Mazzoni» [12]. All’inizio del 1947, lo stesso Riccioli si aggiunse ad altri quattro fratelli Spartaco Turi, Italo Baragli, Salvatore Bucca, Cesare Conti per risvegliare la loggia Mazzoni. Una loggia che dalle biografie dei suoi stessi appartenenti assume un carattere intimamente antifascista e incardinato sui valori della democrazia e della libertà. Qui basti ricordare la lunga militanza di Menotti Riccioli nell’antifascismo repubblicano e aggiungere tra i primi aderenti all’officina pratese (successivi ai fondatori) Rodolfo Corsi, vicepresidente del locale CLN.
Di li a poco Adon sarebbe mancato in un terribile incidente stradale. Ma di lui sarebbe rimasto il ricordo che Menotti Riccioli ebbe a fare del suo «instancabile impegno» [13]. Toccafondi fu un personaggio che in ogni suo spunto biografico lottò per i valori di libertà, unità e democrazia. La commemorazione accorata fattane tanto in pubblico, «in una piazza San Marco completamente piena di gente» [14] quanto nei lavori di loggia vale a chiarirne «le sue nobilissime qualità»: «onestà, sincerità, immenso amore per la Famiglia, per la Patria, per l’umanità – poteva esser letto nei verbali dell’Obbedienza – ispiravano la sua vita pratica» [15], facendo di Adon «uno di quei vivi focolai d’umanità che tengono in alto i valori dello spirito».

Volendo far rimanere agile la lettura, si informa che laddove non indicato diversamente in nota, i riferimenti al testo sono ripresi da A. Giaconi, La vera luce della democrazia. Adon Toccafondi, antifascista, partigiano, massone, Firenze, Pontecorboli, 2022.

Note al testo:

[1] Una lotta nel suo corso. Lettere e documenti politici e militari della Resistenza e della Liberazione, a cura di L. Ragghianti Collobi e S. Contini Bonacossi, Venezia, Neri Pozza, 1954.

[2] Cfr. A. Becherucci, Le delusioni della speranza. Carlo Ludovico Ragghianti militante di un’Italia nuova, Milano, Biblion, 2021, pp. 154-155, 165-166.

[3] Una lotta nel suo corso, cit., p. 354.

[4] Comune di Vernio, Ufficio di Stato Civile, Registro degli atti di nascita, a. 1902, atto n. 186.

[5] Per i seguenti dati sul fascismo pratese e bisentino, cfr. A. Bicci, Prato 1918-1922. Nascita e avvento del fascismo, Prato, Medicea Firenze, 2014, pp. 120 e ss..

[6] C.L. Ragghianti, Disegno della Liberazione italiana, Pisa, Nistri Lischi, 1962, p. 307

[7] Sul ruolo e sulla vicenda della Co.Ra. gruppo Bocci, cfr. G. La Rocca, La “Radio Cora” di piazza D’Azeglio e le altre due stazioni radio, Firenze, Tip. Giuntina, 1985. Per un’efficace sintesi cfr. F. Fusi, Il servizio Radio CO.RA. e il suo contributo alla lotta di Liberazione, in «Toscana Novecento. Portale di Storia Contemporanea», https://www.toscananovecento.it/custom_type/il-servizio-radio-co-ra-e-il-suo-contributo-alla-lotta-di-liberazione/, ult. consultazione 14-11-2022.

[8] Cfr. La Direttissima ferita. La ferrovia Firenze-Bologna, 1944-1946, Vaiano, CDSE della val di Bisenzio, 2009, pp. 48-69.

[9] Testimonianza di Carlo Rossi, partigiano comunista e già sindaco di Vernio dal 1964 al 1983, del 24 aprile 2019.

[10] Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, CLN di Prato, b. 5, f. 4, appunto di Carlo Ferri presidente del sottocomitato di Vaiano, novembre 1944.

[11] Testimonianza di Carlo Rossi, cit.

[12] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 2 febbraio 1947.

[13] Ivi, 15 gennaio 1948.

[14] Testimonianza di Carla Ignesti Toccafondi, figlia di Adon, il 28 novembre 2019.

[15] Archivio Storico della Loggia “Meoni e Mazzoni”, Verbali della tenuta di primo grado, seduta del 22 novembre 1947.

 




I fascisti senesi alla marcia su Roma

Quando scattò la fase operativa del disegno eversivo della marcia su Roma, il fascismo senese aveva assunto da vari mesi il controllo quasi completo della provincia di Siena. Basta dire che delle  amministrazioni comunali a guida socialista, elette nel 1920, ne sopravvivevano solo tre. Le altre ventisei erano cadute, una dopo l’altra, sotto le bastonature e le minacce dello squadrismo. I sindaci e le giunte erano state sostituite da commissari prefettizi. Tutte le Case del Popolo avevano subito assalti, danneggiamenti, incendi.  Ampio era il consenso di cui i fascisti godevano nelle istituzioni e nei corpi separati dello Stato.

Nel racconto costruito in seguito alla conquista del potere, il fascismo senese si fregiò di un articolo de “Il Popolo d’Italia” che lo indicava come il primo ad insorgere in Italia. In realtà in più di un capoluogo di provincia – da Cremona a Pisa, per limitarsi a due soli esempi – si verificò una sorta di corsa ad anticipare l’inizio del moto eversivo previsto per il 28 ottobre.

Prime o no che siamo state, le centinaia di camicie nere concentratesi a Siena di fronte alla sede provinciale del PNF in piazza del Carmine, si mossero nel tardo pomeriggio del 27 ottobre dirigendosi alla Fortezza di S. Barbara e poi al Distretto militare di S. Chiara dove si impadronirono di trecento fucili, di quattro mitragliatrici e di munizionamento.

La complicità neppure mascherata del tenente colonnello Enrico Nadalini, comandante dei fanti dell’87°, la conseguente “neutralità” arrendevole di quasi un migliaio di soldati e di una settantina di ufficiali presenti nelle caserme, l’inerzia benevola dei 250 carabinieri del maggiore Vittorio Calcaterra dislocati sul territorio provinciale, la resa del prefetto Mauro Michele Bertone, motivata con la “scarsità” (?) di forze a sua disposizione e con l’intento di non creare “gravi incidenti”, furono determinanti per la riuscita di un’insurrezione che in tutta evidenza non fu tale, bensì un colpo di mano agevolato da chi avrebbe dovuto contrastarlo.

Nella notte la stazione ferroviaria si riempì di squadristi che salirono su un treno – molti altri montarono alle stazioni lungo il percorso per Chiusi, a completare quella che fu chiamata la legione senese – e partirono alla volta di Monterotondo, nei pressi di Mentana, punto di aggregazione della colonna affidata al comando di Ulisse Igliori. Superato lo  sbarramento di Orte viaggiando sul binario dispari – l’altro era stato divelto dai soldati dell’esercito in allerta per lo stato di assedio dichiarato dal governo Facta e poi non firmato dal re –, il 28 arrivarono a destinazione precedendo i fiorenti e gli aretini a cui era stata assegnata la medesima destinazione.

Carenza di viveri, freddo e pioggia furono gli unici veri nemici. L’attesa di dirigersi a Roma durò fino al 30 e si sbloccò solo quando, con Mussolini incaricato di formare un nuovo governo, venne rimosso ogni sbarramento militare a difesa della capitale. In testa alla colonna Igliori, i fascisti senesi entrarono in città e parteciparono alla sfilata di fronte al Quirinale. Il 31 tornarono a Siena, sempre in treno.

I partecipanti all’impresa furono 1.032. Altre 899 camicie nere rimasero invece a presidiare i centri maggiori della provincia. Nell’insieme, numeri elevati rispetto ai 2.600 iscritti al PNF nella primavera del 1922.

In testa alla classifica della partecipazione, il capoluogo (167 partecipanti),  Montalcino (89), Montepulciano (85), Sovicille (79), Sinalunga (67), Poggibonsi (61), S. Gimignano (42), Abbadia San Salvatore (32), Rapolano (30), Trequanda (30). I fasci di frazione garantirono un afflusso importante in ogni comune.

La presenza di leader fascisti autorevoli per influenza sociale – ad esempio esponenti della nobiltà capaci di portarsi dietro gregari armati in un rapporto che evoca suggestioni di tipo feudale – può essere assunta come causa di una maggiore o minore partecipazione dalle varie località. Più in generale si può richiamare la “mobilitazione secondaria” ovvero l’effetto di reazione: laddove il socialismo era stato più forte e agguerrito, da lì venne un numero maggiore di marcianti.  Anche se, va subito aggiunto, non mancano le eccezioni, come Colle Val d’Elsa, Monticiano e Chiusdino.

Per offrire una qualche cognizione su età e condizione sociale dei 1.032, si anticipa qui di seguito la  sintesi dei risultati di uno studio che sarà pubblicato sul numero CXXIX del “Bullettino senese di storia patria”. L’indagine, condotta su otto comuni, rappresentativi di varie zone della provincia, dal capoluogo, alla Val d’Elsa, alla Val di Chiana, si è fondata sui registri dell’anagrafe, intrecciati con altre fonti quali la memorialistica, la stampa, i registri di leva. 310 sono i marciati sui quali è stato possibile raccogliere le informazioni necessarie.

L’età media fu di 24 anni e mezzo: i  più numerosi, gli appartenenti alle classi richiamate sui fronti di guerra, ma molti (39%) anche i nati dal 1900 in poi.

Guardando alla condizione sociale, i ceti medi (impiegati, insegnanti, commercianti, coltivatori diretti, ma soprattutto artigiani) costituirono un’ampia maggioranza (48,8%), a conferma, anche per il  Senese, della politicizzazione, e del conseguente protagonismo in senso estremista, del mondo di mezzo avvenuta in seguito alla guerra.

Mentre i ceti inferiori (salariati, braccianti, mezzadri) totalizzarono il 27,4% di presenze, a colpire è il 23,8% dei ceti superiori (vi sono conteggiati professionisti, fattori e studenti universitari perché, nel contesto dei singoli comuni, appartenevano, a vari gradi, all’élite, e come tali venivano percepiti), fra i quali spicca il 12,2% di possidenti – prevalentemente di famiglia nobile –, di industriali e di impresari edili (per dare un termine di raffronto generale, secondo il censimento del 1921 i possidenti costituivano l’1,3% della popolazione attiva della provincia).

Se a queste percentuali, relative all’insieme dei marcianti, si affiancano quelle dei 30 quadri di comando della legione – comandante in capo, console, seniori, decurioni, centurioni – dalle quali risulta una presenza ampiamente maggioritaria di ceti superiori (20 persone) rispetto ai ceti medi (9) e inferiori (1), non è infondato pensare che, almeno in provincia di Siena, il movimento fascista, pur tra contraddizioni e lotte interne che non mancarono, fu nelle mani, e dunque sotto l’egemonia, delle tradizionali classi dominanti fin dalla partecipazione alla marcia che la storia ha segnato come l’evento fondativo del regime.

Bibliografia

Sullo svolgimento della marcia.

Giorgio Alberto Chiurco, Fascismo senese. Martirologio toscano dalla nascita alla gloria di Roma, Tipografia Combattenti, Siena 1923.

Alberto Tailetti, La Marcia su Roma vissuta nei ranghi, in “La Rivoluzione fascista”, 31 ottobre 1932.

Gabriele Maccianti, Una storia violenta. Siena e la sua provincia 1919-1922, Il Leccio, Siena 2015.

Paolo Leoncini, Ottobre 1922: la “resistibile” marcia dei fascisti senesi, in “Maitardi”, periodico dell’Isrsec “Vittorio Meoni”, 2022, n. 2.

Sul ruolo dei ceti dominanti alle origini del fascismo senese.

Daniele Pasquinucci, Società e politica a Siena verso il fascismo (1918-1926), Quaderni dell’Asmos, n. 2, Nuova Immagine, Siena 1995.

Saverio Battente, Dalla periferia al centro: la classe dirigente a Siena fra nazionalismo e fascismo, in Paul Corner e Valeria Galimi (cura), Il fascismo in provincia. Articolazioni e gestione del potere tra centro e periferia, Viella, Roma 2014.